The Project Gutenberg eBook of Il tulipano nero This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il tulipano nero Author: Alexandre Dumas Auguste Maquet Translator: Giovanni Chiarini Release date: May 15, 2022 [eBook #68090] Language: Italian Original publication: Italy: Batelli Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL TULIPANO NERO *** [Illustrazione: Alle preghiere di sua moglie piangente finalmente egli firmò, aggiungendo oltre al suo nome queste due lettere: V. C. (VI COACTUS) che vogliono dire: OBBLIGATO DALLA FORZA. pag. 4.] IL TULIPANO NERO PER ALESSANDRO DUMAS Prima Versione Italiana DI GIOVANNI CHIARINI. Volume Unico. PARTE PRIMA. FIRENZE VINCENZO BATELLI Editore. L’editore intende valersi del diritto accordatogli dalla Legge dei 22 Maggio 1840 sulla proprietà letteraria. Firenze, Tipografia del Vulcano, 1851. _Omne tulit puntum, qui miscuit utile dulci,_ _Lectorem delectando, pariterque monendo._ Q. HORAT. FLAC. De Art. poetic. Quei che l’utile al dolce accoppia, coglie Pienamente nel segno, dilettando E del paro ammonendo il suo lettore. L’EDITORE AI SUOI LETTORI _Due parole per conto mio a Voi, pregiatissimi soscrittori a questa mia Raccolta Romantica, le quali stieno a testimoniare la mia riconoscenza e il mio intendimento. La prima è piena e sentita; e non potrei con parole esprimerverla, veggendo il favore con cui avete accolto questa mia impresa tipografica, tenue sì per il suo intrinseco, se voglia guardarsi alla scorza, ma forse grande pel suo morale intendimento._ _E siccome tutto giorno va ripetendosi che meglio sarebbe chiudere tutte le tipografie, perchè così non si guasterebbe la mente ed il cuore dei creduloni e dei malaccorti, io intendo di mettervi innanzi candidamente le mie idee su questo proposito, per corrispondere in tal guisa al valido soccorso, che mi prestate, aprendovi la stranezza della mia mente, la quale non credo così malata, come tante altre che si stimano sane, a cui più non basterebbe fare ogni anno il viaggio ad Anticira._ _Verissimo che sonovi per nostra disgrazia non pochi libri, se vuolsi, dannosissimi non solo allo individuo che ne assapora la lettura, ma all’ordine sociale, cui tendono al dissolvimento. Che vorrebbesi addurre da ciò? Il pio desiderio di dare l’ostracismo a qualsiasi libro, che non fosse di quel dato peso, e misura? Cosa ben difficile a conoscere il peso e la misura delle anime pie, cui esse cambiano a seconda delle loro ardenti aspirazioni. Ma non sarebbe meglio, senza por mente alle stranezze di qualsiasi genere, che ci fosse in ogni Stato un’estesa pubblica istruzione, una educazione morale, la quale per tempo insegnasse a fare distinguere il pane dai sassi, come suol dirsi; ed allora ogni pessima lettura servirebbe viepiù a rinforzare il sentimento del buono e dell’onesto, come i veleni più micidiali servono sovente a ricondurre l’ammalato in piena salute._ _Mettiamoci un poco la mano sul cuore, e neghiamo, se siamo da tanto che tutte le vicissitudini, i movimenti, i desiderii, le tendenze attuali non sieno il frutto della voluta privativa della scienza per incatenare con l’anima il corpo? Quando mi si riduce l’uomo allo stato di bruto, bisogna bene che le sue opere concordino con la sua natura, che io chiamerò francamente, brutale, perchè la parola, la quale sola lo distingue dagli esseri non pensanti, ve lo congiunge pel non sviluppo razionale, che così invano Iddio gli avrebbe donato. E le povere masse su questo rapporto troveranno certo misericordia appo Dio, che non vorrà punirle come il servo cattivo del Vangelo, che invece di trafficare il talento datogli dal suo padrone, andò a sotterrarlo: nel nostro caso gli è fatto sotterrare non dalla propria paura di esserne derubato, come il servo del Vangelo, ma dalla paura del padrone, il quale stoltamente crede che il servo lo possa trafficare a di lui danno._ _E poi si grida alla canaglia! al fango! Ma, Signori miei, rammentiamoci che il fango in mano di abile e saggio agricoltore, che lo manipoli e lo riduca, diventa il terreno più fertile per ogni genere di raccolta, ed è adatto alla cultura dei fiori i più belli per spoglia, e i più grati per effluvi odorosi. Ditemi un poco, se non fosse il fango, cosa sarebbe l’Egitto? un deserto più mortifero di quello che lo circonda. Ma se i saggi agricoltori con l’industria e con arte non facessero sì di fare quel fango prontamente disseccare e non lo lavorassero, l’Egitto sarebbe una pestifera palude. Il fango del Diluvio, simboleggia saggiamente la Mitologia, procreò uno smisurato serpente, che divorava tutte le nuove generazioni; Apollo, simbolo della scienza educatrice, lo uccise. Non si trascuri l’esempio di Apollo, se non vuolsi che il serpente nato dal fango divori tutti gli ordinamenti sociali._ _I popoli educati e istruiti sono stati i più tranquilli e i più morali uomini del mondo. Contatemi tra il popolo ebreo una rivoluzione sociale. Nessuna; perchè tutti erano profondamente istruiti nei doveri religiosi e civili. David era un pastore; si leggano i suoi salmi, e ci faremo un’idea della educazione di tutto il popolo ebreo._ _Chi più severi di costume e più leali nel trattare, e più forti nelle armi degli Spartani? L’esercizio giornaliero del corpo, il profondo rispetto pei più vecchi, la venerazione per un Dio supremo, erano il frutto di queste loro virtù famigliari, anzi cittadine._ _Nè mi si venga a ricantare, che Licurgo gran legislatore di Sparta avesse proibito ogni lettura ai suoi concittadini. Per quanto sappiamo non si conoscevano altri scritti che quelli del grande Omero; e di questi non solo ne permise la lettura, ma raccomandolla: perchè nella Iliade specialmente di quel divino poeta avvi tutta la scienza tanto sacra che profana, con la quale potevasi informare la mente ed il cuore dei suoi concittadini._ _Non mi si gridi: alla croce! se io con questa premessa sembrassi voler concludere, che anco con i Romanzi, ma però morali, e informati da sani principii e aventi per fine una qualche privata o pubblica virtù, si possa educare e istruire. Lungi il sacrilegio del confronto, ma non mi si nieghi l’utilità: l’ombra di Omero, cieca come il Destino e dura come il di lui trono di ferro, nebulosa giganteggia ancora sul mondo pagano, nascondendo il suo capo tra le fitte tenebre della degradata divinità; come l’ombra di Dante caccia la sua lucida fronte negli splendori eterni di un Dio tutto misericordia, mentre tremenda per i rei stringe nella destra il flagello inesorabile della divina giustizia; e solo quest’ultimo, se si avessero avuti degli accorti Licurghi, basterebbe per civilizzare il mondo intero. Ma per intenderlo, per alzarsi seco lui fino al Paradiso, ci abbisogna il soccorso delle scienze teologiche che ci vengono insegnate con la Dottrina del Bellarmino, e il corredo delle scienze umane, la cui porta si apre col Donato e dopo sette anni si chiude col Mancino ai pochi eletti a non intender nulla e a voler di tutto parlare. Ecco la gangrena dell’attuale società._ _Ora dunque, che vi è tanta smania di leggere, e leggere specialmente tutti i Romanzi d’oltremonti (non esclusi i giornali, sfacciati Romanzi diurni) mi sono proposto di darne una collezione di_ SEI, _ma però scelti come suol farsi per una collana di opere di morale istruzione, e offrirla ai miei concittadini. La Francia, l’Inghilterra, la Germania mi daranno la loro contribuzione, che però sarà nuova per l’Italia; e già non ho mancato di procurare un nuovissimo Romanzo italiano a questa mia raccolta, il quale di soggetto storico, rammenterà le gesta, i rivolgimenti e i falli dei nostri padri, a insegnamento della presente generazione._ IL TULIPANO NERO I Un popolo riconoscente. Il 20 agosto 1672, la città dell’Aya così vispa, così candida, così gaia che sarebbesi detto, tutti i giorni essere domeniche; la città dell’Aya col suo passeggio ombreggiato, co’ suoi grandi alberi inclinati sopra le sue case gotiche, coi larghi specchi de’ suoi canali, nei quali reflettonsi i suoi campanili a cupolette quasi all’orientale; la città dell’Aya, capitale delle Sette Provincie Unite, gonfiò tutte le sue arterie di un flusso nero e rosso di cittadini incalzantisi, affannosi, inquieti, i quali correvano coi coltelli a cintola, il moschetto sulle spalle o il bastone in mano verso il Buitenhof, formidabile prigione di cui ancor oggi mostransi le finestre inferriate, e dove, dopo l’accusa di assassinio portatagli contro dal chirurgo Tyckelaer, languì Cornelio de Witt fratello del gran Pensionario di Olanda. Se la storia di quel tempo e soprattutto di questo anno, al cui scorcio cominciamo il nostro racconto, non fosse strettamente legata co’ due nomi che citeremo, le poche linee di schiarimento che andiamo a dare, potrebbero sembrar fuori di luogo; ma noi preveniamo sulle prime il nostro lettore benevolo, cui promettiamo di piacere alla prima pagina, e cui parliamo bene o male nelle pagine seguenti, lo preveniamo, che questo schiarimento è indispensabile, tanto alla intelligenza della nostra storia, quanto del grande avvenimento politico da cui questa storia si parte. Cornelio o Cornelius de Witt, _ruward_ di Pulten, cioè ispettore delle dighe di quel paese, ex-borgomastro di Dordrecht, sua città natale, e deputato agli Stati di Olanda aveva 49 anni, allorchè il popolo olandese, stanco della repubblica, come intendevala Giovanni de Witt gran Pensionario di Olanda, fu preso d’un pazzo amore per lo Statolderato, il quale dal permanente editto, imposto da Giovanni de Witt alle Provincie Unite, era stato per sempre abolito in Olanda. Come gli è raro che in questi sconvolgimenti capricciosi lo spirito pubblico non veda un uomo di dietro al principio, di dietro alla repubblica il popolo vedeva le due severe figure dei fratelli de Witt, questi Romani dell’Olanda, disdegnosi di piaggiare la velleità nazionale e inflessibili amici di una libertà non licenziosa, e d’una prosperità non strabocchevole, mentrechè dessi vedevano dietro lo Statolderato la fronte bassa, grave e pensierosa del giovine Guglielmo d’Orange, soprannominato da’ suoi contemporanei e passato alla posterità col nome di Taciturno. I due de Witt maneggiavansi con Luigi XIV, di cui vedevano ingigantire l’ascendente morale su tutta Europa, e ne sentivano l’ascendente materiale sull’Olanda a cagione dei successi della meravigliosa campagna del Reno, illustrata da quell’eroe da romanzo, che chiamavasi conte di Guisa, e cantata da Boileau, campagna che in tre mesi avea abbattuto la potenza delle Province unite. Luigi XIV era da lunga pezza nemico degli Olandesi, che insultavanlo o motteggiavanlo a tutta possa e quasi continuamente, è vero, per bocca dei francesi rifugiati in Olanda. L’orgoglio nazionale faceane il Mitridate della repubblica. Stava dunque contro ai de Witt l’animavversione, che resulta da una vigorosa resistenza susseguita da un potere reluttante al gusto della nazione e della stanchezza naturale a tutti i popoli vinti, quando sperino che un altro capo possa salvarli dalla rovina e dalla vergogna. Quest’altro capo, pronto a mostrarsi e prontissimo a misurarsi contro Luigi XIV, che apparve talmente gigante da preludiarne la sua fortuna, gli era Guglielmo principe d’Orange, figlio di Guglielmo II e nipote per mezzo di Enrichetta Stuart di Carlo I re d’Inghilterra, giovine taciturno, la cui ombra abbiamo noi detto apparir già dietro lo Statolderato. Questo giovine nel 1672 avea ventidue anni. Giovanni de Witt era stato suo precettore, ed avealo allevato col fine di fare di questo antico principe un buon cittadino. Aveagli, amando più la patria che il suo allievo, troncato col perpetuo editto la speranza dello Statolderato. Ma Dio avea deriso queste umane pretensioni, che fanno e disfanno le potenze della terra senza consultare il re del cielo; e pel capriccio degli Olandesi e pel terrore ispirato da Luigi XIV mutava la politica del gran Pensionario e aboliva l’editto perpetuo, ristabilendo lo Statolderato per Guglielmo d’Orange, su cui egli aveva i suoi disegni, nascosti ancora nella profonda oscurità dell’avvenire. Il gran Pensionario piegossi dinanzi la volontà de’ suoi concittadini; ma Cornelio de Witt fu più recalcitrante, e malgrado le minacce di morte del popolaccio orangista che assediavalo nella sua casa di Dordrecht, rifiutò di firmare l’atto che ripristinava lo Statolderato. Alle preghiere di sua moglie piangente finalmente egli firmò, aggiungendo oltre al suo nome queste due lettere: V. C. (_vi coactus_) che vogliono dire: _obbligato dalla forza_. Fu per vero miracolo che in quel giorno scampasse dalle mani de’ suoi nemici. Quanto a Giovanni de Witt quantunque la sua adesione fosse più pronta e più facile al volere dei suoi concittadini, non fugli però più profittevole; avvegnachè fosse qualche giorno dopo vittima di un attentato di assassinio. Ferito da colpi di stile, non morì nonostante di quelle ferite. Non accontentavansi di sì poco gli Orangisti; la vita dei due fratelli era un ostacolo eterno ai loro progetti. E’ cangiano momentaneamente di tattica, lasciando a un momento prefisso di coronare la seconda per la prima vittima, e si propongono di sacrificare sull’altare della calunnia quello che non avevano potuto spacciare col pugnale. È cosa ben rara che a un momento prefisso si trovi lì per l’appunto sotto la mano di Dio un grand’uomo per eseguire un’azione grande; ed è per questo che, allorquando dassi per caso tale combinazione provvidenziale, la storia registra all’istante il nome di quest’uomo straordinario e lo raccomanda all’ammirazione della posterità. Ma allorquando il diavolo si mescola negli affari umani per rovinare una esistenza o rovesciare un impero, egli è ben raro che non abbia lì pronto qualche miserabile, al quale non ha che a sibillare nell’orecchio una parola, perchè costui si metta immediatamente all’opera. Tal miserabile che in questa circostanza trovossi lì pronto per essere l’agente del malvagio spirito, chiamavasi, come ci pare aver già detto, Tyckelaer chirurgo di professione. Egli depose, che Cornelio de Witt disperato, come provavalo la sua postilla, per l’abrogazione dell’editto perpetuo, e spumante di rabbia contro Guglielmo d’Orange, aveva dato commissione a un sicario di sbrogliare la repubblica dal nuovo Statolder, e che tal sicario era lui, Tyckelaer, che inorridito alla sola idea dell’azione, che gli si voleva affidare, amava meglio rivelare che commettere un tale delitto. Ora si giudichi qual baccano si facesse questa nuova di complotto dal partito orangista. Il procuratore fiscale fece arrestare Cornelio nella sua propria casa il 16 agosto 1672; il _ruward_ di Pulten, il nobile fratello di Giovanni de Witt subiva in una sala del Buitenhof la tortura preparatoria destinata a strappargli come al delinquente il più abietto la confessione del suo preteso complotto contro Guglielmo. Ma Cornelio non era solamente di spirito grande, ma ancora di gran cuore; chè gli era di quella famiglia di martiri che, avendo la fede politica come i loro antichi aveano la religiosa, sorridono ai tormenti, e nella tortura egli recitò con voce ferma e cadenzata secondo il metro la prima strofa del _Justum et tenacem_ di Orazio, niente confessando e stancando di più non solo la forza ma ancora il fanatismo dei suoi carnefici. I giudici non ostante assolsero da ogni condanna Tyckelaer, e profferirono contro Cornelio una sentenza, che degradavalo da tutte le sue cariche e dignità, condannandolo alle spese del giudizio, ed esiliandolo per sempre dal territorio della repubblica. Egli era qualche cosa per la soddisfazione del popolo, a’ cui interessi erasi costantemente dedicato Cornelio de Witt, la condanna profferita non solamente contro un innocente, ma pur anco contro un gran cittadino. Pur come si va a vedere, non fu ciò sufficiente. Gli Ateniesi, che hanno lasciato un’assai bella reputazione d’ingratitudine cedevanla in questo punto agli Olandesi; che contentaronsi di bandire Aristide. Giovanni de Witt al primo rumore della querela contro suo fratello, erasi dimesso dalla sua carica di gran Pensionario. Era costui in tal guisa degnamente ricompensato della sua devozione al paese; chè portò nella vita privata i suoi nemici e le sue ferite, soli guadagni che vengono in generale ai galantuomini colpevoli di essersi affaticati per la loro patria, obliando se stessi. In questo frattempo Guglielmo d’Orange attendeva, non senza affrettarne l’avvenimento con tutti i mezzi in suo potere, che il popolo, di cui egli era l’idolo, gli facesse del corpo dei due fratelli i due gradini, di cui aveva bisogno per montare al seggio dello Statolderato. Ora il 20 d’agosto 1672, come abbiamo detto al cominciare di questo capitolo, tutta la città correva al Buitenhof per assistere all’escita di prigione di Cornelio de Witt, però per l’esilio, e vedere quali tracce avesse lasciato la tortura sul nobile corpo di quest’uomo, che sapeva così bene il suo Orazio. Ci affrettiamo aggiungere che tutta quella moltitudine, che dirigevasi al Buitenhof, non vi si dirigeva solamente con l’innocente intenzione di assistere a uno spettacolo, ma non pochi tra quella eranvi per eseguire una parte, o piuttosto per adempire un impiego, che trovavano essere stato male disimpegnato. Noi vogliamo parlare dell’impiego di carnefice. Eranvi accorsi altri, è vero, con intenzioni meno ostili. Per loro soltanto trattavasi di uno spettacolo sempre attraente per la moltitudine, il cui orgoglio istintivo è sodisfatto nel vedere nella polvere colui, che lungamente è stato sul piedistallo. Questo Cornelio de Witt, quest’uomo senza paura, dicevasi, non era infermo, fiaccato dalla tortura? Non andavasi a vederlo, pallido, sanguinoso, svergognato? Non l’era un bel trionfo per la borghesia ben più invidiosa del popolo, al quale ogni buon borghese del’Aya doveva prender parte? E poi diceano tra sè gli agitatori orangisti, furbescamente mescolati nella folla, che essi contavano di ben maneggiare come strumento tagliente e contundente ad un tempo; non troverassi dal Buitenhof alla porta della città una benchè piccola occasione per gettare un po’ di fango, anche qualche pietra a quel _ruward_ di Pulten che ha solamente accordato lo Statolderato al Principe d’Orange _vi coactus_, ma che ha voluto eziandio farlo assassinare? Senza contare, aggiungevano i feroci nemici della Francia, che diportandosi bene e bravamente all’Aya, non lascerebbesi partire per l’esilio Cornelio de Witt, il quale una volta all’estero rannoderebbe tutti i suoi intrighi con la Francia e vivrebbe con quel grande scellerato di Giovanni suo fratello con l’oro del marchese di Louvois. Si vede bene che in simili disposizioni li spettatori corrono e non camminano; ed ecco perchè gli abitanti dell’Aya precipitavansi verso il Buitenhof. Tra quelli, che più correvano con la rabbia in cuore e senza progetto nell’animo era l’onesto Tyckelaer, corteggiato dagli orangisti come un eroe di probità, d’onore nazionale e di carità cristiana. Quel bravo scellerato raccontava, abbellendoli di tutti i fiori del suo spirito e di tutte le risorse della sua imaginazione, i tentativi messi in opra da Cornelio de Witt contro la sua virtù, le somme che aveagli promesse e l’infernale macchinazione prima preparata per appianare a lui Tyckelaer tutte le difficoltà dell’assassinio. E ogni frase del suo discorso avidamente raccolta dal popolaccio sollevava grida d’amore entusiasta pel principe Guglielmo, e urli di cieca rabbia contro i fratelli de Witt. La canaglia malediva i giudici iniqui, il cui decreto lasciava fuggire sano e salvo un sì abominevole delinquente, qual’era lo scellerato Cornelio. E qualche istigatore ripeteva a voce bassa: — Parte! ci scappa! Cui altri rispondevano: — Un vascello, e un vascello francese, l’attende a Scheveningen; Tyckelaer lo ha visto. — Bravo Tyckelaer! pernio dei galantuomini! gridava la folla in coro. — Senza badare, diceva una voce, che nel tempo di questa fuga di Cornelio, l’altro traditore da tre cotte, il suo fratello Giovanni si salverà del paro. — E i due bricconi vanno a mangiare in Francia il nostro denaro, denaro dei nostri vascelli, dei nostri arsenali, dei nostri cantieri venduti a Luigi XIV. — Impediamoli la partenza! gridava un patriotto più spinto degli altri. — Alla prigione! alla prigione! ripetevano tutti. E a queste grida i paesani correvano più forte; montavansi li schioppi, luccicavano le scuri, foscheggiavano li sguardi. Niuna violenza però non erasi ancora commessa, e la linea di cavalleria, che guardava l’entrata del Buitenhof stava impassibile, fredda, silenziosa, più minacciante con la sua calma di tutta quella ciurmaglia borghese con le sue grida, con la sua agitazione, con le sue minacce, immobile sotto gli occhi del conte di Tilly capitano della cavalleria dell’Aya, il quale teneva la spada sfoderata, ma con la punta volta all’angolo della sua staffa. Questo squadrone solo riparo che difendesse la prigione, conteneva con la sua attitudine non solo le masse popolari disordinate e ardenti, ma ancora il distaccamento della guardia paesana, che posta in faccia al Buitenhof per mantenere l’ordine unitamente alla truppa, dava ai perturbatori l’esempio degli urli sediziosi, gridando: — Viva l’Orange! abbasso i traditori! La presenza del Tilly e de’ suoi cavalieri era, è vero, un freno salutare a tutti que’ soldati paesani; ma a poco a poco esaltaronsi a quelle stesse lor grida, e, siccome non capivano che puossi aver coraggio senza gridare, imputarono a timidezza il silenzio della cavalleria e fecero un passo verso la prigione, strascinandosi dietro tutta la turba popolare. Ma allora il conte di Tilly s’avanzò solo loro incontro, e sollevando soltanto la sua spada con ciglia aggrottate: — Ohe! signori della guardia paesana, chiese, perchè vi avanzate e che desiderate? I paesani agitarono i loro schioppi, ripetendo le grida! — Viva l’Orange! morte ai traditori! — Viva l’Orange! Sia! disse il Tilly, giacchè io preferisco le figure vispe alle figure sgangherate. Morte ai traditori! se lo volete, e molto più sel volete con le sole grida. Gridate quanto vi piace: Morte ai traditori! ma quanto a metterli effettivamente a morte, io son qui per impedirlo e impedirollo certo. Quindi rivolto a’ suoi soldati: — Soldati, all’arme! gridò. I soldati del Tilly obbedirono al comando con una precisione calma, che fece immediatamente indietreggiare i paesani e il popolo non senza confusione da svegliare il sorriso al comandante della cavalleria. — Via, via, disse con quel tuono motteggiatore proprio solo all’uomo di spada; tranquillizzatevi, o paesani, i miei soldati non daranno fuoco ad uno scodellino; ma voi dal vostro canto non avanzerete un passo verso la prigione. — Sapete bene, signor officiale, che noi abbiamo dei moschetti? mostrò infuriato il comandante dei paesani. — Lo vedo bene, per... che voi avete dei moschetti, disse Tilly, chè me li fate balenare davanti agli occhi; ma sappiate del pari che noi abbiamo delle pistole, che mirabilmente colpiscono a cinquanta passi, e che voi non siete che a venticinque. — Morte ai traditori! gridò la compagnia dei paesani esasperati. — Veh! ripetete sempre la stessa cosa, borbottò l’officiale, l’è seccante! E riprese il suo posto alla testa del suo squadrone, intantochè andava aumentandosi il tumulto attorno al Buitenhof. Nel momento stesso in cui il popolo agognava il sangue di una delle sue vittime, non sapeva che l’altra, come se avesse furia di andare incontro alla sua sorte, traversava la piazza cento passi dietro i gruppi e i cavalli per portarsi al Buitenhof. Infatti Giovanni de Witt scendeva di carrozza con un domestico e traversava tranquillamente a piedi la corte innanzi alla prigione. Fecesi innanzi al carceriere, che già conosceva, dicendo: — Buon giorno, Grifo; vengo a prendere mio fratello Cornelio de Witt, condannato, come tu sai, al bando, per condurlo fuor di città. E il carceriere specie d’orso, intento ad aprire e chiudere la porta della prigione, avealo salutato e lasciato entrare nell’edifizio, le cui porte erano state dietro lui richiuse. A dieci passi di distanza aveva incontrato una bella giovinetta dai diciassette ai diciotto anni, in costume frisone, la quale aveagli fatto un grazioso saluto; ed egli prendendola pel mento, aveale detto: — Buon giorno, mia bella e buona Rosa; come sta mio fratello? — Oh! signor Giovanni, rispondeva la giovinetta, non è il male che gli è stato fatto, che mi fa paura: il male fatto è passato!.... — Che temi dunque, mia bella ragazza? — Temo, signor Giovanni, il male che gli si vuol fare. — Ah! sì, disse il de Witt, il popolo, eh? — Lo sentite? — Infatti è molto commosso; ma quando ci vedrà, siccome gli abbiamo noi fatto sempre del bene, forse si calmerà. — Questa disgraziatamente non è una ragione, mormorò la giovinetta, allontanandosi per obbedire a un cenno imperioso di suo padre. — No mia ragazza, no; l’è pur troppo vero ciò che tu dici. Poi continuando il suo cammino: — Ecco, mormorò, una giovinetta che probabilmente non sa nè leggere nè scrivere, e che riassume la storia del mondo in una sola parola. E sempre calmo, ma più melanconico che alla sua entrata, l’ex-gran Pensionario continuò il suo cammino verso la stanza del suo fratello. II I due fratelli. Come in un dubbio pieno di presentimento l’aveva detto la bella Rosa, mentre Giovanni de Witt saliva la scala di pietra che conduceva alla prigione di Cornelio suo fratello, i paesani facevano il più che potevano per allontanare la truppa del Tilly, che tenevali in soggezione. Ciò vedendo, il popolo, che molto apprezzava le buone intenzioni della sua milizia, gridava a tutta gola: — Viva i paesani! Quanto al Tilly, prudente quanto fermo, parlamentava con quella compagnia popolana sotto le pistole cariche del suo squadrone, spiegandole alla meglio che la consegna datale dagli Stati imponeva di guardare con tre squadriglie la piazza della prigione e le sue entrate. — Perchè questi ordini? perchè guardare la prigione? gridavano gli orangisti. — Oh bella! rispose il Tilly, mi domandate d’assalto più di quello che possa sapere. Mi è stato detto: «Guardate» e guardo. Voi che siete una specie di soldati, o signori, dovete sapere che non si domanda il perchè di una consegna. — Ma v’è stato dato quest’ordine, perchè i traditori possano escire di città. — Può anch’essere, perchè i traditori sono condannati al bando, rispose il Tilly. — Ma chi ha dato quest’ordine? — Li Stati, perdio! — Tradiscono! — Quanto a ciò, non me n’intendo niente. — E voi tradite. — Io? — Sì, voi. — Ah via! signori popolani, intendiamoci un po’ tra noi; chi tradirei? Li Stati? Non li posso tradire, perchè essendo al loro soldo, eseguisco puntualmente la loro consegna. E molto più, siccome il conte aveva perfetta ragione da non ammettere risposta, i clamori e le minacce raddoppiarono tanto spaventevolmente, che il conte rispondeva con tutta l’urbanità possibile: — Ma, signori popolani, di grazia smontate i vostri fucili, perchè se per accidente ne scatti uno e ferisca un mio soldato, vi getteremo a terra almeno dugento uomini, con grande nostro dispiacere, ma più con vostro, non essendo ciò nè mia, nè vostra intenzione. — Dio vi guardi se lo fate, gridarono i popolani, che noi non staremo con le mani a cintola. — Sì, ma quando facendo fuoco su noi ci uccideste tutti dal primo fino all’ultimo, quelli da noi uccisi non risusciteranno mica. — Cedeteci dunque il posto, e allora farete atto da buon cittadino. — Prima di tutto non sono cittadino, disse Tilly, sono officiale, cosa molto differente; e poi non sono olandese, ma francese, cosa differente d’assai. Io dunque non conosco che gli Stati i quali mi pagano; portatemi un loro ordine che io ceda il posto, ed io fo subito un mezzo giro, perchè mi son già molto noiato. — Sì, sì! gridarono cento voci che moltiplicaronsi all’istante a cinquecento altre. Andiamo al palazzo comunale! andiamo dai deputati! andiamo, andiamo! — Via, mormorò Tilly vedendo allontanare i più arrabbiati, andate al palazzo comunale, a dimandare una vigliaccheria, e vedrete se vi si accorda; andate amici, andate! Il degno officiale contava sull’onore dei magistrati, che dal loro canto contavano sull’onore dei soldati, su lui. — Dite dunque, o capitano, disse all’orecchio del conte il suo primo luogotenente, se i deputati ricusassero a questi arrabbiati ciò che domandano, non sarebbe male, mi pare, che c’inviassero un rinforzo. Frattanto Giovanni de Witt, che abbiamo lasciato che saliva la scala di pietra dopo la sua conversazione col carceriere Grifo e con sua figlia Rosa, era giunto alla porta della stanza, dove giaceva sopra un materasso suo fratello Cornelio, al quale aveva il fiscale, come abbiamo detto, fatto applicare la tortura preparatoria. Il decreto di bando era venuto, il quale aveva resa inutile l’applicazione straordinaria della tortura. Cornelio steso sul suo letto, i polsi slogati, le dita slogate, non avendo niente confessato di un delitto che non aveva commesso, respirava alfine dopo tre giorni di patimenti, sentendo che i giudici, da cui aspettavasi la morte, lo avessero piuttosto voluto condannare al bando. Corpo energico, anima invincibile, egli avrebbe bene sconcertato i suoi nemici, se avessero potuto nella squallidezza profonda della stanza di Buitenhof veder brillare sopra il suo pallido viso il sorriso del martire, che oblia il fango della terra dopochè ha scorto gli splendori celesti. Il _ruward_ aveva per la potenza della sua volontà più che per un soccorso reale potuto ricovrare tutte le sue forze, e calcolava quanto tempo ancora le formalità giuridiche lo riterrebbero in prigione. Era appunto in questo momento che i clamori della milizia paesana uniti a quelli del popolo alzavansi contro i fratelli, minacciando il capitano Tilly, che serviva loro di riparo. Quel frastuono, che veniva a rompersi come un maroso crescente al piè delle muraglie della carcere, saliva fino al prigioniero. Ma per quanto fosse minacciante quello strepito, Cornelio trascurò d’accertarsene, ovvero non si prese la pena di alzarsi per guardare tra le traverse di ferro della stretta finestra, che dava adito alla luce ed al mormorio esterno. Egli era tanto assuefatto agli affanni, che gli erano divenuti familiari per abitudine; e di più sentiva con ineffabile diletto la sua anima e la sua ragione così vicine a sbarazzarsi degli impacci corporei, che sembravagli già che l’anima e la ragione distaccate dalla materia le si librassero al disopra come guizza sul focolare quasi estinto la fiamma, che abbandonalo per alzarsi al cielo. Pensava puranco a suo fratello. Senza dubbio era il suo appressarsi che, pe’ misteri sconosciuti che il magnetismo ha scoperti in seguito, facevasi così presentire. Al momento stesso in cui Giovanni era così presente alla mente di Cornelio da mormorarne quasi il di lui nome, si aperse la porta, Giovanni entrò e di un passo accelerato venne al letto del prigioniero, che stese le sue braccia scorticate e le sue mani fasciate verso quel glorioso fratello ch’egli era riuscito a sorpassare non pei servigi resi al paese, ma nell’odio che portavangli gli Olandesi. Giovanni baciò teneramente in fronte suo fratello, e riposò dolcemente sullo strapunto le di lui mani malate. — Cornelio, povero mio fratello, egli disse, tu soffri molto, non è vero? — Non soffro più, fratello mio, dacchè ti vedo. — O mio caro Cornelio, io allora in vece tua soffro in vederti così, te lo accerto. — Anch’io ho pensato più a te che a me; e mentre che mi torturavano, non ho fiatato che una sol volta per dire: «Povero fratello!» Ma eccoti qui, si dimentichi tutto. Vieni a prendermi, è vero? — Sì. — Sono guarito; aiutami ad alzarmi, e tu vedrai, fratello mio, come io cammini bene. — Non avrai molto a camminare, chè la mia carrozza è al fosso dietro lo squadrone di Tilly. — Lo squadrone di Tilly? Perchè dunque sono al fosso? — Ah! si suppone, disse il gran Pensionario con quella sua fisonomia ridente in mezzo alla sua abituale tristezza, che le genti dell’Aya ti vogliano veder partire, e si teme di un po’ di tumulto. — Di un tumulto? riprese Cornelio, fissando il suo sguardo sul suo fratello imbarazzato; di un tumulto? — Sì, Cornelio. — Allora ecco perchè io sentiva quel frastuono, disse come parlando a sè stesso. Poi rivolgendosi al fratello: — V’è molta gente sul Buitenhof, eh? — Sì, mio fratello. — Ma allora per venir qui.... — Ebbene? — Come ti hanno lasciato passare? — Tu sai bene, o Cornelio, che non siamo punto amati, rispose il gran Pensionario con una melanconica amarezza; ho preso per vie traverse. — Ti sei nascosto, o Giovanni. — Io aveva disegnato di giungere a te senza perder tempo; ed ho fatto come fassi in politica e in mare, quando si ha il vento contrario: ho bordeggiato. In questo momento lo strepito salì più furioso dalla piazza alla prigione. Tilly era in dialogo con la guardia paesana. — Oh! oh! soggiunse Cornelio, tu sei un benaccorto pilota; ma non so se ti basterà l’animo di cavar fuori dal Buitenhof tuo fratello in questa marea e tra’ frangenti popolari con tanta fortuna con quanta guidasti la flotta da Tromp ad Anversa in mezzo ai bassi fondi dell’Escaut. — Con l’aiuto di Dio, o Cornelio, almeno lo tenteremo, rispose Giovanni; ma prima una parola. — Di’.... I clamori scoppiarono di nuovo. — Oh! oh! continuò Cornelio, come sono in collera! Contro te? o contro me? — Credo contro tutti e due... Io dunque ti diceva, che ci rimproverano gli orangisti tra le altre scempiate calunnie di aver negoziato con la Francia. — Negale! — Sì, ma ce lo rimproverano. — Ma se quelle negoziazioni fossero riuscite, loro avrebbero risparmiato le sconfitte di Rees, d’Orsay, di Wesel e di Reimberga; loro avrebbero fatto evitare il passaggio del Reno, e l’Olanda potrebbe credersi ancora invincibile in mezzo alle sue maree e ai suoi canali. — È vero, fratello mio, ma è una verità ancora più assoluta che, se in questo momento venisse trovata la nostra corrispondenza col signor di Louvois, per quanto buon piloto io mi sia, non potrei salvare il fragile schifo che è per portare i de Witt e la loro fortuna fuori dell’Olanda. Tale corrispondenza, che proverebbe a persone oneste come io ami il mio paese, e quali sacrifizii personalmente io mi offriva di fare per la sua libertà, per la sua gloria, tale corrispondenza ci perderebbe presso gli orangisti nostri vincitori. Perciò, caro Cornelio, mi giova credere che l’abbiate bruciata prima d’abbandonare Dordrecht per venirmi a raggiungere all’Aya. — Fratello, rispose Cornelio, la tua corrispondenza col Louvois prova, che sei stato negli ultimi tempi il più grande, il più generoso e il più abile cittadino delle Sette Provincie Unite. Amo la gloria del mio paese; amo soprattutto la tua gloria, o mio fratello, ondechè mi sono ben guardato di bruciarla. — Allora siamo perduti per questa vita terrestre, disse tranquillamente l’ex-gran Pensionario, appressandosi alla finestra. — Anzi tutto all’opposto, o Giovanni; e noi avremo a un tempo la salvezza del corpo e la resurrezione della popolarità. — E allora che cosa hai fatto di quelle lettere? — Le ho affidate a Cornelius Van Baerle, mio figlioccio, che tu conosci e che dimora a Dordrecht. — Oh! povero giovine! caro e leale, ei sa, cosa rara, tante e poi tante cose, e non pensa che ai fiori che salutano Dio, e pensa a Dio che fa nascere i fiori! L’hai incaricato di un deposito mortale; così, o fratello, è perduto quel povero e caro Cornelius! — Perduto? — Sì, perchè sarà forte, o sarà debole. Se è forte (perchè egli è estraneo a ciò che ci accade; perchè, quantunque sepolto a Dordrecht, quantunque distratto, ed è un miracolo! saprà un giorno o l’altro ciò che ci è accaduto) se è forte, si vanterà di noi; se debole, avrà paura della nostra intimità; se è forte propalerà il segreto; se debole, se lo lascerà prendere. Nell’uno e nell’altro caso, o Cornelio, lui e noi siamo perduti del pari. Perciò, fratello mio, fuggiamo presto, se ci resta ancor tempo. Cornelio sollevossi sul letto e prendendo la mano di suo fratello, che trasalì al contatto delle fasce: — E se non ne sapesse nulla il mio battezzato? che credi non abbia io saputo leggere ciascun pensiero nella sua testa, ciascun sentimento nell’anima di Van Baerle? Mi domandi, se gli è forte, se gli è debole? Non è nè l’uno nè l’altro, ma che importa ciò che ci sia? Il forte sta che custodisca il segreto, bene intesi che egli punto lo conosce. Giovanni si volse sorpreso: — Oh! continuò Cornelio col suo dolce sorriso, il _ruward_ di Pulten è un politico allevato alla scuola di Giovanni; te lo ripeto, o fratello, Van Baerle ignora la natura e il valore del deposito che gli è stato confidato. — Presto allora! esclamò Giovanni, giacchè c’è ancora tempo, facciamogli passare l’ordine di bruciare l’involto. — Per mezzo di chi gli si fa passare? — Pel mio servitore Craeke, che ci deve accompagnare a cavallo e che è entrato meco nella prigione per aiutarvi a scendere la scala. — Pensateci, Giovanni, prima di bruciare quei titoli gloriosi. — Prima di tutto penso, mio bravo Cornelio, che i fratelli de Witt salvino la loro vita per salvare la loro rinomanza. Noi morti, chi ci difenderebbe, o Cornelio? Chi ci avrebbe neppure compreso? — Credi dunque che trovando quei fogli ci ammazzerebbero? Giovanni senza rispondere al fratello stese la mano verso il Buitenhof, donde slanciavansi in questo momento degli scoppi di grida feroci. — Sì, sì, disse Cornelio, intendo bene questi clamori; ma che cosa dicono? Giovanni aprì la finestra. — Morte ai traditori! urlava il popolaccio. — Ora intendi, o Cornelio? — E i traditori siam noi! disse il prigioniero alzando gli occhi al cielo e ristringendosi nelle spalle. — Siam noi, ripetè Giovanni de Witt. — Dov’è Craeke? — Credo, alla porta della tua stanza. — Allora fallo entrare. Giovanni aprì la porta; il fido servitore attendeva difatti sulla soglia. — Venite, Craeke, e rammentatevi bene di tutto ciò che vi dirà mio fratello. — Oh! no, Giovanni; non basterebbe il dire, bisogna che disgraziatamente io scriva. — E perchè? — Perchè Van Baerle non renderebbe quel deposito, nè lo brucerebbe senza un ordine preciso. — Ma potrete scrivere? domandò Giovanni alla vista di quelle povere mani tutte bruciate e scorticate. — Oh! tu vedresti, se avessi penna e inchiostro. — Ecco almeno un apis. — Hai punta carta? Perchè qui non mi hanno lasciato niente. — Questa Bibbia. Strappa la prima pagina. — Benissimo. — Ma il tuo scritto sarà inleggibile. — Su dunque! disse Cornelio riguardando il fratello. Queste dita che hanno resistito alle corde del carnefice, questa volontà che ha spregiato i dolori, vanno a unirsi di un comune sforzo, e, sta’ tranquillo, che la riga sarà scritta senza un solo serpeggiamento. In effetto, Cornelio prese l’apis e scrisse. Potevano vedersi sotto la fascia bianca trasparire le goccie di sangue, che la pressione delle dita sull’apis spremeva dalle aperte carni. Grondava il sudore dalle tempie del gran Pensionario. Cornelio scrisse: «Caro figlioccio! «Brucia il deposito, che ti ho confidato, brucialo senza guardarlo, senza aprirlo, affinchè ti sia sconosciuto. Son di tal genere i segreti, che ucciderebbero il depositario. Brucia, e avrai salvato Giovanni e Cornelio. «Amami, addio. «20 Agosto 1672. «CORNELIO DE WITT. Giovanni con le lacrime agli occhi asciugò una goccia di quel nobile sangue che aveva macchiato il foglio, lo consegnò a Craeke con un’ultima raccomandazione, e tornò da Cornelio, che il patimento avea reso pallido e quasi presso a svenirsi. — Ora, diss’egli, quando il bravo Craeke avrà fatto sentire il suo antico fischio di contromastro, essendo già fuori dei gruppi, dal lato opposto del vivaio.... allora partiremo noi. Non erano passati cinque minuti che un prolungato e vigoroso fischio percosse col suo trillo marinaresco il nero fogliame degli olmi acuminati, e dominò i clamori del Buitenhof. Giovanni alzò le braccia al cielo per ringraziarnelo. — Ora, disse, partiamo, o Cornelio. III L’allievo di Giovanni de Witt. Mentre che gli urli della folla stivata sul Buitenhof, sempre più crescenti, determinavano Giovanni de Witt a sollecitare la partenza del suo fratello Cornelio, una deputazione di paesani era andata, come si è detto, al palazzo comunale, per dimandare l’allontanamento del corpo di cavalleria del Tilly. Non v’era molta distanza dal Buitenhof all’Hoog-straat; talchè poteva scorgersi uno straniero, che dal momento in cui era cominciata questa scena ne aveva seguiti i dettagli con una certa curiosità, dirigersi con gli altri, o piuttosto di seguito agli altri, verso il palazzo comunale, per sapere con più sollecitudine ciò che si andasse a fare. Quello straniero era un uomo molto giovine al più di ventitrè a ventiquattro anni, senza apparente robustezza. Nascondeva — senza dubbio con la ragione di non essere riconosciuto — la sua faccia pallida e allungata dentro un fino fazzoletto di tela di Frigia, col quale incessantemente asciugavasi la fronte bagnata di sudore o le sue labbra ardenti. L’occhio immobile come quello dell’uccello da preda, il naso aquilino e lungo, la bocca sottile e diritta, aperta o piuttosto tagliata come i labbri di una ferita, costui avrebbe offerto al Lavater, se fosse vissuto in quest’epoca, un soggetto di studi fisiologici, che non sarebbero tornati in gran prò della sua scienza. Tra la figura del conquistatore e del corsaro dicevano gli antichi, qual differenza ci trovi? quella che trovo tra l’aquila e il falco: la sicurezza o l’inquietudine. Medesimamente quella fisonomia livida, quel corpo gracile e malaticcio, quel portamento inquieto, mentre andavasene dal Buitenhof all’Hoog-straat accodato a tutto quel popolo urlante, presentava il tipo di un padrone sospettoso o d’un ladro inquieto; e un poliziotto avrebbe certo opinato per l’ultimo, a cagione della premura che costui, del quale ci occupiamo in questo momento, prendeva a nascondersi. Egli era d’altronde vestito semplicemente e senza armi apparenti; il braccio magro ma nerboruto, la mano scarna ma bianca, sottile, aristocratica, appoggiavasi non al braccio ma alla spalla di un officiale, il quale col pugno sulla spada dal momento in cui il suo compagno erasi mosso e avealo secolui trascinato, aveva osservato tutte le scene del Buitenhof con un interesse facile a comprendersi. Giunto sulla piazza di Hoog-straat, l’uomo dal viso pallido spinse l’altro dietro un uscio aperto, e fissò l’occhio sul palazzo comunale. Alle grida forsennate del popolo le finestre dell’Hoog-straat s’apersero, e avanzossi un uomo per parlare con la folla. — Chi comparisce al balcone? domandò il giovane all’officiale, accennando coll’occhio soltanto l’arringatore, che parlava molto commosso, che più che appoggiarsi, reggevasi al terrazzino. — Gli è il deputato Bowelt, replicò l’officiale. — Che uomo è questo deputato Bowelt? lo conoscete? — Un buonuomo, per quello che so, mio signore. Il giovine sentendo tale commendatizia del carattere di Bowelt fatta dall’officiale, fece un movimento sì strano di disapprovazione, di scontento sì visibile, che rimarcato dall’officiale affrettossi a soggiungere: — Così si dice, mio signore. Quanto a me non posso nulla affermare, non conoscendolo personalmente. — Bravo, replicò colui, che era stato chiamato, mio signore; volevi dire buonuomo, o bravuomo? — Ah! mio signore, scusatemi; non oserei fare cotale distinzione alla presenza di un uomo che, io lo ripeto a Sua Altezza, non lo conosco che di vista. — Al fatto, mormorò il giovane; aspettiamo e vedremo. L’officiale piegò la testa in segno di assentimento e si tacque. — Se questo Bowelt gli è un bravuomo, continuò l’Altezza, riceve scimunitamente la domanda, che gli fanno questi arrabbiati. E lo scatto nervoso delle mani sue, che agitavansi suo malgrado sulle spalle del compagno, come avrebbero fatto le dita di un suonatore sulla tastiera di uno strumento, tradiva la sua ardente impazienza sì male mascherata in tali momenti, e specialmente in questo sotto l’aria gelata e scura della sua fisonomia. Intendevasi allora il capo della deputazione paesana interpellare il deputato, perchè dicesse, dove trovavansi gli altri deputati suoi colleghi. — Signori, rispose per la seconda volta il Bowelt, vi ripeto che in questo momento io sono solo col signor d’Asperen, e solo non posso prendermi la responsabilità della decisione. — L’ordine! l’ordine! ripeterono migliaia di voci. Il Bowelt volle parlare, ma non s’intesero le sue parole, e videsi solo l’agitar delle braccia in disperata maniera. Perlochè vedendo di non potere farsi intendere, si volse verso la finestra aperta e chiamò l’Asperen; che comparve alla sua volta al balcone, dove fu accolto con grida anche maggiori di quelle, che fosse accolto dieci minuti fa il signor Bowelt. Tentò ei pure d’arringare la moltitudine; ma ella preferì sforzare la guardia degli Stati, che d’altronde non fece resistenza al popolo sovrano, invece di ascoltare il discorso dell’Asperen. — Via, disse freddamente il giovine mentre che il popolo internavasi per la porta principale dell’Hoog-straat, parrebbe, o colonnello, che la deliberazione debba aver luogo nell’interno. Andiamo a sentire la deliberazione. — Ah! mio signore, mio signore, pensateci. — Perchè? — Tra quei deputati avvene molti che sono di vostra relazione, basta che uno riconosca Vostra Altezza.... — Sia, purchè non mi possano accusare d’essere l’istigatore di tutto questo. — Hai ragione, disse il giovine, le cui guance arrossirono un istante pel rimorso d’aver mostrato tanta precipitazione nei suoi desiderii; sì hai ragione, restiamo qui, donde li vedremo tornare con l’autorizzazione o senza; e così potremo giudicare della sorte del Bowelt, se sia un bravuomo o un buon uomo, il che molto importa a sapere. — Ma, disse l’officiale riguardando con meraviglia quello cui dava il titolo di mio signore, ma Vostra Altezza non suppone per un momento, io penso, che i deputati possano ordinare ai cavalieri del Tilly di ritirarsi; non è così? — E perchè? dimandò freddamente il giovine. — Perchè se l’ordinassero, sarebbe l’istesso che segnare la condanna a morte di Cornelio e di Giovanni de Witt. — Lo vedremo, rispose freddamente l’Altezza; Dio solo legge nei cuori umani. L’ufficiale guardò alla sfuggita la faccia impassibile del suo compagno, e impallidì. Quell’officiale era a un tempo un buonuomo e un bravuomo. Dal punto ov’erano rimasti l’Altezza e il suo compagno sentivano il baccano e le petizioni del popolo nelle scale del palazzo comunale. Quindi s’intese uscire quello strepito e spandersi sulla piazza per le finestre aperte di quella sala col balcone, su cui era comparso Bowelt e d’Asperen, i quali erano rientrati per paura senza dubbio che sospingendoli il popolo non li facesse saltare dal terrazzino. Poi si videro ombre tumultuosamente passare e ripassare davanti a quelle finestre. La sala delle deliberazioni andava empiendosi. A un tratto cessa lo strepito; poi ad un tratto raddoppia d’intensità e giunge a tale detonazione da scuoterne dai fondamenti l’edifizio. Poi finalmente il torrente si precipitò per le gallerie e le scale fino alla porta, da cui videsi sboccare come un uragano. Alla testa del primo gruppo più che correre volava un uomo orribilmente trasfigurato dalla gioia. Era il chirurgo Tyckelaer. — L’abbiamo! l’abbiamo! urlò, agitando un foglio per l’aria. — Hanno l’ordine! mormorò l’officiale stupefatto. — Ebbene, eccomi convinto, disse tranquillamente l’Altezza. Non sapevate, mio caro colonnello, se Bowelt fosse un buonuomo o un bravuomo. Non è nè l’uno nè l’altro. Poi continuando senza batter’occhio tutta quella folla, che versavasi a lui davanti: — Adesso, soggiunse, venite, o colonnello, al Buitenhof; io credo che saremo per vedere uno strano spettacolo. L’officiale piegossi e seguì senza rispondere il suo padrone. La folla era immensa sulla piazza e all’entrate della prigione; ma i cavalieri del Tilly contenevanla sempre con la stessa bonomia e molto più con la stessa fermezza. Bentosto il conte intese il rumore crescente che faceva appressandosi quella massa di uomini, le cui prime ondate scorgevansi precipitantesi con la rapidità della caduta da una cataratta. Nel tempo medesimo egli scorse il foglio sventolato per l’aria al di sopra delle pugna strette e delle armi luccicanti. — Ohè! fece alzandosi sulle staffe e toccando col pomo della spada il suo luogotenente, credo che i miserabili abbiano l’ordine. — Furfanti vili! esclamò il luogotenente. Difatti era l’ordine, che la compagnia dei paesani ricevette con segni di gioia. Essa immediatamente si mosse e marciò ad armi basse e gridando a tutta possa contro i cavalieri del conte di Tilly. Ma il conte non era uomo da lasciarsela approssimare più del dovere. — Alto! gridò, alto! largo davanti a’ miei cavalli, o comando: Avanti! — Ecco l’ordine! risposero mille voci insolenti. Lo prese con istupore, gettovvi sopra un rapido sguardo, e disse ad alta voce: — Quelli che hanno firmato quest’ordine, sono i veri carnefici di Cornelio de Witt. Quanto a me non vorrei con nessuna delle mie mani avere scritto una sola lettera di quest’ordine infame. E respingendo col pomo della spada l’uomo che voleaglielo riprendere: — Un momento, disse, uno scritto come questo importa che sia conservato. Piegò il foglio e lo ripose con cura nella tasca della sua sottoveste. Poi voltandosi alla sua truppa: — Cavalieri di Tilly, comandò, fila a diritta! Quindi sottovoce, e nonostante in guisa che le sue parole non isfuggissero a tutti: — Ora, assassini, compite la vostra opera. Un grido furioso formato da tutti gli odii invidiosi e da tutte le gioie feroci, che ringhiavano sul Buitenhof, salutò quella partenza. I cavalieri sfilarono lentamente. Il conte rimase dietro, facendo fronte fino all’ultimo momento alla canaglia briaca, che guadagnava terreno a misura che il cavallo del capitano abbandonavalo. Come si vede, Giovanni de Witt non aveva punto esagerato il pericolo quando, aiutando suo fratello ad alzarsi, pressavalo a partire. Cornelio scese dunque, appoggiato al braccio dell’ex-gran Pensionario, la scala che conduceva nella corte. Appena sceso trovò la bella Rosa tutta tremante. — Oh! signor Giovanni, diss’ella, che guaio! — Che c’è dunque, mia ragazza? domandò il de Witt. — C’è che si dice siano andati a cercare all’Hoog-straat l’ordine per fare allontanare la cavalleria del conte di Tilly. — Oh! oh! fece Giovanni. In effetto, o mia ragazza, se se ne vadano i cavalieri, la nostra posizione è cattiva. — Però avrei un consiglio a darvi.... disse la giovinetta tutta timorosa. — Dàllo, mia ragazza. Qual meraviglia che Dio mi volesse parlare per tua bocca? — Ebbene! signor Giovanni; io non me ne anderei per la strada principale. — E perchè no, se lo squadrone del Tilly è sempre al suo posto? — Sì, ma fintanto che non sia rivocato, l’ordine è di restare davanti la prigione. — Senza dubbio. — Ne avete nessuno che v’accompagni fuori di città? — No. — Ebbene, appena avrete passato il primo cavallo, caderete nelle mani del popolo. — Ma la guardia paesana? — Oh! la guardia paesana è la più arrabbiata! — Allora, che fare? — Al vostro posto, signor Giovanni, continuò timidamente la giovinetta, io escirei per la postierla, che dà sopra una strada solitaria, perchè tutti sono sulla grande strada, aspettando all’entrata principale; e guadagnerei la porta per cui volete andarvene. — Ma mio fratello non potrà camminare. — Mi proverò, rispose Cornelio con un’espressione di sublime fermezza. — Ma non ci avete la vostra carrozza? domandò la giovinetta. — È là presso alla gran porta. — No, rispose la giovinetta. Io ho pensato che il vostro cocchiere fosse un uomo fidato, e gli ho detto che vada ad aspettarvi alla postierla. I due fratelli si guardarono commossi, e i loro sguardi esprimenti la loro sentita riconoscenza si concentrarono tutti su quella giovinetta. — Ora, disse il gran Pensionario, resta a sapersi se Grifo ci voglia aprire la porta. — Oh! no, disse Rosa, nol vorrà certo. — Ebbene! e allora? — Allora io ho previsto il suo rifiuto, e nel momento che questionava dalla prigione con un carabiniere, ho preso il mazzo delle chiavi. — E tu hai la chiave? — Eccola, signor Giovanni. — Mia ragazza, disse Cornelio, io non ho nulla a darti in contraccambio del servigio che tu mi rendi, fuorchè la Bibbia che tu troverai nella mia camera: l’è l’ultimo dono di un uomo onesto; spero che ti porterà fortuna. — Grazie, signor Cornelio; la porterò sempre meco, rispose la giovinetta. Poi tra sè sospirando: — Che sfortuna che io non sappia leggere! — Ecco che raddoppiano i clamori, o mia ragazza, disse Giovanni; credo che non vi sia un momento da perdere. — Venite dunque, disse la bella Frisona. E per un andito interno condusse i due fratelli dal lato opposto della prigione. Sempre guidati da Rosa discesero una scala di una dozzina di gradini, traversarono una corticella con le mura merlate, e per la porta a sesto acuto già aperta, trovaronsi dall’altro lato della prigione sulla via deserta in faccia alla carrozza che aspettavali col montatoio calato. — Eh! presto, presto, miei padroni, non sentite? esclamò il cocchiere tutto spaventato. Ma dopo aver fatto montare Cornelio, il gran Pensionario si volse alla giovinetta: — Addio, mia ragazza, disse; tutto quello che ti si potesse dire, non ti esprimerebbe che debolmente la nostra riconoscenza. Ti raccomanderemo a Dio, che ricorderassi, io spero, che tu hai salvato la vita a due uomini. Rosa prese la mano stesale dal gran Pensionario, e baciolla rispettosamente. — Andate, andate; chè sforzano la porta. Giovanni de Witt montò precipitosamente, prese posto accanto al fratello, e chiudendo lo sportello della carrozza, esclamò: — A Tol-Hek! Il Tol-Hek era il cancello che chiudeva la porta conducente al piccolo porto di Scheveningen, nel quale una barchetta aspettava i due fratelli. La carrozza partì di galoppo tirata da due robusti cavalli sauri, seco portando i fuggitivi. Rosa seguilli coll’occhio, finchè non ebbero voltato l’angolo della strada. Allora rientrando chiuse dietro a sè la porta e gettò le chiavi in un pozzo. Lo strepito che aveva fatto presentire a Rosa che il popolo sforzasse la porta, era in effetto così, perchè dopo aver fatto sgombrare la piazza della prigione, ruinava contro la porta. Benchè solida che ella fosse, e quantunque il carceriere Grifo — bisogna rendergli questa giustizia — ricusasse ostinatamente d’aprirla, sentivasi che non avrebbe resistito a lungo; perciocchè Grifo tutto smarrito s’interrogava se non fosse meglio aprire che lasciare sfasciare la porta; allorquando si sentì tirare dolcemente pel vestito. Si volse e vide Rosa. — Apriresti, eh? — No, lascerei sfondare la porta. — Ma mi ammazzeranno! — Sì, se ’l volete. — E come fare a non volerlo? — Nascondetevi. — Dove? — In una segreta. — E tu, figlia mia? — Io, babbo mio, scenderovvi con voi; ne chiuderemo la porta; e quando avranno lasciata la prigione, allora esciremo dal nostro nascondiglio. — Hai per..., ragione! esclamò Grifo; l’è un prodigio il giudizio che sta in cotesta testolina! — Venite, venite, babbo mio, disse Rosa aprendo una piccola ribalta. — Ma intanto i nostri prigionieri? soggiunse Grifo. — Dio veglierà su loro, o babbo mio, disse la giovinetta; permettete che io vegli su voi. Grifo seguì sua figlia, e la ribalta si richiuse sulle loro teste giusto nel punto, che la porta sfracellata dava adito alla canaglia. Del resto quella prigione, dove Rosa faceva scendere suo padre, e che chiamavasi la segreta, offriva ai due personaggi, che noi siamo forzati a lasciare per un istante, un sicuro asilo, non essendo conosciuta che dalle autorità, le quali alcuna volta faceanvi chiudere qualche gran colpevole, di cui si temesse una rivolta o una rapina. Il popolo precipitossi nella prigione, urlando: — Morte ai traditori! Cornelio de Witt alla forca! A morte! a morte! IV Il giovine così imbacuccato nel suo cappellone, sempre appoggiato al braccio dell’officiale, sempre asciugantesi la fronte e le labbra col suo fazzoletto, quel giovine in un canto del Buitenhof, incastrato nel vano di un arco di una bottega chiusa, solo riguardava immobile lo spettacolo che davagli quel furioso popolaccio, e che pareva avvicinarsi al suo svolgimento. — Oh! disse all’officiale, io credo che abbiate ragione, o Van Deken, e che l’ordine firmato dai signori deputati, sia un vero ordine di morte di Cornelio. Sentite il popolo? Non ne vuol più sapere dei signori de Witt. — In verità, rispose l’officiale, di clamori simili non ne ho mai sentiti. — Bisogna credere che abbiano trovato la prigione di quel nostro uomo. Oh! guardate; non è quella la finestra della stanza, dov’è stato chiuso Cornelio? Difatti un uomo abbrancava e scuoteva violentemente le sbarre di ferro che chiudevano la finestra del carcere di Cornelio, il quale egli aveva abbandonato dieci minuti innanzi. — Urà! urà! gridò quell’uomo; non ci sta più! — Come, non ci sta più? domandarono dalla strada coloro che giunti gli ultimi non erano potuti entrare, tanto era affollata la prigione. — No, no, ripeteva quell’uomo furioso, non ci sta più; si vede che se l’è svignata. — Che cosa dice quell’uomo? domandò impallidendo Sua Altezza. — Oh! mio signore, ei dà una nuova che sarebbe bene avventurosa, se fosse vera. — Sì, senza dubbio, sarebbe una nuova bene avventurosa, se fosse vera, disse il giovine; disgraziatamente non può esserlo. — Frattanto vedete.... disse l’officiale. Difatti altri visi arrabbiati e contraffatti dalla collera mostravansi alla finestra, gridando: — Salvo! fuggito! gli è stato tenuto di mano. Il popolo rimasto nella strada ripeteva con spaventevoli imprecazioni: — Salvati! fuggiti! Perseguitiamoli, raggiungiamoli! — Mio signore, pare che realmente Cornelio di Witt siasi salvato, disse l’officiale. — Sì, forse dalla carcere, rispose colui, ma non dalla città; voi vedrete, o Van Deken, che il pover’uomo troverà chiusa la porta, che crederà trovare aperta. — Dunque, o mio signore, è già stato dato l’ordine di chiudere le porte? — No, io non lo credo; chi avrebbe dato tale ordine? — Ebbene! chi ve lo fa supporre?... — Sonvi delle fatalità, rispose sbadatamente l’Altezza, e i più grandi uomini sono spesso caduti vittime di cotali fatalità. L’officiale sentì corrersi a quelle parole un brivido per tutta la persona, perchè comprese che in una maniera o in un’altra, il prigioniero era spacciato. In quel momento i ruggiti della folla scoppiavano come un tuono, perchè erasi accertato che Cornelio de Witt non era più in carcere. Di fatti Cornelio e Giovanni, dopo aver costeggiato il vivaio, avevano presa la grande strada, che conduce al Tol-Hek, raccomandandosi al cocchiere che rallentasse il passo dei suoi cavalli per non isvegliar sospetti nel loro passaggio. Ma giunto a mezzo della via, quando vide da lontano il cancello, quando pensò che lasciavasi indietro la prigione e la morte e che aveva innanzi la vita e la libertà, il cocchiere lasciò ogni precauzione e si mise al galoppo. Tutto a un tratto arrestossi. — Che c’è? domandò Giovanni mettendo fuori della portiera la testa. — Oh! esclamò il cocchiere, c’è.... Il terrore gli soffocò la parola. — Via, finisci, disse il gran Pensionario. — C’è che il cancello è chiuso. — Come! il cancello è chiuso? Cosa insolita che stia chiuso di giorno. — Lo veda da sè. Giovanni de Witt si spenzolò dalla carrozza, e vide difatti il cancello chiuso. — Seguita, disse Giovanni, ho meco il contrordine, e il portiere ci aprirà. La carrozza riprese la sua corsa, ma si vedeva bene che il cocchiere non sferzava più i suoi cavalli con la medesima confidenza. Al momento che avea messo fuori della portiera la testa, Giovanni de Witt fu visto e riconosciuto da un birraio, che in assenza dei suoi compagni chiuse in tutta fretta la bottega per andare a raggiungerli sul Buitenhof. Egli cacciò un grido di sorpresa e corse dietro ad altri due uomini che correvano innanzi a lui. Dopo dugento passi li raggiunse e parlò loro; tutti e tre si fermarono, guardando la carrozza che si allontanava, ma tuttora non ben certi di chi racchiudesse. La carrozza intanto arrivava al Tol-Hek. — Aprite, gridò il cocchiere. — Aprire, disse il portiere comparendo sulla soglia di casa, aprire, e con che? — Con la chiave, per.... rispose il cocchiere. — Sì, con la chiave; ma bisognerebbe averla. — Come! domandò il cocchiere, non avete la chiave della porta? — No. — Che ne avete fatta? — Madonna! mi è stata presa. — Da chi? — Da qualcuno che probabilmente gl’importava che nessuno escisse di città. — Amico mio, disse il gran Pensionario, mettendo fuori la testa e risicando tutto per tutto, amico mio, gli è per me e per mio fratello Cornelio che conduco in esilio. — Oh! signor de Witt, mi dispiace, disse il portiere precipitandosi verso la carrozza, ma sul mio onore, la chiave mi è stata levata. — Quando? — Stamattina. — Da chi? — Da un giovine di ventidue anni, pallido e magro. — E perchè glie l’avete consegnata? — Perchè aveva un ordine firmato e sigillato. — Da chi? — Dai signori del palazzo comunale. — Or su, disse tranquillamente Cornelio, si vede molto chiaro che siamo spacciati. — Sai, se la medesima precauzione sia stata presa dappertutto? — Non lo so. — Tira via, disse Giovanni al cocchiere, Dio comanda all’uomo che faccia di tutto per conservare la vita; affrettati a un’altra porta. Nel mentre che il cocchiere faceva voltare la carrozza: — Grazie della tua buona volontà, amico mio, disse Giovanni al portiere; l’intenzione vale quanto il fatto; tu avevi l’intenzione di salvarci, e agli occhi del Signore gli è come ti fosse riescito. — Ah! disse il portiere, vedete laggiù? — Passa di galoppo a traverso di quel gruppo, gridò Giovanni al cocchiere, e prendi la strada a sinistra; è la sola speranza. Il gruppo, di cui intendeva parlare Giovanni, erasi formato intorno ai tre uomini, che abbiamo veduto seguir con gli occhi la carrozza, e che nel tempo che Giovanni parlamentò col portiere, eransi seco loro riuniti in numero di sette o otto. Que’ nuovi sopraggiunti avevano evidentemente intenzioni ostili sul conto della carrozza; cosicchè vedendola venire di gran galoppo incontro a loro, si sfilarono a traverso la strada, agitando i bastoni, di cui erano armati e gridando: — Ferma! ferma! Dal suo canto il cocchiere chinato su i malti sferzavali a tutta possa, talchè carrozza e uomini vennero a urtarsi tra loro. I fratelli de Witt, chiusi nella carrozza non potevano nulla vedere; ma sentirono inciampare i cavalli, e poi una violenta scossa. Vi fu un momento di resistenza e di sussulto in tutto il legno in corsa, che riprese la sua andata passando sopra a qualche cosa di rotondo e di pieghevole somigliante a corpo d’uomo rovesciato; e che allontanavasi in mezzo alle bestemmie. — Oh! disse Cornelio, temo non si sia fatto un qualche male. — Al galoppo! al galoppo! gridò Giovanni. Ma malgrado quest’ordine il cocchiere ad un tratto fermossi. — Ebbene? domandò Giovanni. — Vedete? disse il cocchiere. Giovanni guardò. Tutto il popolo del Buitenhof appariva alla estremità della strada, che doveva seguire la carrozza, e avanzavasi urlante e fremente come un oragano. — Ferma e salvati, disse Giovanni al cocchiere; è inutile voler proseguire; noi siamo perduti! — Eccoli! eccoli! ripeterono mille voci. — Sì, eccoli, i traditori! gli omicidii! gli assassini! rispondevano a questi quelli che rimasti dietro alla carrozza, la seguivano, portando sulle braccia il corpo pestato di uno dei compagni, il quale avendo voluto avventarsi al morso dei cavalli, era stato da loro rovesciato. I due fratelli aveano sentito l’intoppo e la scossa della carrozza, passando sopra costui. Il cocchiere fermossi, ma per quante istanze gli facesse il padrone, non volle salvarsi. In un momento la carrozza rimase in mezzo a quelli che la seguivano e a quelli che venivanle incontro; sicchè in mezzo a quella folla agitata trovossi in un istante come un’isola ondeggiante. Ad un tratto l’isola ondeggiante si arrestò. Un maresciallo percosse di un colpo di mazza uno dei due cavalli, il quale cadde sul colpo. In quel momento dall’imposta d’una finestra semiaperta comparve il viso e gli occhi foschi del giovine, i quali fissavansi sullo spettacolo che andava preparandosi. Dietro a lui vedevasi la testa dell’officiale quasi pallido come il compagno. — Oh! Dio! o Dio! mio signore, che succederà mai? mormorò l’officiale. — Certamente qualche cosa tremenda, rispose colui. — Oh! vedete, mio signore, strappano dalla carrozza il gran Pensionario, lo percuotono, lo sbranano. — In verità, bisogna bene che quella gente sia forte indignata, replicò il giovane con la medesima impassibilità che aveva finallora conservata. — Ed ecco Cornelio tirato fuori della carrozza già tutto pesto, già tutto stronco dalla tortura. Oh! guardate! guardate! — Sì, è lui. L’officiale mandò un grido doloroso, e volse lo sguardo. Sull’ultimo gradino del montatoio, primachè avesse toccato terra, il _ruward_ riceveva un colpo di una spranga di ferro, il quale aveali spaccato la testa. Rialzossi nonostante per poi ricadere. Quindi alcuni uomini prendendolo pe’ piedi tiravanlo tra la folla, in mezzo a cui segnava una traccia sanguinosa, che veniva chiusa dalla moltitudine baccante di gioia feroce. Il giovine divenne anco più pallido, cosa che si sarebbe creduto impossibile, e il suo occhio velossi un istante sotto la sua palpebra. L’officiale vide quel moto di pietà, il primo che il suo severo compagno si fosse lasciato sfuggire; e volendo profittare di quell’ammollimento dell’anima: — Venite, venite, mio signore, diss’egli, altrimenti assassinano ancora il gran Pensionario. Ma il giovine aveva già riaperto gli occhi: — In verità, disse, questo popolo è implacabile. Non v’è da guadagnare a tradirlo. — Mio signore, disse l’officiale, ma non si potrebbe salvare quel pover’uomo che ha educato l’Altezza Vostra? Se v’ha un mezzo, ditelo; e vi dovessi perdere la vita.... Guglielmo d’Orange, che era lui, increspò la fronte in modo sinistro, estinse il fosco lampo del suo furore che scintillava sulla sua palpebra e rispose: — Colonnello Van Deken, andate, vi prego, a raggiungere le mie truppe, affinchè prendano le armi ad ogni evento. — Ma che debbo dunque lasciarvi qui solo in mano di questi assassini? — Non vi prendete cura di me più di quello che io non me ne prenda, replicò seccamente il principe. Andate. L’officiale partì con una rapidità, che più che l’obbedienza, mostrava la gioia di non assistere all’odioso assassinio dell’altro fratello. Non aveva egli ancora chiuso l’uscio della stanza che Giovanni il quale con un ultimo sforzo aveva guadagnato lo scaglione di una casa posta quasi dirimpetto a quella, dov’era nascosto il suo allievo, accennò cadere sotto le percosse, che avventavanglisi da tutti i lati, dicendo: — Mio fratello! dov’è mio fratello? Uno di quei furibondi con un pugno fecegli saltare di testa il cappello. Un altro mostravagli il sangue di cui aveva imbrattate le mani; un terzo dopo avere sventrato Cornelio accorreva per non perdere l’occasione di fare altrettanto al gran Pensionario, intantochè strascinavasi alla forca il cadavere di quello che era già morto. Giovanni gemè dolorosamente, e si copri gli occhi con le mani. — Ah! tu chiudi gli occhi, disse un soldato della guardia paesana; ebbene, te li voglio cavar’io! E lo percosse nel viso con un colpo di picca, per cui spicciò il sangue. — Fratello mio! esclamò il de Witt cercando di vedere ciò che fosse accaduto di Cornelio, a traverso alli spilli di sangue che accecavanlo: fratello mio! — Va’ a raggiungerlo! urlò un altro assassino, appoggiandogli il moschetto alla tempia, e scattando al grilletto. Ma il colpo non partì. Allora l’omicida prendendo l’arme per la canna a due mani, percosse col calcio Giovanni de Witt, che barcollò e cadde ai suoi piedi. Ma con uno sforzo supremo rialzossi: — Fratello mio! gridò con voce talmente lamentevole, che il giovine chiuse l’imposta. D’altronde restava poco più a vedersi, perchè un terzo assassino per finirla scaricogli un colpo di pistola, che questa volta prese, e fecegli saltare il cranio. Giovanni de Witt cadde per non più rialzarsi. Allora ognuno di quei miserabili fatti arditi della sua caduta scaricò la sua arme sopra quel cadavere; ognuno volle dargli un colpo di mazza, di spada o di coltello; ciascuno volle la sua goccia di sangue, ciascuno un brano del suo vestito. Poi, quando ambedue furono morti affatto, sbranati, spogliati, il popolaccio strascinolli nudi e sanguinanti a una forca improvvisata, dove furono sospesi pei piedi da carnefici dilettanti. Allora arrivarono i più vigliacchi che, non avendo ardito colpire la carne viva, spezzettarono la carne morta; e poi andarono a vendere per la città quei piccoli pezzetti di Giovanni e di Cornelio a dieci soldi l’uno. Noi non possiamo affermare se a traverso la fessura della imposta il giovine vedesse la fine di questa terribile scena; ma nel tempo stesso che appendevansi alla forca i due martiri, egli traversava la folla ormai troppo occupata della gioiosa bisogna ch’ella andava a compire per occuparsi di lui; e guadagnava il Tol-Hek sempre serrato. — Ah! signore, esclamò il portiere, che mi riportate la chiave? — Sì, mio amico, eccola, rispose il giovine. — Oh! gli è una gran disgrazia, che non me l’abbiate riportata una mezza ora prima, il portiere soggiunse sospirando. — E perchè? domandò il giovine. — Perchè avrei potuto aprire ai signori de Witt, i quali avendo trovata la porta chiusa, sono stati obbligati a tornare indietro, per cui sono caduti in mezzo di quelli che perseguitavanli. — La porta! la porta! gridò una voce che sembrava quella di un uomo che avesse furia. Il principe si volse e trovossi innanzi il colonnello Van Deken. — Siete voi colonnello? diss’egli. Non siete ancor fuori di città? È un servirmi adagio. — Mio signore, rispose il colonnello, ecco la terza porta a cui mi sono presentato, avendo trovate le altre chiuse. — Ebbene! questo bravuomo ci sta aprendo questa.... Apri, amico, disse il principe al portiere, il quale era restato a bocca aperta sentendo il titolo di _mio Signore_, che dava il colonnello Van Deken a quel giovine pallido, a cui egli aveva parlato con tanta familiarità. Talchè per riparare al suo errore, affrettossi ad aprire il Tol-Hek, che spalancossi cigolando sopra i suoi gangheri. — Mio signore, vuol profittare del mio cavallo? domandò il colonnello a Guglielmo. — Grazie colonnello; a qualche passo di qui deve aspettarmi una cavalcatura. E prendendo un fischietto d’oro dalla sua tasca, cavò da quello strumento, che a quell’epoca serviva per chiamare i domestici, un sibilo acuto e prolungato, al cui echeggiare accorse uno scudiero a cavallo, tenendo un altro cavallo a mano. Guglielmo saltò in sella senza servirsi della staffa, e spronando guadagnò la strada di Leyda. Giuntovi si rivolse indietro; ma il colonnello seguivalo a rispettosa distanza. Allora il principe gli fece segno che venisse seco del paro. — Sapete voi, disse senza fermarsi, che quelle buone lame dopo avere ucciso Cornelio hanno anche massacrato Giovanni de Witt? — Ah! mio signore, disse tristamente il colonnello, amerei meglio per voi che restassero ancora a superare que’ due intoppi per essere voi di fatto Statolder di Olanda. — Certo, sarebbe stato meglio che il successo non fosse successo; ma alla fine dei conti quel che è fatto è fatto, e noi non ne siamo la causa. Sproniamo presto, o colonnello, per arrivare a Alphen prima del messaggio che certamente li Stati m’invieranno al campo. Il colonnello piegò il capo, lasciò passare avanti il suo principe e prese il posto che teneva prima che gli avesse diretto la parola. — Ah! mi pare mill’anni, mormorò malignamente Guglielmo d’Orange, aggrottando le ciglia, serrando le labbra, e ficcando li sproni nel ventre al cavallo, mi par mill’anni di vedere la figura, che farà Luigi[1] il Sole, quando accerterassi di qual maniera sono stati trattati i suoi buoni amici de Witt! Oh! sole, sole, io mi chiamo Guglielmo il Taciturno; sole, guarda a’ tuoi raggi! E corse veloce sopra il suo buon cavallo quel giovine principe accanito rivale del gran re, quello Statolder sì poco solido la vigilia ancora nella sua potenza novella, ma che i paesani dell’Aya aveangli fatto un montatoio coi cadaveri di Giovanni e di Cornelio, due nobili principi tanto rimpetto agli uomini che a Dio. V L’amatore dei Tulipani e il suo vicino. Intanto, mentrechè i paesani dell’Aya mettevano in pezzi i cadaveri di Giovanni e di Cornelio, mentrechè Guglielmo d’Orange dopo essersi assicurato che i suoi due antagonisti erano per certo morti, galoppava sulla strada di Leyda seguito dal colonnello Van Deken, che egli trovava un poco troppo compassionevole per continuargli la confidenza di cui avealo onorato fin allora: Craeke servo fedele montato dal suo canto sopra un buon cavallo e ben longi dal sospettare i terribili avvenimenti che erano accaduti dopo la sua partenza, correva sugli argini fiancheggiati di alberi finchè non fu fuori della città e dei villaggi vicini. Una volta in sicuro per suscitare sospetti lasciò il suo cavallo in una stalla e continuò tranquillamente il suo viaggio in barchetta, che lo menò a Dordrecht, passando destramente per le scorciatoie di quei bracci sinuosi del fiume, i quali stringono accarezzando con umido amplesso quelle isolette graziose fiancheggiate di salci, di giunchi e d’erbe fiorite, le quali pascola a suo bell’agio il grasso armento rilucente ai raggi del sole. Craeke riconobbe da lungi Dordrecht, città ridente al piè della sua collina seminata di molini; vide le belle case rosse a strisce bianche, bagnanti nell’acqua i loro piedi di mattoni e facenti sventolare dai balconi aperti sul fiume i loro tappeti di seta con fiori d’oro a rilievo, meraviglie indiane e chinesi, e presso la gran linea dei tappeti le reti permanenti per prendere le anguille voraci che attirano intorno alle abitazioni le giornaliere immondezze che le cuoche gettano nell’acqua dalle finestre. Craeke dal ponte della barca a traverso a tutti quei molini ad ali giranti, scorgeva al declive del poggio la casa bianca o rossa scopo della sua missione. Ella nascondeva i comignoli del suo tetto tra’ fogliami giallastri di una siepe di pioppi, e spiccava dal fondo scuro, che facevale un bosco d’olmi giganteschi. Ell’era situata di tal maniera, che il sole piombando su lei come in un imbuto, vi veniva a prosciugare, intiepidire e fecondare anche l’ultima guazza, che la barriera di verdura non poteva impedire che mattina e sera non ve la portasse il venticello del fiume. Sbarcato in mezzo all’ordinario andirivieni della città, Craeke si diresse prontamente verso la casa, della quale andiamo a presentare ai nostri lettori una indispensabile descrizione. Bianca, netta, rilucente, più propriamente lavata, più diligentemente incerata nei quartieri nascosti, che in quelli aperti, questa casa racchiudeva un mortale felice. Quel mortale felice, _rara avis_ (la Fenice) come dice Giovenale, era il dottore Van Baerle battezzato di Cornelio. Egli abitava la casa da noi descritta fino dalla sua infanzia; perchè era la casa natale di suo padre e del suo nonno, antichi nobili mercanti della nobile città di Dordrecht. Van Baerle padre aveva ammassato nel commercio delle Indie tre o quattro cento mila franchi, che Van Baerle figlio aveva trovati tutti nuovi nel 1668 alla morte de’ suoi buoni e cari parenti, benchè quei fiorini non fossero tutti dello stesso millesimo, gli uni del 1640, gli altri del 1610; il che provavano che v’erano fiorini del padre e del nonno Van Baerle. Questi quattrocento mila fiorini, ci affrettiamo a dirlo, non erano che la borsa, il denaro di tasca di Cornelius Van Baerle, eroe di questa storia, chè le sue proprietà della provincia davangli un’entrata di circa diecimila fiorini. Allorchè il degno cittadino padre di Cornelio era per passare dalla vita alla morte, tre mesi dopo i funerali di sua moglie, che sembrava essere partita la prima per rendergli facile il cammino della morte, com’ella aveagli reso facile il cammino della vita, egli aveva detto a suo figlio, abbracciandolo per l’ultima volta: — Bevi, mangia e spendi, se vuoi vivere realmente, perchè non è vivere lavorare tutto il giorno sopra una seggiola di legno o sopra una poltrona di pelle in un laboratorio o in un magazzino. Tu morrai la tua volta, e se tu non hai la fortuna di non avere un figliuolo lascerai estinguere il nostro nome, e i miei fiorini ammassati troverannosi ad avere un padrone sconosciuto, que’ fiorini nuovi che nessuno ha mai contati fuorchè mio padre, io e il monetiere. Soprattutto non imitare il tuo padrino Cornelio de Witt, che si è gettato nella politica, la più ingrata delle carriere, e che certamente finirà male. Poi morì quel degno Van Baerle, lasciando tutto desolato il suo figlio Cornelio, il quale amava pochissimo i fiorini, e moltissimo suo padre. Cornelio restò dunque solo nella gran casa. Invano il suo compare Cornelio gli offerse impiegarlo in servigi pubblici; invano volle fargli gustare la gloria, quando Cornelio per obbedire al suo padrino si imbarcò con il de Ruyter sul vascello _le Sette Province_, il quale comandava a cento trentanove bastimenti, coi quali l’illustre ammiraglio andava solo a bilanciare la fortuna di Francia e d’Inghilterra riunite. Allorchè condotto dal pilota Lèger giunse a un tiro di moschetto dal vascello _il Principe_, sul quale trovavasi il duca di York fratello del re d’Inghilterra; allorchè l’attacco di Ruyter suo principale fu sì fiero e sì abile, che il duca d’York vedendo il suo bastimento vicino all’arrembaggio, ebbe appena il tempo di salire a bordo del _S. Michele_; allorchè ebbe visto il _S. Michele_ conquassato, traforato dalle palle olandesi, escire di combattimento; allorchè ebbe visto saltare in aria un vascello, _il Conte di Sanwick_, e perire tra i flutti o nel fuoco quattrocento marinari; allorchè ebbe visto che dopo tutto questo, dopo aver messo in pezzi venti bastimenti, dopo tre mila morti, dopo cinque mila feriti, rimase indecisa da una parte e dall’altra, che ciascuno attribuivasi, la vittoria, che bisognava ricominciare, e che solamente un nome di più, la battaglia di Southwood-Bay, erasi aggiunto al catalogo delle battaglie; quando egli ebbe calcolato quello che perda di tempo, ammazzandosi gli occhi e gli orecchi un uomo che voglia riflettere nel momento che i suoi simili si cannoneggiano tra loro: Cornelio disse addio a Ruyter, al _ruward_ di Pulten e alla gloria, baciò le ginocchia del gran Pensionario, ch’egli aveva in profonda venerazione, e rientrato nella sua casa di Dordrecht, ricco del suo riacquistato riposo, de’ suoi ventotto anni, di una salute di ferro, di una vista acuta, e più che dei suoi quattro cento mila fiorini e de’ suoi dieci mila fiorini di rendita, ricco della convinzione che un uomo ha ricevuto dal cielo tanto per essere felice, molto per non esserlo. In conseguenza per farsi una felicità a suo modo Cornelio si mise a studiare i vegetabili e gli insetti, raccolse e classò tutta la flora delle isole, appuntò tutta l’entomologia della provincia, sulla quale compose un trattato manoscritto con tavole disegnate di sua mano, e finalmente non sapendo più cosa farsi del suo tempo e soprattutto del suo danaro, che andavasi accrescendo smisuratamente, si mise a cercare tra tutte le follie del suo paese e dell’epoca sua una delle più eleganti e delle più cortesi. Egli amò i Tulipani. Era il tempo, come ognun sa, in cui i Fiamminghi e i Portoghesi, invidiandosi tal genere d’orticoltura, erano arrivati a divinizzare il Tulipano e a fare di questo fiore venuto dall’Oriente ciò che mai nessun naturalista aveva osato fare della razza umana per paura di non dare gelosia a Dio. Ben presto da Dordrecht a Mons non si parlava d’altro che dei tulipani del _mynheer_ Van Baerle, e le sue tavole, i suoi irrigatorii, le sue stanze da prosciugare, le sue carte di cipollette furono visitate come una volta le gallerie e le biblioteche di Alessandria dagli illustri viaggiatori romani. Van Baerle cominciò per spendere le sue rendite annuali a stabilire la sua collezione, poi ad intaccare i suoi fiorini nuovi per perfezionarla. Però la sua fatica fu ricompensata da un resultato magnifico: ne trovò cinque specie differenti, che nominò la _Giovanna_ dal nome di sua madre, la _Baerl_ dal nome di suo padre, la _Cornelia_ dal nome del suo compare; gli altri nomi ci sfuggono, ma gli amatori li possono ritrovare con tutta sicurezza nei cataloghi del tempo. Nel 1672 al principio dell’anno Cornelio de Witt venne a Dordrecht per starvi tre mesi nella sua antica casa di famiglia; perchè si sa che non solo Cornelio era nativo di Dordrecht ma che la famiglia dei Witt era originaria di quella città. Cornelio cominciava allora, come diceva Guglielmo d’Orange, a godere della più perfetta impopolarità; tuttavia per i suoi concittadini, i buoni abitanti di Dordrecht, e’ non era ancora uno scellerato da forca, e quantunque poco soddisfatti del suo repubblicanismo un poco troppo puro, ma fieri del suo valor personale, vollero offrirgli il vino della città alla sua entrata. Dopo aver ringraziati i suoi concittadini, Cornelio andò a rivedere la sua vecchia casa paterna e ordinò qualche acconcime prima che la signora de Witt sua moglie vi si venisse a stabilire co’ suoi bambini. Poi il _ruward_ si diresse verso la casa del suo figlioccio, che forse era il solo a Dordrecht che ignorasse ancora la presenza del de Witt nella sua città natale. Quanto Cornelio de Witt aveva sollevato invidia maneggiando il mal seme che chiamasi passione politica, tanto Van Baerle aveva accumulato simpatie, trascurando completamente la coltura della politica, assorto come gli era nella cultura dei suoi tulipani. Però Van Baerle era prediletto da’ suoi domestici e da’ suoi operanti; talchè egli non poteva supporre che esistesse al mondo un uomo che volesse male a un altr’uomo. E nulladimanco sia detto a vergogna della umanità, Cornelio Van Baerle aveva senza saperlo un nemico ben altrimenti inferocito, ben altrimenti arrabbiato, ben altrimenti irreconciliabile che fino allora non ne avessero avuti il _ruward_ e il suo fratello tra gli orangisti i più ostili a quell’ammirabile fratellevolezza, che senza nube durante la vita prolungavasi per attaccamento al di là della morte. Quando Cornelio cominciò a addarsi ai tulipani e vi gettò le sue rendite annuali e i fiorini d’oro di suo padre, eravi a Dordrecht, dimorando nella casa accanto, un certo paesano nominato Isacco Boxtel; che dal giorno che aveva cominciato ad avere il lume della ragione, aveva seguito la medesima inclinazione e andava in deliquio al solo sentire la parola _tulban_, che a quanto ci assicura il _Fiorista francese_ che è quanto dire lo storiografo il più sapiente di questo fiore, è la prima parola che nel linguaggio dei Cordeglieri ha servito a designare quel capo d’opera della creazione che si chiama tulipano. Boxtel non aveva la fortuna d’esser ricco come Van Baerle; erasi dunque fatto a grande stento e a forza di cure e di pazienza nella sua casa di Dordrecht un giardino comodo alla coltura; avea manipolato il terreno secondo le prescrizioni volute e dato a’ suoi postimi precisamente tanto calore e frescura quanta ne prescrive il codice dei giardinieri. Isacco sapeva quasi appuntino la temperatura delle sue cassette; sapeva il peso del vento e lo cribrava in maniera da bilanciarlo giusto giusto allo stelo de’ suoi fiori; talchè i suoi prodotti cominciavano a piacere; ed erano belli e ricercati. Molti amatori erano venuti a visitare i tulipani di Boxtel, che alla fine aveva lanciato nel mondo dei Linnei e dei Tournefort un tulipano col suo nome. Questo tulipano aveva viaggiato, traversata la Francia, entrando in Ispagna era penetrato in Portogallo, dove il re don Alfonso VI il quale, cacciato da Lisbona erasi ritirato nell’isola di Terzeira, ove divertivasi non già come il gran Condè ad annaffiare aglietti, ma a coltivare tulipani, aveva detto «NON C’È MALE» osservando il suddetto _Boxtel_. Tutto ad un tratto in seguito di tutti li studi ai quali erasi dedicato, la passione del tulipano avendo invaso Cornelio Van Baerle, lo fece risolvere a modificare la casa di Dordrecht che, come abbiamo detto, era vicina a quella di Boxtel, e fece alzare di un piano un certo fabbricato d’in sulla corte, che con la elevazione tolse un mezzo grado circa di calore e in iscambio rese un mezzo grado di freddo al giardino di Boxtel, senza contare che diminuivagli la ventilazione, sconcertava tutti i calcoli e tutta l’economia orticola del suo vicino. Postutto non era questo il solo malanno agli occhi del vicino Boxtel. Van Baerle non era che un pittore, quanto dire una specie di pazzo, che cerca di riprodurre sulla tela, sfigurandole, le meraviglie della natura. Il pittore faceva alzare di un piano il suo laboratorio per aver luce migliore, ed era nel suo diritto. Van Baerle era pittore come Boxtel filotulipaniere; voleaci sole pe’ suoi quadri; e prendevane un mezzo grado ai tulipani di Boxtel. La legge era per Van Baerle: _Bene sit_; ma d’altronde Boxtel aveva scoperto che il troppo sole nuoce al tulipano, e che questo fiore germoglia meglio e più colorito col tiepido sole del mattino o della sera, che col brucente sole del mezzo giorno. Ne seppe dunque quasi buon grado a Cornelio Van Baerle d’avergli fabbricato gratis un parasole. Forse non era tutt’affatto vero, e ciò che Boxtel diceva sul conto del suo vicino Van Baerle, non era l’intera espressione del suo pensiero. Ma le grandi anime trovano nella filosofia stupende risorse in mezzo alle grandi catastrofi. Ma ohimè! come divenne quello sfortunato Boxtel, quando vide i vetri del piano novellamente fabbricato guarnirsi di cipollette, di talli, di tulipani in vegetazione, di tulipani in postime, finalmente di tutto ciò che concerne la professione di monomane Tulipaniere? V’erano gl’involti galanti, v’erano le cassette, v’erano le buchette a spartimenti e le reti di ferro destinate a chiudere le cassette per rinnovarvi l’aria senza dare accesso ai topi, ai punteruoli, ai ghiri, alle donnole e alle talpe, tutti curiosi amatori dei tulipani a duemila franchi la cipolletta. Boxtel fu fortemente sorpreso, allorchè vide tutto quel materiale, ma non comprendeva ancora tutta la grandezza della sua disgrazia. Sapevasi che Van Baerle era amico di tutto ciò che rallegrasse la vista; studiava a fondo la natura per i suoi quadri, finiti come quelli di Gherardo Dow suo maestro e di Mièris suo amico. Non poteva darsi che volendo dipingere l’interno di un Tulipaniere, avesse ammassato nel suo nuovo studio tutti gli accessorii della decorazione? Intanto, benchè uccellato da questa lusinghiera idea, Boxtel non poteva resistere all’ardente curiosità che lo divorava. Venuta la sera, egli appoggiò una scala al muro a confine e spiando là il suo vicino Baerle, si convinse che la terra di un quadrato smisurato, popolato poco fa di piante differenti, era stata rimescolata e deposta in tante caselle di terriccio mischiato di belletta di fiume, composizione essenzialmente simpatica ai tulipani, il tutto rinforzato di piote per impedirne i riscaldamenti. Inoltre sole di levante, sole di ponente, ombra fatta in maniera da smussare il caldo del meriggio; acqua abbondante prossima, esposizione al sud-sud-ovest, condizioni di necessità di mezzo non solo per la riuscita, ma per il progresso. Non più dubbio, Van Baerle era diventato tulipaniere. Boxtel figurassi su due piedi quel sapiente dai quattrocentomila fiorini di contante, dai diecimila fiorini di rendita, impiegante le sue risorse morali e fisiche alla cultura in grande dei tulipani. Ne travide il successo in un vago ma non lontano avvenire, e concepì anticipatamente un tal dolore, che le sue mani rilassandosi, le sue ginocchia piegandosi, ei disperato rotolò giù dalla sua scala. Cosicchè non era pe’ tulipani dipinti, ma pe’ tulipani reali che Van Baerle toglievagli un mezzo grado di calore; e di più aveva la più ammirabile delle esposizioni solari e una vasta stanza, dove conservare le sue cipollette e i suoi talli; stanza luminosa, ariosa, ventilata, ricchezze interdette a Boxtel, che era stato costretto di consacrare a quest’uso la sua camera, e che per non nuocere con l’influenza degli spiriti animali ai suoi talli e ai suoi ovoletti aveva fatto la privazione di dormire in granaio. Così uscio a uscio, muro a muro Boxtel andava ad avere un rivale, il quale invece di essere un giardiniere oscuro, sconosciuto, era il figlioccio di messer Cornelio de Witt, quanto dire una celebrità. Boxtel, si vede bene, aveva lo spirito men generoso di Poro, che consolavasi d’essere stato vinto dal grande Alessandro, precisamente a cagione della celebrità del suo vincitore. Difatti che accaderebbe se mai Van Baerle trovasse un nuovo tulipano e lo nominasse _Giovanni de Witt_ dopo averne nominato un altro la _Cornelia_? Sarebbe lo stesso che crepare di rabbia. Così nella sua previdenza invidiosa Boxtel profeta del suo male, indovinava quello che sarebbe accaduto. Per lo chè fatta questa scoperta, egli passò una notte la più esecrabile a immaginarsi. VI L’odio di un Tulipaniere. Da questo momento invece di una preoccupazione Boxtel ebbe una paura. Tutto ciò, che dà vigore e nobiltà agli sforzi del corpo e dello spirito, la cultura di un’idea favorita, Boxtel la perdette, macinando tutti li svantaggi, che causavagli il progetto del vicino. Van Baerle, come si può pensare, dal momento che intese a questo scopo la perfetta intelligenza, di cui avealo dotato la natura, riuscì ad allevare i più bei tulipani. Meglio degli orticultori dell’Aya e di Leida, città che offrono i terreni migliori e il clima il più sano, Cornelio riuscì a variarne i colori, a modificarne le forme, a moltiplicarne le specie. Egli era di quella ingegnosa e originale scuola del secolo XVII la quale prese per divisa questo aforismo sviluppato nel 1653 da uno dei suoi adetti: _È disprezzare Dio il disprezzare i fiori._ Premessa di cui la scuola tulipaniera, la più esclusiva delle scuole, fece nel 1653 il seguente sillogismo: _È disprezzare Dio il disprezzare i fiori._ _Più il fiore è bello, più disprezzandolo si offende Dio._ _Il tulipano è il più bello di tutti i fiori._ _Dunque chi disprezza il tulipano offende smisuratamente Dio._ Col qual ragionamento, si vede bene, se aiutato da cattiva volontà, i quattro o cinquemila tulipanieri di Olanda, di Francia e di Portogallo senza contare quelli del Ceylan, dell’India e della Cina, avrebbero messo l’universo fuori della legge e dichiarato scismatici, eretici e degni di morte più centinaia di milioni di uomini freddi pel tulipano. Non v’è dubbio nessuno che Boxtel per simile cagione, quantunque nemico mortale di Van Baerle, non avesse militato sotto la medesima bandiera. Dunque Van Baerle ottenne numerosi successi e fece parlare di sè tanto, che Boxtel disparve affatto dalla lista dei notabili tulipanieri dell’Olanda, e che la tulipaneria di Dordrecht fu rappresentata da Cornelio Van Baerle, modesto e inoffensivo sapiente. Similmente dal fusto il più umile la gemma fa germogliare i rampolli i più superbi, e la rosa canina dai quattro pètali incolori dà vita alla rosa gigantesca e profumata. Così le case reali hanno preso qualche volta nascimento dalla taberna di un beccaio o dalla capanna d’un pescatore. Van Baerle dedicato tutto ai lavori di semente, di piantagioni e di ricotte, carezzato da tutti i tulipanieri di Europa, non sospettava neppure per idea, che accanto a lui vi fosse un disgraziato tolto di piedistallo, di cui egli era l’usurpatore. Egli continuò le sue esperienze e per conseguenza le sue vittorie, e in due anni coperse le sue caselle di oggetti talmente maravigliosi, che nessuno mai, eccetto forse Shakspeare e Rubens, dopo Dio aveane tanti creati. Bisognava per avere un’idea d’un dannato dimenticato da Dante, vedere Boxtel in quel tempo. Mentre che Van Baerle sarchiava, sugava, innaffiava le sue caselle; mentre che inginocchiato sulle piote erbose analizzava ogni vena del tulipano in fioritura e meditava le modificazioni che vi si potevano fare, i maritaggi dei colori, che vi si potevano sperimentare, Boxtel nascosto dietro un piccolo sicomoro, che avea piantato lungo il muro, e di cui facevasi un ventaglio, seguiva con gli occhi gonfi, con la bocca spumante, ogni passo, ogni gesto del suo vicino; e quando credeva vederlo gioioso, quando sorprendeva un sorriso sulle di lui labbra, un lampo di contentezza nei di lui occhi, allora scagliavagli tante maledizioni, tante minacce furibonde, che non potevasi concepire, come quei soffi appestati d’invidia e di collera non andassero infiltrandosi negli steli dei fiori, a portarvi principii di scadimento e germi di morte. Ben presto, tanto il male una volta padrone di un’anima umana favvi rapidi progressi, Boxtel non gli piacque di veder più Van Baerle; ma volle vedere però i suoi fiori. Egli in fondo era artista, e stavangli a cuore i capi d’opera di un rivale. Egli comprò un telescopio, coll’aiuto del quale poteva seguire, bene quanto il proprietario ciascuna rivoluzione del fiore dal momento che germoglia nel primo anno il suo pallido rampollo fuori di terra fino a che dopo aver compito il suo periodo di cinque anni ei rotondeggia il suo nobile e grazioso cilindro, sul quale apparisce l’incerta vicenda del suo colore e si sviluppano i petali del fiore, che allora soltanto rivela i segreti tesori del suo calice. Oh! quante volte lo sfortunato invidioso, montato sulla sua scala, vide nelle caselle di Van Baerle tulipani che abbagliavano con la loro beltà, soffocavano per la loro perfezione! Allora, dopo il periodo di ammirazione ch’egli non poteva vincere, lo dibatteva la febbre dell’invidia, male che rode gl’intestini e che cangia il cuore in una miriade di serpentelli, che divoransi l’un l’altro, sorgente infame di orribili dolori. Qualche volta in mezzo ai suoi martirii, di cui descrizione nessuna potrebbe darne un’idea, Boxtel fu tentato di saltare di notte nel giardino, di sperperarvi le piante, di stritolare coi denti le cipolle e di sacrificare alla sua collera lo stesso proprietario se avesse osato difendere i suoi tulipani. Ma uccidere un tulipano agli occhi di un vero orticultore è un delitto troppo spaventevole! Uccidere un uomo meno assai. Intanto in grazia dei progressi che faceva ogni giorno Van Baerle nella scienza, che egli sembrava indovinare per istinto, Boxtel montò in tal parossismo di furore, che meditò di gettare pietre e randelli nelle caselle dei tulipani del suo vicino. Ma siccome riflettè che l’indomani alla vista del guasto Van Baerle farebbe il referto che si costaterebbe, essendo la strada lontana, che pietre e randelli non potevano cadere dal cielo nel XVII secolo, come ai tempi degli Amaleciti: che l’autore del delitto, benchè consumato nella notte, sarebbe scoperto e non solo punito dalla legge ma disonorato ancora per sempre agli occhi dell’Europa tulipaniera; perciò Boxtel assottigliò l’odio con la frode, risolvendo impiegare un mezzo che non lo potesse compromettere. Lo cercò, è vero, per un pezzo, ma alfine trovollo. Una sera attaccò due gatti per un piede di dietro con una funicella lunga dieci piedi, e gettolli dall’alto del muro in mezzo della casella maestra, della casella principesca e della casella reale, la quale conteneva non solo la _Cornelia de Witt_, ma anco la _Brabaziana_ bianca lattata, porporina e rosacea, la _Marbrèa_ di Rotre color panno greggio, rossa e incarnata accesa, e la _Meraviglia_ di Harlem, il tulipano _Tortora scuro_ e _Tortora chiaro sbiadito_. Quegli animali inferociti precipitando dall’alto del muro, ruzzolarono dapprima sulla casella, ciascuno dal canto suo cercando di fuggire, tantochè il filo che tenevali uniti, fu teso; ma allora sentendo la impossibilità dell’allontanarsi, vagarono qua e là con spaventevoli miagolati, troncando con la corda i fiori, in mezzo ai quali dibattevansi; poi finalmente dopo un quarto d’ora di lotta accanita, essendo giunti a strappare il filo, che accoppiavali, disparvero. Boxtel nascosto dietro il suo sicomoro non vedeva nulla a cagione della oscurità della notte; ma al grido arrabbiato dei gatti si figurò tutto, e il suo cuore traboccante di fiele riempissi di gioia. Il desiderio di assicurarsi del guasto commesso era sì grande nel cuore di Boxtel che restò fino a giorno per godere con gli occhi proprii dello stato, in cui la lotta dei due gattacci avesse messo la casella del suo vicino. Egli era gelato per la brina mattinale; ma non sentiva il freddo, perchè scaldavalo la speranza della vendetta. Il crepacuore del suo rivale l’avrebbe ricompensato di tante sue pene. Ai primi raggi del sole si aperse la porta della casa bianca; Van Baerle mostrossi, e si avvicinò alle sue caselle, sorridendo come un uomo che ha riposato nel suo letto, e che vi ha fatto dei buoni sogni. Tutto a un tratto s’accorse dei solchi e dei monticelli su quel terreno che la vigilia avea lasciato pari come uno specchio; tutto a un tratto si accorse che le file simmetriche de’ suoi tulipani erano scomposte, come sono le picche di un battaglione in mezzo a cui sia caduta una bomba. Tutto pallido accorse; e Boxtel trasalì di contento. Quindici o venti tulipani sminuzzati, pestati giacevano curvi o tronchi affatto già appassiti; colava il latte dalle loro ferite, il latte, prezioso sangue che Van Baerle avrebbe voluto ricomprare a prezzo del proprio. Ma oh! sorpresa! oh! gioia di Van Baerle! oh! dolore inesplicabile di Boxtel! neppur’uno dei quattro tulipani minacciati dall’attentato dell’ultimo erano stati tocchi; e alzavano superbamente le loro nobili teste sopra i cadaveri dei loro compagni. Ciò era molto per consolare Van Baerle, ciò era molto per far crepare di rabbia l’assassino, che stracciavasi i capelli alla vista del suo commesso delitto e commesso inutilmente. Van Baerle, deplorando la sciagura che colpivalo, sciagura che per grazia di Dio era del resto meno grande che non avrebbe potuto essere, non potè indovinarne la causa. Informossi solo, e intese tutta la notte era stata turbata da terribili miagolati. Di fatti ci conobbe che v’erano passati dei gatti per le tracce improntate da’ loro artigli, per il pelo lasciato sul campo di battaglia, sul quale le gocce impassibili della rugiada tremolavano come facevano accanto sopra le foglie di un fiore calpestato; onde per evitare che un simile malore si rinnovasse in avvenire, ordinò che un garzone giardiniere dormisse ogni notte nel giardino dentro un casotto presso la casella. Boxtel sentì dare l’ordine. Egli vide fare il casotto quel giorno medesimo, e troppo fortunato di non essere stato preso in sospetto, ma però più invelenito contro quel felice orticultore, attese migliori occasioni. Ciò accadde verso l’epoca che la società tulipaniera di Harlem propose un premio per chi scoprisse, noi non osiamo dire, per chi fabbricasse il gran Tulipano Nero, però senza vergature, problema non risoluto e riguardato come insolubile, se si consideri che a questa epoca la specie non esisteva neppure allo stato del bistro in natura. Il che faceva supporre a ognuno che i promotori del primo avrebbero potuto eziandio assegnare due milioni invece di cento mila lire; tanto la cosa era impossibile. Il mondo tulipaniero non fu meno compreso di stupore di una tale proposta. Pure alcuni amatori ne presero l’idea, ma senza credere alla sua applicazione. Nulladimeno è tale la potenza immaginaria degli orticultori, che riconosciuta fin da principio senza fondamento la loro speculazione, non pensassero al momento che al gran tulipano nero, reputato chimera come il cigno nero d’Orazio e come il merlo bianco della tradizione francese. Van Baerle fu uno dei tulipanieri, che ne prendesse l’idea; Boxtel fu uno di quelli, che si attennero alla speculazione. Dal momento che Van Baerle si ficcò tale idea nella sua testa perspicace e ingegnosa, cominciò la sementa e le operazioni necessarie per condurre dal rosso al bruno e dal bruno al bruno assoluto, i tulipani che aveva finallora coltivati. L’anno innanzi aveva ottenuto prodotti di un bistro perfetto, e Boxtel li vide nella di lui casella, mentrechè egli non aveva trovato ancora che il bruno chiaro. Sarebbe forse importante spiegare ai lettori le belle teorie, che consistono a provare che il tulipano impronta agli elementi i suoi colori; ci si saprebbe forse buon grado lo stabilire che niente sia impossibile all’orticultore, che mette a contribuzione, non già la sua pazienza e il suo genio, ma la freschezza delle acque, i succhi della terra, lo spirare dell’aria e il calore del sole. Ma questo non è un trattato sul tulipano in generale, è la storia di un tulipano in particolare che noi ci siamo risoluti di scrivere; noi faremo punto per quanti attraenti vi potessero essere sul proposto soggetto. Boxtel vinto anche una volta dalla superiorità del suo nemico, disgustossi della cultura, e mezzo pazzo dedicossi tutto alla osservazione. La casa del suo rivale era dominata. Giardino aperto al sole, gabinetto vetriato visibile; visibili cassette, armarj, involti e etichette, alle quali il canocchiale giungeva facilmente. Boxtel lasciò perire le cipollette nei loro postimi, seccare i semi nelle loro casse, morire i tulipani nelle cassette, e ormai vivendo solo per vedere, non si occupò che di quello che accadeva presso Van Baerle, sospirando a’ bei steli dei di lui tulipani, dissetandosi con l’acqua che loro gettavasi, e saziandosi della terra molle e fine che sovrapponeva il suo vicino alle sue benamate cipollette. Ma la più curiosa delle operazioni non operavasi nel giardino. Suonava il tocco dopo la mezzanotte; e Van Baerle saliva al laboratorio nel suo gabinetto invetriato, dove il canocchiale di Boxtel giungeva benissimo, e là mercè la lucerna del sapiente facente le veci del lume diurno, la quale illuminava muro e finestre, dava possibilità di veder funzionare il genio inventivo del rivale. Boxtel lo vedeva manipolante i suoi semi e umettanteli di sostanze destinate a modificarli o a colorirli; e osservavalo attentamente, quando riscaldando certi suoi semi, bagnandoli poi, poi combinandoli con altri con una specie d’innesto, operazione minuziosa e maravigliosamente accorta, chiudeva allo scuro quelli, che dovevano dare il color nero, esponeva al sole o al lume quelli che dovevano dare il color rosso, metteva ad un continuo reflesso dell’acqua quelli che dovevano fornire il bianco, candida rappresentanza ermetica dell’umido elemento. Questa magia innocente, frutto delle visioni infantili e del genio virile uniti insieme, questa paziente occupazione continua, della quale Boxtel riconoscevasi incapace, faceva sì che l’invidioso versasse nel canocchiale tutta la sua vita, tutto il suo pensiero, tutta la sua speranza. Cosa strana! tanto interesse e l’amor proprio dell’arte non avevano estinto in Isacco l’invidia feroce e l’assetata vendetta. Qualche volta avendo sotto il suo canocchiale Van Baerle, era preso dalla illusione d’imberciarlo con un moschetto infallibile, e cercava col dito il grilletto per esplodere il colpo che lo doveva uccidere. Ma è tempo che riattacchiamo a quest’epoca delle fatiche dell’uno e dello spionaggio dell’altro la visita, che Cornelio de Witt, _ruward_ di Pulten, faceva alla sua città natale. VII L’uomo felice fa conoscenza con l’infelicità. Cornelio dopo avere sbrigato gli affari di famiglia, arrivò dal suo figlioccio Cornelio Van Baerle nel mese di gennajo 1672. Facevasi notte. Cornelio benchè assai poco orticultore, benchè assai poco artista, visitò tutta la casa, poi l’opificio fino ai tepidarii, e poi i quadri fino ai tulipani. Ei ringraziò il suo figlioccio d’essersi esposto sul ponte dell’ammiraglia _le Sette Province_ durante la battaglia di Southwood-Bay e di aver dato il suo nome a un magnifico tulipano; e tutto ciò con la compiacenza e l’affabilità di un padre per un figlio. Ed infrattanto, che egli ispezionava così i tesori di Van Baerle, la folla curiosa stava con rispetto alla porta dell’uomo felice. Tutto quel frastuono svegliò l’attenzione di Boxtel, che se ne stava presso al fuoco. S’informò di ciò che fosse, lo seppe, e svignò al suo laboratorio, dove malgrado il freddo s’istallò con l’occhio al canocchiale. Questo canocchiale non gli era più di una grande utilità dopo l’autunno del 1671; perchè i tulipani freddolosi come tutti i veri figli dell’Oriente, non potevansi coltivare a cielo aperto nel tempo d’inverno. Eglino hanno di bisogno dell’interno della casa, del letto delicato delle cassettine, e delle dolci carezze della stufa. Però tutto l’inverno passavalo Cornelio nel suo laboratorio in mezzo ai libri ed ai suoi quadri. Raramente andava nella stanza delle cipollette, se non nel caso di farvi penetrare qualche po’ di sole, appena presentassesi, che faceva cadere, aprendo una ribalta di vetri, volesse o non volesse, dentro quel recinto. La sera, di cui noi parliamo, dopochè il de Witt e Cornelio avevano insieme visitato gli appartamenti, seguiti da alcuni domestici: — Figlio mio, disse sottovoce Cornelio a Van Baerle, licenziate questa gente e permettete che restiamo alcuni momenti soli. Cornelius fece cenno di obbedire; e poi a voce alta: — Signore, vi piacerebbe, disse Van Baerle, di visitare adesso il mio prosciugatoio dei tulipani? Il prosciugatoio, questo _Pandemonio_ della tulipanerìa, questo _santo santorum_, era già come in Delfo interdetto ai profani. Nessun servo mai aveavi messo il piede audace, come avrebbe detto il gran Racine, che fioriva a quest’epoca. Cornelius non vi lasciava penetrare che la granata inoffensiva di una vecchia servente frisiana, già sua balia, la quale dacchè Cornelius erasi dedicata al culto dei tulipani, non osava mettere più cipollette negli stracotti per paura di scorticare e di assassinare gli Dei del suo allattato. Cosicchè alla sola parola di _prosciugatoio_, i servi che portavano i doppieri si allontanarono rispettosamente. Cornelius prese la candela di mano del più vicino e precedette il suo compare nella stanza. Aggiunghiamo a ciò che siamo per dire, che il prosciugatoio era quello stesso gabinetto invetriato, sul quale Boxtel puntava incessantemente il suo canocchiale. L’invidioso era più che mai immobile al suo posto. Ei vide dapprima rischiarare le mura e le vetrate, e poi apparire due ombre. L’una d’esse maestosa, grande, severa si assise presso la tavola, dove Cornelio avea depositalo la candela. In quest’ombra Boxtel riconobbe il viso pallido di Cornelio de Witt, i cui lunghi capelli neri divisi sulla fronte cadevano sulle sue spalle. Il _ruward_ di Pulten dopo aver detto a Cornelius alcune parole, di cui l’invidioso non potè comprenderne il senso al movimento delle labbra, cavò di seno un involto bianco diligentemente chiuso, e glie lo porse; il quale involto Boxtel al modo con cui Cornelius lo prese e lo depose in un armadio, sospettò potessero essere fogli della più grande importanza. Egli dapprima pensò che quell’involto prezioso racchiudesse qualche tallo nuovamente venuto dal Bengala o dal Ceylan; ma avea ben tosto pensato che Cornelio punto coltivava i tulipani e non occupavasi d’altro che dell’uomo, cattiva pianta, molto meno gradevole a vedersi e soprattutto ben più difficile a farsi fiorire. Fermossi dunque a questa idea che quell’involto contenesse puramente e semplicemente fogli riguardanti politica. Ma perchè dare dei fogli riguardanti politica a Cornelius, che non solo era, ma si vantava essere tutt’affatto estraneo a quella scienza ben più oscura a suo parere della chimica e dell’alchimìa ancora? Senza dubbio era un deposito che Cornelio già minacciato dalla impopolarità, di cui cominciavano a onorarlo i suoi compatriotti, consegnava al suo battezzato Van Baerle; e la cosa era tanto più probabile per parte del _ruward_ per la certezza che presso Cornelius estraneo ad ogni intrigo non sarebbesi pensato a inquisire un simile deposito. D’altronde se l’involto avesse contenuto cipollette, Boxtel conosceva il suo vicino, che non si sarebbe potuto tenere senza dubbio come appassionato amatore di non guardare e apprezzare il presente che venivagli fatto. Invece al contrario Cornelius ricevette rispettosamente il deposito dalle mani del _ruward_, e sempre rispettosamente riposelo in un armadio, ma però in fondo, certamente perchè non si potesse vedere in primo punto, e in secondo perchè non occupasse molto posto riserbato alle sue cipollette. Appena riposto l’involto, Cornelio de Witt alzossi, e stretta la mano al suo figlioccio s’incamminò verso la porta. Van Baerle prese in fretta la candela, e gli corse innanzi per fargli gentilmente lume. Allora il chiarore insensibilmente si estinse nel gabinetto invetriato per andare a ricomparire nella scala, poi sotto il vestibolo e finalmente nella strada, ancora ingombrata di gente, che volevano vedere rimontare in carrozza il _ruward_. L’invidioso non erasi punto ingannato nelle sue supposizioni; che il deposito accuratamente consegnato fosse la corrispondenza di Giovanni con il de Louvois. Solamente tale deposito era stato consegnato, come poi Cornelio disse al fratello, senzachè ne facesse neppure alla lontana sospettare l’importanza politica al suo figlioccio. La sola raccomandazione che gli fece, fu di non consegnare il deposito che a lui, o con un ordine suo in iscritto, qualunque si fosse la persona che venisse a ricercarlo. E Van Baerle, come abbiamo visto, aveva chiuso il deposito nell’armadio delle cipollette rare. Poi, il _ruward_ partito, brusìo e chiarore estinti, il nostro galantuomo non aveva più pensato a quell’involto, al quale però pensava fissamente Boxtel, che simile all’esperto pilota vedeva in quello la nuvoletta lontana e microscopica, che ingrandisce camminando e che chiude in seno l’uragano. Ed ora ecco tutti i germi della nostra storia piantati nel grasso terreno che estendesi da Dordrecht all’Aya. La segua chi vuole nei successivi capitoli; che quanto a noi non per altro ci siamo fin qui allungati se non per provare che nè Cornelio nè Giovanni de Witt non ebbero in tutta Olanda un più feroce nemico di quello che Van Baerle aveva nel suo vicino Isacco Boxtel. Tuttavolta il tulipaniere vivendo di tutto ciò allo scuro, aveva fatto cammino verso la meta proposta della società di Harlem, ed era passato dal tulipano bistro al tulipano caffè bruciato. Ora tornando a lui nel giorno medesimo, che succedeva all’Aya il grande avvenimento da noi già raccontato, lo ritroviamo verso il tocco dopo mezzogiorno levare dalla sua casella le cipollette ancora infruttifere di una semenza da tulipani caffè bruciato, la cui fioritura fino a quel momento abortita era fissata al principio dell’anno 1673, la quale non poteva mancare di dare il gran tulipano nero richiesto dalla società di Harlem. Il 20 agosto 1672 al tocco dopo mezzogiorno Cornelio era dunque nel suo prosciugatoio co’ piedi sulla traversa della sua tavola, co’ gomiti sul tappeto, considerando con deliziosissima curiosità tre talli che separava dalla cipolletta: talli puri, perfetti, intatti, primordii impagabili di uno dei più maravigliosi prodotti della scienza e della natura, uniti in tale combinazione, la cui riuscita doveva illustrare per sempre il nome di Cornelio Van Baerle. — Sì, troverò il gran tulipano nero, diceva tra sè Cornelio, separando i talli; mi toccheranno i cento mila fiorini del premio proposto, che io distribuirò ai poveri di Dordrecht; e in questo modo l’ira che ogni ricco ispira nelle guerre civili, acquieterassi, e così io potrò senza punto temere dei repubblicani o degli orangisti, continuare a tenere le mie casellette in magnifico stato. Non temerò più che in un giorno di sommossa i bottegai di Dordrecht e i marinai del porto vengano a sbarbare le mie cipollette per nutrire le loro famiglie, come mi sono qualche volta sentito sussurrare dietro, quando sia stato loro referito che ho comprato una cipolletta per due o trecento fiorini. Io donerò dunque, sta fermo, i cento mila fiorini di premio ai poveri; benchè.... E a questo _benchè_ Cornelio Van Baerle fece una pausa e sospirò. — Benchè, riprese, que’ centomila fiorini applicati all’ingrandimento del mio plantario oppure ad un viaggio nell’Oriente patria de’ bei fiori sarebbe una spesa ben più dolce. Ma ohimè! non v’è luogo a pensare a tutto questo; moschetti, bandiere, tamburi e proclami, ecco ciò che domina al presente! Van Baerle levò gli occhi al cielo e sospirò; poi chinò il suo sguardo verso le sue cipollette, che nel suo spirito andavano bene innanzi ai moschetti, ai tamburi, alle bandiere e ai proclami tutte cose solo atte a turbare lo spirito di un galantuomo: — Ecco intanto dei graziosissimi talli, riprese; come sono lisci, come ben fatti; hanno una tale aria melanconica, che promette assolutamente il nero al mio tulipano! Sotto la loro pelle le vene di circolazione non si vedono ancora ad occhio nudo! Oh! dicerto non una macchiolina guasterà la veste di doglia del fiore che dovrammi i suoi giorni... Come chiamerassi questa figlia delle mie veglie, della mia fatica, del mio pensiero? _Tulipa nigra Barlaeensis_. «Sì, _Barlaeensis_; che bel nome! Tutta l’Europa tulipaniera, quanto dire tutta l’Europa intelligente, sarà sorpresa, quando il rumore trascorrerà su i venti ai quattro punti cardinali del globo: IL GRAN TULIPANO NERO È TROVATO! — Il suo nome? domanderanno gli amatori. — _Tulipano nero Barlaeense_. — Perchè _Barlaeense_? — A cagione del suo inventore Van Baerle, sarà risposto. — E chi è questo Van Baerle? — È quello stesso che ha già trovato cinque specie nuove: _la Giovanna, la Giovanni de Witt, la Cornelia_, ecc. Ebbene, ecco la mia ambizione: non costerà una lacrima di chicchessia; e parlerassi ancora della _Tulipa nigra Barlaeensis_ quando forse il mio compare così sublime politico non sarà più conosciuto che pel tulipano al quale ho già dato il suo nome. «Che talli graziosi!... «Quando il mio tulipano avrà fiorito, continuò Cornelio, io voglio, se la tranquillità sarà tornata in Olanda, dare ai poveri soli cinquantamila fiorini; alla fin fine non è mica poco per un uomo che non è po’ poi obbligato a niente. Allora co’ cinquantamila fiorini farò nuove sperienze; con que’ cinquantamila fiorini voglio arrivare a profumare il tulipano. Oh! se potessi arrivare a dare al tulipano l’odore della rosa o del garofano, oppure un odore affatto nuovo, che sarebbe ancor meglio. Se io rendessi a questa regina dei fiori il generico natural profumo, che ella ha perduto passando dal suo trono d’Oriente sul suo trono europeo, quello che deve avere nella penisola dell’India, a Goa, a Bombay, a Madras, e soprattutto in quell’isola, che una volta, come ci si assicura, fu il paradiso terrestre e che si chiama Ceylan, oh! qual gloria sarebbe! Amerei meglio, lo confesso, amerei meglio allora essere Cornelio Van Baerle che Alessandro, Cesare o Massimiliano. «Che talli ammirabili!...» E Cornelio si dilettava nella sua contemplazione e tutto si assorbiva nei sogni i più dolci; quando all’improvviso il campanello del suo gabinetto fu suonato più forte del solito. Ei trasalì, stese la mano sopra i suoi talli e si volse. — Chi è? domandò. — Signore, rispose il servitore, è un espresso dall’Aya. — Un espresso dall’Aya... Che vuol’egli? — Signore, è Craeke. — Il cameriere di confidenza del signor Giovanni de Witt? — Bene! Che aspetti. — Non posso aspettare, disse una voce nel corridoio. E nel tempo medesimo senza permesso Craeke si precipitò nel prosciugatoio. Questa apparizione che puzzava di violenza, era una tale infrazione alle abitudini stabilite nella casa di Cornelio Van Baerle, che costui scorgendo Craeke precipitantesi nella stanza, fece un tal moto convulsivo con la mano, che copriva i talli, da far saltar via due cipollette, una sotto al tavolino vicino alla gran tavola, e l’altra nel cammino. — Ah diavolo! disse Cornelio precipitandosi dietro alle sue cipolle; che v’è dunque, o Craeke? — V’è, signore, rispose Craeke, depositando il foglio sulla gran tavola, dov’era rimasta la terza cipolletta: v’è che voi siete invitato a leggere questo foglio senza perdere un solo istante. E Craeke che avea creduto rimarcare nelle vie di Dordrecht i sintomi di un tumulto simile a quello, che avea poco fa lasciato all’Aya, fuggì senza volgersi indietro. — Bene! bene! mio caro Craeke, disse Cornelio stendendo il braccio sotto la tavola per raccogliervi il tallo prezioso; la leggerò, la tua lettera. Poi raccogliendo la cipolletta, che messe nel cavo della sua mano per esaminarla: — Buono! disse, eccone già una intatta. Demonio di Craeke, veh! entrar così nel mio prosciugatoio. Vediamo l’altra. E senza posarla, Van Baerle si avvicinò al cammino, e in ginocchioni con la punta del dito si mise a razzolare la cenere, che fortunatamente era diaccia. Dopo un momento sentì la seconda cipolletta. — Buono, disse, eccola. E osservandola con una attenzione quasi paterna: — Intatta come la prima, soggiunse. Nel medesimo istante che Cornelio ancora ginocchioni esaminava la seconda cipolletta, la porta del prosciugatoio fu scossa così violentemente e di tal maniera si aperse che Cornelio sentì montarsi al viso e alle orecchie la fiamma di quella trista consigliera che chiamasi collera. — Che c’è da capo? domandò. Ohè! che si è pazzi qua dentro? — Signore, signore, gridò un domestico precipitandosi nel prosciugatoio col viso più pallido e il fare più spaventato di quello che non l’avesse Craeke. — Ebbene? chiese Cornelio presagendo una disgrazia a questa doppia infrazione di tutte le regole. — Ah! signore, fuggite, fuggite presto! gridò il domestico. — Fuggire! e perchè? — La casa è piena di guardie degli Stati. — Che domandano? — Vi cercano. — Per che fare? — Per arrestarvi. — Per arrestarmi, me? — Sì, o signore; e sono preceduti da un cancelliere. — Che vuol dir ciò? dimandò Van Baerle serrando i suoi due talli nella sua mano, e ficcando l’occhio spaventato verso la scala. — Salgono, salgono! gridò il servitore. — Oh! mio caro figlio, mio degno padrone, gridò la balia, facendo anch’ella a suo turno l’entrata nel prosciugatoio. Prendete il vostr’oro, le vostre gioie, e fuggite, fuggite! — Ma dove vuoi che io fugga, balia mia? domandò Van Baerle. — Saltate dalla finestra. — Venticinque piedi? — Cadrete sopra sei piedi di terra smossa. — Sì, ma cadrei sopra i miei tulipani. — Non importa, saltate. Cornelio prese il terzo tallo, si avvicinò alla finestra, l’aprì, ma all’aspetto del guasto che avrebbe causato nelle sue caselle ben più che alla vista dell’altezza che bisognerebbe saltare. — Mai! disse, e fece un passo indietro. In questo momento vedevansi riflettere nei muri della branca di scala le alabarde dei soldati. La nutrice alzò le braccia al cielo. Quanto a Cornelio Van Baerle, bisogna dirlo a lode non già dell’uomo, ma del tulipaniere, la sua sola preoccupazione fu per i suoi inestimabili talli. Cercò cogli occhi una carta dove involgerli, scòrse il foglio della Bibbia posato da Craeke, lo prese senza ricordarsi, tanto era grande il suo turbamento, donde gli fosse venuto, e involtandovi le tre cipollette, se le nascose in petto, aspettando. I soldati preceduti dal cancelliere entrarono in quel momento. — Siete voi il dottore Cornelio Van Baerle? domandò il cancelliere, benchè lo conoscesse perfettamente; ma in ciò conformavasi alle regole della procedura; il che dava, come si vede, una somma gravità alla interrogazione. — Son’io, messer Van Spennen, rispose Cornelio salutando gentilmente il suo processante; e voi ben lo sapete. — Allora consegnateci le carte sediziose che voi nascondete. — Le carte sediziose? ripetè Cornelio tutto sbalordito dell’apostrofe. — Non fate lo stordito. — Io vi giuro, Messer Van Spennen, riprese Cornelio, che io non so davvero cosa vi vogliate dire. — Allora, o dottore, vi metterò sulla via, disse il giudice; consegnateci le carte che il traditore Cornelio de Witt ha depositato presso di voi nel mese di gennaio decorso. Un lampo traversò la mente di Cornelio. — Oh! oh! disse Van Spennen, ecco, ecco che cominciate a ricordarvene, eh? — Senza dubbio voi parlate di carte sediziose ed io non ho carte di questo genere. — Oh! negate? — Certamente. Il cancelliere scorse con un’occhiata tutto il gabinetto e domandò: — Quale stanza di vostra casa chiamasi prosciugatoio? — Questa appunto, dove siamo, messer Van Spennen. Il cancelliere gettò un rapido sguardo sopra una piccola nota posta a principio del suo processo. — Va bene, disse come un uomo che è assorto. Poi rivolgendosi a Cornelio, disse: — Volete voi consegnarci i fogli? — Non posso, messer Van Spennen. Quelle carte non mi appartengono punto; mi sono state rimesse a titolo di deposito, e un deposito è sacrosanto. — Dottor Cornelio, disse il cancelliere, a nome degli Stati, vi comando di aprire quella cassetta, e di consegnarmi le carte che vi sono chiuse. E col dito accennò per l’appunto la terza cassetta di un armario posto presso il cammino. Le carte consegnate dal _ruward_ di Pulten al suo figlioccio erano effettivamente in quella terza cassetta; pruova che la polizia era stata bene informata. — Ah! non volete farlo? disse Van Spennen; vedendo che Cornelio era rimasto pietrificato dallo stupore. L’aprirò da me. E tirando la cassetta fino in fondo, il cancelliere pose dapprima in vista una ventina di cipollette, disposte e segnate accuratamente; poi veniva l’involto di carte esattamente nel medesimo stato, in cui aveale rimesse al suo figlioccio il disgraziato Cornelio de Witt. Il cancelliere ruppe i sigilli, strappò l’involto, gettò un’occhiata avida sulle prime pagine che gli si offersero al guardo, e gridò d’una voce terribile. — Ah! la giustizia non aveva dunque ricevuto un falso rapporto. — Come! disse Cornelio; che c’è dunque? — Non mi fate più il nesci, o Van Baerle, rispose il cancelliere e seguiteci. — Come! seguirvi! io? esclamò il dottore. — Sicuro, perchè a nome degli Stati io vi arresto. Non si arrestava ancora a nome di Guglielmo d’Orange, che per far questo non era da molto tempo Statolder. — Mi arrestate! esclamò Cornelio; ma cosa ho dunque fatto? — Ciò a me non spetta, o dottore; ve la intenderete coi vostri giudici. — E dove? — All’Aya. Cornelio stupefatto abbracciò la sua vecchia balia, che sveniva, diede la mano ai suoi servitori che struggevansi in lacrime, e seguì il cancelliere che chiuselo in una vettura come un prigioniero di stato e fecelo tradurre di gran galoppo all’Aya. VIII La Camera di famiglia. Tutto ciò che è accaduto, era, come ognuno se lo indovina, l’opera diabolica d’Isacco Boxtel. Ci si rammenti che con l’aiuto del suo cannocchiale, non avea perduto la minima cosa dell’abboccamento di Cornelio de Witt e il suo battezzato. Ci si rammenti che non avea inteso nulla, ma che avea visto tutto. Ci si rammenti, ch’egli aveva indovinato l’importanza di quelle carte confidate dal _ruward_ di Pulten al suo figlioccio, vedendo quest’ultimo chiudere accuratamente l’involto a lui rimesso nella cassetta, dove serrava le sue cipollette le più preziose. Ne resultò che, allorquando Boxtel, che seguiva la politica con un poco più di attenzione del suo vicino Cornelio, seppe che Cornelio de Witt era stato arrestato come colpevole di alto tradimento verso gli Stati, pensò tra sè che ei non aveva che ad aprir bocca per fare arrestare il figlioccio contemporaneamente al compare. Però per quanto iroso fosse il cuore di Boxtel, ei abbrividì sulle prime all’idea di denunziare un uomo, che da una tal denunzia potrebbe essere condotto al patibolo. Ma il terribile delle idee cattive si è che a poco a poco li spiriti malvagi si familiarizzino con quelle. D’altronde Isacco Boxtel incoraggiavasi con questo sofisma: «Cornelio de Witt è un cattivo cittadino, dacchè è accusato di alto tradimento e arrestato. «Io sono un buon cittadino, dacchè non sono accusato di niente al mondo e che sono libero come l’aria. «Ora se Cornelio de Witt è un cattivo cittadino, il che è indubitato, dacchè è accusato di alto tradimento e arrestato, il suo complice Cornelio Van Baerle è un cittadino non meno cattivo di lui. «Dunque, siccome io sono un buon cittadino, ed è dovere dei buoni cittadini di denunziare i cattivi, è dovere di me Isacco Boxtel di denunziare Cornelio Van Baerle». Ma questo ragionamento non avrebbe forse, per ispecioso che fosse, predominato completamente su lui, e forse l’invido non avrebbe ceduto al semplice desiderio di vendetta che rodevalo, se a quel demone non si fosse unito quello della cupidigia. Boxtel non ignorava il punto in cui era delle sue ricerche Van Baerle intorno al gran tulipano nero. Per modesto che fosse il dottor Cornelio, non aveva potuto nascondere ai suoi più intimi che egli aveva la quasi certezza di guadagnare nell’anno di grazia 1673 il premio di centomila fiorini proposto dalla società di orticultura di Harlem. Ora questa quasi certezza di Cornelio Van Baerle l’era la febbre che consumava Isacco Boxtel. Se Cornelio fosse stato arrestato, ciò cagionerebbe certamente un grande scompiglio nella di lui casa; e perciò la notte successiva all’arresto nessuno avrebbe pensato a vigilare su i tulipani del giardino. Ora in quella notte Boxtel scavalcherebbe il muro, e siccome egli sapeva dov’era la cipolletta, che doveva dare il gran tulipano nero, la porterebbe via; e così invece di fiorire presso Cornelio, il tulipano nero fiorirebbe presso di lui, ed egli ne avrebbe i centomila fiorini di premio invece di Van Baerle, senza porre in conto il supremo onore di chiamare il nuovo fiore _tulipa nigra Boxtellensis_, resultato che non solo appagava la sua vendetta, ma ancora la sua cupidigia. Sveglio, non pensava che al gran tulipano nero; addormentato non sognava che quello. Finalmente il 19 agosto verso le due dopo mezzogiorno, la tentazione fu così forte, che Isacco non vi seppe più resistere a lungo. In conseguenza indirizzò una denunzia anonima, alla quale suppliva, per autenticarla, la precisione delle indicazioni, e gettolla alla posta. Mai carta più venefica sdrucciolata per le buche di bronzo di Venezia produsse un più pronto e un più terribile effetto. La stessa sera il primo magistrato ricevè il dispaccio; e all’istante convocò i suoi colleghi per l’indomani mattina. La dimane eransi riuniti, ne aveano deciso l’arresto e rimesso l’ordine, affinchè fosse eseguito, a messer Van Spennen, che erasi assunto, come abbiam visto, tal dovere di degno olandese, ed aveva arrestato Cornelio Van Baerle proprio nel momento in cui gli orangisti dell’Aya arrostivano i pezzi dei cadaveri di Cornelio e di Giovanni de Witt. Ma fosse vergogna o debolezza nel delitto, Isacco Boxtel non aveva avuto il coraggio di puntare in quel giorno il suo canocchiale nè sul giardino, nè sullo studio, nè sul prosciugatoio. Ei sapeva troppo bene ciò che andasse a succedere in casa del povero dottore Cornelio per aver di bisogno di guardarvi. Non si alzò neppure, allorquando il suo unico servitore, che invidiava la sorte dei servitori di Van Baerle, non meno amaramente che invidiasse Boxtel la sorte del padrone, entrò nella sua camera. Boxtel gli disse: — Oggi non mi leverei; mi sento male. Verso le nove sentì un gran baccano nella strada e rabbrividì a quello strepito; in quel momento era più pallido di un vero ammalato, più tremante di un vero febbroso. Il suo servo entrò; Boxtel cacciossi dentro le coperte. — Ah! signore, esclamò il servo senza porre in dubbio che egli, deplorando la disgrazia sopraggiunta a Van Baerle, andava a dare una buona nuova al suo padrone; ah! signore, voi non sapete ciò che ora succede? — Come vuoi che io lo sappia? rispose Boxtel con voce quasi inintelligibile. — Ebbene! in questo momento si arresta il vostro vicino Van Baerle come complice di alto tradimento. — Uh! mormorò Boxtel con una voce fioca, non è possibile! — Madonna! almeno è ciò che si dice; d’altronde ho veduto entrare da lui il cancelliere Van Spennen e gli arcieri. — Oh! se hai visto, sarà. — In ogni caso, voglio informarmi di nuovo, disse il servo, e non dubitate, o signore, che terrovvi in corrente. Boxtel contentossi d’incoraggire con un cenno lo zelo del suo servitore, che uscì e tornò un quarto d’ora dopo. — Oh! signore, tutto quello che vi ho raccontato, l’era pretta verità! — Come va? — Il signor Van Baerle è arrestato, messo in una vettura e spedito all’Aya. — All’Aya? — Sì; e dove, se è vero ciò che si dice, non gli anderà bene. — E che si dice? domandò Boxtel. — Madonna! si dice, ma questo non è ben sicuro, si dice, o signore, che i paesani siano sul tiro a quest’ora d’avere assassinato i signori Cornelio e Giovanni de Witt. — Oh! mormorò o piuttosto ragghiò Boxtel chiudendo gli occhi come per non vedere la terribile immagine che offrivasi senza dubbio ai suoi sguardi. — Diavolo! fece il servo ritirandosi, bisogna che il padrone sia ben malato per non aver saltato dal letto a un simile annunzio. Difatti Boxtel era veramente malato, malato come un uomo che ha assassinato un altro uomo. Ma egli aveva assassinato uno con doppio scopo; il primo era compiuto; il secondo restava a compirsi. Venne la notte; era quella che aspettava Boxtel. Alzossi, e poi montò sul suo sicomoro. Egli aveva ben calcolato; nessuno pensava a guardare il giardino; casa e servitori erano silenziosi. Egli sentì in seguito battere le dieci, le undici, mezzanotte. A mezzanotte il cuore palpitante, le mani convulse, il viso livido, scese dal suo albero, prese una scala, appoggiolla al muro, salì fino al penultimo scalino e si mise in orecchi. Tutto era tranquillo; nemmeno un alito rompeva il silenzio della notte. Un solo lume vigilava in tutta la casa: era quello della balia. Il silenzio e l’oscurità fecero ardito Boxtel; cavalcò il muro; e poi ben sicuro che non aveva nulla a temere, passò la scala dal suo nell’altro giardino e discese. Quindi, siccome sapeva la direzione del luogo, ov’erano sotterrate le cipollette del futuro tulipano nero, vi corse, seguendo però le viottole per non essere tradito dalle orme de’ suoi piedi, e arrivato al luogo preciso, con una gioia di tigre ficcò le sue mani nel molle terreno. Non trovò nulla e credette essersi ingannato. Intanto il sudore gli gocciava dalla fronte. Frugò accanto: niente; frugò a diritta e a sinistra: niente; frugò d’avanti e di dietro: niente. Fu per divenir pazzo, perchè alla fine si accorse che in quella stessa mattina la terra era stata smossa. Infatti, mentre Boxtel era in letto, Cornelio era sceso nel suo giardino, aveva disotterrato la cipolletta e, come lo abbiamo visto, aveala divisa in tre talli. Boxtel non poteva decidersi ad abbandonare il posto. Aveva rimescolato con le mani più di dieci piedi quadrati di terra. Finalmente non restavagli più nessun dubbio sulla sua disgrazia. Bianco di collera, riguadagnò la sua scala, ricalvalcò il muro, ripassò la scala nel suo giardino, e vi scese incontinente. Ad un tratto gli sopravvenne un’ultima speranza: che i talli fossero nel prosciugatoio. Bisognava penetrare nel prosciugatoio come era penetrato nel giardino. Colà li troverebbe. Del resto non eravi altra difficoltà. Le vetrate del prosciugatoio alzavansi come quelle di una chiusa. Cornelio aveale aperte la stessa mattina e nessuno aveva pensato a richiuderle. Il forte era di procurarsi una scala assai più lunga, una scala di venti piedi invece di dodici. Boxtel aveva rimarcato nella via dov’egli abitava, una casa in riattazione, a cui stava appoggiata una scala gigantesca. L’era a proposito per lui, se i manifattori non l’avessero remossa. Corse alla casa, e la scala v’era. Boxtel la prese e la portò a mala pena nel suo giardino; e con pena anche maggiore dirizzolla alla muraglia della casa di Cornelio. La scala era alla precisa lunghezza. Boxtel mise una lanterna cieca in tasca, montò la scala e penetrò nel prosciugatoio. Giunto in quel tabernacolo, si arrestò, si appoggiò alla tavola; le gambe gli mancavano sotto, il suo cuore batteva da soffocarlo. Là era ben peggio che nel giardino: direbbesi che l’aria aperta togliesse alla proprietà ciò che ella ha di rispettabile; perchè chi salta una siepe, o chi scala un muro, si arresta poi alla porta o alla finestra di una stanza. Nel giardino Boxtel non era che uno scorridore; nella stanza era un ladro. Non pertanto riprese cuore: non era là venuto per tenere le mani a cintola. Ma ebbe un bel cercare, aprire e chiudere tutte le cassette, e la privilegiata pure, dov’era il deposito stato così fatale a Cornelio; trovò etichette come in un giardino di piante, la _Giovanna_, la _de Witt_, il tulipano bistro, il tulipano caffè bruciato: ma del tulipano nero, o piuttosto dei talli, dove esso era ancora addormentato e nascosto nel limbo della fioritura, non eranvi tracce. Ma però sul registro dei semi e delle cipollette tenuto in doppia scrittura da Van Baerle con più cura e esattezza del registro commerciale delle prime case di Amsterdam, Boxtel lesse queste linee: «Oggi 20 agosto 1672 io ho disotterrato la cipolletta del gran tulipano nero, che ho separato in tre talli perfetti.» — Questi talli! questi talli! urlò Boxtel rovistando dappertutto nel prosciugatoio, dove mai li ha cacciati? Poi tutto a un tratto battendosi in fronte da ammaccarsi il cervello: — Oh! miserabile che sono! egli esclamò; ah! Boxtel sfortunatissimo, che gli è inseparabile dai suoi talli? Come non lasciarli a Dordrecht, partendo per l’Aya? Ma che non può vivere senza i suoi talli; i talli del tulipano nero? L’infame! si vede che ha avuto il tempo di prenderli, se li è nascosti e li ha portati all’Aya! Era un lampo che mostrava a Boxtel l’abisso di un inutile delitto. Ei cadde fulminato su quella medesima tavola, a quel medesimo posto, dove alcune ore innanzi lo sfortunato Van Baerle aveva ammirato sì lungamente e sì compiacentemente i talli del tulipano nero. — Ebbene! al postutto, disse l’invidioso alzando la testa livida, se li ha seco, non può custodirli che fino a tanto che sia vivo, e... Il resto del suo orrendo pensiero si assorbì in uno spaventevole sorriso. — I talli sono all’Aya, riprese; dunque non posso più vivere a Dordrecht. All’Aya per i talli! all’Aya! Boxtel, senza fare attenzione alle ricchezze immense che lasciava, tanto egli era preoccupato da un’altra inestimabile ricchezza, escì per dove era venuto, si lasciò strisciare giù per la scala, riportò l’istrumento del furto, dove avealo preso, e simile a un animale da preda rientrò ruggendo in casa sua. IX La Camera di famiglia. Era circa la mezza notte, quando il povero Van Baerle fu recluso nella prigione di Buitenhof. La previsione di Rosa erasi avverata. Trovando la stanza di Cornelio de Witt vuota, era stata immensa la collera popolare; e se Grifo fosse caduto tra le mani di quei furibondi, l’avrebbe certamente scontata pel suo prigioniero. Ma quella collera avea trovato da sbramarsi largamente sopra i due fratelli, che erano stati raggiunti dagli assassini in grazia della precauzione stata presa da Guglielmo, uomo delle precauzioni, di far chiudere le porte della città. Vi fu dunque un momento, in cui la prigione essendo stata sgombrata, il silenzio era successo al rimbombo spaventevole degli urli che romoreggiavano giù per le scale. Rosa profittò di questo momento, escì dalla segreta e ne fece uscire suo padre. La prigione era completamente deserta; a che prò restare nella prigione, quando scannavasi al Tol-Hek? Grifo escì tutto tremante dietro la coraggiosa Rosa; e insieme andarono a chiudere alla meglio la porta principale; e diciamo alla meglio perchè era per metà fracassata. Scorgevasi che il trabocco di una potente collera era di là passato. Verso le quattro s’intese il romorio che ritornava, ma non presagiva nulla d’inquietante per Grifo e per sua figlia. Quel romorio era dei cadaveri che erano strascinati e condotti ad essere appiccati nella piazza solita alle esecuzioni. Anco questa volta Rosa si nascose non per paura ma per non vedere l’orribile spettacolo. A mezza notte fu picchiato alla porta del Buitenhof, o piuttosto alla barriera che aveala rimpiazzata. Era Cornelio Van Baerle che colà era condotto. Quando Grifo carceriere ricevette quel nuovo ospite, ed ebbe veduto sul mandato di reclusione la qualità del personaggio: — Figlioccio di Cornelio de Witt, mormorò col sogghigno del carceriere; oh! giovanotto! abbiamo qui appunto la camera di famiglia; eccoci a darvela. E contento del bel garbo da lui disimpegnato, il tristo orangista prese la sua lanterna e le chiavi per condurre Cornelio nella cella, che Cornelio de Witt aveva lasciato quella stessa mattina per l’_esilio_ tale, quale lo intendono in tempo di rivoluzione quei moralisti sublimi, che spacciano come assioma di alta politica: «I morti soli non tornano.» Grifo dunque si preparò a condurre il figlioccio nella camera del compare. Per dove bisognava passassero per arrivare a quella stanza, il disperato coltivatore di fiori altro non intese che l’abbaiare di un cane, altro non vide che la faccia di una giovinetta. Il cane escì da una nicchia praticata nel muro scuotendo una grossa catena, e fiutò Cornelio affine di bene riconoscerlo al momento che gli fosse comandato di divorarlo. La giovinetta, quando il prigioniero fece cigolare l’appoggiatoio della scala sotto la sua mano sbalordita, semiaperse la bussola di una stanza, che ella abitava, sulla grossezza della scala medesima; e col lume nella mano diritta ella rischiarò al tempo stesso la sua rosea faccia avvenente, contornata da stupendi capelli biondi a grosse ciocche, tanto che dalla sinistra scendeanle sotto il petto giù per la bianca veste da notte, perocchè ell’era stata svegliata dal suo primo sonno dall’arrivo inatteso di Cornelio. Era un quadro degno di essere dipinto dal maestro Rembrandt cominciando dall’oscura spira della scala illuminata dal fanale rossastro di Grifo dal sembiante arcigno di carceriere; in cima la melanconica figura di Cornelio, che piegasi sull’appoggiatoio per guardare al di sotto di lui il soave viso di Rosa incorniciato dalla porticella illuminata, e il di lei fare pudico cagionato forse dall’essere Cornelio sopra di lei nella scala, da dove il di lui curioso sguardo compiacevasi incerto e tristo vagheggiare le bianche e pienotte spalle della giovinetta. Poi in basso tutt’affatto nell’ombra a quel punto della scala, dove l’oscurità fa sparire i dettagli, gli occhi di bragia del molosso strascinante la sua catena, dalla quale il doppio lume della lucerna di Rosa e del fanale di Grifo faccia rimbalzare un brillante chiarore. Ma ciò che in questo suo quadro non avrebbe potuto rendere il sublime maestro, l’è la espressione dolorosa sfumata sul viso di Rosa, quando ella vide quel bel giovine pallido salire lentamente la scala, nel sentirgli dirigere da suo padre queste sinistre parole: — _Voi avrete la camera di famiglia._ Questo colpo pittoresco durò un momento e meno tempo assai che non abbiamo messo a descriverlo. Grifo continuò la sua via. Cornelio fu obbligato a seguirlo, e dopo cinque minuti entrava nella segreta, che gli è inutile descrivere, dappoichè il lettore già la conosce. Grifo, dopo aver mostrato col dito al prigioniero il letto, sul quale avea tanto sofferto il martire, che in quella giornata medesima aveva resa l’anima a Dio, riprese la sua lanterna e uscì. Quanto a Cornelio, rimasto solo, gettossi sul letto, ma non chiuse occhio, e tenevalo sempre fisso sulla stretta finestra inferriata, la quale corrispondeva sul Buitenhof; di tal maniera che vide biancheggiare al di là degli alberi il primo albore, che il cielo lascia cadere sopra la terra come un bianco lenzuolo. Durante la notte qualche cavallo aveva galoppato in su e in giù sul Buitenhof. Il passo cadenzato delle pattuglie aveva percosso il selciato della piazza, e le micce degli archibusi, infiammandosi al vento di ponente, avevano lanciato fino ai vetri della prigione lampi di luce passeggiera. Ma quando il dì nascente illuminò i culminati cammini delle case, Cornelio impaziente di sapere, se fosse attorno di lui anima viva, si accostò alla finestra, e volse intorno un mesto sguardo. Alla estremità della piazza una massa nerastra velata dalla brina mattinale di un turchino cupo, alzavasi riflettendo la sua ombra irregolare sulle pallide abitazioni. Cornelio riconobbe la forca, a cui pendevano due informi avanzi, i quali non erano più che due scheletri ancora sanguinanti. Il buon popolo dell’Aya aveva spezzato le carni delle sue vittime, ma riportato fedelmente alla forca il pretesto di una doppia iscrizione tracciata sopra un cartellone enorme; sul quale con i suoi occhi di ventotto anni Cornelio arrivò a leggere le seguenti linee impresse dalla spada appuntata di qualche imbrattatore d’insegne: «Qui pendono il grande scellerato Giovanni de Witt e il meno briccone Cornelio de Witt di lui fratello, due nemici del popolo, ma amici grandi del re di Francia.» Cornelio gettò un grido di orrore, e nel trasporto del suo terrore frenetico percosse con le mani e coi piedi con tal violenza e con tale impeto la porta che Grifo accorse frettoloso col suo mazzo enorme di chiavi in mano. Aperse, e scagliando orribili imprecazioni contro il prigioniero, che incomodavalo fuori delle ore cui era solito incomodarsi, gridò: — Olà? anco quest’altro de Witt che gli è arrabbiato? Tutti i de Witt hanno il diavolo in corpo! — Signore, signore, disse Cornelio prendendo il carceriere pel braccio e traendolo verso la finestra; signore che mai ho letto laggiù? — Dove laggiù? — Su quel cartellone. E tremante, pallido e ansante mostrogli in fondo alla piazza la forca sormontata dalla cinica iscrizione. Grifo si mise a ridere. — Ah! ah! Sì, voi avete letto.... Ebbene, mio caro signore, ecco dove s’incappa quando si hanno intelligenze coi nemici del signor principe d’Orange. — I de Witt sono stati assassinati! mormorò Cornelio grondante sudore e lasciandosi cadere sul suo letto con le braccia spenzolate e con gli occhi chiusi. — I signori de Witt hanno subita la giustizia del popolo, disse Grifo; chiamate assassinati quelli? Io per me dico: giustiziati. E vedendo che il prigioniero non solo era in istato di calma, ma di annientamento, escì dalla stanza, tirando la porta con violenza, e facendo strisciare rumorosamente i chiavistelli. Tornando in sè, Cornelio trovossi solo, e riconobbe la camera in cui era, la camera di famiglia, come aveala chiamata Grifo, quel passaggio fatale che doveva portarlo a una misera morte. E siccome gli era un filosofo, siccome gli era soprattutto un cristiano, cominciò a pregare per l’anima del suo compare, poi per quella del gran Pensionario, poi alla fine rassegnossi egli stesso a tutti i mali, che a Dio piacesse mandargli. Quindi dopo essere ridisceso dal cielo in terra, dopo di terra essere rientrato nella segreta e bene assicurato che in quella egli era solo, cavò di seno i tre talli del tulipano nero e nascoseli dietro un palchetto sul quale posavasi il tradizionale boccale, in un canto il più oscuro della prigione. Inutile fatica di tanti anni! O dolci speranze perdute! La sua scoperta avrebbe fatto capo al niente, com’egli alla morte! In quella prigione nemmeno un filo d’erba, un briciolo di terra, un raggio di sole. A questo pensiero Cornelio fu preso da tetra disperazione, da cui non escì che per una circostanza straordinaria. Qual fu questa circostanza? Ci serbiamo dirlo nel capitolo seguente. X La figlia del Carceriere. In quella stessa sera Grifo portando da mangiare al prigioniero, nell’aprire la porta della carcere sdrucciolò sull’impiantito umidiccio e cadde sforzandosi invano di sorreggersi. Battuta la mano in falso, si ruppe il braccio al disotto del pugno. Cornelio fece un movimento verso il carceriere; ma siccome non sospettava della gravità del caso: — Non è niente, disse Grifo; zitto. E volle rialzarsi appoggiandosi al suo braccio, ma si piegò l’osso; allora soltanto Grifo sentì il dolore e cacciò un grido. Si avvide che aveva il braccio rotto; e costui sì duro per gli altri ricadde svenuto sulla soglia della porta, dove rimase inerte e freddo simile a un morto. Per tutto quel tempo la porta della prigione era rimasta aperta, e Cornelio trovavasi quasi libero. Non gli passò per la mente neppure l’idea di profittare di quell’accidente. Egli aveva veduto nel modo, con cui erasi piegato il braccio, allo scatto che aveva fatto piegandosi, che v’era dolore; perciò non pensò ad altro che a soccorrere il ferito, per quanto male intenzionato gli fosse paruto costui a suo riguardo nell’unico abboccamento, che egli aveva avuto con lui. Al fracasso che Grifo aveva fatto cadendo, al rammarico che erasi lasciato sfuggire, fecesi sentire un passo precipitoso per le scale, e alla apparizione, che seguì immediatamente lo strepito del calpestio, Cornelio cacciò una voce, alla quale rispose il grido di una giovinetta. Aveva risposto al grido la bella frisona, che vedendo suo padre disteso in terra e il prigioniero chinato sopra di lui, aveva creduto dapprima che Grifo, di cui ella conosceva la brutalità, fosse caduto per una rissa attaccata tra lui e il prigioniero. Cornelio ne comprese il pensiero; ma la giovinetta, essendosi al primo colpo d’occhio assicurata della verità, e vergognandosi d’averlo solo sospettato, alzò sul giovine i suoi begli occhi lacrimosi, e gli disse: — Perdono e grazie, o signore. Perdono di ciò che ho pensato, e grazie di ciò chè avete fatto. Cornelio arrossì, e rispose: — Non ho fatto che il mio dovere di cristiano, soccorrendo il mio simile. — Sì, e soccorrendolo stasera, avete dimenticato le ingiurie che vi ha detto questa mattina. Signore, è più che da uomo, è più che da cristiano. Cornelio alzò gli occhi sulla bella fanciulla, tutto maravigliato di sentire dalla bocca di una figlia del popolo una parola al tempo stesso così nobile e così compassionevole. Ma egli non ebbe tempo da testimoniarle la sua sorpresa; chè Grifo riavutosi aprì gli occhi, e con la vita ritornò la sua usuale brutalità: — Ah! d’ecco cosa tocca! diss’egli, ci si affretta a portare da mangiare al prigioniero, si cade sorreggendosi, e cadendo ci si rompe il braccio, e lascianvi là sul mattonato. — Zitto, babbo mio, disse Rosa, voi siete ingiusto verso questo signore, che ho trovato tutto occupato a soccorrervi. — Lui? fece Grifo non persuaso. — Gli è tanto vero, o signore, che sono pronto ancora a soccorrervi. — Voi? disse Grifo; che siete dunque medico? — È la mia prima professione, rispose il prigioniero. — Talchè mi potreste rimettere il braccio? — Perfettamente. — E che ci vuole, vediamo? — Due spranghette di legno e fasce di lino. — Senti, Rosa, disse Grifo, il prigioniero mi rimette il braccio; vediamo, aiutami ad alzarmi: — sono di piombo. Rosa presentò al ferito la sua spalla; ed egli abbracciò il collo della giovinetta col braccio sano, e facendo uno sforzo, rizzossi, mentrechè Cornelio per risparmiargli di muoversi, tirò verso lui una seggiola. Grifo vi si assise, e poi volgendosi alla sua figlia, le disse: — Hai bene inteso? Va’ a cercare ciò che ci vuole. Rosa scese e ritornò poco dopo con due doghe da barile e una gran fascia di lino. Cornelio si era intanto occupato a levare il vestito al carceriere e a rovesciargli le maniche. — Va bene così? domandò Rosa. — Sì, mia fanciulla, le rispose Cornelio gettando un’occhiata sugli oggetti portati; sì, va bene. Intanto accostate cotesta tavola, mentre che io sorreggo il braccio di vostro padre. Rosa accostò la tavola, su cui Cornelio stese il braccio rotto, e con una perfetta abilità, raggiustò la frattura, adattovvi l’incannucciatura e strinse le fasce. All’ultima stretta il carceriere si svenne per la seconda volta. — Andate a cercare dell’aceto, mia cara giovine, disse Cornelio; gli bagneremo le tempie e riavrassi. Ma invece di adempire la prescrizione, che erale stata data, Rosa dopo essersi assicurata che suo padre era fuori dei sensi, si avanzò verso Cornelio: — Signore, diss’ella, piacere per piacere. — Cioè? mia bella fanciulla? domandò Cornelio. — Cioè, signore, che il cancelliere che vi deve interrogare dimani è venuto oggi ad informarsi della stanza che occupate; e che essendogli stato risposto che occupate la carcere di Cornelio de Witt, egli ha sogghignato sinistramente; il che mi fa credere che nulla di buono vi attenda. — Ma, domandò Cornelio, che cosa mi possono fare? — Vedete di qui quelle forche? — Ma non sono colpevole, soggiunse Cornelio. — Eranlo pure quelli laggiù, appiccati, mutilati, sbranati? — Gli è vero, disse Cornelio attristandosi. — D’altronde, continuò Rosa, l’opinione pubblica vuole che voi siate colpevole. Ma colpevole o non colpevole, il vostro processo comincerà dimani e posdimani sarete condannato: le cose vanno presto ai tempi che corrono. — Ebbene, che concludete con ciò? — Concludo, che io sono sola, che sono debole, che mio padre è svenuto, che il cane ha la musoliera, che niente per conseguenza v’impedisce di salvarvi. Salvatevi dunque, ecco la conclusione. — Che dite? — Io dico, ohimè! che non ho potuto salvare nè Cornelio nè Giovanni de Witt, e che vorrei salvarvi... voi. Solamente fate presto; ecco la respirazione che ritorna a mio padre, forse tra un minuto riaprirà gli occhi e allora sarà troppo tardi. Esitate? Effettivamente Cornelio stava immobile, guardando Rosa, ma come s’ei la guardasse senza intenderla. — Non capite? disse la giovinetta impazientita. — Capisco, rispose Cornelio, ma.... — Ma? — Non accetto. Sareste processata. — Che importa? disse Rosa arrossendo. — Grazie, fanciulla mia, rispose Cornelio; ma io resto. — Voi restate! Mio Dio! mio Dio! Non avete dunque capito che sarete condannato... condannato a morte, giustiziato sopra un palco e forse assassinato, messo in pezzi come sono stati assassinati e messi in pezzi Giovanni e Cornelio? A nome del cielo, non vi occupate di me, e fuggite questa stanza dove voi siete. Guardatevene, che fu fatale ai de Witt. — Ohè! esclamò il carceriere riavendosi. Chi parla di quei malanni, di que’ miserabili, di quegli scellerati dei de Witt? — Non ve ne importi, mio brav’uomo, disse Cornelio col suo amabile sorriso; chè ciò che v’ha di peggio per le fratture, è il riscaldamento del sangue. Poi sotto voce a Rosa: — Mia ragazza, soggiunse, io sono innocente, aspetterò i miei giudici con la tranquillità e con la calma di uno innocente. — Zitto! disse Rosa. — Zitto e perchè? — Bisogna che mio padre non si accorga che abbiamo insieme discorso. — E che male sarebbe? — Che male sarebbe? D’impedirmi che io qui più tornassi, disse la giovinetta. Cornelio accolse questa infantile confidenza con un sorriso; sembravagli che un raggio di bene splendesse sopra la sua disgrazia. — Ebbene! che cosa barbottate costì voi due? disse Grifo alzandosi e sorreggendo il suo braccio diritto col suo sinistro. — Niente! rispose Rosa; il signore mi prescrive il regime che dovete seguire. — Il regime che io devo seguire! eh! il regime che io devo seguire! Voi pure, o graziosina, voi pure ne dovete seguire uno! — E quale, babbo mio? — Di non affacciarvi neppure alle carceri dei prigionieri, e quando vi comparirete, d’andarvene il più presto possibile; via dunque innanzi a me, e lesta! Rosa e Cornelio cambiaronsi un’occhiata; quello di Rosa voleva dire: — Voi lo vedete! Quello di Cornelio: — Sia fatta la volontà del Signore! XI Il Testamento di Cornelio Van Baerle. Rosa non si era punto ingannata: i ministri processanti vennero l’indomani al Buitenhof e interrogarono Cornelio Van Baerle. In verità l’interrogatorio non fu lungo; fu accertato che Cornelio aveva serbato la corrispondenza fatale dei de Witt con la Francia. Ei non lo negò minimamente. L’era solo dubbioso agli occhi dei giudici che la corrispondenza gli fosse stata consegnata dal suo compare Cornelio de Witt. Ma siccome, dopo la morte dei due martiri, Cornelio Van Baerle non aveva ragione di niente più nascondere, non solamente non negò che il deposito eragli stato confidato da Cornelio, ma raccontò ancora, come, quando e dove il deposito eragli stato confidato. Questa rivelazione implicava il figlioccio nel delitto del compare; eravi complicità patente. Cornelio non si limitò a questa semplice confessione: egli disse tutta la verità delle sue simpatie, delle sue abitudini, delle sue familiarità; disse la sua indifferenza per la politica, il suo amore per li studi, per le arti, per le scienze e per i fiori. Raccontò che più mai dal giorno, in cui era andato a Dordrecht e aveagli confidalo il deposito, esso non era stato più toccato e neppure conosciuto dal depositario. Gli si obiettò a questo proposito che gli era impossibile che ciò fosse vero, dappoichè i fogli erano precisamente chiosi in una cassetta, dove ogni giorno metteva gli occhi e le mani. Cornelio rispose che l’era ciò la verità, ma che metteva solo la mano nella cassetta per assicurarsi che le sue cipollette fossero ben prosciugate e vi gettava gli occhi per assicurarsi soltanto se le sue cipollette tallissero. Gli si obiettò che la sua pretesa indifferenza a riguardo di quel deposito non potevasi ragionevolmente sostenere, avvegnachè fosse impossibile che avendo ricevuto dalle mani del suo compare un deposito così fatto, egli non ne conoscesse l’importanza. Al che egli rispose: che al suo compare lo amava troppo e di più gli era un uomo troppo saggio per non avergli niente detto del contenuto di quei fogli, giacchè tal confidenza non avrebbe servito ad altro che a tormentare il depositario. Gli si obiettò che se il signor de Witt avesse di tal sorte operato, avrebbe unito all’involto in caso di accidentalità un certificato costatante che il suo battezzato era completamente estraneo a quella corrispondenza, ovvero durante il suo processo avrebbegli scritto una lettera che potesse servire a sua giustificazione. Cornelio rispose che senza dubbio il suo padrino non aveva pensato affatto che il suo deposito corresse pericolo alcuno, nascosto com’era in un armario che era riguardato come sacro al pari dell’arca da tutta la casa Van Baerle; che aveva per urgenza stimato inutile il certificato; che quanto a una lettera gli pareva sovvenirsi che un momento prima del suo arresto, siccome egli era assorto nella contemplazione di una cipolletta delle più rare, il servitore di Giovanni de Witt era entrato nel di lui prosciugatoio e aveagli rimesso un foglio; ma che di tutto questo eragli rimasto una ricordanza simile a una visione; che il servitore era scomparso e che quanto al foglio forse troverebbesi facendone diligente ricerca. Quanto a Craeke era impossibile trovarlo, avvegnachè avesse abbandonato l’Olanda; e quanto alla carta gli era così poco probabile potersi ritrovare, che non valse neppure la pena a farne ricerca. Cornelio stesso non insistè molto su questo punto, perchè posto anche che il foglio si ritrovasse, non potrebbe forse avere nessun rapporto con la corrispondenza che formava il corpo del delitto. I giudici vollero avere l’aria di spingere Cornelio a difendersi meglio di quello che ei lo facesse; e usarono in faccia a lui di quella pazienza benigna, che denota o un magistrato interessato per l’accusato, o un vincitore che abbia atterrato il suo avversario, e che essendo completamente padrone di lui non ha bisogno di opprimerlo per perderlo. Cornelio non accettò niente affatto tale ipocrita protezione, e in un’ultima risposta che diede con la nobiltà di un martire e la calma di un giusto, disse loro: — Voi mi domandate cose, o signori, alle quali non ho niente altro a rispondere che la verità. La verità esatta, eccola. L’involto è venuto a me per la via che ho detto; protesto davanti Iddio che ne ignorava e ne ignoro ancora il contenuto; che nel giorno soltanto del mio arresto ho saputo che quel deposito era la corrispondenza del gran Pensionario col marchese di Louvois. E protesto finalmente che ignoro come siasi potuto sapere che quell’involto fosse presso di me, e soprattutto come io possa essere colpevole per avere ricevuto ciò che portavami il mio illustre infelice compare. Questa fu tutta la perorazione di Cornelio. I giudici andarono ai considerandi: Che ogni germoglio di dissenzione civile è funesto, e suscitatore di guerra, e che è interesse di tutti estinguere. Che (e questa considerazione fecela un uomo che passava per un profondo osservatore) quel giovine così flemmatico in apparenza doveva in sostanza essere dannosissimo, attesochè dovesse nascondere sotto il manto di ghiaccio che servivagli di inviluppo, un ardente desiderio di vendicare i signori de Witt suoi prossimani. Che, secondo un altro, l’amore dei tulipani legasi perfettamente con la politica, e che è storicamente provato che molti uomini pericolosissimi hanno atteso al giardinaggio nè più nè meno, che se eglino se ne occupassero esclusivamente, quantunque in fondo si occupassero di ben altre cose; testimone Tarquinio Prisco, che coltivava papaveri a Gabio, e il gran Condè che innaffiava i suoi aglietti nella reclusione di Vincennes, e ciò al momento che il primo meditava la sua rientrata a Roma e il secondo la sua escita di prigione. I giudici conclusero con questo dilemma: O Cornelio Van Baerle ama fortemente i tulipani, o ama fortemente la politica; nell’uno e nell’altro caso ha mentito, primo perchè è provato che si occupasse di politica, e ciò con le lettere trovate pressa di lui; secondo perchè è provato che occupavasi dei tulipani: i talli ne fanno fede. In fine — e qui sta l’enormità — perciocchè Cornelio Van Baerle occupavasi al tempo stesso di tulipani e di politica, dunque l’accusato era di una natura ibrida, di una organizzazione anfibia, occupatesi con eguale ardore alla politica e al tulipano, il che darebbegli tutti i caratteri della specie di uomini la più dannosa al pubblico riposo, e una certa anzi una completa analogia coi grandi spiriti, di cui Tarquinio Prisco e il principe di Condè fornivano a proposito un esempio. Il resultato di tutti questi ragionamenti fu che il principe statolder d’Olanda saprebbe senza dubbio buon grado alla magistratura dell’Aya di semplificargli l’amministrazione delle Sette Province, distruggendo fino all’ultima radice la cospirazione contro la sua autorità. Questo argomento prevalse a tutti gli altri e per distruggere efficacemente i germi delle cospirazioni, la pena di morte fu pronunziata all’unanimità contro Cornelio Van Baerle, interrogato e convinto di avere, sotto le innocenti apparenze di un amatore di tulipani, partecipalo ai detestabili intrighi ed ai complotti abominandi dei de Witt contro la nazionalità olandese, ed alle loro segrete relazioni col nemico francese. La sentenza portava provvisoriamente che il suddetto Cornelio Van Baerle sarebbe estratto della prigione del Buitenhof per essere condotto al patibolo alzato sulla piazza dello stesso nome, dove l’esecutore di giustizia gli taglierebbe la testa. Come se questa deliberazione fosse stata seria, era continuata una mezz’ora, durante la quale il prigioniero era stato ricondotto in prigione. Là il cancelliere degli Stati andogli a leggere la sentenza. Maestro Grifo era obbligato a guardare il letto per la febbre cagionatagli dalla frattura del braccio. Le sue chiavi erano passate in mano di un secondino, dietro al quale, che aveva introdotto il cancelliere, Rosa la bella Frisona erasi venuta a porre sull’angolo della porta col fazzoletto alla bocca per soffocare i suoi sospiri e i suoi singhiozzi. Cornelio ascoltava la sentenza con volto più maravigliato che tristo. Letta la sentenza il cancelliere domandogli se avesse qualche cosa a dire: — Affè! no, rispose; ma confesso solamente che tra tutte le cause di morte, che un uomo cauto può prevenire per iscansarle, non ho mai neppure per immaginazione pensato a questa. Alla qual risposta il cancelliere salutò Cornelio Van Baerle con tutta la considerazione che tal sorta di funzionarii accordano ai gran delinquenti di ogni genere. Ed essendo per escire: — A proposito, signor cancelliere, disse Cornelio, per qual giorno è la cosa, se non vi dispiace? — Oh! per oggi, rispose il cancelliere un poco piccato dal sangue freddo del condannato. Scoppiò un singulto dietro la porta. Cornelio si sporse per vedere da chi venisse; ma Rosa aveva indovinato la mossa ed erasi tirata indietro. — E, soggiunse Cornelio, a qual’ora l’esecuzione? — Signore, pel mezzogiorno. — Diavolo! mi pare, se non sbaglio, aver sentito battere le dieci almeno da venti minuti fa. Non ho tempo da perdere. — Per riconciliarvi con Dio, sì, o signore, disse il cancelliere salutandolo profondamente, e potete chiedere quel ministro che vi piacerà. Dicendo queste parole escì all’indietro, e il carceriere provvisorio affrettavasi a seguirlo chiudendo l’uscio di Cornelio, quando un candido braccio tutto tremante s’interpose tra quell’uomo e la porta pesante. Cornelio non vide che la cuffia d’oro a orecchiette di merletti bianchi, acconciatura delle belle Frisone; ei non intese che un bisbiglio all’orecchio dello sbirro; ma costui mise le sue chiavi pesanti nella bianca mano a lui stesa, e scendendo alcuni scalini si sedette a mezza scala, da lui guardata all’alto, al basso dal cane. La cuffia d’oro fece un volta faccia, e Cornelio riconobbe il viso irrigato di pianto e i grandi occhi turchini tutti bagnati della bella Rosa. La giovine avanzossi verso Cornelio, appoggiando le sue due mani sull’affranto suo petto. — Oh! signore! signore! diss’ella. E non potè dirè altro. — Mia bella ragazza, replicò commosso Cornelio, che desiderate da me? Ormai non ho da star molto su questa terra, voi già lo sapete. — Signore, vengo a chiedervi una grazia, stendendo un po’ le braccia verso Cornelio e un po’ verso il cielo. — Racconsolatevi, o Rosa, disse il prigioniero; imperciocchè le vostre lacrime mi commovono assai più della mia morte vicina. E, voi il sapete, più il prigioniero gli è innocente, più deve incontrare la morte con calma e ancora con gioia, dappoichè egli muore martire. Via, non piangete più e ditemi il vostro desiderio, mia bella Rosa. La giovinetta si lasciò cadere in ginocchio: — Perdonate a mio padre, diss’ella. — A vostro padre? ammirò Cornelio. — Sì, gli è stato così duro per voi! ma gli è così per natura, gli è così con tutti, e non siete solamente voi che ha così brutalmente trattato. — È punito, cara Rosa, più che punito pel caso accadutogli, e gli perdono. — Grazie! disse Rosa. E adesso, ditemi, poss’io invece qualcosa per voi? — Potete asciugare i vostri begli occhi, cara fanciulla, rispose Cornelio col suo dolce sorriso. — Ma per voi... per voi... — Chi non ha da vivere che un’ora, è un gran sibarita, se gli ha bisogno di qualche cosa, mia cara Rosa. — Il ministro che vi era stato offerto?... — Ho adorato Dio per tutta la mia vita, o Rosa. Io l’ho adorato nelle sue opere, benedetto nella sua volontà. Dio non può aver nulla contro di me, io non chiederovvi dunque un ministro. L’ultimo pensiero che mi occupa, o Rosa, è tutto volto a glorificare Iddio. Aiutatemi, mia cara, ve ne prego, nel compimento di quest’ultimo pensiero. — Ah! signor Cornelio, parlate, parlate! esclamò la giovine inondata di lacrime. — Datemi la vostra bella mano, e promettetemi di non ridere, mia fanciulla. — Ridere! esclamò Rosa con dispiacenza, ridere in questo momento? Ma non mi avete dunque guardato, signor Cornelio? — Io vi ho guardato, o Rosa, e con gli occhi del corpo e con gli occhi dell’anima. Giammai mi si è offerta dinanzi donna più bella e anima più pura; e se fin d’ora non vi guardo più, perdonatemi, perchè pronto a lasciare la vita, amo meglio di non aver nulla a rimpiangervi. Rosa trasalì. Mentre il prigioniero proferiva queste parole, battevano le undici alla torre del Buitenhof. Cornelio la comprese. — Sì, sì, spicciamoci, diss’egli; avete ragione, o Rosa. Allora cavando dal petto, dove aveala nascosta dappoichè non aveva più paura di essere frugato, la carta che involtava i tre talli: — Anima mia bella, soggiunse, ho molto amato i fiori in tempi, in cui io ignorava che si può amare qualche altra cosa. Oh! non arrossite, non vi volgete altrove, o Rosa, non sono per farvi una dichiarazione di amore. Ciò, povera giovine, non avrebbe scopo; che avvi laggiù sul Buitenhof un certo ordigno che tra sessanta minuti farà ragione della mia temerità. Amo dunque i fiori, o Rosa, e avevo trovato, lo credo almeno, il segreto del gran tulipano nero, che si crede impossibile e che è, lo sappiate o non lo sappiate, l’oggetto di un premio di centomila fiorini proposto dalla società orticola di Harlem. Questi centomila fiorini — e Dio sa che io non mi lagno per essi — questi centomila fiorini io li ho in questa carta; che sono guadagnati con i tre talli che racchiude e che voi potete prendere, o Rosa, chè io ve li dono. — Signor Cornelio... — Oh! li potete prendere, o Rosa, non fate torto a nessuno. Io sono solo al mondo; mio padre e mia madre sono morti; non ho mai avuto nè fratelli nè sorelle; non ho mai pensato ad amare persona di cuore, e se qualcuna ha pensato ad amarmi, io non l’ho mai saputo. D’altronde vedete bene, o Rosa, che sono abbandonato, dappoichè voi sola a quest’ora siete nella mia segreta mia consolatrice e mia incoraggiatrice. — Ma, signore, centomila fiorini... — Ah! l’è una cosa seria, cara fanciulla, disse Cornelio. Centomila fiorini saranno una bella dote alla vostra bellezza; voi li avrete i centomila fiorini, perchè sono sicuro dei miei talli. Voi li avrete dunque, mia cara Rosa, e non vi domando in contraccambio che la promessa di sposare un bravo giovine, che vi ami quanto io amai i fiori. Non m’interrompete, o Rosa, ho pochi minuti più... La povera figlia soffocava i suoi singulti. Cornelio le prese la mano. — Ascoltatemi, continuò egli; ecco come farete. Prenderete della terra del mio giardino di Dordrecht; chiederete a Butruysheim mio giardiniere del terriccio della mia casella n.º 6; vi pianterete in una cassetta profonda questi tre talli, che fioriranno nel maggio prossimo, che è quanto dire tra sette mesi; e quando vedrete il fiore nel suo boccio, passate le notti a guarantirlo dal vento, il giorno a salvarlo dal sole. Il fiore sarà nero, ne sono sicuro. Allora farete prevenire il presidente della società di Harlem, che farà constatare dal consiglio il colore del fiore, e vi saranno contati i centomila fiorini. Rosa gettò un gran sospiro. — Adesso, disse Cornelio, asciugandosi una lacrima affacciatasi all’orlo della sua palpebra e che era tributata più a quel maraviglioso tulipano nero che non doveva ormai vedere, che alla vita ch’ei doveva lasciare, io non desidero più niente se non che il tulipano si chiami _Rosa Barlaeensis_, cioè che richiami al tempo stesso il vostro nome e il mio; e non sapendo voi punto di latino, facilissimamente vi potreste dimenticare di tali parole, fate che io abbia un apis e della carta, che ve le scrivo. Rosa singhiozzando forte, porsegli un libro rilegato in sommacco, che portava le iniziali C. W. — Che cosa è? domandò il prigioniero. — Ahimè! rispose Rosa, è la Bibbia del vostro compare Cornelio de Witt, in cui attinse la forza di subire la tortura e di ascoltare senza impallidire la sua sentenza. L’ho trovata in questa stanza dopo la morte del martire e la conservo come una reliquia; ve l’avevo oggi portata, perchè mi pareva che questo libro avesse in sè questa forza tuttaffatto divina. Voi non avete avuto bisogno di questa forza che Dio vi ha concessa. Che sia lodato! scriveteci sopra ciò che avete da scrivere e, per quanto io abbia la disgrazia di non saper leggere, sarà fatta la vostra volontà. Cornelio prese la Bibbia e la baciò rispettosamente, dicendo: — Con che scriverò io? — Vi ha dentro un apis, disse Rosa. Vi era, e l’ho conservato. Era l’apis che Giovanni de Witt aveva prestato a suo fratello e che non aveva pensato a riprendere. Cornelio lo prese e sulla seconda pagina, — perchè, rammentiamoci, la prima era stata staccata, — presso a morte come il suo compare egli scrisse con mano non meno ferma. «Il 23 agosto 1672, sul punto di rendere, benchè innocente, l’anima mia a Dio sopra di un palco, io lego a Rosa Grifo il solo bene che siami restato di tutti i miei beni in questo mondo, gli altri essendo stati confiscati; io lego, ripeto, a Rosa Grifo tre talli, che nella mia convinzione profonda devono dare nel mese di maggio prossimo il gran tulipano nero, oggetto del premio de’ cento mila fiorini proposti dalla società di Harlem, desiderando che ella riceva que’ cento mila fiorini in mio luogo e vece e come mia unica erede col solo obbligo di sposare un giovine della mia età a un circa, che l’ami e sia da lei amato, e di dare al gran tulipano nero, che creerà una nuova specie, il nome di _Rosa Barlaeensis_ dal suo ed il mio nome congiunti. «Dio mi accordi grazia, a lei salute! «Cornelio VAN BAERLE.» Poi dando la Bibbia a Rosa le disse: — Leggete. — Ahimè! rispose la giovinetta, già ve l’ho detto che non so leggere. Allora Cornelio lesse a Rosa il testamento ch’egli aveva fatto. I singulti di quella povera giovine si raddoppiarono. — Accettate le mie condizioni? interrogò il prigioniero melanconicamente sorridendo, e baciando la punta delle dita tremanti della bella Frisona. — Oh! non saprei, signore, disse balbettando. — Non lo sapete, mia ragazza? E perchè mai? — Perchè ve n’è una delle condizioni che non saprò mantenere. — Quale? Io credeva pertanto aver concluso il nostro trattato d’alleanza. — Voi mi date i centomila fiorini a titolo di dote? — Sì. — E per sposare un uomo che io amassi? — Senza dubbio! — Ebbene! signore, non è per me quel denaro. Non amerò mai nessuno e non mariterommi mai. E dopo queste parole pronunziate a stento, Rosa piegossi sulle ginocchia, e sveniva di dolore; ma Cornelio spaventato di vederla così pallida e così moribonda si affrettò di sorreggerla sulle sue braccia, quando un passo pesante seguito da rumori sinistri risuonò per le scale accompagnato dall’abbaiare del cane. — Si viene a cercarvi! esclamò Rosa incrociando le mani. Mio Dio! mio Dio! avete più altro a dirmi, o signore? E cadde in ginocchio, con la testa nascosta tra le sue mani e soffocata dai singulti e dalle lacrime. — Ho a dirvi che nascondiate preziosamente i vostri tre talli, e che ne abbiate cura secondo le prescrizioni che vi ho date, per amor mio. Addio Rosa. — Oh! sì, disse Rosa senza alzare la testa, oh! sì farò tutto quello che avete detto; fuorchè di maritarmi, soggiunse a voce bassa, perchè questo, oh! questo io lo giuro, mi è cosa impossibile. E cacciò nel suo seno palpitante il caro tesoro di Cornelio. Il romore che avevano sentito Cornelio e Rosa, facevalo il cancelliere che tornava a cercare il condannato, seguito dall’esecutore, dai soldati destinati a guardia del palco, e dai curiosi famigli della prigione. Cornelio senza debolezza come senza millanteria li ricevette piuttosto da amici che da persecutori, e feceli fare ciò che loro piacque per l’esecuzione del loro ufficio. Poi con un’occhiata gettata sulla piazza per la sua finestrella inferriata scorse il palco a venti passi dal quale la forca, da cui per ordine dello Statolder erano state distaccate le reliquie vituperate dei due fratelli de Witt. Quando gli convenne discendere per seguire le guardie, Cornelio ricercò con gli occhi l’angelico sguardo di Rosa, ma non vide dietro alle spade e alle alabarde che un corpo steso presso di una panca, e una faccia livida e mezzo velata dai lunghi capelli. Ma Rosa cadendo esanime, aveva per obbedire al suo amico posata la mano sulla sua giubbetta di velluto, e nell’oblio anco dei sensi, continuava istintivamente a sorvegliare il deposito prezioso, che aveale confidato Cornelio. I! giovine lasciando la segreta potè travedere tra le dita serrate di Rosa il foglio giallastro della Bibbia, sul quale Cornelio de Witt aveva con tanto stento e con tanto dolore scritto alcune linee, le quali, se Cornelio le avesse lette, avrebbero salvato un uomo e un tulipano. XII L’esecuzione. Cornelio non aveva che trecento passi a fare fuori della prigione per arrivare a piè del palco. In fondo alla scala il cane lo guardò passare tranquillamente; Cornelio credè pure rimarcare negli occhi del mastino una certa espressione di dolcezza che confinasse con la compassione. Forse il cane conosceva i condannati, e mordeva solo quelli che escissero liberi. Si capisce bene che quanto più il tragitto era corto dalla porta della prigione a piè del palco, tanto più era ingombro di curiosi. Erano li stessi, che iniquamente inebriati dal sangue che avevano già bevuto tre giorni innanzi, attendevano una nuova vittima. Però appena che Cornelio comparve un urlo immenso prolungossi per la via, s’intese su tutta la superficie della piazza e si distese in tutte le direzioni delle strade che sboccavano al palco e che erano ingombre di accorrenti, cosicchè il palco rassomigliava a un’isola, che fossero venute a battere onde di quattro o cinque fiumane. In mezzo alle minacce, agli ululati e agli schiamazzi, senza dubbio per non intenderli, Cornelio erasi tutto riconcentrato in se stesso. A che pensava il giusto che andava a morire? Non ai suoi nemici, non a’ suoi giudici, non a’ suoi carnefici. Pensava a’ bei tulipani, che vedrebbe dall’alto dei cieli, sia a Ceylan, sia a Bengala, sia altrove, allorchè assiso con tutti gl’innocenti alla destra di Dio egli potrebbe riguardare con compassione questa terra dove erano stati scannati Giovanni e Cornelio de Witt per aver troppo pensato alla politica, e dove si andava a scannare Cornelio Van Baerle per aver troppo pensato ai tulipani. — Un colpo di spada, diceva il filosofo, e comincerà la mia bella visione. Solamente restava a sapersi se come al de Chalais, come al de Thou e ad altri iniquamente uccisi, il boia non serbasse più di un colpo, quanto dire più di un martirio al povero tulipaniere. Non per questo Van Baerle montò meno risolutamente li scalini del suo patibolo. Vi montò orgoglioso, che che ne fosse, di essere l’amico dell’illustre Giovanni e il figlioccio del nobile Cornelio, che i furfanti accalcati per vederlo avevano spezzato e arrostito tre giorni innanzi. S’inginocchiò, fece la sua preghiera e rimarcò non senza provare una viva gioia, che posando la sua testa sul ceppo e tenendo gli occhi aperti vedrebbe fino all’ultimo momento la finestra ferrata del Buitenhof. Era venuta finalmente l’ora di venire a quell’atto: Cornelio posò il suo mento sul ceppo umido e freddo; ma in quel momento a suo malgrado gli si chiusero gli occhi per sostenere più risolutamente l’orribile fendente che era per cadergli sul collo e per rapirgli la vita. Un lampo balenò sul tavolato del palco: il boia sguainava la spada. Van Baerle disse addio al gran tulipano nero, certo di svegliarsi dando il buon giorno a Domeneddio in un mondo altramente illuminato, altramente colorito. Tre volte sentì il vento freddo della spada passare sul suo collo rabbrividito; ma oh! sorpresa! non sentì nè dolore nè scossa; non vide nessun cambiamento di sorta. Poi ad un tratto, senzachè egli sapesse da chi, Van Baerle si sentì rialzare da mani assai delicate, e bentosto ritrovossi ritto su’ suoi piedi un pochetto barcollanti. Riaprì gli occhi. Qualcuno leggeva qualche cosa presso di lui sopra una cartapecora con un gran suggello di ceralacca. E il medesimo sole giallastro, come conviensi a un sole olandese, splendeva in cielo e la medesima finestra ferrata lo guardava dall’alto del Buitenhof, e i medesimi marrani non più urlanti ma sbigottiti, riguardavanlo dal basso della piazza. A forza di aprire gli occhi, di riguardare, di ascoltare, Van Baerle cominciò a comprendere questo: Che monsignor Guglielmo principe di Orange, temendo senza dubbio che le diciassette libbre di sangue, che Van Baerle oncia più oncia meno aveva nel corpo, non facessero traboccare la bilancia della giustizia celeste, aveva avuto misericordia del suo carattere, compassione della sua innocenza. In conseguenza di che sua Altezza aveagli fatto grazia della vita. Ecco perchè la spada, che erasi alzata con reflesso sinistro, aveva volteggiato tre volte attorno la sua testa, come l’uccello di malaugurio attorno a quella di Turno; ma non l’aveva percosso e perciò ne aveva lasciate intatte le vertebre. Ecco perchè non aveva sentito nè dolore nè scossa. Ecco ancora perchè il sole continuava a ridere nell’azzurro slavato, è vero, ma sopportabilissimo delle volte celesti. Cornelio che aveva sperato Dio e il panorama tulipanico dell’universo, rimase un poco sconcertato, ma si consolò della sua non trista avventura con le risorse intellettuali di quella parte del corpo, che i Greci chiamavano _trachelos_, e che noi Francesi modestamente nominiamo collo. E poi Cornelio sperò che la grazia fosse completa, e che si liberasse e si rendesse alle sue caselle di Dordrecht. Ma Cornelio prese un _qui pro quo_; come diceva verso il medesimo tempo la signora di Sévigné, eravi un _post-scriptum_ alla lettera, e la parte più importante della lettera era nel _post-scriptum_ col quale Guglielmo Statolder d’Olanda condannava Cornelio Van Baerle a una perpetua prigionia. Egli era poco colpevole per la morte, ma troppo colpevole per la libertà. Cornelio ascoltò dunque il _post-scriptum_, poi dopo la prima contrarietà sollevata dalla decezione, che recava il _post-scriptum_: — Eh! pensò egli, non è tutto perduto; che nella risoluzione perpetua avvi del buono: vi ha Rosa, sonvi ancora i miei tre talli del tulipano nero. Ma Cornelio dimenticava che le Sette Province possono avere sette prigioni, una per provincia; e che il pane del prigioniero è d’altronde meno caro all’Aya che in una capitale. Sua Altezza Guglielmo, che non aveva, a quello che pareva, i mezzi di alimentare Van Baerle all’Aya lo recluse in prigione a vita nella fortezza di Loevestein ben presso a Dordrecht, ma ahimè! ben troppo lontano; benchè Loevestein, dicono ì geografi, sia situato alla punta dell’isola, la quale in faccia a Gorcum formano il Wahal e la Mosa. Van Baerle sapeva molto ben la storia del suo paese per non ignorare che il celebre Grozio era stato recluso in quel castello dopo la morte di Barneveldt, e che li Stati nella loro generosità verso il celebre pubblicista, giureconsulto, istorico, poeta, teologo, aveangli accordato la somma di ventiquattro soldi di Olanda al giorno pel suo mantenimento. — Io che sono ben lontano da valere quanto Grozio, diceva a se stesso Van Baerle, mi si daranno dodici soldi al più, e vivrò malamente, ma pure vivrò. Poi a un tratto colpito da una ricordanza terribile: — Ah! sclamò Cornelio, quel paese è umido e nebbioso! quel terreno è cattivo pe’ tulipani! E di più Rosa non sarà a Loevestein, mormorò lasciandosi cadere sul petto la testa, che poco era mancato che non gli cadesse più basso. XIII Ciò che in quel tempo passava nell’animo di uno spettatore. Mentrechè Cornelio così divagava col pensiero, una carrozza erasi avvicinata al palco. L’era pel prigioniero, e vi si invitò a montare. Obbedì. Il suo ultimo sguardo fu pel Buitenhof; sperava vedere alla finestra la faccia consolatrice di Rosa, ma la carrozza era attaccata a buoni cavalli, che trasportarono ben presto Van Baerle dal seno delle acclamazioni, che vociferava quella moltitudine in onore del magnanimissimo Statolder con una certa mescolanza di invettive diretta ai de Witt e al loro figlioccio salvata dalla morte. E li spettatori perciò pensavano: — È stata una gran bella cosa la nostra furia di giustiziare quel gran scellerato di Giovanni e quella buona lana di Cornelio, senza che la clemenza di Sua Altezza ce li avrebbe liberati come ha liberato costui! Tra tutti quelli spettatori che erano stati attirati sul Buitenhof dalla esecuzione di Van Baerle, e che la faccenda come l’era andata, dissestava non poco, certamente il più dissestato era un certo borghigiano vestito propriamente, e che fin dalla mattina aveva così ben lavorato di mani e di piedi, che avea fatto tanto da non essere separato dal palco che dalla fila di soldati, che chiudevano l’istrumento del supplizio. Erasi mostrato molto avido di vedere scorrere il _perfido_ sangue del colpevole Cornelio; ma nessuno nella espressione del funesto desiderio avea mostrato l’accanimento del borghigiano in questione. I più arrabbiati erano venuti alla punta del giorno sul Buitenhof per avere un posto migliore; ma costui più arrabbiato degli arrabbiati aveva passato la notte alla soglia della prigione, e dalla prigione era arrivato alla prima fila, come abbiamo detto, _unguibus et rostro_, graffiando gli uni, urtando gli altri. E quando il boia ebbe condotto il suo condannato sul palco, il borghigiano montato sul parapetto della fontana per meglio vedere ed essere meglio veduto, aveva fatto al carnefice un gesto che significava: — È fissato, eh? Gesto al quale il boia aveva risposto con un altro gesto che voleva dire: — Sta bene. Chi era dunque il borghigiano che pareva tanto intrinseco del boia, e che voleva dire tal ricambio di gesto? Niente di più naturale; il borghigiano era Isacco Boxtel, che dopo l’arresto di Cornelio, come abbiamo visto, era venuto all’Aya per far di tutto onde appropriarsi i tre talli del tulipano nero. Boxtel aveva sulle prime pensato di interessarvi Grifo; ma costui in quanto a fedeltà, a diffidenza e a mancinate aveva del _bouledogue_. Aveva in conseguenza preso contropelo l’odio di Boxtel, avealo battezzato come un ardente amico che figurando indifferenza si maneggiasse certamente di trovare un qualche mezzo di fare evadere il prigioniero. Però alla prima proposizione fatta a Grifo da Boxtel, di sottrarre cioè i talli, che Van Baerle se non in seno, per lo meno in qualche cantuccio della sua segreta doveva avere nascosto, Grifo non aveva risposto che con una scarica accompagnata dalle carezze del cane guardiano della scala. Boxtel non si era perduto di coraggio ad onta di un brano di calzoni rimasto tra’ denti del mastino. Era tornato alla carica; ma questa volta Grifo era in letto, febbricitante e col braccio rotto. Egli dunque non aveva neppure ammesso il postulante, che erasi rivolto a Rosa, offrendo a quella giovinetta, in cambio dei tre talli un’acconciatura d’oro puro. Il perchè la nobile giovinetta ancora insciente del valore del furto che le si proponeva fare, e che le si offriva pagare così bene, aveva rinviato il tentatore al boia non solo ultimo giudice, ma ancora ultimo erede del condannato. Questo rinvio fece nascere nello spirito di Boxtel un’idea. In questo mezzo la sentenza era stata pronunziata; sentenza espeditiva, come abbiamo visto. Isacco dunque non ebbe tempo di corrompere nessuno; e per conseguenza si fermò all’idea suggeritagli da Rosa; andò a trovare il boia. Isacco non dubitava che Cornelio morisse co’ suoi tulipani sul cuore; perchè non poteva indovinare due cose: Rosa, cioè l’amore; Guglielmo, cioè la clemenza. Meno Rosa e meno Guglielmo il calcolo dell’invidioso sarebbe stato giusto. Meno Guglielmo, Cornelio sarebbe morto; meno Rosa, Cornelio sarebbe morto co’ suoi talli sul cuore. Boxtel andò dunque a trovare il boia, si diede a costui come uno dei grandi amici del condannato, e meno gli oggetti d’oro e di argento comprò ogni spoglia del futuro morto per la somma un po’ eccessiva di cento fiorini. Ma cosa era una somma di cento fiorini per un uomo lì lì per tal somma sicuro di comprare il premio della società d’Harlem? Era lo stesso che mettere il denaro a mille per uno, onde bisogna convenire che era molto bene allogato. Il boia dal canto suo non aveva niente o quasi niente a fare per guadagnare i suoi cento fiorini; solamente doveva a esecuzione finita lasciar montare il bravo Boxtel sul palco col suo servo per raccogliere gli esanimi avanzi del suo amico. La cosa del resto era in uso tra i fedeli, quando uno dei loro maestri moriva pubblicamente sul Buitenhof. Un fanatico, com’era Cornelio, poteva aver bene un altro fanatico, il quale desse cento fiorini per le sue reliquie. Però il boia accondiscese alla proposizione. Non aveva premesso che una condizione: di essere pagato avanti. Boxtel, come tutti coloro che entrano nella baraonda della fiera, poteva non essere contento e per conseguenza non voler pagare che alla consegna; ma pagò avanti, e aspettò. Giudichi ognuno da questo, se Boxtel fosse agitato, se invigilasse guardie, cancelliere, esecutore, e se lo inquietassero i movimenti di Van Baerle. Come si aggiusterebbe sul ceppo? Come cadrebbe? Cadendo non potrebbe schiacciare l’inestimabili talli? Avrebbe avuto la cura di chiuderli in una scatoletta d’oro, exempli grazia essendo l’oro il più duro di tutti i metalli? Noi lascieremo di descrivere l’effetto prodotto sopra questo degno mortale per l’ostacolo sopravvenuto alla esecuzione della sentenza. A che dunque il boia perdeva il suo tempo a sventolare la sua spada così al disopra della testa di Cornelio invece di troncarla? Ma quando vide il cancelliere prendere la mano del condannato, rialzarlo tirando fuora di tasca una pergamena; quando intese la lettura pubblica della grazia accordata dallo Statolder, Boxtel non fu più un uomo. La rabbia del tigre, del jena e del serpente schizzò da’ suoi occhi, dal suo grido, dal suo gesto; se egli fosse stato a portata di Van Baerle, sarebbesi gettato su lui e avrebbelo assassinato. Così dunque Cornelio vivrebbe, e andrebbe a Loevestein; là nella sua prigione porterebbe i talli e troverebbevi un giardino, dove potrebbe far fiorire il tulipano nero. Sonvi certe catastrofi che la penna di un povero scrittore non possono descrivere, e che egli è costretto lasciarle alla imaginazione de’ suoi lettori in tutta la semplicità del fatto. Boxtel scornato cadde dal suo muricciuolo sopra alcuni orangisti scontenti come lui dal giro che andava a prendere l’affare, i quali pensando che i gridi cacciati dal bravo Isacco fossero gridi di gioia, lo gratificarono di pugni di tutto carato, i quali certo non sarebbero stati meglio consegnati al di là dello stretto. Ma un pugno più o meno non poteva accrescere il dolore che provava allora Boxtel. Volle correr dietro alla carrozza che portava Cornelio co’ suoi talli; ma nella sua furia non vide un lastrone, inciampicò, perdette il suo centro di gravità, ruzzolò a dieci passi di distanza, e non rialzossi che calpestato, ammaccato, solo quando tutto il fangoso popolaccio dell’Aya gli ebbe passato di sopra. Anco in questa circostanza Boxtel, che era in vena di malanni, ebbe pure tutti gli abiti stracciati, il dosso ammaccato e le mani sgraffiate. Sarebbesi potuto credere che tutto ciò fosse assai pel nostro Boxtel; ci si sarebbe ingannati. Rizzatosi, stracciossi a tutta possa i capelli, e gettolli in olocausto a quella divinità feroce e insensibile che chiamasi Invidia. La fu senza dubbio un’offerta gradita a quella divinità che non ha, dice la Mitologìa, che serpenti per capigliatura. XIV I piccioni di Dordrecht. Era già un grande onore per Cornelio Van Baerle d’essere recluso precisamente in quella medesima prigione, che aveva ospitato il sapiente Grozio. Ma una volta giunto alla prigione, un onore ben più grande attendevalo. Si combinò che la stanza abitata dall’illustre amico di Barneveldt era vuota a Loevestein, quando la clemenza del principe d’Orange v’inviò il tulipaniere Van Baerle. Questa stanza aveva una ben pessima reputazione nel castello, dacchè grazie all’inventiva di sua moglie, Grozio se n’era fuggito nella famosa cassa da libri, che si era trascurato di visitare. Dall’altro canto ciò parve di buono augurio a Van Baerle, che quella stanza gli fosse data per alloggio; perchè alla fin fine, secondo la sua maniera di vedere, non avrebbero mai dovuto fare abitare ad un secondo piccione la colombaia, donde un primo si fosse facilmente involato. La stanza è istorica; ma non perderemo il nostro tempo a descriverla per filo e per segno. Salvo un’alcova che era stata appositamente fatta per la signora Grozio, l’era una stanza da prigione come tutte le altre, forse un po’ più sfogata; cosicchè avevasi dalla finestra ferrata una incantevole veduta. D’altronde l’interesse della nostra storia non è in un certo numero di descrizioni d’interni; e poi per Van Baerle la vita era tutt’altra cosa che un apparecchio respiratorio. Il povero prigioniero amava al di là della sua macchina pneumatica due cose, di cui soltanto il pensiero, questo libero viaggiatore, potevagli ormai fornire il fittizio possesso: un fiore e una donna, l’uno e l’altra da lui per sempre perduti. Ingannavasi per bonomia il buon Van Baerle. Dio che avealo nel momento che andava al patibolo, riguardato col sorriso di padre, Dio riserbavagli nel seno stesso della sua prigione, nella stanza di Grozio, l’esistenza la più avventurata che sia mai toccata in sorte a un tulipaniere. Una mattina stando alla finestra a respirare l’aria fresca, che saliva dal Wahal, e ad ammirare in lontananza dietro una foresta di cammini i molini di Dordrecht sua patria, vide dei piccioni volare in frotta, da quel punto dell’orizzonte, e appollaiarsi, spollinandosi al sole, sugli acuti comignoli di Loevestein. — Que’ piccioni, disse tra sè Van Baerle, vengono da Dordrecht e conseguentemente vi debbono ritornare. Chi gli attaccasse un fogliettino sotto un’ala, correrebbe il rischio di far sapere le sue nuove a Dordrecht dove l’è pianto. Poi dopo un momento di meditazione: — Sta a me, soggiunse, a prenderne qualcuno. Si è pazienti, quando si ha vent’otto anni e che si è condannati a una perpetua prigionia, che equivale giù per su a ventidue o ventitre mila giorni di reclusione. Van Baerle pensando solo a’ suoi tre talli, — perchè questo pensiero batteva sempre nel fondo della sua memoria come batte il cuore nel fondo del petto, — Van Baerle, diciamo, pensando solo ai suoi tre talli, tese un aguato ai piccioni. Ei tentò quei volatili con tutte le risorse della sua cucina, otto soldi di Olanda (dodici di Francia) e a capo di un mese d’infruttuosi tentativi, prese alla fine una femmina. Gli ci vollero due altri mesi per prendere un maschio; poi li mise insieme, e verso il principio dell’anno 1673, avendo fatto le uova, diede la via alla femmina, che fidando nel maschio che le covasse in suo luogo, se ne andò tutta gioiosa a Dordrecht col suo bigliettino sotto l’ala. Ritornò la sera: aveva ancora il biglietto. Lo conservò così per quindici giorni; dapprima con grave sconcerto, poi con gran dispiacere di Van Baerle. Finalmente il sedicesimo tornò senza. Ora Van Baerle indirizzava quel biglietto alla sua balia, la vecchia Frisona, e supplicava le anime caritatevoli che lo trovassero, di farlo a lei recapitare con la maggiore sicurezza e la maggior prontezza possibile. Dentro a quel biglietto per la balia era un bigliettino per Rosa. Dio che porta col suo soffio i semi di capperi sulle muraglie dei vecchi castelli, e con un poco di pioggia falli fiorire, Dio permise che la balia di Van Baerle ricevesse quella lettera. Ed ecco come. Lasciando Dordrecht per l’Aya e l’Aya per Gorcum, Isacco Boxtel aveva abbandonato, non solo la casa sua, non solo il suo servitore, non solo il suo osservatorio, non solo i suoi tulipani, ma ancora i suoi piccioni. Il domestico, lasciato senza provvisione, cominciò dal mangiare quel poco che avea di risparmi, e poi si mise a mangiare i piccioni; il che questi vedendo, emigrarono dalla colombaia di Boxtel a quella di Van Baerle. La balia aveva buon cuore, chè sentiva il bisogno di amare una qualche cosa. Ella fece stretta amicizia con quei piccioni venuti a chiederle ospitalità; e quando il servitore d’Isacco reclamò, per mangiarli, i dodici o quindici ultimi, come aveva mangiato i dodici o quindici primi, la buona donna gli offrì di comprarli pagando sei soldi d’Olanda all’uno. L’era il doppio del valore dei piccioni; il perchè il servitore accettò con gioia il prezzo offerto. La balia dunque trovavasi legittima padrona dei piccioni dell’invidioso; i quali erano mescolati con altri che nelle loro peregrinazioni visitavano l’Aya, Loevestein, Rotterdam, andando senza dubbio in cerca di biada di un’altra natura, di canape di un altro gusto. Il caso, o piuttosto Dio, chè Dio solo ci vede a fondo, Dio permise che Cornelio Van Baerle avesse preso per l’appunto uno di quei piccioni. Ne resultò che se l’invidioso non avesse abbandonato Dordrecht per seguire il suo rivale all’Aya sulle prime, e poi di seguito a Gorcum o a Loevestein, come si vedrà, non essendo que’ due luoghi separati che dalla giunzione del Wahal con la Mosa, il biglietto scritto da Van Baerle sarebbe caduto nelle sue mani e non in quelle della balia; di modo che il povero prigioniero, come il corvo del ciabattino romano, avrebbe perduto tempo e fatica, e noi, invece d’avere a raccontare i varii casi che simili a un tappeto a mille colori vanno a svolgersi sotto la nostra penna, noi non avremmo avuto a descrivere che una lunga serie di giorni, pallidi, tristi e cupi come il manto della notte. Il biglietto cadde dunque nelle mani della balia di Van Baerle; imperò verso i primi giorni di febbraio, quando le prime ore di sera discendevano dal cielo, lasciando dietro a sè le stelle nascenti, Cornelio intese nella scala della torricella una voce che fecelo trasalire. Si posò le mani sul cuore e stette in orecchi. Era la dolce e armoniosa voce di Rosa. Confessiamolo, Cornelio non fu però così stordito dalla sorpresa e così fuor di sè dalla gioia, quanto lo sarebbe stato senza la storia del piccione; il quale aveagli recato in cambio sotto la sua ala una lieta speranza; e stava ogni giorno in espettativa, perchè, se il biglietto le fosse rimesso, conosceva Rosa, di aver nuove del suo amore e de’ suoi talli. Si alzò, porse l’orecchio, chinando il capo verso la porta. Sì, l’era la voce che così dolcemente avealo commosso all’Aya. Ma ora che Rosa aveva fatto il viaggio dall’Aya a Loevestein, che era riuscita, Cornelio non sapeva come, a penetrare nella prigione, giungerebb’ella così felicemente a penetrare fino al prigioniero? Mentrechè Cornelio a tal proposito accatastava pensiero sopra pensiero, desiderii sopra inquietudini, lo sportello posto alla porta della sua cella si aperse, e Rosa brillante di gioia, d’aspetto, e bella soprattutto per l’angoscia che da cinque mesi aveva impallidito le sue guancie, Rosa accostossi alla ferrata di Cornelio, dicendogli: — Oh! signore, signore, eccomi! Cornelio stese le braccia, guardò il cielo, e cacciò un grido di gioia. — Oh! Rosa, Rosa! esclamò. — Zitto! Parliamo sotto voce, che mio padre m’è dietro, disse la giovinetta. — Vostro padre? — Sì, gli è giù in corte in fondo alla scala, che riceve le istruzioni dal governatore, e sale. — Le istruzioni dal governatore?... — Sentite, vi racconto tutto in due parole. Lo Statolder ha una villa a cinque miglia da Leida, o piuttosto una gran cascina, e non altro; la sua balia è mia zia, che ha la direzione di tutti gli animali che sono chiusi in quella masseria. Dacchè ho ricevuto la vostra lettera, che non ho potuto leggere, ahimè! ma che mi ha letto la vostra balia, sono corsa dalla mia zia; là sono rimasta fino a che il principe venne alla cascina, e appena vi giunse, gli domandai, che mio padre fosse promosso dalle sue funzioni di primo soprastante della prigione dell’Aya a quello di carceriere alla fortezza di Loevestein. Ei non sospettò affatto del mio fine; che se lo avesse anche trapelato, forse me lo avrebbe recusato, ed invece me lo concesse. — Di sorte che eccovi qui? — Come vedete. — Di modo, che vi vedrò tutti i giorni? — Il più spesso che potrò. — O Rosa! mia bella Rosa! disse Cornelio; voi dunque mi amate un poco? — Un poco... diss’ella, oh! voi non siete troppo esigente, signor Cornelio. Cornelio le stese passionatamente le mani; ma le sole loro dita poterono toccarsi a traverso la ferrata. — Ecco mio padre! disse la giovanetta. E Rosa lasciò prontamente la porta e si lanciò verso il vecchio Grifo, che appariva in cima alla scala. XV Il Carceriere. Grifo era seguito dal mastino, che facevagli fare la sua ronda perchè all’occasione riconoscesse i prigionieri. — Babbo, l’è qui la famosa stanza donde Grozio evase; l’avete sentito nominare, Grozio? — Sì, sì, quel mariolo di Grozio; un amico di quello scellerato di Barneveldt, che io vidi giustiziare quando ero bambino. Grozio! ah! ah! evase da questa stanza. Ebbene, io scommetto che nessuno a suo esempio potrà evadere. E aprendo la porta, cominciò dall’oscuro a volgere il suo discorso al prigioniero. Quanto al cane, andando a fiutare le polpe al prigioniero, pareva gli volesse domandare con qual diritto non fosse morto, egli che aveva veduto uscire col cancelliere e col boia. Ma la bella Rosa chiamollo, e il mastino obbedì. — Signore, disse Grifo, alzando la sua lanterna per farsi un po’ di lume all’intorno, voi vedete in me il vostro nuovo carceriere. Io sono il capo soprastante, e le stanze tutte sono sotto la mia sorveglianza. Non sono perverso, ma sono inflessibile per tutto ciò che concerne la disciplina. — Oh! vi conosco perfettamente, mio caro Grifo, disse il prigioniero avanzandosi dentro il circolo di luce, che gettava la lanterna. — Toh! toh! Siete voi, sig. Van Baerle, disse Grifo; oh! siete voi; guarda, guarda, come ci si rincontra. — Sì, e godo infinitamente, mio caro Grifo, nel vedere che il vostro braccio va a meraviglia, perchè con quello appunto tenete la lanterna. Grifo aggrottò il sopracciglio e rispose: — Vedete, come va in politica, si fa sempre qualche sbaglio. Sua Altezza vi ha lasciato la vita, e io non l’avrei fatto mai e poi mai. — Voi? domandò Cornelio; e perchè? — Perchè voi siete uno da cospirare nuovamente; voialtri scienziati avete commercio col diavolo. — Ohè! maestro Grifo, non siete stato contento del modo con cui vi ho rimesso il braccio, ovvero del prezzo che vi ho chiesto? disse ridendo Cornelio. — Al contrario, perbacco! al contrario! mormorò il carceriere; me l’avete rimesso benissimo; vi è sotto qualche stregoneria: in capo a sei settimane io mi serviva del braccio, come nulla mi fosse accaduto. A segno tale che il medico del Buitenhof, che sa il fatto suo, voleva rirompermelo, per rimettermelo nelle regole, promettendomi che questa volta starei tre mesi senza potermene servire. — E voi non avete voluto? — Ho detto: No. Tanto che con questo braccio possa farmi il segno della croce (Grifo era cattolico) tanto che con questo braccio possa farmi il segno della croce, mi rido del diavolo. — Ma se vi ridete del diavolo, maestro Grifo, a più forte ragione vi dovete ridere dei sapienti. — Oh! i sapienti, i sapienti! esclamò Grifo senza rispondere alla domanda; i sapienti! amerei meglio avere da guardare dieci soldati che un solo sapiente. I soldati fumano, bevono, si ubriacano; sono trattabili come pecori, quando si dà loro dell’acquavite o del vino della Mosa; ma un sapiente ha ben altro che fumare, bere, ubriacarsi! Gli è sobrio, stringato, e conserva la sua testa per cospirare. Ma comincio dal dirvi che non vi sarà molto facile il cospirare; onde punti libri, punta carta, punti grimaldelli. Grozio si salvò per i libri. — Vi assicuro, maestro Grifo, riprese Van Baerle, che forse per un momento mi è venuta l’idea di salvarmi; ma che ora non ci penso neppure. — Va bene! va bene! rispose Grifo, vegliate su voi che io farò altrettanto. Ci vuol pazienza, ma Sua Altezza ha fatto un brutto sbaglio. — Non facendomi mozzare la testa?.... Grazie, grazie, maestro Grifo. — Senza dubbio. Guardate un po’ come ora stanno buoni i signori de Witt. — È atroce quel che dite, o maestro Grifo, disse Van Baerle volgendosi altrove per nascondere il suo disgusto. Voi dimenticate che uno di quegl’infelici era mio amico e l’altro.... l’altro mio secondo padre. — Sì, ma mi ricordo che l’uno e l’altro erano cospiratori. E poi parlo così per filantropia. — Ah! davvero? Spiegatemelo dunque un poco, mio caro Grifo, perchè non lo capisco bene. — Sì, se voi foste rimasto sul ceppo di maestro Harburck..... — Ebbene? — Ebbene! voi non soffrireste più. Mentre, non ve lo nascondo, son qui per rendervi la vita dolorosissima. — Grazie della promessa, maestro Grifo. E mentre che il prigioniero sorrideva ironicamente al vecchio carceriere, Rosa di dietro alla porta rispondevagli con un sorriso pieno di angelica consolazione. Grifo andò verso la finestra. Faceva anche tanto di giorno da vedere senza distinguere un immenso orizzonte che perdevasi in una nebbia grigiastra. — Qual veduta di qui si gode? domandò il carceriere. — Bellissima, rispose Cornelio, guardando Rosa. — Sì, sì, troppa veduta, troppa veduta. In quel frattempo i due piccioni spaventati dalla vista, e più dalla voce di quello sconosciuto, escirono dal loro nido e disparvero sbigottiti in mezzo alla nebbia. — Oh! oh! che cosa è questa? domandò il carceriere. — I miei piccioni, rispose Cornelio. — I miei piccioni! esclamò il carceriere, i miei piccioni! Che forse un prigioniero ha qualcosa di suo? — Allora, soggiunse Cornelio, i piccioni che Dio buono mi ha imprestati. — Ecco già una contravvenzione, replicò Grifo; dei piccioni! Ah! giovanotto, giovanotto, io vi prevengo di una cosa, ed è che non più tardi di dimani quegli uccelli bolliranno nella mia pentola. — Bisognerebbe prima di tutto che voi li prendeste, disse Van Baerle. Non volete che quei piccioni sieno miei, e vi giuro che non lo sono, ma molto meno sono vostri. — Il lasciato non è perso, borbottò il carceriere, e non più tardi di dimani, loro torcerò il collo. E nel fare questa sgarbata promessa a Cornelio, Grifo si spenzolò al di fuori per esaminare la struttura del nido: ciò che diede campo a Van Baerle di correre alla porta e di stringere la mano di Rosa che gli disse: — Stasera alle nove. Grifo tutto occupato dal desiderio di prendere nell’indomani i piccioni, come aveva promesso di fare, niente vide e niente intese; e dopo chiusa la finestra prese a braccio la figlia, escì, diede due girate alla serratura, spinse i chiavistelli e andò a fare le medesime promesse ad un altro prigioniero. Appena partito, Cornelio si approssimò alla porta per ascoltare lo strepito decrescente dei passi; poi, appena acquietato, corse alla finestra e guastò da capo a fondo tutto il nido dei piccioni. Amava meglio di cacciarli per sempre dalla sua presenza, che esporre alla morte i gentili messaggeri, ai quali doveva la felicità d’avere riveduta Rosa. La vista del carceriere, le sue minacce brutali, la cupa prospettiva della sua sorveglianza, di cui egli conosceva gli abusi, nulla di tutto questo potè distrarre Cornelio dai dolci pensieri e soprattutto dalla dolce speranza, che la presenza di Rosa veniva a risuscitare nel suo cuore. Aspettò impazientemente che le nove suonassero all’orologio di Loevestein. Rosa aveagli detto: «Stasera alle nove.» L’ultimo tocco del bronzo vibrava ancora per l’aria, quando Cornelio intese su per le scale il passo leggiero e la veste ondeggiante della bella Frisona, e ben presto la graticola della porta, sulla quale desiosamente Cornelio fissava gli occhi, rischiarossi. Lo sportello dall’altra parte si aperse. — Eccomi, disse Rosa, ancora tutta ansante per aver salito le scale, eccomi! — Oh! buona Rosa! — Siete dunque contento di vedermi? — E lo domandate! Ma, dite come avete fatto a venire? — Sentite, mio padre si addormenta tutte le sere non appena ha mangiato; allora io lo metto a letto un poco stordito dallo spirito di ginepro. Non ne fate parola, perchè grazie a questo sonno potrò ogni sera venire a discorrere un’oretta con voi. — Oh! ve ne ringrazio, Rosa, mia cara Rosa. E così dicendo, Cornelio accostò la sua faccia così vicina allo sportello, che Rosa ritirò la sua. — Vi ho riportato, diss’ella, i vostri talli di tulipano. Il cuore di Cornelio balzò. Non aveva ancora osato di domandare a Rosa che cosa avesse ella fatto del prezioso tesoro che aveale confidato. — Ah! li avete dunque conservati? — Non me li avevate consegnati come una cosa a voi carissima? — Sì, ma appunto perchè ve li avevo donati, sembravanmi cosa vostra. — Miei dopo la vostra morte, ma siete vivo per fortuna. Ah! come ho benedetto sua Altezza! Se Dio accordi al principe Guglielmo tutte le felicità che gli ho augurato, certamente sarà l’uomo il più felice del suo regno, ma ancora di tutta la terra. Voi siete vivo, e conservando io la Bibbia del vostro compare, ero risoluta di riportarvi i vostri talli; solamente io non sapeva come fare. Sul punto di prendere la risoluzione d’andare a chiedere allo Statolder il posto di carceriere di Loevestein per mio padre, la balia portommi la vostra lettera. Ah! piangemmo tanto e poi tanto insieme, credetemelo; ma la vostra lettera non fece che confermarmi nella presa risoluzione. Fu allora che partii per Leida; voi sapete il resto. — Come, come, mia cara Rosa, riprese Cornelio, dunque prima di vedere la mia lettera pensavi a venirmi a trovare? — Se io vi pensavo! rispose Rosa lasciando prendere al suo amore il di sopra al suo pudore, non pensava che a questo! E dicendo queste parole Rosa divenne così bella, che per la seconda volta Cornelio precipitò la sua fronte e le sue labbra sulla graticola, e ciò senza dubbio per ringraziare la bella giovanetta, che si ritirò come la prima volta. — In verità, diss’ella con quella civetteria, che palpita in cuore di tutte le giovanette, in verità mi sono bene spesso rimproverata di non saper leggere; ma non mai tanto e di tal maniera che quando la vostra balia mi portò la vostra lettera. Io ho tenuto in mano mia quella lettera che parlava per gli altri e che per me povera balorda l’era muta. — Voi vi siete molto spesso pentita di non saper leggere; e in quale occasione? — Madonna! esclamò la giovine sorridendo, per leggere tutte le lettere che mi si scrivono. — Voi ricevete lettere, o Rosa? — A centinaia. — Ma chi vi scriveva dunque?... — Chi mi scriveva? Primieramente tutti li studenti che passavano sul Buitenhof, tutti gli officiali che andavano alla piazza d’arme, tutti i giovani di banco e li stessi negozianti, che mi vedevano alla mia finestrella. — E cosa voi facevate, mia cara Rosa, di tutti quei biglietti? — Un tempo, rispose Rosa, me li facevo leggere da qualche amica, e ciò mi divertiva assai; ma da poco in qua, a che prò perdere il suo tempo a sentire tante sciempiaggini? da poco in qua le brucio. — Da poco in qua? esclamò Cornelio con occhio a un tempo confuso tra la gioia e l’amore. Rosa abbassò gli occhi fattasi rossa di maniera che non vide accostarsi le labbra di Cornelio che s’imbatterono ohimè! nella graticola; ma che malgrado quell’ostacolo inviarono fino alle labbra della giovinetta il soffio ardente del più tenero bacio. A quella vampa che arse le sue labbra, Rosa divenne tanto pallida, più pallida forse che non l’era stata al Buitenhof il giorno della esecuzione. Ella cacciò un gemito lamentevole, chiuse i suoi begli occhi e se ne fuggì col cuore palpitante, sforzandosi invano di comprimere sotto la mano i palpiti del suo cuore. Cornelio rimasto solo contentossi di aspirare il dolce profumo dei capelli di Rosa, rimasto come prigioniero tra le sbarre. Erasi Rosa così precipitosamente ritirata, che avea dimenticato di rendere a Cornelio i tre talli del tulipano nero. XVI Maestro e Scolara. Quel buonuomo di Grifo, come si è visto, era ben lungi di divider la buona volontà di sua figlia verso il battezzato di Cornelio de Witt. Non aveva che cinque prigionieri al Loevestein; l’incarico di carceriere non era dunque difficile a disimpegnarsi, e l’ergastolo era una specie di riposo accordato alla sua età. Ma nel suo zelo il degno carceriere aveva ingigantito con tutta la potenza della sua immaginazione l’officio statogli imposto. Per lui Cornelio aveva preso la proporzione gigantesca di un delinquente di prima classe; ed era in conseguenza per lui divenuto il più pericoloso de’ suoi prigionieri. Sorvegliava ogni suo movimento e lo lasciava sempre con viso crucciato, facendogli portare la pena, com’egli diceva, della sua orribile ribellione contro il clemente Statolder. Egli visitava tre volte il giorno la stanza di Van Baerle, credendo sorprenderlo in fatto; ma Cornelio aveva renunziato alle corrispondenze dacchè aveva presso la sua corrispondente. È parimente probabile che Cornelio se avesse ottenuto la sua intiera libertà e pieno permesso di ritirarsi ovunque gli fosse piaciuto, avrebbe preferito a ogni altro domicilio il domicilio della prigione con Rosa e con i suoi talli. E di fatti ogni sera alle nove Rosa aveva promesso di venire a discorrere col caro prigioniero, e fin dalla prima sera, lo abbiamo visto, Rosa aveva mantenuta la parola. L’indomani ella salì come la sera innanzi col medesimo mistero e con le medesime precauzioni. Solamente aveva fatto proposito di non accostar troppo la faccia alla graticola. D’altronde per entrare ad un tratto in discorso, che potesse sul serio occupare Van Baerle, ella cominciò da porgerli a traverso alla graticola i di lui tre talli sempre rinvoltati nel medesimo foglio. Ma a gran meraviglia di Rosa, Van Baerle respinse la di lei bianca mano con la punta delle sue dita. Il giovine aveva riflettuto: — Ascoltatemi, disse; rischieremmo troppo, io credo, se mettessimo tutta la nostra fortuna nel medesimo sacco. Pensate che si tratta, mia cara Rosa, di compire una impresa che si riguarda fino al giorno d’oggi come impossibile. Si tratta di far fiorire il gran tulipano nero. Prendiamo dunque tutte le nostre precauzioni, affine se non si riesce di non avere nulla a rimproverarci. Ecco qual è il calcolo che ho fatto per giungere alla meta. Rosa prestava tutta la sua attenzione a ciò che anderebbegli a dire il prigioniero, e ciò più per l’importanza che vi attaccava l’infelice tulipaniere, che per l’importanza che ella per sè vi annettesse. — Ecco, continuò Cornelio, come io ho calcolato la nostra comune cooperazione in questo grande affare. — Vi ascolto. — Avrete in questa fortezza un piccolo giardino, o in mancanza una corte qualunque, o in mancanza pure di questa una terrazza? — Abbiamo un bellissimo giardino, disse Rosa: si stende lungo il Wahal, ed è pieno di belle piante annose. — Potreste voi, mia cara Rosa, portarmi un po’ di terra del giardino, affinchè ne giudichi? — Dimani. — Ne prenderete all’ombra e al sole, affinchè io giudichi delle sue due qualità sotto le sue condizioni di asciuttezza e di umidità. — Siate tranquillo. — La terra scelta da me e modificata se ve n’è di bisogno, faremo tre parti dei nostri tre talli; voi ne prenderete uno che pianterete il giorno che vi dirò io, nella terra da me scelta; fiorirà certamente se voi lo custodirete secondo le mie indicazioni. — Le eseguirò a puntino. — Me ne darete un altro che io procurerò di allevare qui nella mia camera, onde così passare meno peggio l’intiere giornate, duranti le quali io non vi vedo. In quanto a questo, ve lo confesso, ci ho poca speranza, e preventivamente riguardo una tale sciagura come resultato del mio egoismo. Nonostante il sole mi visita di tanto in tanto; io trarrò artificiosamente partito da tutto, anco dal calore e dalla cenere della mia pipa. Infine terremo, o per dir meglio terrete in riserva il terzo tallo, nostra ultima risorsa nel caso che le nostre due prime speranze fossero mancate. In tal maniera, mia cara Rosa, è impossibile che noi non arriviamo a guadagnare i centomila fiorini di vostra dote, e a procurarci la suprema contentezza di vedere riuscire l’opera nostra. — Ho inteso, disse Rosa. Dimani vi porterò della terra, e voi sceglierete la mia e la vostra. Quanto alla vostra mi ci vorranno molti viaggi perchè non ve ne potrò portare che poca alla volta. — Oh! non c’è furia, mia cara Rosa; i nostri tulipani non devono essere interrati che di qui a più di un mese, cosicchè voi vedete bene che abbiamo del tempo d’avanzo. Solamente per piantare il vostro tallo seguirete tutte le mie istruzioni, eh? — Ve lo prometto. — E una volta piantato, mi terrete in corrente di tutte le circostanze che possano interessare il nostro allievo, come cangiamenti atmosferici, orme nelle viottole, orme nelle caselle. Ascolterete la notte se il nostro giardino fosse mai frequentato da gatti; chè due di questi tristi animali mi hanno in Dordrecht rovinato due caselle. — Ascolterò. — I giorni di lunazione.... Avete veduta sul giardino, mia cara ragazza? — Vi dà sopra la mia finestra di camera. — Buono! I giorni di lunazione guarderete se dai buchi del muro escono dei topi, che sono rosicatori terribili; ed ho veduto alcuni tulipani sfortunati rimproverare bene acremente il patriarca Noè per aver messo una coppia di topi nella sua arca. — Guarderò, se vi sono gatti, topi... — Bene, e avvisarmene. In seguito, continuò Van Baerle divenuto sospettoso dacchè egli era in prigione: in seguito avvi un animale più terribile ancora del gatto e del topo! — E qual’è? — È l’uomo! Voi capite, cara Rosa, che si ruba un fiorino, e si risica la galera per una simile miseria; a più forte ragione si può rubare un tallo di tulipano, che vale centomila fiorini. — Nessuno fuorchè io entrerà nel giardino. — E me lo promettete? — Ve lo giuro! — Bene, Rosa! grazie, cara Rosa! Oh! dunque ogni contentezza mi viene da voi! E siccome le labbra di Van Baerle ravvicinavansi alla graticola col medesimo ardore della sera innanzi, e che d’altronde era giunta l’ora di ritirarsi, Rosa allontanò la testa e allungò la mano. In quella mano gentile, di cui la birichina aveva una cura tutta particolare, era il tallo. Cornelio le baciò la punta delle dita; e perchè? Perchè forse quella mano teneva il gran tulipano nero? Perchè forse era la mano di Rosa? Lasciamo ciò a indovinare ai più sapienti di noi. Rosa si ritirò con gli altri due talli, che serrava contro il suo petto. Ma serravali contro il suo petto, perchè fossero i talli del gran tulipano nero, o perchè fossero di Cornelio Van Baerle? Questo punto, a nostro credere, sarà più facilmente spiegabile dell’altro. Comunque fosse, a partire da questo momento la vita divenne dolce e piena pel prigioniero. Abbiamo visto che Rosa aveagli restituito un tallo. Ogni sera ella portavagli una manciata di terra della porzione del giardino, la quale egli aveva ritrovata migliore, e che difatti era eccellente. Una larga brocca abilmente da Cornelio sboccata davagli una favorevole profondità; empilla a metà e mescolò la terra portata da Rosa con un po’ di poltiglia di fiume, ch’ei fece seccare e che fornigli un eccellente terriccio. Poi verso i primi di aprile vi depose il primo tallo. Ridire quali cure, abilità, accorgimento usasse Cornelio per nasconderlo alla sorveglianza di Grifo, la gioia delle sue fatiche, non ci sarebbe possibile. Una mezz’ora è un secolo di sensazioni e di pensieri per un prigioniero filosofo. Non passava giorno che Rosa non venisse a discorrere con Cornelio. I tulipani, di cui Rosa faceva un corso completo, fornivano il fondo della conversazione; ma per interessante che sia un tale soggetto non si può sempre parlare di tulipani. Allora parlavasi d’altro; e con grande sua sorpresa il tulipaniere si accorse della immensa estensione che potrebbe prendere il circolo della conversazione. Solamente Rosa aveva preso un’abitudine: teneva il suo bel viso a sei pollici di distanza dalla graticola, perchè la leggiadra Frisona era senza dubbio diffidente di sè stessa, dacchè aveva sentito a traverso la graticola come il fiato di un prigioniero possa ardere il cuore di una giovinetta. V’era una cosa che specialmente inquietava a quest’ora il tulipaniere quasi quanto i suoi talli, e sulla quale tornava incessantemente col pensiero: che Rosa dipendesse da un uomo come suo padre. Cosicchè la vita di Van Baerle, dottore sapiente, artista pittorico, uomo eccezionale, di Van Baerle che il primo avrebbe secondo tutte le probabilità scoperto quel capo d’opera della creazione che chiamerebbesi, com’era stato già deciso, _Rosa Barlaeensis_; la vita, e meglio della vita, la felicità di quest’uomo dipendeva dal più semplice capriccio di un altro uomo, che era un essere di spirito inferiore, e di un’infima classe; gli era un carceriere, alcunchè di meno intelligente della stessa serratura che egli chiudeva, qualche cosa di più duro del chiavistello che tirava. Gli era un qualche cosa del Caliban della _Tempesta_, un medio tra l’uomo e la bestia. Ebbene la felicità di Cornelio dipendeva da quest’uomo; e quest’uomo poteva un bel giorno annoiarsi a Loevestein, trovarvi l’aria malsana, l’acquavite di ginepro non perfetta, e lasciare la fortezza e condur seco sua figlia; e così Rosa e Cornelio essere separati un’altra volta. Dio, se lasciasse troppo fare alle sue creature, forse allora finirebbe col non più riunirle. — E allora a che prò i piccioni viaggiatori, diceva Cornelio alla giovinetta, perocchè, mia cara Rosa, non sapete leggere ciò che io vi scrivessi, nè scrivermi ciò che avreste pensato? — Ebbene, rispose Rosa, che in fondo del suo cuore temeva quanto Cornelio la separazione, abbiamo un’ora tutte le sere, impieghiamola bene. — Ma mi pare, rispose Cornelio, che non s’impieghi po’ poi tanto male. — Impieghiamola anche meglio, disse Rosa, sorridendo. Insegnatemi a leggere e a scrivere; profitterò delle vostre lezioni, credetemelo, e così non saremo noi più mai separati che per nostra mera volontà. — Oh! allora, esclamò Cornelio, abbiamo l’eternità dinanzi a noi. Rosa sorrise e alzò dolcemente le spalle. — Che volete restare per sempre in prigione? E dopo avervi donato la vita, non potrebbe sua Altezza ridarvi la libertà? Allora tornereste in possesso dei vostri beni? E come sarete ricco? E una volta libero e ricco, sdegnerete abbassare lo sguardo, quando passerete a cavallo o in carrozza, sulla infima Rosa, figlia d’un carceriere, quanto dire poco meno che del boia? Cornelio voleva protestare, e certo avrebbelo fatto di tutto cuore e nella sincerità dì un’anima traboccante d’amore; ma la giovinetta lo interruppe, dimandandogli sorridendo: — Come va il vostro tulipano? Parlare a Cornelio del suo tulipano era il vero mezzo per Rosa di fargli dimenticare anche lei. — Ma bene assai, diss’egli; la pellicola annerì, la fermentazione è cominciata, le vene del tallo riscaldansi e ingrossansi; da qui a otto giorni, e forse innanzi, si potranno distinguere le prime protuberanze della germinazione.... E il vostro Rosa? — Oh! io ho fatto le cose in grande e secondo le vostre indicazioni. — Vediamo, Rosa, che cosa avete fatto? disse Cornelio col guardo ardente, l’alito quasi anelante come nella sera, che i suoi occhi avevano arso il viso e il suo alito il cuore di Rosa. — Io ho, disse la giovinetta (perchè in fondo del cuore non aveva potuto vedere e studiare il doppio amore del prigioniero, per lei e pel tulipano nero), ho fatto le cose in grande; mi sono preparata un’aiola spolta, lungi dagli alberi e dai muri, in una terra leggermente sabbiosa, piuttosto umida che arida, senza un grano di ghiaia, senza un sassolino, e mi sono composta una casella, come me l’avete descritta. — Bene, bene, o Rosa. — Il terreno in tal guisa preparato aspetta le vostre prescrizioni. Alla prima buona giornata mi direte di piantare il mio tallo, e io lo pianterò; sapete che io debbo fare la mia piantagione dopo di voi, perchè ho tutto più favorevole, aria buona, sole, e abbondanza di succhi terrestri. — È vero, è vero! esclamò Cornelio, stropicciandosi tutt’allegro le mani; e voi siete una buona scolara, o Rosa, e guadagnerete certamente i vostri cento mila fiorini. — Non dimenticate dunque, disse Rosa ridendo, che la vostra scolara, giacchè così mi chiamate, ha ancora un’altra cosa a imparare oltre la coltura dei tulipani. — Sì, sì, e mi preme quanto a voi, o bella Rosa, che voi sappiate leggere. — Quando cominceremo? — Subito. — No, dimani. — Perchè dimani? — Perchè oggi la nostra ora è trascorsa, e vi debbo lasciare. — Di già! Ma dove leggeremo? — Oh! disse Rosa, ho un libro, un libro, che io spero, ci porterà fortuna. — Dunque a dimani? — A dimani. All’indomani Rosa tornò con la Bibbia di Cornelio de Witt. _Fine della Parte prima._ [Illustrazione: All’indomani, come abbiamo detto, Rosa tornò con la Bibbia di Cornelio de Witt. (IL TULIP. NERO) (pag. 151)] IL TULIPANO NERO PARTE SECONDA. I Primo Tallo. All’indomani, come abbiamo detto, Rosa tornò con la Bibbia di Cornelio de Witt. Allora cominciò tra il maestro e la scolara una di quelle scene piacevoli che fanno la gioia dei romanzieri quando abbiano la fortuna che si abbattino sotto la loro penna. La graticola, sola apertura che servisse di comunicazione ai due amanti, l’era troppo alta perchè persone che finallora eransi contentate di leggersi sul viso tutto ciò che aveano a dirsi, potessero comodamente leggere sul libro che Rosa aveva portato. In conseguenza la giovinetta dovè appoggiarsi alla graticola, con la testa piegata, col libro all’altezza del lume, che ella teneva con la diritta, e che per riposarla un poco Cornelio, immaginò di fissare con un fazzoletto a una traversa di ferro. D’allora Rosa potè seguire con un dito sul libro le lettere e le sillabe che facevale rilevare Cornelio, il quale provvisto di un filo di paglia a guisa d’indicatore designava le lettere da un buco della graticola alla sua attenta scolara. Il chiarore del lume rischiarava i ricchi colori di Rosa, il suo occhio turchino e profondo, le sue bionde trecce sotto la cuffietta d’oro brunito, che, come abbiamo detto, serve di acconciatura alle Frisone; le sue dita tese da cui il sangue scendeva, prendevano un tuono pallido rosa risplendente dicontro al lume e indicante la vita misteriosa, che vedesi circolare sotto le carni. L’intelligenza di Rosa sviluppavasi rapidamente sotto il contatto vificatore dello spirito di Cornelio; e quando la difficoltà compariva troppo ardua, gli occhi spinti negli occhi, le ciglia a contatto delle ciglia, i capelli congiunti ai capelli, tramandavano tali elettriche scintille capaci di rischiarare le tenebre stesse dell’idiotismo. E Rosa, scesa nella sua stanza, ripassava sola nella mente sua le lezioni di lettura, e nella sua anima contemporaneamente le non confesse lezioni di amore. Una sera venne più tardi del solito una mezz’ora. Gli era un caso troppo grave perchè Cornelio non s’informasse prima di tutto della causa del ritardo. — Oh! non mi sgridate, disse la giovinetta; non ci ho colpa. Mio padre ha rinnovato la sua conoscenza a Loevestein con un buonuomo, che era venuto frequentemente all’Aya a sollecitarlo per vedere la prigione. È un buon diavolo, amicone del fiasco, e narratore di graziose istorielle, e di soprappiù largo di tasca da non mai ricusare lo scotto. — Non lo conoscete per altro? domandò Cornelio sorpreso. — No; solo da circa quindici giorni mio padre è affollato dalle assidue visite di questa nuova conoscenza. — Oh! disse Cornelio scuotendo la testa con inquietudine (avvegnachè ogni nuovo avvenimento gli presagisse una catastrofe) qualche spia del genere di quelli, che si mandano nelle fortezze per sorvegliare insieme prigionieri e custodi. — Non lo credo affatto, rispose sorridendo Rosa; se questo bravuomo spia qualcheduno, non è certo mio padre. — E chi allora? — Me, per esempio. — Voi? — Perchè no? disse Rosa sorridendo. — Ah! gli è vero, riflettè sospirando Cornelio; voi non avrete, Rosa, sempre dei vani pretendenti: costui può divenir vostro marito. — Non dico di no. — E su che fondate questa gioia? — Dite signor Cornelio, questa paura. — Grazie, Rosa, perchè avete ragione; questa paura...... — La fondo su questo...... — Vi ascolto proseguite. — Costui era già venuto più volte al Buitenhof all’Aya; e guardate, appunto quando vi foste recluso. Io allontanata, e lui pure; io qui, e lui qui. All’Aya prendeva per pretesto di volervi vedere. — Vedere, me? — Oh! certo, pretesto, perchè oggi ancora che potrebbe far valere la medesima ragione, dappoichè siete ridivenuto il prigioniero di mio padre, o piuttosto che mio padre è ridivenuto vostro carceriere, non ricerca più di voi; ma bene al contrario jeri l’intesi dire a mio padre che non vi conosce niente affatto. — Continuate, o Rosa, ve ne prego, che io mi picco d’indovinare chi sia e che voglia costui. — Siete sicuro, signor Cornelio, che nessuno dei vostri si possa interessare per voi? — Non ho amici, o Rosa, fuorchè la mia balia, che ormai siete di conoscenza. Ahimè! la povera Zug senza finzione verrebbe da sè, e piangendo direbbe a vostro padre o a voi: «Caro signore, o cara signorina, il mio figlio è qui, vedete come io sono disperata, lasciatemelo vedere solamente per un’ora, e per tutta la mia vita pregherò Dio per voi». Oh! no, continuò Cornelio, oh! no, a meno della mia buona Zug, non ho amici al mondo. — Io torno dunque al mio primo pensiero e tanto più che ieri al tramontare del sole, essendo io a preparare la casella per dove piantare il vostro tallo, vidi un’ombra che per la porta socchiusa strisciavasi dietro i sambuchi e gli albereti. Feci finta di non vedere, ma gli era il nostr’uomo. Si nascose, vedendomi rivoltare la terra; e certo era bene io che egli seguiva, che egli spiava. Io non diedi un colpo di rastro, non toccai un briciolo di terra che egli non guardasse con tanti di occhi. — Oh! sì, sì, gli è un amoroso, disse Cornelio. È giovine, bello? E fissò avidamente Rosa aspettando con impazienza la di lei risposta! — Giovine! bello? esclamò Rosa dando in uno scoppio di risa. Gli è orrendo di viso, ripiegato di corpo, di cinquant’anni di età, e si vergogna guardarmi e parlare a voce alta. — E si chiama? — Giacobbe Gisels. — Non lo conosco. — Vedete bene che dunque non viene per voi! — In ogni caso se v’amasse, o Rosa, il che è ben probabile, perchè vedendovi bisogna amarvi, non l’amereste voi? — Oh! no, dicerto! — Voi volete che mi tranquillizzi, non è vero? — Vi c’impegno. — Ebbene! Or che cominciate a saper leggere, voi leggerete, o Rosa, tutto ciò che io vi scriverò, non è così? su i tormenti della gelosia e su quelli della lontananza. — Se scriverete grosso, leggerò. Poi siccome il giro che prendeva la conversazione, cominciava ad inquietare Rosa, diss’ella: — A proposito come va il vostro tulipano? — Rosa, figuratevi la mia gioia: stamattina guardavalo al sole; dopo aver leggermente scansato lo strato di terra che cuopre il tallo, ho visto spuntare la gemma del primo boccio. Ah! Rosa il mio cuore si è liquefatto per la gioia: quell’impercettibile bottone biancastro, cui un’ala di mosca sfiorando romperebbe, quella dubbiosa esistenza, che rivelasi per insensibile testimonianza, mi ha più commosso della stessa ordinanza di sua Altezza, che con l’arrestare la scure del carnefice rendevami la vita sopra il palco del Buitenhof. — Sperate dunque? disse Rosa sorridendo. — Oh! sì, spero! — Ed io alla mia volta quando pianterò il mio tallo? — Alla prima giornata favorevole, ve lo dirò io; ma soprattutto non vi fate aiutare da nessuno, soprattutto non confidate il vostro segreto a chicchessia, che un amatore, vedete, sarebbe capace nulla più che alla sola ispezione del tallo, conoscerne il suo valore; soprattutto, o mia Rosa, soprattutto serrate diligentemente la terza cipolletta, che ancora vi resta. — È ancora, signor Cornelio, nel medesimo foglio, dove voi lo avete messo, e tale e quale me lo avete dato, rincantucciato tutto in fondo della cassetta sotto i miei merletti, che tengonlo all’asciutto senza schiacciarlo. Ma addio povero prigioniero. — Come! di già? — Per forza. — Venire così tardi, e partire così presto! — Mio padre potrebbe impazientirsi non vedendomi tornare; l’amoroso potrebbe sospettare di avere un rivale. E intanto ella inquieta stava in ascolto. — Che cosa avete? domandava Van Baerle. — Mi par di sentire.... — Che cosa? — Un che di stropiccio sommesso di piedi per le scale. — Non può essere Grifo, disse il prigioniero, che si sente da lontano. — Non può essere mio padre, ne sono certa, ma.... — Ma..... che? — Potrebb’essere Giacobbe. Rosa si precipitò verso la scala, e s’intese nel tempo stesso un uscio che si richiuse rapidamente prima che la giovinetta fosse discesa i primi dieci scalini. Cornelio rimase molto inquieto, ma non era che per lui un preludio. Quando la fatalità comincia un’opera cattiva, egli è ben raro che non prevenga caritatevole la sua vittima come uno spadaccino fa del suo avversario per dargli l’agio di mettersi in guardia. Quasi sempre cotali avvisi, i quali emanano dall’istinto dell’uomo o dalla complicità degli oggetti inanimati, spesso meno inanimati di quello che generalmente si creda, quasi sempre, ripetiamolo, cotali avvisi sono negletti. Il colpo ha fischiato per l’aria, e cade sopra una testa che tal romba doveva avvertire, e che avvertita doveva premunirsi. Il domani passò senza che cosa rimarchevole avvenisse. Grifo fece le sue tre visite, e niente scoperse. Quando egli sentiva venire il suo carceriere (e Grifo nella speranza di sorprendere i segreti del suo prigioniero non veniva mai alla stessa ora) quando sentiva il suo carceriere, con l’aiuto di un macchinismo, che Van Baerle aveva inventato, e che rassomigliava a quelli per mezzo dei quali si salgono e si scendono i sacchi del grano nelle fattorie, Van Baerle aveva immaginato la maniera di calare il suo vaso prima sulla gronda di tegoli e poi su quella di pietra che sporgeva sopra la sua finestra. Quanto alle funicelle per mezzo delle quali operavasi il movimento, il nostro meccanico aveva trovato un mezzo di nasconderle colla borraccina che vegetava sulle tegole e nei fessi delle pietre. Grifo non poteva scorger nulla. Questa manovra riuscì per otto giorni. Ma una mattina che Cornelio assorto nella contemplazione del suo tallo, da cui lanciavasi già un punto di vegetazione, non aveva sentito salire il vecchio Grifo (giorno che tirava gran vento, e buffava nella torricella), la porta si aperse ad un tratto e Cornelio fu sorpreso col suo vaso tra’ suoi ginocchi. Grifo vedendo un oggetto sconosciuto e per conseguenza proibito in mano al suo prigioniero, precipitossi su quell’oggetto più rapidamente che non faccia il falcone sulla sua preda. Il caso o la destrezza, che il cattivo spirito fatalmente sempre accorda agli esseri malefici, fece che la sua callosa manona si cacciasse di botto nel bel mezzo del vaso sulla porzione di terriccio depositario della preziosa cipolletta stringendolo sì forte al polso, che Van Baerle aveagli saggiamente opposto. — Che cosa avete costì? disse Grifo: vi ci ho preso. E cacciò la sua mano dentro la terra. — Io? niente, niente! esclamò Cornelio tutto tremante. — Ah! vi ci ho preso! Un vaso con della terra! avvi qualche colpevole segreto nascosto qui dentro! — Caro signor Grifo, disse supplichevole Van Baerle come una pernice cui il mietitore abbia sorpreso il suo nido. Difatti Grifo cominciava a gettare all’aria la terra con le sue mani birnoccolute. — Signore, signore! adagio! disse Cornelio impallidendo. — A che? affè di Dio! a che? urlò il carceriere. — Adagio! vi dico; voi l’uccidete! E con un rapido movimento, quasi da disperato, strappò dalle mani del carceriere il vaso, cui egli nascose come un tesoro sotto la salvaguardia delle sue braccia. Ma Grifo caparbio come un vecchio, e sempre più convinto d’avere scoperto una cospirazione contro il principe d’Orange, Grifo avventossi al suo prigioniero col bastone alzato, ma vedendo l’impassibile fermezza del recluso risoluto a proteggere il suo fiore piantato, si avvide che Cornelio tremava meno per la sua testa che pel suo vaso. Cercò dunque di strapparglielo a viva forza, dicendo furibondo: — Ah! vedete bene, che vi ribellate. — Lasciatemi il mio tulipano! gridava Van Baerle. — Sì, sì, il tulipano, replicava il vecchio. Si conoscono tutte le furberie dei signori prigionieri. — Ma io vi giuro.... — Lasciatemelo, ripeteva Grifo, battendo i piedi; lasciatelo, o chiamo la guardia. — Chiamate chi diavol volete, ma non avrete che con la mia vita questo povero fiore. Grifo arrovellato cacciò per la seconda volta le sue dita nella terra, e questa volta tirò fuori il tallo tutto nero, e intanto che Van Baerle felice per aver salvato il contenente, non immaginavasi che il suo avversario possedesse il contenuto, Grifo gettò via violentemente il tallo ammorbidito, che s’infranse sul mattonato e quasi sul subito disparve spiaccicato sotto li scarponi del carceriere. Van Baerle vide lo sterminio, scorse gli umidi avanzi, comprese la gioia feroce di Grifo e cacciò un urlo di disperazione che avrebbe intenerito quel carceriere assassino, che alcuni anni prima aveva ammazzato il ragno di Pellico. L’idea di finire quell’uomo spietato passò come un lampo attraverso il cervello del Tulipaniere. Il fuoco e il sangue montarongli insieme alla testa e lo acciecarono; alzò a due mani il vaso pesante di tutta la terra che ormai conteneva, e un solo istante di più avrebbelo lanciato sul cranio calvo del vecchio Grifo. Un grido arrestollo, un grido di pianto e di angoscia, che cacciò di dietro al carceriere dalla graticola la povera Rosa, pallida, tremante, con le braccia alzate verso il cielo e interposte tra il padre e l’amico. Cornelio lasciossi cadere il vaso che s’infranse in mille pezzi con un fracasso spaventevole. E allora Grifo comprese il pericolo che aveva corso, onde scese a terribili minacce. — Oh! bisogna, gli disse Cornelio, che voi siate un uomo ben vile e ben perverso, per strappare a un povero prigioniero la sua unica consolazione, una cipolletta di tulipano! — Olà! babbo mio, soggiunse Rosa, gli è un delitto che voi avete commesso. — Ah! siete voi fanciulla! gridò rivolgendosi verso la figlia il vecchio tutto bollente di collera, mischiatevi de’ fatti vostri, e prima di tutto scendete al più presto. — Infelice! infelice! continuava Cornelio disperato. — Alla fin dei conti non è che un tulipano, soggiunse Grifo un po’ piccato. Vi se ne darà quanti volete, dei tulipani; ne ho da trecento nel mio stanzone. — Oh diavolo! i vostri tulipani! esclamò Cornelio. Essi per voi hanno un prezzo, e li apprezzate. Oh! corpo di mille milioni! se li avessi io, li darei per quello che avete schiacciato così. — Ah! ah! fece Grifo trionfante. Vedete bene che non è il tulipano che vi preme. Vedete bene che eravi in quella falsa cipolletta qualche stregoneria, un mezzo forse di corrispondenza coi nemici di Sua Altezza che vi ha fatto grazia. Lo diceva ben’io che ebbe gran torto a non farvi scorciare il collo. — Babbo mio! babbo mio! esclamò Rosa. — Ebbene! tanto meglio! tanto meglio! ripeteva Grifo animandosi, l’ho distrutto, sì l’ho distrutto. Ogni qualvolta ricomincerete, e io da capo! Ah! vi avevo prevenuto, mio caro amico, che avreivi resa la vita dura. — Maledizione! maledizione! urlò Cornelio tutto disperato, rivolgendo con le sue dita tremanti gli ultimi vestigi del tallo, cadavere di tante gioie e di tante speranze. — Dimani noi pianteremo l’altro, mio caro Cornelio, disse sottovoce Rosa che comprendeva tutto l’immenso dolore del tulipaniere, e che gettò, cuore angelico, questa dolce parola come una goccia di balsamo sulla sanguinante ferita di Cornelio. II L’amante di Rosa. Rosa aveva appena rivolte queste parole di consolazione a Cornelio che s’intese per le scale una voce, che dimandava a Grifo come la fosse andata. — Babbo mio, non sentite? — Chi? — Il signor Giacobbe vi chiama; l’è inquieto. — Si è fatto tanto fracasso, che sarebbesi detto che questo sapiente mi assassinasse. Ah! si passa sempre qualche guaio con i sapienti! Poi accennando col dito la scala a Rosa, soggiunse: — Andate avanti, signorina! E chiudendo la porta, si affrettava dicendo: — Son da voi, amico Giacobbe. E Grifo era escito con Rosa, lasciando nella sua solitudine e nel suo amaro dolore il povero Cornelio che mormorava: — Oh! tu m’hai assassinato, o vecchio boia; non gli posso sopravvivere! E difatti il povero prigioniero sarebbesi ammalato senza il contrappeso, cui la Provvidenza aveva messo alla di lui vita, e che chiavamasi Rosa. La giovinetta tornò alla sera. La sua prima parola fu per annunziare a Cornelio che ormai suo padre non sarebbesi più opposto che egli coltivasse fiori. — E come lo sapete? disse il prigioniero di un aria trista alla giovinetta. — Lo so perchè l’ha detto. — Forse per ingannarmi? — No, è pentito. — Oh! sì, ma troppo tardi. — È pentimento non suo. — Come dunque si è pentito? — Se voi sapeste, come lo sgrida il suo amico! — Ah! il signor Giacobbe; dunque non vi lascia il signor Giacobbe? — In ogni caso meno che può. E sorrise di tale una maniera che la nuvoletta di gelosia, che aveva appannata la fronte di Cornelio, dileguossi. — Come l’è andata? domandò il prigioniero. — Come l’è andata? interrogato mio padre dal suo amico a pranzo, ha raccontato la storia del tulipano, o piuttosto del tallo, e il bello sperimento che aveva egli fatto pestandolo. Cornelio cacciò un sospiro che aveva più faccia di gemito. — Se voi aveste visto in quel momento messer Giacobbe! continuò Rosa. In verità, ho creduto che volesse dar fuoco alla fortezza; i suoi occhi erano due carboni ardenti, i suoi capelli irti, le sue pugna strette; un momento ho creduto che volesse strozzare mio padre. — Egli gridò «Avete fatto questo! avete pestato il tallo? — Già» rispose mio padre. — «Gli è infame! continuò egli, gli è vergognoso! Questo è un delitto, urlò Giacobbe, un delitto che avete commesso!» — Mio padre restò stupefatto, e domandò al suo amico: «E che sì che siete impazzato? — Oh! che uomo degno che è cotesto Giacobbe, mormorò Cornelio; è un cuore schietto, un’anima eletta. — Il fatto sta che gli è impossibile trattare un uomo più duramente di quello che egli abbia trattato mio padre, soggiunse Rosa; egli mostrava un vero dispiacere, e ripeteva senza tregua: «Calpestato! il tallo calpestato! o mio Dio, mio Dio, calpestato!» — Poi volgendosi a me domandò: — «Ma non sarà il solo che egli abbia? — Ha domandato questo? interruppe Cornelio prestando attento le orecchie. — «Voi credete che non fosse il solo che egli abbia, disse mio padre. Bene, si cercheranno gli altri. — Voi cercherete gli altri!» esclamò Giacobbe, prendendo mio padre alla pistagna; ma lasciollo subito. Poi volgendosi verso me, domandò: — «E che ha detto il povero giovine? «Io non sapeva cosa rispondere, avendomi voi forte raccomandato di non lasciar trapelare l’interesse che avete per questi talli. Fortunatamente mio padre cavommi d’imbarazzo. — «Che cosa ha egli detto? Fa la bava dalla bocca. «Io l’interruppi: Come non andar per le furie, essendo voi stato così ingiusto e brutale. — «Ohè! sei pazza ancor tu? esclamò mio padre alla sua volta; che gran disgrazia lo spiaccicare una cipolletta di tulipano! Se ne hanno a centinaia per un fiorino al mercato di Gorcum. — «Ma non mai pregevole quanto quello, mi spiace rispondervi. — E Giacobbe a queste parole? domandò Cornelio. — A queste parole, io debbo dirlo, mi parve che il suo occhio gettasse un lampo. — Sì, fece Cornelio, ciò non fu tutto: profferì parola? — «Così dunque, o bella Rosa, diss’egli con voce melata, credete quella cipolletta preziosa? — Mi accorsi aver fatto uno strafalcione, e risposi non curante: «Che so io? Che m’intend’io di tulipani. Io so solamente dacchè, ahimè! siamo condannati a vivere con i prigionieri, io so che, per i prigionieri ogni passatempo ha il suo pregio. Questo povero Van Baerle sollevavasi con quella cipolletta; e dico perciò che bisogna essere ben crudele per togliergli un tale divertimento. — «Ma _in primis_, riflettè mio padre, come s’è egli procurata quella cipolletta? Ecco ciò che sarebbe buono a sapersi, mi pare. «Torsi altrove lo sguardo per evitare l’incontro di quello di mio padre; ma incontrai gli occhi di Giacobbe. «Sarebbesi detto che egli volesse perseguitare il mio pensiero fino nel fondo del mio cuore. «Un movimento di mal’umore dispensa talvolta da una risposta. Io feci una spallata, un giro a sinistra e un passo verso la porta. «Ma fui fermata da una parola, che per quanto pronunziata sotto voce, io la presi a volo. «Giacobbe aveva detto a mio padre: — «Perbacco! non è tra gl’impossibili l’assicurarsene! — «E come? — «Frugando; e s’egli abbia altri talli, li troveremo, perchè ordinariamente se ne tengon tre. — Se ne tengono tre! esclamò Cornelio. Ha detto che io avevo tre talli? — Capite bene, che il detto mi sorprese come ha sorpreso voi. Mi rivolsi. Gli erano così occupati che non si accorsero della mia mossa. — «Ma, disse mio padre, le sue cipollette, non le ha forse in dosso. — «Allora sotto un qualsiasi pretesto fatelo scendere; e intanto io frugherò la sua stanza. — Oh! oh! fece Cornelio. Gli è uno scellerato cotesto vostro Giacobbe. — Ne ho paura. — Ditemi, o Rosa, continuò Cornelio tutto pensieroso. — Che? — Non mi raccontaste, che il giorno che preparavate la vostra casella, vi aveva costui seguito? — Sì. — Che si strisciò come un’ombra dietro i sambuchi? — Davvero. — Che pareva contasse ogni zappata? — Ad una ad una. — Rosa! disse Cornelio impallidito, — Ebbene! — Non seguiva voi. — Chi dunque? — Non è amante di voi. — E allora di chi? — Ei segue il mio tallo: gli è invaghito del mio tulipano. — Ah! potrebbe anche darsi! esclamò Rosa. — Volete assicurarvene? — In qual modo? — Oh! l’è cosa ben facile. — Parlate! — Dimani andate al giardino; silenziosa come la prima volta, onde Giacobbe non sappia che vi andate; silenziosa come la prima volta, facendo le viste di non vederlo; figurate di sotterrare il tallo, escite dal giardino, ma osservate dal fessolino della porta, e vedrete che cosa sia egli per fare. — Bene! Ma poi? — Poi? Come opererà, noi opereremo. — Ah! disse Rosa sospirando, amate ben molto la vostra cipolletta, o signor Cornelio. — Il fatto stà, disse il prigioniero con un sospiro, dacchè vostro padre ha calpestato quell’infelice tallo, parmi che una porzione della mia vita sia paralizzata. — Vediamo! disse Rosa, volete fare ancora qualche altra prova? — Quale! — Volete accettare l’offerta di mio padre? — Quale offerta? — Di cipollette di tulipani a centinaia. — È vero. — Accettatene due o tre, e tra queste due o tre cipollette potrete allevare il terzo tallo. — Sì, l’anderebbe bene, disse Cornelio aggrottando le ciglia, se vostro padre fosse solo; ma c’è un altro, quel signor Giacobbe, che ci spia. — Ah! l’è vero; però, riflettiamo: vi private così di una gran distrazione. Ella pronunziò queste parole con un certo sorriso che non era del tutto esente dalla ironia. Infatti Cornelio pensò per un momento: gli era facile vedere che egli lottava con un gran desiderio. — Ebbene, no, esclamò egli con uno stoicismo proprio all’antica, no, sarebbe dabbenaggine, sarebbe una pazzia, sarebbe una vigliaccheria! Se io dessi in balia a tutte le perverse vicende della collera e della invidia l’ultima risorsa che ci rimane, sarei un uomo indegno di perdono. No! Rosa, no! dimani risolveremo sul conto del vostro tulipano; lo coltiverete secondo le mie istruzioni; e quanto al terzo tallo, — Cornelio sospirò profondamente, — quanto al terzo, custoditelo nel vostro armario! custoditelo come l’avaro custodisce la sua prima o la sua ultima moneta d’oro; come la madre custodisce il suo figlio; come il ferito custodisce la sua ultima goccia di sangue nelle sue vene; conservatelo, o Rosa! Un non so che dicemi che lì sta la nostra salvezza, la ricchezza nostra! Custoditelo! e se il fulmine cadesse su Loevestein, giuratemi, o Rosa che invece delle vostre gioie, de’ vostri anelli, della vostra bella scuffiettina d’oro, che così bene incornicia il vostro viso, giuratemi, o Rosa, che voi salverete quell’ultimo tallo, che racchiude il mio tulipano nero. — State tranquillo, signor Cornelio, disse Rosa con una dolce mistura di tristezza e di solennità, state tranquillo; i vostri desiderii sono per me comandi. — E medesimamente, continuò il giovine infervorandosi sempre di più, se vi accorgeste d’essere seguita, i vostri passi esplorati, le vostre conversazioni prese in sospetto da vostro padre e da quell’orribile Giacobbe che io detesto; ebbene! o Rosa, sacrificate me sull’istante, me che più non vivo che per voi, che più non ho al mondo che voi, sacrificatemi, e non vedetemi più mai. Rosa si sentì serrare il cuore, e spuntarono su i suoi occhi le lacrime. — Ahimè! sospirò ella. — Che? dimandò Cornelio. — Vedo una cosa. — Che vedete? — Vedo, disse la giovinetta singhiozzando, vedo che amate tanto i tulipani, che non resta posto nel vostro cuore per un altro affetto. E se ne fuggì. Cornelio passò la serata dopo la partenza della giovinetta, e una delle più cattive nottate che avesse mai passato. Rosa era scorrucciata contro di lui e aveva ragione. Ella forse non ritornerebbe più a vedere il prigioniero, non avrebbe più nuova nè di Rosa nè de’ suoi tulipani. Ora, come spiegheremo noi il bizzarro carattere dei veri tulipanieri tali quali esistono ancora nel mondo? Lo confessiamo a smacco del nostro eroe e della orticultura, de’ suoi due amori, quello che Cornelio sentivasi più inclinato a rigettare, l’era l’amor di Rosa; e allorquando verso le tre di mattina addormentossi sfinito dalla stanchezza, bersagliato dal timore, compunto dai rimorsi, il gran tulipano nero cedè il primo posto ne’ suoi sogni agli occhi turchini così dolci della bionda Frisona. III Donna e Fiore. Ma la povera Rosa chiusa nella sua camera non poteva indovinare chi sognasse Cornelio. Ne conseguitava però che da ciò ch’egli aveale detto, Rosa era ben più inclinata a credere ch’egli sognasse i suoi tulipani che lei, e non pertanto Rosa ingannavasi. Ma siccome non era là nessuno per dire a Rosa che s’ingannava, avvegnachè le imprudenti parole di Cornelio erano cadute sulla di lei anima come goccie di veleno, Rosa non sognò già, ma pianse. Difatti essendo Rosa una creatura di spirito elevato, di un senso diritto e profondo, rendevasi giustizia, non già quanto alle sue qualità morali e fisiche, ma quanto alla sua posizione sociale. Cornelio era sapiente e ricco, almeno innanzi la confisca de’ beni; Cornelio era di quella borghesia commerciale, più fiera delle sue insegne di bottega delineate a guisa di blasone, di quello che non lo sia mai stata la nobiltà di razza delle sue armerie ereditarie. Cornelio poteva dunque trovare Rosa buona per una distrazione, ma a colpo sicuro quando si trattasse d’impegnare il suo cuore per un tulipano, cioè pel più nobile e pel più fiero dei fiori, egli lo impegnerebbe piuttosto, che per Rosa umile figlia di un carceriere. Rosa dunque comprendeva questa preferenza che Cornelio dava al tulipano nero invece che a lei, ma la non era meno disperata appunto perchè lo comprendeva. Cosicchè aveva preso una risoluzione durante questa nottata terribile, questa nottata d’insonnia che aveva passato. La risoluzione si era di non tornare più alla graticola. Ma com’ella sapeva l’ardente desiderio che nutriva Cornelio d’avere nuove del suo tulipano; come ella non volevasi esporre a rivedere un uomo per cui ella sentiva accrescersi la sua pietà al punto che dopo essere passata per la simpatia, quella stessa pietà incamminavasi diritta diritta e a gran passi verso l’amore; ma come ella non voleva mettere alla disperazione costui, risolvette di solo proseguire le lezioni di lettura e di scritto già cominciate, e fortunatamente progredite a tale profitto, che un maestro non sarebbe stato più necessario, se quel maestro non si fosse chiamato Cornelio. Rosa dunque si mise accanitamente a leggere nella Bibbia del povero Cornelio de Witt, sopra la cui seconda pagina, divenuta la prima dacchè l’altra era stata staccata, era scritto il testamento di Cornelio Van Baerle. — Ah! mormorò rileggendo quel testamento che la non terminava mai senza che una lacrima, perla d’amore, scorresse da’ suoi occhi sereni sopra le sue pallide guancie, ah! che allora credetti che egli mi amasse! Povera Rosa! s’ingannava. Mai l’amore del prigioniero era stato più effettivo che al momento in cui ora ci troviamo, dappoichè, l’abbiamo detto con un po’ d’imbarazzo, nella lotta tra il gran tulipano nero e Rosa, il gran tulipano nero aveva dovuto soccombere. Ma Rosa, lo ripetiamo, ignorava la disfatta del gran tulipano nero. Cosicchè la sua lettura finita, in cui Rosa aveva molto profittato, prendeva la penna e mettevasi accanitamente all’opera non meno lodevole e ben più difficile dello scritto. Ma siccome Rosa scriveva già quasi leggibilmente il giorno che Cornelio aveva così imprudentemente lasciato parlare il suo cuore, ella punto disperossi di far progressi assai rapidi per dare al più tardi tra otto giorni nuove del suo tulipano al prigioniero. Non aveva dimenticato neppure una sillaba delle raccomandazioni che aveale fatto Cornelio. Del resto Rosa mai dimenticava una sillaba di ciò che dicevale Cornelio, anche quando non avesse avuto l’aspetto della raccomandazione. Egli dal canto suo svegliossi più innamorato di prima. Il tulipano ancora era ben luminoso e vivido nel suo pensiero, ma non vedealo già più come un tesoro a cui tutto egli dovesse sacrificare, anche Rosa, ma come un fiore prezioso, una maravigliosa combinazione della natura e dell’arte che Dio accordavagli per abbellimento della sua donna. Pertanto tutta la giornata perseguitavalo una vaga inquietudine, simile a quegli uomini, il cui spirito è abbastanza forte per dimenticare momentaneamente che un gran danno la sera o l’indomani li minacci. La preoccupazione una volta vinta, vivono della vita ordinaria, soltanto di tempo in tempo il male dimenticato loro morde il cuore ad un tratto con l’acuto suo dente. Trasaliscono, s’interrogano perchè abbiano trasalito, poi rappellandosi ciò che avevano dimenticato: — Oh? sì, dicono con un sospiro, è questo! Il _questo_ di Cornelio l’era la paura che Rosa non venisse punto nè poco nella sera secondo il solito. E a misura che avanzavasi la notte, la preoccupazione diventava più viva e più pressante fino al punto che impadronivasi di tutto il corpo di Cornelio e che egli non poteva più vivere senza di lei. Fu per questo che salutò l’oscurità con un battito prolungato di cuore; a misura che l’oscurità cresceva, le parole da lui dette la sera innanzi a Rosa, le quali avevano tanto afflitto quella povera ragazza, facevansi più presenti al suo spirito, e dimandavasi come avesse potuto dire alla sua consolatrice di posporla al suo tulipano, quanto dire, se bisogno ci fosse, di rinunziare di vederla, quando per lui la vista di Rosa era divenuta una necessità della sua vita. Dalla camera di Cornelio sentivasi battere le ore all’orologio della fortezza. Suonarono le sette, le otto, poi le nove; mai squillo di bronzo vibrò più profondamente al fondo di un cuore che nol facesse il martello battente il nono colpo delle nove ore. Poi tutto fu silenzio. Cornelio appoggiò la sua mano sul cuore per soffocarne i battiti, e si pose in ascolto. Lo stropiccio de’ piedi e lo scartocciare delle vesti di Rosa a’ primi gradini della scala era assuefatto a conoscere così bene, quando ella saliva, che diceva: — Ah! ecco Rosa. Quella sera nessuno strepito turbò il silenzio del corridore; l’orologio battè le nove e un quarto; poi con due suoni distinti nove ore e mezzo; poi nove ore e tre quarti; poi infine col suo tuono grave annunziò non solo agli ospiti della fortezza ma ancora agli abitanti di Loevestein che l’erano le dieci. Era l’ora che secondo il solito Rosa lasciava Cornelio; l’ora era suonata e Rosa non era ancora venuta. Di guisa che i suoi presentimenti non l’aveano ingannato; Rosa irritata se ne stava nella sua camera, e abbandonavalo. — Oh! che ho ben meritato ciò che mi accade, diceva Cornelio; oh! non verrà, e farà santamente, che io in suo luogo farei altrettanto. E a malgrado ciò Cornelio ascoltava, aspettava e sperava sempre. Ascoltò e aspettò così fino alla mezza notte; ma a quest’ora cessò d’aspettare e tutto vestito si gettò sul letto. La notte fu lunga e trista, poi si fece giorno; ma il giorno non portò speranza alcuna al prigioniero. Alle otto di mattina la sua porta si aperse: ma Cornelio non volse neppure la testa, che aveva conosciuto il passo pesante di Grifo, e avealo sentito perfettamente solo. Non guardò neppure dalla parte del carceriere; e nonpertanto avrebbe ben voluto interrogarlo, domandargli nuove di Rosa. Fu sul punto per stravagante che sembrato fosse al di lei padre, di fargli tale dimanda. Sperava l’egoista che Grifo gli rispondesse, che sua figlia l’era malata. A meno che in casi straordinarii Rosa non veniva mai di giorno; perlochè Cornelio non sperava vederla. Contuttociò alle sue subite scosse, al suo stare in orecchi verso la porta, alle sue rapide occhiate gettate sulla graticola, vedevasi bene che il prigioniero aveva la muta speranza che Rosa farebbe una infrazione alle sue abitudini. Alla seconda visita di Grifo, Cornelio contro ogni sua aspettativa aveva dimandato al vecchio carceriere e ciò della più dolce maniera del mondo, nuove della sua salute; ma Grifo laconico come uno Spartano, si era ristretto a rispondere. — Va bene. Alla terza visita Cornelio variò la forma della interrogazione, dimandando: — C’è nessuno malato al Loevestein? — Nessuno! rispose più laconicamente ancora della prima volta, chiudendo Grifo la porta sul muso al prigioniero. Grifo, punto abituato a simili leziosaggini da parte di Cornelio, sospettò nel suo prigioniero un indizio di attentata corruzione. Cornelio ritrovossi solo; l’erano le sette di sera. Si rinnovarono allora con una gradazione più intensa della sera antecedente le angosce che ci siamo sforzati descrivere. Ma, come la veglia, le ore si successero senza ricondurre la dolce visione che rischiarava a traverso della graticola la segreta del povero Cornelio e che, allontanandosene, vi lasciava la luce per tutto il tempo della sua assenza. Van Baerle passò la notte in una vera disperazione. La dimane, Grifo gli parve più rotto, più brutale, più sgraziato del solito: eragli passato per la mente, o piuttosto pel cuore la lusinga che egli impedisse Rosa di venirci. Si sentì preso da un’ira feroce di strangolare Grifo; ma strangolato che l’avesse, tutte le leggi divine e umane proibivano a Rosa di mai più rivedere Cornelio. Il carceriere scampò dunque senza saperlo a una delle più grandi sciagure che egli avesse mai corso in sua vita. Venne la sera, e la disperazione cangiossi in melanconia, che l’era tanto più tetra, quanto a suo malgrado le rimembranze del suo povero tulipano mescolavansi al cordoglio che egli provava. S’era giusto all’epoca che i giardinieri i più esperti nel mese di aprile indicano come il punto preciso per la piantagione dei tulipani. Egli aveva detto a Rosa: — V’indicherò il giorno che dovrete porre in terra il tallo. Doveva fissare quel giorno, il domani, nella sera seguente. Il tempo era bello, l’atmosfera quantunque peranco un po’ umida cominciava ad essere temperata pe’ pallidi raggi del sole di aprile, che per essere i primi parevano così dolci ad onta del loro pallore. Se Rosa lasciasse passare il tempo della piantagione! Se al dolore di non vedere più la giovinetta si aggiungesse quello di vedere abortire il tallo per essere stato piantato troppo tardi, oppure per non essere stato nientaffatto piantato! Per questi due dolori era certo da perdere l’appetito; e accadde il quarto giorno. L’era un crepacuore veder Cornelio, muto pel dolore, pallido per la fissazione spenzolarsi fuori della ferrata col rischio di non poter più tirar fuori dalle traverse di ferro la sua testa, sforzandosi così di scorgere a sinistra il giardinetto, di cui aveagli parlato Rosa, e il cui parapetto, ella aveagli detto, che dava sul fiume; e tutto ciò nella speranza di scoprire a quei primi raggi del sole d’aprile la giovanetta o il tulipano, due suoi amori infranti. La colazione e il pranzo portato da Grifo, appena la sera Cornelio aveali assaggiati. Il giorno dopo non prese niente, e Grifo riportò in giù i commestibili perfettamente intatti, destinati ai due pasti. Cornelio non erasi alzato nella giornata. — Buono! disse Grifo scendendo dopo l’ultima visita, buono! presto ci andiamo a sbarazzare del sapiente. Rosa trasalì. — Eh! fece Giacobbe; come mai? — Non beve più, non mangia più, non si leva più, disse Grifo; come Grozio escirà di qui in una cassa, ma però mortuaria. Rosa divenne pallida come la morte. — Oh! mormorò tra denti, capisco, è inquieto pel suo tulipano. E alzatasi oppressa di cuore, rientrò in camera sua, dove ella prese una penna e della carta; e per tutta la notte esercitossi a tracciare lettere. L’indomani per istrascinarsi fino alla finestra, Cornelio si avvide di una carta che era stata infilzata di sotto alla porta. Si lanciò su quella carta, l’aprì e lesse uno scritto che avrebbe avuto pena a riconoscere per quello di Rosa, tanto ella avealo migliorato nei sette giorni di questa sua assenza: «State tranquillo, il vostro tulipano va bene». Benchè queste poche parole di Rosa calmassero un pochettino i dolori di Cornelio, non fu però meno sensibile all’ironia. Cosicchè, l’era un fatto, Rosa non era niente affatto malata, ma era ferita; niente affatto le si usava forza perchè non venisse da Cornelio, ma se ne teneva volontariamente lontana. Rosa di tal fatta libera, trovava nella sua volontà la forza di non venire a vedere colui che moriva di crepacuore per non poterla più vedere. Cornelio aveva carta e un apis che aveagli portato Rosa. Si accorse che la giovinetta aspettava la risposta, ma che non la verrebbe a prendere che nella notte; in conseguenza egli scrisse sopra un foglio simile a quello che aveva ricevuto: «Non è già l’inquietudine, cagionatami dal mio tulipano, che mi rende malato; l’è il crepacuore, che io provo, di più non vedervi». Escito Grifo dopo ritornato la sera, egli strisciò la carta di sotto la porta e ascoltò. Ma per quanto egli orecchiasse, non intese nè il passo di Rosa nè lo scartocciare delle sue vesti. Egli intese una voce leggiera come un alito di vento e dolce come una carezza, che gettogli dalla graticola queste dolci parole: — A dimani. Dimani era l’ottavo giorno. Negli otto giorni Cornelio e Rosa non s’erano punto veduti. IV Ciò che era accaduto negli otto giorni. Difatti la sera del giorno appresso all’ora solita Van Baerle intese picchiettare alla sua graticola, come era solita fare la bella Rosa ne’ bei giorni della loro amicizia. S’intende che Cornelio non fosse molto lontano dalla porta, attraverso alla cui ferriatella rivedeva finalmente la graziosa figura da troppo lungo tempo scomparsa. Rosa che l’aspettava col lume in mano, non potè trattenere un movimento quando ella vide il prigioniero così pallido e così tristo. — Voi siete malato, signor Cornelio? ella dimandò. — Sì madamigella, rispose Cornelio, malato di spirito e di corpo. — Ho visto, o signore, che non mangiavate più, disse Rosa; mio padre mi ha detto, che non vi alzavate più; e allora vi ho scritto per tranquillizzarvi sulla sorte del prezioso oggetto delle vostre inquietudini. — Ed io, disse Cornelio, vi ho risposto. Io credeva, vedendovi ritornare, mia cara Rosa, che voi aveste ricevuto la mia lettera. — Difatti l’ho ricevuta. — Non addurrete la scusa questa volta che non sapete leggere. Non solo leggete speditamente, ma avete ancora incredibilmente profittato rapporto allo scritto. — Difatti ho non pur ricevuto ma letto il vostro biglietto. È ben per questo che sono venuta per vedere se fossevi qualche rimedio atto a rendervi la salute. — A rendermi la salute! esclamò Cornelio; ma che avete dunque qualche buona nuova a darmi? E così dicendo, il giovine ficcò su Rosa due occhi brillanti di speranza. Ossia ch’ella non comprendesse quello sguardo ossia che non lo volesse comprendere, la giovanetta rispose con gravità: — Ho solamente a parlarvi del vostro tulipano, che è, lo so bene, la più grave vostra preoccupazione. Rosa pronunziò queste poche parole con un accento ghiacciato che fece rabbrividire Cornelio. Lo zelante tulipaniere non comprendeva mica ciò che nascondesse sotto il velo della indifferenza la povera ragazza sempre alle prese con la sua rivale, il tulipano nero. — Ah! mormorò Cornelio, e batti e batti! Ma mio Dio! non vi ho detto, o Rosa, che io non penso che a voi, che eravate voi sola che io rimpiangeva, voi sola, di cui sento la privazione, voi sola che pel vostro allontanamento mi toglievate l’aria, il giorno, il calore, la luce, la vita insomma? Rosa sorrise melanconicamente, e disse: — Eh! il vostro tulipano ha corso un grave pericolo! Cornelio si scosse suo malgrado, e lasciossi prendere al laccio, seppure egli era. — Un grave rischio! esclamò tutto tremante; mio Dio! e quale? Rosa riguardollo con dolce compatimento; sentiva che quello, che ella vorrebbe, era al di sopra delle forze di costui, e che bisognava prenderselo con quella sua debolezza. — Sì, diss’ella; voi deste proprio nel segno; il pretendente, l’amoroso, quel Giacobbe non veniva mica per me. — E per chi dunque? dimandò Cornelio con ansietà. — Pel tulipano. — Oh! fece Cornelio impallidendo a tal nuova più assai che non impallidì, quando Rosa ingannatasi aveagli giorni fa annunziato che Giacobbe venisse per lei. Rosa vide quello spavento, e Cornelio si accorse alla espressione del di lei viso che ella pensava ciò che andiamo a dire. — Oh! perdonatemi, o Rosa diss’egli; vi conosco e so la bontà e l’onestà del cuor vostro. Dio avvi donato il pensiero, il giudizio, la forza e il movimento per difendervi, ma al mio povero tulipano minacciato, Dio niuna di tali cose ha concesso. Rosa non degnò di risposta questa scusa del prigioniero, e continuò: — Dacchè quell’uomo, che mi aveva seguito in giardino, e che io aveva riconosciuto per Giacobbe, v’inquietava, e inquietava me più ancora, fissai dunque far ciò che mi diceste, il giorno appresso in cui vi vidi per l’ultima volta, e in cui mi diceste..... Cornelio la interruppe: — Perdono, ancora una volta, o Rosa! esclamò. Ciò che vi dissi ebbi torto a dirvelo; vi ho chiesto già perdono di quella parola fatale, e ve lo ridomando ancora. Non mi esaudirete mai? — Il giorno appresso, riprese Rosa, richiamandomi alla mente tutto quello che mi avevate detto.... dell’astuzia da mettersi in opera per assicurarmi, se me o il tulipano seguisse quell’odiosa creatura.... — Sì, odiosa... Mi pare, soggiunse, che l’odiate a dovere? — Sì, l’odio, rispose Rosa, perchè gli è cagione di quanto ho sofferto in questi otto giorni! — Ah! voi pure avete sofferto? Grazie, o Rosa, di questa buona parola. — Il giorno appresso di quel giorno sfortunato, continuò Rosa, scesi dunque in giardino, e mi avanzai verso la casella, dove io dovea piantare il tulipano, guardandomi dietro con la coda dell’occhio, se questa come l’altra volta egli mi seguisse. — Ebbene? domandò Cornelio. — Ebbene! la medesima ombra strisciossi tra la porta e il muro, e disparve ancora dietro i sambuchi. — Figuraste di non vederlo, ci s’intende? dimandò Cornelio, rammentandosi in tutti i suoi dettagli il consiglio che avea dato a Rosa. — Già, e mi piegai sulla casella, che bucai con un cavicchio, come se io vi piantassi il tallo. — E lui..... lui..... in quel frattempo? — Vedevagli brillare gli occhi ardenti come quelli di un tigre attraverso le frasche. — Vedete voi? vedete voi? disse Cornelio. — Poi facendo finta d’aver finito, mi ritirai. — Ma solo dietro la porta del giardino, eh? Dimodochè dalle fessure o dal buco della chiave voi poteste vedere, una volta partita, ciò ch’egli facesse. — Aspettò un momento senza dubbio per assicurarsi che io non ritornassi; poi escì fuori a passo di lupo, si avvicinò alla casella con un lungo giro; poi giunse alfine alla sua meta, cioè di faccia al punto dove la terra era di fresco smossa, si arrestò con aria indifferente, girò il guardo attorno, interrogò ciascun angolo del giardino, interrogò ciascuna finestra delle case vicine, interrogò la terra, il cielo, l’aria, credendo di essere affatto solo, affatto isolato, affatto fuori di vista a chicchessia, precipitossi sulla casella, cacciò le sue due mani nella terra molle, levonne una porzione, che sbriciolò delicatamente tra le sue mani per vedere se vi si trovasse il tallo, ricominciò per tre volte la stessa faccenda, ed ogni volta con una azione più ardente fino a che, cominciando a comprendere di essere uccellato, si ricompose, benchè roso dalla stizza, prese la zappa, spianò il terreno per lasciarlo nel medesimo stato in cui trovavasi, prima che lo rimescolasse, e tutto arrabbiato, tutto sbuffante, riprese il cammino verso la porta, affettando l’aria innocua di un ordinario passeggiatore. — Oh! disgraziato! mormorò Cornelio asciugandosi le gocce di sudore che gli sgorgavano dalla fronte. Oh! disgraziato! io l’avevo indovinato. Ma del tallo, o Rosa che ne avete fatto? Ahimè! e già un pochetto tardi per piantarlo. — Il tallo è da sei giorni che gli è in terra. — Dove? come? esclamò Cornelio. Oh! mio Dio! che imprudenza! Dove? in qual terra? A buona o cattiva esposizione? Non c’è pericolo che ce lo rubi quell’assassino di Giacobbe? — Non c’è pericolo che sia rubato, a meno che Giacobbe forzi l’uscio di camera mia. — Ah! è presso voi, è in camera vostra, o Rosa, disse Cornelio un poco tranquillizzato. Ma in qual terreno? in qual recipiente? Non lo fate germogliare nell’acqua, come le buone donne di Harlem e di Dordrecht, che s’incapano a credere che l’acqua sia un succedaneo della terra, come se l’acqua, che è composta di 33 centesimi di ossigeno e di 66 di idrogeno, potesse rimpiazzare..... Ma cosa vi dico mai? — A vero dire, l’è troppa scienza per me, rispose sorridendo la giovanetta. Mi contenterò dunque di rispondervi per tranquillizzarvi, che il vostro tallo non è nell’acqua. — Ah! respiro. — È in un vaso di terra cotta, della larghezza giusta della brocca, dove voi avevate interrato il vostro; gli è in un terreno composto di tre quarti di terra ordinaria presa nel miglior punto del giardino e d’un quarto di terra di belletta di via. Oh! l’ho inteso dire così spesso da voi e da quell’infame di Giacobbe, come voi lo chiamate, in qual terra deve spuntare il tulipano, che lo so come il primo giardiniere di Harlem! — Ora ah! ci resta l’esposizione. A quale è, Rosa? — Ora tutta la giornata è al sole, quando c’è; ma quando il tulipano sarà spuntato dalla terra e quando il sole sarà più caldo, farò, caro signore Cornelio, come facevate qui voi. L’esporrò sulla mia finestra di ponente dalle tre pomeridiane alle cinque. — Oh! così, così! esclamo Cornelio; voi siete un perfetto giardiniere, mia bella Rosa. Ma or che ci penso, la cultura del mio tulipano occuperà tutto il vostro tempo. — Sì, gli è vero, disse Rosa; ma che importa? Il vostro tulipano è mio figlio; gli consacro tutto il tempo che spenderei per un mio bambino, se io fossi madre. Solo col divenire sua madre, soggiunse Rosa sorridendo, posso cessare di essergli rivale. — Buona e cara Rosa! mormorò Cornelio, gettando sulla giovanetta uno sguardo, dov’era più dell’amante che dell’orticultore, e che consolò un poco Rosa. Poi dopo un momento di silenzio, intantochè Cornelio aveva cercato per le aperture della graticola la mano fuggitiva di Rosa, riprese: — Cosicchè son già sei giorni che il tallo è in terra? — Sì, sei giorni, signor Cornelio, rispose la giovinetta. — E ancora non si mostra? — No, ma credo che domani spunterà. — Dimani sera mi darete le sue nuove con le vostre, non è vero, Rosa?.... M’inquieto bene del figlio come ancora dicevate; ma m’inquieto ben più della madre. — Dimani, disse Rosa, guardando Cornelio con la coda dell’occhio, dimani non so se potrò. — Eh! mio Dio! esclamò Cornelio, perchè mai non potrete dimani? — Signor Cornelio, ho mille cose a fare. — Mentre che io non ho che una, mormorò Cornelio. — Già, rispose Rosa; amare il vostro tulipano. — Voi, o Rosa. Rosa scosse la testa: e si rifece silenzio. — Finalmente, continuò Cornelio, rompendo il silenzio, tutto si cangia nella natura; ai fiori di primavera succedono altri fiori, e vedonsi le api che carezzano teneramente le mammolette e le garofanate, posarsi col medesimo amore sul caprifoglio, le rose, i gelsomini, i crisantemi e il giranio. — Che vuol dir ciò? dimandò Rosa. — Ciò vuol dire, mia signorina, che voi avete dapprima amato sentire il racconto delle mie gioie e delle mie angoscie; avete carezzato il fiore della nostra reciproca giovinezza: ma la mia si è appassita all’ombra. Il giardino delle speranze e dei piaceri di un prigioniero non ha che una stagione; chè non è come i bei giardini all’aria aperta ed al sole. Una volta la messe fatta, una volta la preda presa, le api come voi, o Rosa, le api dal corpo delicato, dai pennoncelli d’oro, dalle ali trasparenti, attraversano i cancellati, fuggono il freddo, la solitudine e la tristezza per andare a trovare altrove i profumi e le tepide esalazioni.... la contentezza, infine! Rosa guardava Cornelio con un sorriso, che egli non vedeva; perchè avea gli occhi verso il cielo. Egli continuò con un sospiro. — Mi avete abbandonato, o Rosa, per avere le vostre quattro stagioni di piacere. Avete fatto bene, non me ne lagno; qual diritto aveva io di esigere la vostra fedeltà? — La mia fedeltà? esclamò Rosa tutta piangente e senza la pena più a lungo di nascondere a Cornelio la rugiada di perle che le scorrevano sulle guance; la mia fedeltà! che non vi sono stata fedele, io? — Ahimè! si chiama essermi fedele, esclamò Cornelio, e poi abbandonarmi e lasciarmi qui morire? — Ma, signor Cornelio, disse Rosa, non faccio tutto quello che possa farvi piacere? Non mi occupo io del vostro tulipano? — La sola gioia ch’io mi abbia provata al mondo senza che sia stata intorbidita dall’amarezza. Voi me la rimproverate, o Rosa! — Non vi rimprovero nient’altro, signor Cornelio, se non l’affanno profondo che io provo dal giorno che mi si venne a dire al Buitenhof, che voi andavate ad essere giustiziato. — Vi dispiace, o Rosa, mia cara Rosa, vi dispiace dunque che io ami i fiori. — Non mi dispiace che voi li amiate, signor Cornelio, ma mi attrista bensì che li amiate a preferenza di me. — Ah! cara, carissima creatura, esclamò Cornelio; guardate come tremano le mie mani, come la mia fronte è pallida; ascoltate, ascoltate come batte forte il mio cuore. Ebbene non è mica perchè mi sorrida e mi appelli il mio tulipano nero: è perchè voi mi sorridete, è perchè voi piegate verso di me la vostra fronte, è perchè, — e io so se l’è vero, — perchè, quantunque le fuggano, le vostre mani aspirano alle mie, è perchè io sento il calore delle vostre guancie dietro la fredda graticola di ferro. Rosa, mio amore, spezzate il tallo del tulipano nero, distruggete la speranza di questo fiore, spengete la dolce luce del casto e delizioso sogno che ogni giorno abitualmente io faceva; sia pure! i fiori dalle ricche spoglie, dalle grazie eleganti, dai capricci divini, sì toglietemeli tutti, o fiore geloso degli altri fiori, sì toglietemeli tutti, ma non mi togliete la vostra voce, il vostro gesto, lo strepito de’ passi vostri su per la trista scala; deh! non mi togliete il fuoco degli occhi vostri per lo scuro corridoio, la certezza del vostro amore che perpetuamente carezzerà questo mio cuore. Amatemi o Rosa, perchè io non posso amare che voi. — Dopo il tulipano nero! sospirò la giovanctta, le cui mani calduccie e carezzevoli passate alla fine a traverso alle sbarrette di ferro erano sotto le labbra di Cornelio. — Prima di tutto, o Rosa.... — Che vi debbo credere? — Come credete in Dio. — Sia, ma ciò non vi obbliga ad amarmi molto? — Troppo poco, pel volere, mia cara Rosa, ma obbliga pur voi. — Me? dimandò Rosa; e mi obbliga a che? — A non potervi maritare prima di tutto. Ella sorrise dicendo: — Ah! ecco come siete tiranni voialtri. Voi adorate una bella: non pensate che a lei, non sognate che lei; siete condannato a morte: andando al patibolo le consacrate il vostro estremo sospiro, ed esigete da me povera meschina il sacrifizio de’ miei sogni, della mia ambizione. — Ma di qual bella mi parlate voi, o Rosa? disse Cornelio cercando, ma inutilmente, nelle sue rimembranze una donna alla quale Rosa potesse fare allusione. — Della bella nera, signore, della bella nera dalla forma svelta, dal piè sottile, dalla testa dignitosa. Parlo del vostro fiore, non mi capite? Cornelio sorrise. — Bella immaginaria, mia buona Rosa, mentre voi, senza contare il vostro amoroso Giacobbe, o per dir meglio, il mio, voi siete attorniata di partiti, che vi fanno la corte. Rammentatevi, o Rosa, ciò che mi avete detto degli studenti, degli officiali, dei commessi dell’Aya? Ebbene! a Loevestein non sonvi commessi, officiali, studenti? — Oh! ve ne sono, e come! disse Rosa. — Che scrivono? — Sicuro. — E ora che sapete leggere.... E mandò un sospiro, pensando, che Rosa doveva a lui, povero prigioniero, il privilegio di saper leggere i bigliettini amorosi, che ella riceverebbe. — Ma, signor Cornelio, mi pare, disse Rosa, che leggendo i bigliettini, che mi sono scritti, e adocchiando li zerbini, che mi fanno la ronda, io non faccia che seguire le vostre istruzioni. — Come le mie istruzioni? — Già, le vostre istruzioni! Fate lo scordato, continuò Rosa, sospirando la sua volta, fate voi lo scordato del testamento scritto da voi sulla Bibbia del signor Cornelio de Witt? Non me ne scordo mica io; perchè ora che so leggere, lo rileggo tutti i giorni, e non una, ma spesso due volte. Ebbene! In quel testamento voi mi ordinate di amare e di sposare un bel giovine da ventisei ai ventotto anni. Io lo cerco questo giovine; e siccome tutta la giornata la consacro al vostro tulipano, bisogna bene che mi lasciate la sera per trovarlo. — Ah! Rosa, il testamento è fatto nella previsione della mia morte, e grazie al cielo io sono vivo. — Ebbene! dunque non cercherò più il ben giovine dai ventisei ai ventotto anni, e verrò a veder voi. — Brava, Rosa! sì, sì; venite! — Ma a una condizione. — L’ho già accettata! — Che per tre giorni non si parli del tulipano nero. — Non se ne parli più, se così vi piace. — Oh! disse la giovanetta, non bisogna mai chieder l’impossibile. E come per sbadataggine ella appressò la sua fresca guancia così presso alla graticola, che Cornelio la potè sfiorare con le labbra. Rosa diè uno strillo sommesso mandato dal cuore, e ratto disparve. V Il secondo tallo. La notte fu buona, e la giornata del domani fu ancora migliore. I giorni precedenti la prigione erasi fatta squallida, scura, bassa bassa; gravava di tutto il suo peso sul povero prigioniero. I suoi muri erano neri, la sua aria fredda, le spranghe così raffittite da lasciarvi appena penetrare il giorno. Ma quando Cornelio risvegliossi, un raggio di sole mattinale strisciava sulla ferrata; alcuni piccioni fendevano l’aria con le loro ali stese, mentre altri coccolavano amorosi sul tetto vicino alla finestra ancora chiusa. Cornelio corse alla finestra e l’aperse; parvegli che la vita, la gioia e quasi la libertà entrassero con i raggi del sole nell’oscura sua stanza. Fioriavi l’amore e con lui fioriva attorno al prigioniero ogni cosa: l’amore, fiore celeste ben’altrimenti profumato di tutti i fiori terreni. Quando Grifo entrò nella stanza di Van Baerle invece di trovarlo mesto e coricato come gli altri giorni, trovollo alzato, e cantante un’arietta di un’opera. — Ohè! fece Grifo. — Stamani come va? disse Cornelio. Grifo lo guardò in cagnesco. — Il cane, il signor Giacobbe, la nostra bella Rosa, stanno tutti bene? Grifo digrignò i denti e tagliò corto, rispondendo: — Eccovi la vostra colezione. — Grazie, amico Cerbero; viene a tempo, che ho una gran fame. — Ah! voi avete fame? disse Grifo. — Toh! perchè no? domandò Van Baerle. — Pare che la cospirazione cammini, disse Grifo. — Qual cospirazione? dimandò Cornelio. — Buono! so quello che mi dico, ma staremo con tanti d’occhi, signor sapiente; state tranquillo: sì con tanti d’occhi. — Così va fatto amico Grifo! così va fatto! La mia cospirazione come pure la mia persona è ai vostri comandi. — Si vedrà a mezzogiorno, disse Grifo, e escì. — A mezzogiorno, ripetè Cornelio, che cosa vuol dire? Via, aspettiamo mezzogiorno e vedremo. Gli era facile aspettare mezzogiorno: aspettava le nove ore. Battè mezzogiorno, e s’intese per le scale non solamente il passo di Grifo, ma il passo di tre o quattro soldati che salivano con lui. Si aprì la porta, Grifo entrò introducendo gli uomini, e chiuse l’uscio dietro a loro. — Via! ora perquisiamo. Fu cercato nelle tasche di Cornelio, tra l’abito e la sua sottoveste, tra la sottoveste e la camicia, tra la camicia e la carne: non fu trovato niente. Fu cercato dentro le lenzuola, dentro le materasse, dentro il saccone: non fu trovato niente. Quanto allora felicitossi Cornelio per non avere accettato il terzo tallo. Grifo in questa perquisizione avrebbelo certo trovato per ben nascosto che fosse stato, e lo avrebbe trattato come il primo. Del resto mai prigioniero assistette di un viso più sereno a una perquisizione fatta nella sua stanza. Grifo si ritirò coll’apis e i tre o quattro fogli di carta bianca che Rosa aveva dato a Cornelio; ciò fu il solo trionfo della spedizione. Alle sei Grifo tornò ma solo; Cornelio volevalo addolcire; ma Grifo brontolò, serrandosi con le due dita le labbra, ed escì all’indietro come un uomo che abbia paura di essere aggredito. Cornelio diede in uno scroscio di riso; per cui Grifo che ne conosceva il perchè, gli gridò attraverso la graticola: — Bene! bene! ben ride, chi ultimo ride. Chi doveva ridere l’ultimo, in quella sera almeno, era Cornelio, perchè aspettava Rosa. Rosa venne alle nove, ma venne senza lanterna: non avea più bisogno di lume, chè sapea già leggere. E poi il lume poteva tradire Rosa viepiù spioneggiata da Giacobbe. E poi al fin dei conti vedevasi troppo il rossore di Rosa, quand’ella arrossiva. Di che parlarono i due giovani quella sera? Di quelle cose di cui parlano in Francia sulla soglia di una porta tutti gl’innamorati, da una parte all’altra del balcone in Ispagna, dall’alto al basso di un terrazzino in Oriente. Parlarono di cose che mettono le ali ai piedi alle ore, e aggiungon penne al tempo. Di tutto parlarono fuorchè del tulipano nero. Poi alle dieci come il solito si lasciarono. Cornelio era felice e così pienamente felice quanto può esserlo un tulipaniere cui non siasi punto parlato del suo tulipano. Ei trovava Rosa graziosa come senza paragone: la trovava buona, leggiadra, avvenente. Ma perchè Rosa proibiva che si parlasse del tulipano? L’era un capriccetto di Rosa. E Cornelio diceva dentro di sè sospirando, che la femmina non è perfetta. Una parte della notte meditò su questa imperfezione; che è quanto dire che, finchè fu sveglio, pensò sempre a Rosa. Una volta addormentato, la sognò. Ma la Rosa dei sogni era ben altrimenti più perfetta della Rosa reale. Non solamente quella parlava del tulipano, ma di più portava a Cornelio un magnifico tulipano nero piantato in un vaso della China. Cornelio svegliossi con un brivido universale di gioia, e mormorò: — Rosa, Rosa, io ti amo. E siccome facevasi giorno, Cornelio non giudicò a proposito di riaddormentarsi. Restò dunque tutta la giornata fisso nella idea che gli era rimasta svegliandosi. Ah! se Rosa avesse parlato del tulipano, Cornelio avrebbela preferita alla regina Semiramide, alla regina Cleopatra, alla regina Elisabetta, alla regina Anna d’Austria, che è quanto dire alle più grandi e alle più belle regine del mondo. Ma Rosa avea proibito sotto pena di non tornar più, avea proibito che per tre giorni non si parlasse di tulipani. Erano settantadue ore concesse all’amante, è vero; ma erano settantadue ore minimate alla orticultura. È vero però che su queste settantadue ore già trentasei erano passate; e le altre trentasei passerebbero ben sollecite, diciotto aspettando, e diciotto ricordando. Rosa tornò alla medesima ora: Cornelio sopportò eroicamente la sua penitenza. Questo Cornelio gli era un degnissimo pitagorico, e purchè fossegli permesso di avere una sola volta per giorno novelle del suo tulipano, sarebbe rimasto anche cinque anni senza parlare d’altro, secondo lo statuto dell’ordine. Del resto la bella visitatrice capiva bene che quando si comanda da una parte, bisogna cedere dall’altra. Rosa lasciava prendere le sue dita dalla graticola; e lasciava che Cornelio baciasse a traverso della ferratella, le sue ciocche di capelli. Povera ragazza! tutti questi vezzi amorosi le erano ben più dannosi che di parlare del tulipano. Ella ben lo comprese tornando nella sua stanza col cuore palpitante, le guancie ardenti, le labbra arse, gli occhi rugiadosi. Il dimani sera poi dopo scambiate le prime parole, dopo le prime carezze fatte, Rosa guardò Cornelio attraverso la graticola, al buio, con quello sguardo che sente anche quando non vede. — Ebbene! ella disse, ha buttato! — Ha buttato! che? che? domandò Cornelio, non osando credere che Rosa da sè abrogasse la durata della sua prova. — Il tulipano, disse Rosa. — Come, esclamò Cornelio, voi dunque permettete?.... — Eh! sì, disse Rosa di un tuono di tenera madre che permetta a suo figlio una contentezza. — Ah! Rosa! esclamò Cornelio, sporgendo le sue labbra, attraverso le sbarrette di ferro, nella speranza di toccare una guancia, una mano, la fronte, qualche cosa insomma; ma meglio di queste, toccò due labbra semiaperte. Rosa gettò un piccolo strillo. Cornelio si accorse che bisognava affrettarsi a proseguire la conversazione, perchè il suo inatteso contatto aveva spaventato fortemente Rosa. — Buttato ben diritto? egli dimandò. — Diritto come un fuso di Frigia, disse Rosa. — È ben’alto? — Due pollici almeno. — Oh! Rosa, abbiatene ben cura, e vedrete come crescerà presto. — Posso averne più cura? disse Rosa. Non penso che a lui. — Che a lui, o Rosa? Guardate che ora sono geloso io. — Eh! voi sapete bene che pensando a lui è lo stesso che pensare a voi. Non lo perdo mai di vista; lo vedo da letto; mi sveglio, ed è il primo oggetto che miro; mi addormento, è l’ultimo oggetto che perdo di vista. Il giorno seggo e lavoro vicino a lui; chè dal momento che è in camera mia, non lascio più la mia stanza. — Avete ragione, o Rosa: è la vostra dote, lo sapete. — Sì, e mercè sua potrò sposare un giovine di ventisette o ventotto anni, che io amerò. — Zitta, cattivella. E Cornelio potè prendere le dita della giovanetta, il che se non fece cambiar di conversazione, fece almeno succedere il silenzio al dialogo. Quella sera Cornelio fu il più felice dei mortali. Rosa lasciogli la sua mano per quanto egli volle, e lasciollo parlare a suo piacere del tulipano. A partire da questo momento ciascun giorno apportava un progresso nel tulipano e nell’amore dei due giovani. Una volta eransi aperte le foglie, un’altra erasi sbocciato il fiore. A questa nuova la gioia di Cornelio fu grande, e le sue dimande succedevansi con una rapidità che testimoniavano la loro importanza. — Sbocciato! esclamò Cornelio, sbocciato? — È sbocciato, ripete Rosa. Cornelio si sentì mancare dalla gioia, e fu costretto ad attenersi alla ferriata. — Ah! Dio mio! esclamò. Poi rivolgendosi a Rosa: — L’ovale è regolare? il cilindro è pieno? le punte sono ben verdi? — L’ovale è quasi un pollice e si appunta come un ago; il cilindro gonfia i suoi fianchi, e le punte sono pronte a screpolare. Questa notte Cornelio potè dormir poco: l’era un momento supremo quello della screpolatura delle punte. Due giorni dopo Rosa annunziò che erano screpolate. — Screpolate, o Rosa! esclamò Cornelio; l’involucro è screpolato! Ma dunque allora si vede, si può distinguere già?.... E il prigioniero arrestossi affannoso. — Sì, rispose Rosa, sì, può distinguersi una strisciolina di differente colore, sottile come un capello. — E il colore? insistè Cornelio tremando. — Ah! rispose Rosa, l’è ben cupo. — Bruno? — Oh! più cupo. — Più cupo, mia buona Rosa, più cupo! oh! grazie. Cupo come l’ebano, cupo come.... — Cupo come l’inchiostro col quale vi ho scritto. Cornelio gettò un grido di stolta gioia. Poi arrestandosi ad un tratto, disse a mani giunte: — Oh! Rosa, non vi può essere angiolo da compararsi a voi. — Veramente? disse Rosa sorridendo a tale esaltazione. — O Rosa, voi avete fatto tanto; o Rosa, vi siete tanto adoperata per me; o Rosa, il mio tulipano va a fiorire, e fiorisce nero! Rosa, Rosa, Dio non ha creato sulla terra cosa più perfetta di voi. — Dopo il tulipano però? — Chetatevi, cattivella; chetatevi! Per pietà non turbate la mia gioia! Ma ditemi, Rosa, credete che tra due o tre giorni al più tardi il tulipano vada a fiorire? — Dimani o posdomani, dicerto. — Ah! e io non lo vedrò, esclamò Cornelio rovesciandosi indietro, non lo bacerò come una meraviglia di Dio che deve adorarsi, come bacio le vostre mani, o Rosa, come bacio i vostri capelli, come bacio le vostre guancie, quando per caso trovansi a contatto della graticola. Rosa avvicinò la sua guancia non per caso, ma volontariamente; le avide labbra del giovine vi si affissero. — Madonna! esclamò Rosa, ve lo porterò, se volete. — Ah! no, no! Appenachè sarà aperto, guardatelo bene all’ombra; e sull’istante, vedete, sull’istante spedite a Harlem a prevenire il presidente della società di orticultura, che il gran tulipano nero è fiorito. Lo so bene, Harlem è lontano, ma coi quattrini troverete un espresso. Ne avete o Rosa? Rosa sorrise, rispondendo: — Oh! sì! — Un buon pochi? dimandò Cornelio. — Trecento fiorini. — Oh! se avete trecento fiorini, non un espresso, ma voi stessa dovete andare a Harlem. — Ma in questo tempo il fiore?..... — Lo porterete con voi. Capite bene che non bisogna che ve ne separiate neppure per un minuto. — Ma non separandomi punto da lui, mi separo però da voi, signor Cornelio, disse Rosa attristata. — È vero, mia dolce, mia cara Rosa. Mio Dio! gli uomini sono cattivi! Che ho loro io fatto? e perchè mi hanno tolto la libertà? Avete ragione, o Rosa, non potrei vivere senza di voi. Ebbene ecco spedirete qualcuno ad Harlem; e in fede mia, il miracolo è tanto grande da far muovere lo stesso presidente, che verrà in persona a Loevestein a cercare del tulipano. Poi arrestandosi a un tratto e con voce tremante: — Rosa! mormorò, Rosa! e se non fosse poi nero? — Madonna? lo saprete dimani o posdimani a sera. — Aspettare fino alla sera per saperlo, o Rosa!... Morirò d’impazienza. Non potremmo combinare un segnale? — Farò di meglio. — Che farete? — Se si apre di notte, verrò, oh sì! verrò a dirvelo da me; e se di giorno, verrò all’uscio, e striscerò un biglietto o di sotto alla porta o per la graticola tra la prima e la seconda ispezione di mio padre. — Oh! Rosa, che mi dite mai! Ciò sarà per me una doppia contentezza. — Ecco le dieci, bisogna che io vi lasci. — Sì, sì, disse Cornelio, andate, Rosa, andate! Rosa si ritirò quasi che trista; Cornelio l’avea quasi mandata via. Era, è vero, per vegliare sul tulipano nero. VI Scorse la notte ben dolce, ma nel tempo stesso bene agitata per Cornelio. A ogni minuto sembravagli che la soave voce di Rosa lo chiamasse; svegliavasi in sussulto, andava alla porta, avvicinava il viso alla graticola; ma la graticola era solitaria, il corridoio deserto. Senza dubbio Rosa dal canto suo vegliava pure; ma più felice di lui, vegliava sul tulipano. Avea là sotto gli occhi il nobile fiore, meraviglia delle meraviglie, non solo ancora sconosciuta, ma creduta anco impossibile. Che dirà il mondo quando saprà che il tulipano nero sia trovato, che esista, e che sia Van Baerle il prigioniero che lo abbia trovato? Cornelio avrebbe scacciato da sè chiunque gli avesse proposta la libertà in cambio del suo tulipano! Il giorno venne senza avviso nessuno; il tulipano non era ancora fiorito. La giornata passò come la notte innanzi, e venne l’altra con Rosa tutta lieta, con Rosa leggiera come una lodoletta. — Ebbene! dimandò Cornelio. — Ebbene! va tutto a meraviglia: stanotte indispensabilmente il nostro tulipano fiorisce. — E fiorirà nero? — Nero come un’ala di corvo. — Senza la minima vergaturina? — Senza neppure l’ombra. — Misericordia del cielo! Rosa ho passato la notte pensando prima a voi... Rosa accennò insensibilmente di non crederci. — E poi a ciò che dobbiamo fare. — Ebbene! — Ebbene! ecco ciò che ho deciso. Quando il tulipano fiorito, sarà ben costatato sia nero, e nero perfetto, bisogna che troviate un espresso. — Se non è che questo, l’ho bell’e trovato. — Un espresso sicuro? — Ne rispondo io; gli è un mio innamorato. — Spero non sia Giacobbe. — No, state tranquillo. È il navicellaio di Loevestein, giovanotto avvistato, di venticinque ai ventisette anni. — Diavolo! — State tranquillo, disse Rosa ridendo, non ha ancora l’età, giacchè voi stesso l’avete fissata dai ventisei ai ventotto. — Ma credete di poter contare su questo giovine? — Come su me; si getterebbe dalla sua barchetta nel Wahal o nella Mosa, come più mi piacesse, se glielo comandassi. — Eh! potrebbe, o Rosa, questo giovinotto essere in dieci ore a Harlem. Datemi apis e carta, meglio ancora penna e inchiostro, che scriverò... anzi è meglio che scriviate voi; io povero prigioniero potrei dar sospetto, come a vostro padre, di una cospirazione nascosta. Scriverete al presidente della società d’orticoltura, e, ne sono certo, verrà quà il presidente. — Ma se tardasse? — Supponete che tardi un giorno o due; ma gli è impossibile, che un amatore di tulipani come lui tardi anco un’ora, un minuto, un secondo a mettersi in via per vedere l’ottava maraviglia del mondo. Ma, come io diceva, tardasse pure un giorno, ne tardasse due, il tulipano sarebbe in tutto il suo splendore. Visto il tulipano dal presidente, ci s’intende, voi riterrete, o Rosa, un duplicato del processo verbale, e gli consegnerete il tulipano. Ah! se lo avessimo potuto portar da noi, o Rosa, sarebbe stato un dolce peso un po’ alle mie e un po’ alle vostre braccia; ma è un sogno cui non bisogna pensare, continuò Cornelio sospirando; altri occhi lo vedranno sfiorire! Oh! soprattutto, o Rosa, che non lo veda persona, prima del presidente. Buon Dio! il tulipano nero sarebbe visto e preso! — Ih! — Non mi avete detto voi stessa i vostri sospetti sul conto di quel vostro Giacobbe? Si ruba un fiorino, perchè non ne possono essere rubati cento mila? — Starò in guardia, via; state tranquillo. — Se mentre siete qui, si aprisse? — N’è ben capace il capriccioso, disse Rosa. — Se tornando voi lo trovaste fiorito? — Ebbene? — Ah! Rosa, appena sia fiorito, ricordatevi che non avvi un minuto a perdere per prevenirne il presidente. — E voi, ci s’intende. Rosa sospirò, ma senza amarezza, e come donna che comincia a capire, sebbene stenti ad abituarvisi, che l’è una debolezza. — Torno presso il tulipano, signor Van Baerle, e appena aperto, sarete prevenuto; e subito partirà l’espresso. — Rosa, Rosa, io non so più a qual meraviglia del cielo o della terra compararvi. — Comparatemi al tulipano nero, signor Cornelio, e ne sarò ben lusingata, ve lo giuro. Dunque a rivederci, signor Cornelio. — Oh! dite: A rivederci, amico mio. — A rivederci, amico mio, disse Rosa un poco consolata. — Dite: Amico mio diletto. — Oh! amico mio... — Diletto, o Rosa, ve ne supplico, diletto, diletto, non è così? — Diletto, diletto, pronunziò Rosa palpitante, inebriata, pazza per la gioia. — Allora, o Rosa, dacchè avete detto diletto, dite pure felice; felice quanto uomo giammai sia stato felice e benedetto sotto il cielo. Non mi manca che una cosa, o Rosa. — Quale? — La vostra guancia, o Rosa, la vostra guancia fresca, rosea, vellutata. Oh! ma di vostra volontà non più per sorpresa, non più per caso. Rosa, ah! Il prigioniero finì la sua preghiera in un sospiro; chè vennero le sue labbra a incontrarsi con quelle della giovinetta non più per caso, non per sorpresa, come cent’anni dopo Saint-Preux doveva incontrare le labbra della sua Giulietta. Rosa s’involò; e Cornelio restò con l’anima sospesa alle di lei labbra, e col viso fisso alla graticola. Soffocato dalla gioia e dalla felicità, egli aperse la finestra e contemplò lungamente col cuore pregno di letizia l’azzurro celeste senza nuvole e la luna al di là delle colline versante un torrente d’argentea luce sopra lo specchio dei due fiumi. Rinfrescò i suoi polmoni d’aria pura e balsamica, lo spirito di dolci idee, l’anima di riconoscenza e di religiosa ammirazione. — Oh! voi siete eternamente lassù, o mio Dio! esclamò genuflesso con gli occhi fitti nel firmamento; — deh! perdonatemi, se mai nei giorni trascorsi io avessi quasi dubitato di voi; ravvolto dentro il vostro manto di nubi, per un istante cessai di vedervi, o Dio buono, Dio eterno, Dio misericordioso! Ma oggi, ma stasera, ma stanotte oh! vi vedo tutto intiero nello specchio dei vostri cieli, e soprattutto nello specchio del mio cuore. Era guarito il povero malato; era libero il povero prigioniero! Per una gran parte della notte Cornelio restò fisso alle sbarre della sua finestra a orecchie tese, concentrando i suoi cinque sensi in un solo, o piuttosto solamente in due: guardava e origliava. Guardava il cielo, e ascoltava la terra. Poi di tratto in tratto volgeva l’occhio verso il corridoio, dicendo: — Laggiù è Rosa, che veglia come me, come me aspetta di minuto in minuto. Laggiù sotto gli occhi di Rosa è il fiore misterioso che vive, che screpola, che si apre; forse in questo momento Rosa tiene tra le sue dita tiepide e delicate lo stelo del tulipano. Sia delicato il contatto, o Rosa! Forse tocca co’ labbri suoi il calice del fiore semiaperto. Sfioralo con precauzione, o Rosa! le tue labbra bruciano! Forse in questo momento i miei dolci amori si carezzano sotto lo sguardo di Dio. In quel momento una stella strisciò al mezzogiorno, traversò tutto lo spazio che separava l’orizzonte della fortezza e venne a cadere su Loevestein. Cornelio trasalì: — Ah! disse, ecco che Dio invia un’anima al mio fiore. E come se avesse colto nel segno, quasi nello stesso momento il prigioniero intese nel corridoio dei passi leggeri come quelli di una silfide, lo sventolìo di una veste che pareva un ventilar di ali, e una voce ben conosciuta, che diceva: — Cornelio, amico mio, amico diletto e ben felice, venite, venite presto! Cornelio non fece che un salto dalla finestra alla graticola. Questa volta ancora incontraronsi le sue labbra con quelle mormoranti di Rosa che gli disse con un bacio: — È sbocciato; è nero, eccolo! — Come eccolo! esclamò Cornelio staccando le sue labbra da quelle della giovinetta. — Sì, sì; merita bene correre un piccolo rischio per dare una gioia: eccolo, guardate! E con una mano alzò all’altezza della graticola una lanternina sorda, da lei allora aperta, mentre alla medesima altezza mostrava con l’altra il miracoloso tulipano. Cornelio gettò un grido e credette svenire. — Oh! mormorò, Dio mio! Dio mio! mi ricompensate della mia innocenza e della mia prigionia, dappoichè avete fatto che si accosti questo dolce fiore alla graticola della mia prigione. — Abbracciatelo, disse Rosa, come io l’ho abbracciato or ora. Cornelio ritenendo il suo alito toccò a fior di labbra la punta del fiore, e mai altro bacio impresso sulle labbra di una donna, di quelle puranco di Rosa, non così profondamente mai gli scesero sul cuore. Il tulipano era bello, splendido, magnifico; il suo gambo aveva più di dieci pollici di altezza; slanciavasi dal seno di quattro verdi foglie, liscie, diritte, come quattro ferri di lancia; e il suo fiore era nero, brillante come polverino. — Rosa, disse Cornelio tutto anelante, Rosa, non c’è un istante a perdere, bisogna scrivere la lettera! — L’è scritta, mio diletto Cornelio, disse Rosa. — Davvero! — Mentre aprivasi il tulipano, io scriveva, perchè non volevo che andasse perduto neppure un secondo. Leggete la lettera, e ditemi se va bene. Cornelio prese la lettera e lesse uno scritto ancora moltissimo migliorato dacchè egli avea ricevuto quelle due parole: «Signor Presidente, «Tra dieci minuti forse il tulipano nero sboccerà; e appena ciò sia, io vi invierò un espresso per pregarvi di venire in persona a vederlo nella fortezza di Loevestein. Io sono la figlia del carceriere Grifo, quasi prigioniera quanto i prigionieri di mio padre, sicchè da me non potrei recarvi questa maraviglia. Il perchè oso supplicarvi a venirvelo a prendere da voi. «Mio desiderio sarebbe che si chiamasse _Rosa Barlaeensis_. «È sbocciato, è nerissimo... Venite, signor Presidente, venite. «Ho l’onore di essere vostra umilissima serva «ROSA GRIFO. — Va benone, va benone, mia cara Rosa. Questa lettera è una maraviglia; non l’avrei scritta io con tanta semplicità. Al congresso darete tutti i ragguagli che vi saranno richiesti; saprassi come il tulipano sia cresciuto; di quali cure, veglie e timori sia stato cagione; ma ora, Rosa mia, ora non un istante da perdere... L’espresso! l’espresso! — Come si chiama il presidente? — Qua, ci metterò io l’indirizzo. È ben conosciuto, è Van Herysen, sindaco di Harlem.... Qua, Rosa, qua. E con mano tremante fece la soprascritta: «A Pietro Van Herysen «Sindaco e Presidente della Società orticola di Harlem. — Ora andate, Rosa, andate, disse Cornelio; e affidiamoci a Dio, che ci ha ben guardati fin qui. VII L’Invidioso. Difatti que’ poveri giovani aveano ben molto bisogno di essere guardati dalla protezione del Signore. Mai non erano stati così presso alla disperazione quanto in questo stesso momento in cui credeansi certi della loro felicità. Noi non metteremo in dubbio la perspicacia dei nostri lettori al punto di sospettare neppure che nel nostro amico Giacobbe non abbiano riconosciuto il nostro antico nemico Isacco Boxtel. Il lettore ha dunque indovinato che Boxtel avesse seguito dal Buitenhof al Loevestein l’oggetto del suo amore e l’oggetto del suo odio: il Tulipano nero e Cornelio Van Baerle. Ciò che tutt’al più un tulipaniere, e un tulipaniere invidioso non avrebbe mai potuto scuoprire, l’esistenza cioè dei talli e le ambizioni del prigioniero, l’invidia se non avesseli fatti scuoprire a Boxtel, avvebbeglieli fatti almeno indovinare. L’abbiamo visto più fortunato sotto il nome di Giacobbe che d’Isacco fare amicizia con Grifo, la cui conoscenza e ospitalità innaffiò per alcuni mesi col miglior ginepro che fosse stato mai fabbricato da Texel ad Anversa. Ne addormentò le diffidenze; perchè abbiamo visto che il vecchio Grifo era diffidente; ne addormentò le diffidenze, diciamolo, lusingandolo di un connubio con Rosa. Carezzò inoltre i di lui istinti sbirreschi, dopo aver piaggiato il di lui orgoglio paterno. Ne carezzò gl’istinti sbirreschi, dipingendogli coi più scuri colori il sapiente prigioniero che Grifo teneva sotto i suoi chiavistelli, e che al dire dello sciocco Giacobbe, aveva fatto un patto con Satanasso per nuocere a Sua Altezza il principe d’Orange. Era dapprima così ben riuscito con Rosa non già con ispirarle simpatia, — Rosa aveva sempre pochissimo amato il _mynheer_ Giacobbe, — ma parlandole di matrimonio e d’amorosa follia, aveva sulle prime ammorzato ogni sospetto che ella avesse potuto concepire. Abbiamo visto come la sua imprudenza a seguitare Rosa nel giardino l’avesse denunziato agli occhi della giovinetta, e come l’istintivi timori di Cornelio avessero messo ambo i giovani in guardia contro costui. Ciò che aveva di più inquietato il prigioniero, — il nostro lettore deve ricordarsene, — fu la collera grande, in cui montò Giacobbe contro Grifo a proposito del tallo calpestato. In questo momento la sua rabbia era altrettanto più grande in quanto che sospettasse sì che Cornelio avesse un secondo tallo, ma il sospetto era la sua certezza. Spiò perciò Rosa e seguilla non solo nel giardino, ma ancora ne’ corridoi. Solamente, siccome questa volta seguivala allo scuro a piedi scalzi, non fu nè visto nè sentito, menochè a Rosa parve vedere sbalugginare un non so che come un’ombra verso la scala. Ma gli era troppo tardi; Boxtel aveva saputo dalla stessa bocca del prigioniero l’esistenza del secondo tallo. Scotto della furberia di Rosa, che avesse fatto sembiante di non accorgersene dalla caselletta, e non dubitando, che quella commediola non fosse stata rappresentata per isforzarlo a tradirsi, ei raddoppiò di precauzione e messe in scena tutti gli accorgimenti del suo spirito per continuare a spiare altrui senza esser’egli spiato. Vide portare da Rosa un gran vaso di maiolica di cucina in camera; vide che Rosa lavossi poi a molte acque le sue belle manine tutte imbrattate di terra, che aveva impastata per preparare al tulipano il miglior letto possibile. In fine prese in una soffitta una cameretta giusto in faccia alla finestra di Rosa, abbastanza distante da non poter essere riconosciuto a occhio nudo, ma abbastanza vicina per potere seguire col soccorso del suo cannocchiale tutto quello che fosse fatto al Loevestein nella camera della giovinetta, come aveva seguito a Dordrecht tutto quello che facevasi nel prosciugatoio di Cornelio. Da soli tre giorni era istallato nel suo soffitto, che non aveva più alcun dubbio. Di mattina alla levata del sole il vaso di maiolica era sulla finestra; e simile alle avvenenti donne di Mieris e di Metzu, Rosa appariva alla finestra, incorniciata dai primi tralci verdeggianti della vergine vite e del caprifoglio. Rosa guardava il vaso di maiolica di tale occhio che mostrava a Boxtel il valore reale dell’oggetto racchiusovi. Il racchiuso nel vaso era dunque il secondo tallo, cioè la suprema speranza del prigioniero. Quando le notti minacciavano di essere troppo fresche, Rosa riponeva il vaso di maiolica. E faceva bene: seguiva le istruzioni di Cornelio, il quale temeva che il tallo non si gelasse. Quando il sole divenne più caldo, Rosa riponeva il vaso dalle undici di mattina alle due dopo mezzogiorno. E faceva pur bene: Cornelio temeva che la terra non si prosciugasse troppo. Ma quando la punta del fiore comparve fuori, Boxtel ne fu tuttaffatto convinto; e non era alto ancora un pollice che grazie al suo canocchiale l’invidioso non aveva più dubbio nessuno. Cornelio possedeva due talli, e il secondo era affidato all’amore e alla cura di Rosa. Perchè, bene intesi, l’amore dei due giovani non era isfuggito a Boxtel. Bisognava dunque trovare il modo di trafugare quel secondo tallo confidato alle cure di Rosa e all’amore di Cornelio. Ma non era facil cosa. Rosa vigilava il suo tulipano, come una madre sorveglia il suo bambino; più ancora, come una tortorella cuopre le sue uova. Nella giornata Rosa non assentavasi dalla sua camera; di più, cosa strana! Rosa non assentavasi più neppure la sera. Per sette giorni spiò Rosa inutilmente: non escì punto di camera sua. Ciò accadde nei sette giorni d’imbroglio, che resero Cornelio così infelice, privandolo a un tempo di tutte le nuove di Rosa e del suo tulipano. Rosa durerebbe per sempre a tenere il broncio con Cornelio? Gli avrebbe reso ben più difficile di quello che non se l’era immaginato, un tale furto. Lo diciamo furto, perchè Isacco con tutta semplicità erasi fermato a questo progetto di rubare il tulipano; e siccome germogliava nel più profondo mistero, siccome i due giovani nascondevano la sua esistenza a tutto il mondo, e siccome sarebbesi più creduto a lui, tulipaniere riconosciuto, che ad una giovinetta estranea a tutti i dettagli della orticoltura, o ad un prigioniero condannato per delitto di alto tradimento, rinchiuso, sorvegliato, spiato, e che malamente avrebbe dal fondo del suo carcere potuto reclamare; d’altronde fattosi egli possessore del tulipano seguendo la legge dei mobili e di tutti gli altri oggetti trasportabili in cui il possesso fa fede della proprietà, otterrebbe dicertissimo il premio, sarebbe dicertissimo coronato invece di Cornelio, e il tulipano invece di chiamarsi _Tulipa nigra Barlaeensis_ chiamerebbesi _Tulipa nigra Boxtellensis_ o _Boxtellea_. Il _minheer_ Isacco non erasi ancora deciso quale di questi due nomi dare al tulipano nero; ma siccome tutti e due significano la stessa cosa, non stava qui l’importanza. L’importanza stava nel poter rubare il tulipano. Ma perchè Boxtel potesse rubarlo, bisognava che Rosa escisse di camera. Però fu una vera gioia per Isacco o per Giacobbe, come si dirà, nel vedere riprendere i convegni soliti della sera. Ei cominciò a profittare dell’assenza di Rosa per istudiare intanto la porta, che chiudeva benissimo e a due mandate con una semplice toppa, di cui Rosa sola teneva sempre la chiave. Boxtel ebbe il pensiero di sottrarre la chiave a Rosa, ma oltrechè ciò non fosse cosa molto facile di frugare nelle tasche della giovine, appena che si fosse accorta di averla smarrita, avrebbe fatto mutare la toppa, non escendo di camera sua se non a serratura cambiata; e allora Boxtel avrebbe commesso un delitto inutile. Adunque valeva meglio valersi di un altro mezzo. Boxtel fece una raccolta di chiavi le più che potesse, e mentre che Rosa e Cornelio passavano alla graticola una delle loro ore fortunate, egli provolle tutte. Due dicevano alla serratura; una girò la prima mandata, ma non fece scattare la seconda. Poteva servire questa con poca rettificazione a farlesi. Boxtel la spalmò leggermente di cera e rinnovò lo esperimento. L’ostacolo rincontrato dalla chiave nella seconda girata lasciò l’impronta sulla cera; cosicchè non ebbe egli che a seguire quella impressione con una lima sottile. Con due giorni di lavoro Boxtel condusse la chiave a perfezione. La porta di Rosa fu aperta senza strepito, senza sforzo, e il falsario trovossi nella camera della giovine, solo a solo col tulipano. La prima azione criminosa di Boxtel era stata di scavalcare un muro per disotterrare il tulipano; la seconda di penetrare nel prosciugatoio di Cornelio per una finestra aperta; e la terza d’introdursi nella camera di Rosa con una chiave falsa. Lo si vede, che l’invidia faceva fare a Boxtel rapidi passi nella carriera del delitto. Ei trovossi dunque solo a solo col tulipano. Un ladro ordinario si sarebbe messo il vaso sotto braccio, e l’avrebbe portato via. Ma Boxtel non era un ladro ordinario e fece i suoi calcoli, osservando il tulipano coll’aiuto della sua lanterna cieca. Vide che non era ancora tanto innanzi da dargli la certezza che fosse nero, quantunque le apparenze ne offrissero tutta la probabilità. Riflettè che se non fiorisse nero, o che se pure fiorisse con qualche macchia qualunque, avrebbe commesso un furto inutile. Riflettè che tal furto avrebbe fatto strepito, che sarebbesi preso qualche indizio dopo il fatto del giardino, che si farebbero delle ricerche, e che, per quanto bene potesse egli nascondere il tulipano, non sarebbe stato impossibile ritrovarlo. Riflettè che nascondendolo di maniera che non si fosse potuto ritrovare, potrebbe nel portarlo or qui or là subire un qualche malanno. Riflettè finalmente che meglio valeva, dacchè egli teneva la contracchiave della camera di Rosa e poteavi entrare a suo beneplacito, valeva meglio aspettarne la fioritura, prenderlo un’ora avanti o un’ora dopo che fiorisse, e partire sull’istante senza perdere un minuto di tempo per Harlem, dove, primachè si fosse reclamato, il tulipano sarebbe davanti i giudici. Allora o lui o lei reclamassero pure e accusassero Boxtel di furto. Gli era un piano ben concepito e degno in tutto e per tutto di chi l’aveva ideato. Perciò tutte le sere durante l’ora zuccherata, che i giovani passavano alla graticola della prigione, Boxtel entrava nella camera di Rosa, non già per violare il santuario della verginità, ma per seguire i progressi che faceva il tulipano nero nella fioritura. La sera, a cui siamo arrivati, egli era per entrarvi come l’altre sere; ma, noi l’abbiamo visto, i giovani non avevano scambiate che poche parole, quando Cornelio licenziò Rosa, perchè vegliasse sul tulipano. Boxtel, vedendo Rosa rientrare in camera sua dieci minuti dopo esserne escita, si accorse che il tulipano avesse fiorito o che fosse lì lì per fiorire. Era dunque in questa notte che la gran partita andava a giocarsi; e però Boxtel presentossi a Grifo con una doppia provvisione di ginepro, cioè con una bottiglia per tasca. Grifo brillo, Boxtel poco meno restava padrone di casa. Alle undici Grifo era ubriaco spolpo. Alle due di mattina Boxtel vide Rosa escire di camera, ma teneva ella visibilmente in braccio un oggetto che portava con gran precauzione. Quell’oggetto doveva essere senza dubbio nessuno il tulipano nero allora fiorito. Ma che ne farebbe? Che forse con quello partirebbe sul momento per Harlem? Non pareva possibile che una giovinetta sola, di notte, si azzardasse a un viaggio simile. Andava a mostrare a Cornelio il tulipano? Era più probabile. Seguì Rosa scalzo e sulla punta de’ piedi. La vide accostarsi alla graticola; la sentì chiamare Cornelio. Al lume della lanterna cieca, vide il tulipano sbocciato, nero come la notte, nella quale egli era nascosto. Intese tutti i progetti fissati tra Cornelio e Rosa d’inviare un espresso a Harlem. Vide le labbra dei due giovani toccarsi, poi intese che Cornelio licenziò Rosa. Vide Rosa chiudere la lanterna cieca e incamminarsi alla sua camera. Ve la vide rientrare. Poi dieci minuti dopo la vide riescire e chiudere l’uscio con due mandate. Perchè chiudeva la porta con tanta cura? Perchè dentro a quella porta chiudeva il tulipano nero. Boxtel che vedeva tutto dal sottoscala del piano superiore alla camera di Rosa, scese uno scalino dal suo piano, mentre Rosa scendevane uno dal suo; di maniera che quando Rosa fu all’ultimo scalino della sua scala scesa con piè leggiero, Boxtel con mano anco più leggiera toccava la serratura della camera di Rosa. E in quella mano, ci s’intende bene, era la contracchiave che apriva la porta di Rosa, nè più nè meno facilmente della vera. Ecco perchè abbiamo detto al principio del capitolo, che i poveri giovani avevano bisogno di essere guardati dalla protezione diretta del Signore. VIII Come il Tulipano nero muti padrone. Cornelio era sempre là come Rosa avealo lasciato, cercando quasi inutilmente in sè la forza di sostenere il doppio carico della felicità. Era passata una mezz’ora. Già i primi raggi mattutini entravano cilestri e freschi attraverso le sbarre della finestra nella prigione di Cornelio, quando trasalì a un tratto al sentire montare la scala, e gridare persona che avvicinavasi a lui. Nel tempo medesimo il suo viso trovossi in faccia del viso pallido e stralunato di Rosa. Egli pure impallidendo per lo spavento si fece indietro. — Cornelio! Cornelio! gridò colei tutta affannosa. — Che c’è? mio Dio! dimandò il prigioniero. — Cornelio, il tulipano... — Ebbene?... — Ma come dirvelo? — Dite, dite, o Rosa. — Ci è stato preso, ci è stato rubato. — Ci è stato preso, ci è stato rubato! esclamò Cornelio. — Sì, disse Rosa appoggiandosi contro la porta per non cadere. Sì, preso, rubato! E suo malgrado ripiegandosele le ginocchia, scivolò e cadde ginocchioni. — Ma come mai? dimandò Cornelio. Ditemi... spiegatemi... — Oh! non ci ho colpa, amico mio. Povera Rosa! non osava più dire mio diletto. — L’avete lasciato solo! disse Cornelio con un accento doloroso. — Per un momento, tanto per andare a cercare il nostro espresso, che abita a cinquanta passi appena sulla riva del Wahal. — E intanto a malgrado le mie raccomandazioni, avete lasciato la chiave nell’uscio, sciagurata ragazza! — No, no, no; eccola ancora qui, senz’averla punto lasciata; anzi l’ho costantemente tenuta in mano, come se avessi avuto paura che mi scappasse. — Ma allora come l’è andata? — E che lo so io? Consegnai al mio espresso la lettera, che partì me presente; tornai, la porta era chiusa; tutto era al suo posto in camera mia fuorchè il tulipano che era sparito. Si vede che qualcuno si è procurata un’altra chiave della mia camera, o ne ha fatta fare una falsa. Restò soffocata, le lacrime troncandole a mezzo la parola. Cornelio immobile, col viso stravolto, ascoltava quasi senza comprendere, mormorando soltanto: — Rubato! rubato! rubato! Io sono perduto. — Oh! signor Cornelio, grazia! grazia! esclamò Rosa, che io ne morirei. A questa minaccia di Rosa, Cornelio abbrancò le spranghe della graticola, e stringendole con furore: — Rosa, gridò, ce l’hanno rubato, è vero; ma che ci abbiamo a dare per vinti? No, grande è la sventura, ma riparabile forse: conosciamo il ladro. — Ahimè! come è possibile che ve lo possa precisare? — Oh! ve lo preciso io: è l’infame Giacobbe. Lasceremo noi ch’ei s’abbia il premio a Harlem del frutto delle nostre fatiche, del resultato delle nostre veglie, del sollievo del nostro amore? Rosa, bisogna perseguitarlo, bisogna raggiungerlo! — Ma come fare tutto questo, amico mio, senza scoprire a mio padre che noi siamo d’intelligenza! Come io, donna sì poco franca, sì poco capace, come raggiungere io quello scopo, cui forse voi stesso non raggiungereste? — Rosa, Rosa, apritemi la porta, e vedrete se io non lo raggiunga; vedrete se non vi scopra il ladro, vedrete se io non lo faccia confessare il delitto, e chiedere misericordia! — Oh! me meschina! disse Rosa singhiozzando, e che vi posso aprire, io? Che ho le chiavi? E se le avessi avute, non sareste già libero da un pezzo? — Le ha vostro padre; il vostro infame padre, quel che mi schiacciò il mio primo tallo di tulipano. Ah! miserabile, miserabile! è complice di Giacobbe. — Sommesso, sommesso, in nome del cielo! — Oh! se non mi aprite, o Rosa, gridò Cornelio farnetico di rabbia, sfondo la graticola e ammazzo quanti incontro nella prigione. — Amico mio, per pietà! — Vi dico, o Rosa, che pietra per pietra demolirò la prigione. E il disgraziato con le sue due mani, la cui forza era raddoppiata dalla collera, conquassava con gran fracasso la porta, e tramandava tal gridi disperati, che tuonavano fino in fondo allo spirale sonoro della scala. Rosa spaventata procurò ma invano di calmare quella furiosa tempesta. — Vi dico che ammazzerò l’infame Grifo, urlò Van Baerle; vi dico che verserò il suo sangue, che lui ha versato quello del mio tulipano nero. L’infelice cominciava a dar la volta al cervello. — Oh! sì, diceva Rosa palpitante, sì, sì, ma calmatevi; sì, prenderò le sue chiavi, sì, sì, vi aprirò; ma calmatevi, mio Cornelio. Non aveva ella ancora finito, che un urlo cacciatole in faccia interruppe la sua frase. — Mio padre! esclamò Rosa. — Grifo! ruggì Van Baerle, ah! scellerato! Il vecchio Grifo in mezzo a tutto quel frastuono era salito senzachè si fosse sentito. Ei prese bruscamente sua figlia pel polso. — Ah! voi mi prenderete le chiavi, disse di una voce cupa per la collera. Ah! questo infame, questo mostro, questo cospiratore è il vostro Cornelio! Ah! si tiene di mano ai prigionieri di stato! Va bene! Rosa battè insieme le mani per la disperazione. — Oh! continuò Grifo passando dall’accento febbricitante della collera alla fredda ironia del vincitore, ah! ah! signor tulipaniere innocente, ah! ah! signor sapiente inzuccherato, voi mi massacrerete, voi beverete il mio sangue! Benone! non si fa dimeno! E la mia figlia complice. O Gesù! ma che sono io in una caverna di assassini, che sono io in un coviglio di briganti? Ah! stamattina il signor governatore saprà tutto, e dimani saprà tutto S. A. lo Statolder. Noi conosciamo la legge: «Chiunque si ribellerà in prigione (articolo 6).» Noi vi andiamo a dare una seconda edizione del Buitenhof o signor sapiente, e sarà la buona edizione. Sì, sì, stringete le pugna come un orso in gabbia, e voi bellina, divorate con gli occhi il vostro Cornelio. Vi avverto però, o miei agnellini, che non avrete più questa felicità di cospirare insieme. Giù, via discendi, snaturata figliuola. E voi, signor sapiente, a rivedervi; siate tranquillo, a rivedervi! Rosa fuori di sè per il terrore e per la disperazione, gettò un bacio al suo amico; poi senza dubbio illuminata da un pensiero istantaneo, si affrettò alla scala, dicendo: — Non è ancora tutto perduto; conta su me, mio Cornelio. Suo padre seguivala urlando. Quanto al povero tulipaniere, lasciò a poco a poco le sbarre strette dalle sue dita convulsive: la sua testa aggravossi, gli occhi suoi oscillarono nella loro orbita, ed egli cadde come un cencio sull’impiantito della camera, mormorando: — Rubato! me l’hanno rubato! In questo frattempo Boxtel escì di castello per la porta che aveva aperta la stessa Rosa, e col tulipano nero involto dentro un mantello erasi gettato in un calesse, che lo aspettava a Gorcum, e disparve senza avere, ci s’intende, avvertito l’amico Grifo della sua precipitosa partenza. Ed ora che lo abbiamo visto montare nel suo calessino, lo seguiremo, se il lettore ce lo acconsente, fino al termine del suo viaggio. Camminava di passo: non si fa correre impunemente la posta a un tulipano nero. Ma Boxtel temendo di non arrivare a tempo, fece fabbricare a Delft una cassetta tutta intorno vestita di bella borraccina fresca, e v’incassò il tulipano, cosicchè il fiore vi si trovava così mollemente accomodato da tutti i lati, e arieggato al di sopra, che il calessino potè prendere il galoppo senza possibile pregiudizio. Arrivò l’indomani mattina a Harlem, spossato ma trionfante, mutò il suo tulipano di vaso per fare sparire ogni traccia di furto, spezzò il vaso di maiolica, e gettò i cocci nel Canale, scrisse al presidente della società orticola una lettera, nella quale annunziavagli, che egli era giunto a Harlem con un tulipano perfettamente nero, e istallossi in una buona osteria con il suo fiore intatto. Là egli attese. IX Il presidente Van Herysen. Rosa lasciando Cornelio, aveva preso il suo partito; ed era, o di rendergli il tulipano rubatogli da Giacobbe, o di non rivederlo mai più. Essa aveva visto la disperazione del prigioniero, doppia e incurabile disperazione. E poi da un canto era una separazione inevitabile avendo Grifo a un tempo sorpreso il segreto del loro amore e dei loro convegni. Dall’altro era il rovesciamento di tutte le speranze d’ambizione di Cornelio Van Baerle, e tali speranze nutrivale da sette anni indietro. Rosa era una di quelle donne, che non si perdono mai di coraggio, piene di forza contro un male estremo trovano nel male medesimo l’energia per combatterlo, o la risorsa per ripararlo. La giovanetta rientrò nella sua stanza, vi gettò un ultimo sguardo per vedere se mai si fosse ingannata, e se il tulipano fosse per disgrazia in un qualche cantuccio, e quindi sfuggito alla sua vista. Ma Rosa cercò invano: il tulipano non v’era più, il tulipano era stato rubato. Fece un fagottino delle bricciche che le sarebbero necessarie, prese i suoi trecento fiorini di risparmi, cioè tutta la sua ricchezza, frugò sotto i suoi merletti, ov’era riposto il terzo tallo, se lo cacciò delicatamente in seno, chiuse la sua porta a doppia mandata per ritardare di tutto il tempo necessario per aprirla il momento, che si conoscesse la sua fuga, discese la scala, escì della prigione per la porta, che un’ora innanzi aveva dato l’egresso a Boxtel, si portò presso un affittuario di cavalli, e chiese la vettura di un calessino. Il vetturino non ne aveva che uno: era per l’appunto quello affittato fin dalla vigilia a Boxtel, sul quale correva per la via di Delft. Noi diciamo per la via di Delft, perchè bisognava fare un enorme giro per andare da Loevestein ad Harlem: a volo di uccello la distanza non sarebbe stata della metà. Ma non vi sono che gli uccelli che possano viaggiare a volo in Olanda, paese il più intersecato da fiumi, da ruscelli, da canali, da riviere e da laghi di qualunque altro paese del mondo. A Rosa dunque fu forza di prendere un cavallo, che le fu facilmente fidato: chè il vetturino conosceva Rosa per la figlia del soprastante della fortezza. Rosa aveva una speranza, ed era di raggiungere il suo espresso, buono e bravo giovinotto, che la condurrebbe seco e che le servirebbe al tempo stesso di guida e di appoggio. Difatti non aveva corso ancora una lega, che ella lo scorse allungare il passo sopra una proda di una graziosa strada che costeggiava la riviera. Messe il cavallo al trotto e lo raggiunse. Il bravo giovane ignorava l’importanza del suo messaggio, e nulladimeno camminava come se lo conoscesse. In meno di un’ora aveva già fatto una lega e mezzo. Rosa gli riprese il biglietto diventato inutile, e gli fece sentire che ella aveva bisogno di lui. Il navicellaio misesi a sua disposizione, promettendo di andare quanto il cavallo, purchè Rosa gli permettesse di appoggiar la mano sulla di lui groppa o sulla spalla. La giovinetta permisegli che appoggiasse la mano dove volesse, purchè non la ritardasse minimamente. I due viaggiatori erano già partiti da cinque ore e aveano già fatto più di otto leghe, che Grifo non si figurava punto ancora che la giovine avesse lasciato la fortezza. Il carceriere d’altronde, pessimo uomo in sostanza, gongolava per avere ispirato a sua figlia un profondo terrore. Ma intanto, che felicitavasi di avere a raccontare una così bella storia al compagnone Giacobbe, Giacobbe pure era sulla via di Delft. Solamente in grazia del suo calessino era già quattro leghe avanti a Rosa e al navicellaio. Mentrechè Grifo figuravasi Rosa tremante, o borbottante in camera sua, Rosa guadagnava terreno. Nessuno fuorchè il prigioniero non eravi dunque che non avesse la credenza di Grifo. Rosa compariva così poco da suo padre dacchè erasi messa intorno al tulipano, che solamente all’ora di desinare, cioè a mezzogiorno, Grifo si accorse misurando il suo appetito, che sua figlia bronciava un po’ troppo. La fece chiamare da un suo porta chiavi; siccome costui discese annunziando che aveala cercata e chiamata invano, risolvette di cercarla e chiamarla da sè. Cominciò con andare diretto alla di lei camera; ma ebbe un bel picchiare, Rosa non rispose nè punto nè poco. Fu fatto venire il guardaroba della fortezza, il quale aprì la porta, ma Grifo non vi trovò Rosa, come Rosa non vi aveva trovato il tulipano. In questo stesso momento Rosa entrava a Rotterdam; e perciò Grifo non poteala trovare in cucina, come non l’aveva trovata in camera; non poteala trovare in giardino come non l’aveva trovata in cucina. Che si giudichi della collera del carceriere, quando avendo fiutato ogni angolo seppe che sua figlia aveva preso a vettura un cavallo, e come Bradamante e Clorinda erasene partita da vera venturiera, senza dire ove si dirigesse. Grifo risalì furibondo da Van Baerle, lo ingiuriò, lo minacciò, sgominò tutto il di lui meschino mobiliare, promisegli l’ergastolo, promisegli la prigione sotterra, promisegli la fame e le bastonate. Cornelio senza neppure dargli retta, lasciavasi maltrattare, ingiuriare, minacciare, impassibile, silenzioso, disensito, insensibile a ogni emozione, morto a ogni paura. Dopo aver cercato di Rosa in ogni cantuccio. Grifo cercò di Giacobbe; e non trovandolo al pari di sua figlia, sospettò all’istante che glie l’avesse involata. Frattanto la giovinetta dopo aver fatto una fermata d’un paio d’ore a Rotterdam, erasi rimessa in cammino. La stessa sera pernottò a Delft, e la mattina seguente arrivò a Harlem quattro ore dopo di Boxtel. Rosa si fece subito condurre dal presidente della società orticola, messer Van Herysen. Trovò quel degno cittadino in una situazione, che non ci permettiamo di passarla senza dipingere, per non mancare a tutti i nostri doveri di pittore e di storico. Il presidente redigeva un rapporto al comitato della società. Tale rapporto era in gran foglio e nel migliore scritto che potesse fare il presidente. Rosa fecesi annunziare sotto il suo semplice nome di Rosa Grifo; ma questo nome per sonoro che fosse, era sconosciuto al signor presidente, il perchè Rosa non fu ammessa. È difficile forzare le consegne in Olanda, paese delle dighe e delle chiuse. Ma Rosa non si sconcertò per questo; erasi imposta una missione ed aveva giurato a se stessa di non lasciarsi abbattere nè dai rabbuffi, nè dalle brutalità, nè dalle ingiurie. — Annunziate al signor Presidente, ella disse, che gli vengo a parlare del tulipano nero. Queste parole non meno magiche delle famose: _sèsamo, apriti_, delle Mille e una notte, servironle di passaporto. Mercè queste parole penetrò fin nello scrittoio del presidente Van Herysen, che ella trovò galantemente che veniva ad incontrarla. Era un piccolotto, sciugnolo, rappresentante precisamente il gambo di un fiore, la cui testa formasse il calice; due braccia ondulanti e pendenti simulanti la doppia foglia oblunga del tulipano; un certo tentennìo, che eragli abituale, completava la sua rassomiglianza con quel fiore, quando piegasi sotto il soffio del vento. Abbiamo detto che chiamavasi Van Herysen. — Signorina, esclamò egli, venite da parte del tulipano nero? Pel signor presidente della società orticola il _Tulipano nero_ era una potenza di primo ordine, che poteva bene nella sua qualità di regina dei tulipani inviare ambasciatori. — Sì, signore, rispose Rosa, vengo per lo meno a parlarvi di lui. — Sta bene? fece Van Herysen con un sorriso di tenera venerazione. — Ahimè! disse Rosa, non lo so, o signore. — Come! sarebbegli accaduto qualche disgrazia? — Ben grande, signore, ma non a lui, a me. — Quale? — Mi è stato rubato. — Vi è stato rubato il tulipano nero? — Sì, signore! — Sapete da chi? — Oh! lo dubito, ma non oso ancora accusarlo. — Ma la cosa sarà facile a verificarsi. — Come ciò? — Dacchè vi è stato rubato, il ladro non sarebbe lontano. — Perchè non può essere lontano? — Perchè non sono più di due ore che l’ho veduto. — Avete veduto il tulipano nero? esclamò Rosa precipitandosi verso il signor Van Herysen. — Come vedo ora voi. — Ma dove? — Apparentemente, presso il vostro padrone. — Presso il mio padrone? — Sì... Non siete voi al servizio del signor Isacco Boxtel? — Io? — Senza dubbio, voi. — Ma per chi dunque mi prendete voi, signore? — Ma per chi mi prendete voi, voi costì? — Signore, io vi prendo, lo spero, per quello che siete, cioè a dire per l’onorevole signor Van Herysen sindaco di Harlem e presidente della società orticola. — E che mi volete dire? — Vi voglio dire, o Signore, che mi è stato rubato il mio tulipano. — Allora il vostro tulipano è quello del signor Boxtel. Allora voi vi spiegate male, o mia ragazza; non a voi dunque, ma al signor Boxtel è stato rubato il tulipano. — Vi ripeto, signore, che non so chi si sia questo signor Boxtel, e che questa è la prima volta che lo sento nominare. — Non sapete chi si sia questo signor Boxtel, e avete medesimamente un tulipano nero? — Che ve n’è dunque un altro? domandò Rosa rabbrividendo tutta. — Vi è quello del signor Boxtel, già. — Com’è? — Nero, permio! — Senza una macchia? — Senza la minimissima macchia, senza il minimissimo puntolino. — E voi avete questo tulipano? Ed è qui depositato? — No, ma saravvi depositato, perchè ne debbo fare l’esibizione al comitato, prima che il premio sia conferito. — Signore, esclamò Rosa, questo Boxtel, questo Isacco Boxtel, che si dice proprietario del tulipano nero.... — E che lo è difatto. — Non sarebbe mica un uomo magro? — Sì. — Calvo? — Sì. — Guercio? — Credo che sì. — Inrequieto, storto, ranco? — In verità, che ne fate il ritratto lineamento per lineamento del signor Boxtel. — Signore il tulipano è egli in un vaso di maiolica turchina e bianca a fiori giallognoli rappresentanti una panierina sopra le tre faccie del vaso? — Oh! quanto a questo, non ne sono sicuro, che ho più osservato il fiore del vaso. — Signore, è il mio tulipano, è quello che mi è stato derubato; signore, è la mia fortuna: vengo qui a reclamarlo avanti a voi, da voi. — Oh! oh! fece Van Herysen guardando Rosa. Che! Venite qui a reclamare il tulipano del signor Boxtel. Affè di Dio! siete una comare un po’ ardita! — Signore, disse Rosa un poco conturbata da quell’apostrofe, io non vengo a reclamare il tulipano del signor Boxtel, ma vengo a reclamare il mio. — Il vostro? — Sì: quello che ho piantato e allevato io stessa. — Ebbene, andate a trovare il signor Boxtel all’Osteria del _Cigno Bianco_, ve la intenderete con lui; quanto a me, siccome la causa parmi non meno difficile di quella portata davanti al fu re Salomone, e che io non ho la pretensione della sua sapienza, mi contenterò di fare il mio rapporto, di constatare l’esistenza del tulipano nero e di ordinare la collazione di cento mila fiorini al suo inventore. Addio, mia ragazza. — Oh! signore! signore! insistè Rosa. — Solamente, ragazza mia, continuò Van Herysen, siccome siete graziosetta, siccome siete giovane, siccome siete non ancora affatto pervertita, accettate il mio consiglio. Siate prudente in questo affare, perchè noi abbiamo un tribunale e una prigione in Harlem; inoltre noi siamo estremamente solleciti sull’onore dei tulipani. Andate, mia ragazza, andate. Signore Isacco Boxtel, Osteria del _Cigno Bianco_. E Van Herysen, riprendendo la sua bella penna, riprese l’interrotto suo rapporto. X Un membro della società orticola. Rosa smarrita, quasi impazzita di gioia e di paura alla idea che il tulipano nero fosse ritrovato, si diresse all’Osteria del _Cigno Bianco_, seguita sempre dal suo navicellaio, robusto giovanotto della Frigia capace di divorarsi solo dieci Boxtel. Per istrada il navicellaio era stato messo alla confidenza di tutto; egli era pronto ad adoprare le mani quando ne venisse la necessità; e solamente non dandosi questa eventualità, aveva ordine di pigliarsi il tulipano. Ma giunta in Groote Markt, Rosa si fermò su due piedi: che presela un subito pensiero, simile alla Minerva d’Omero, che prende Achille per i capelli nel momento che la monta nelle furie. — Mio Dio! ella mormorò, ho fatto uno sbaglio massiccio; ho forse perduto e Cornelio e il Tulipano e me...! Ho svegliato il formicolaio, ho dato l’indizii; io non sono che una donna, e costoro possono legarsi contro di me, e allora sono perduta... Oh! perduta io, non vorrebbe dir nulla, ma Cornelio, ma il tulipano! Stette un momento sopra se stessa. — Se vado da questo Boxtel, e che io nol conosca punto; se questo Boxtel non fosse il mio Giacobbe, se fosse un altro amatore che lui pure avesse scoperto il tulipano nero, od anco se il mio tulipano fosse stato rubato da un altro e non da chi sospetto, o che sia passato in terza mano; se mi fosse appieno sconosciuto l’uomo, e riconoscessi solo il mio tulipano, come provare che sia il mio? Da un altro canto se io riconoscessi questo Boxtel per il falso Giacobbe, chi può sapere come la cosa la s’andasse. Mentre che noi staremmo a contrastare insieme, il tulipano morrebbe. Oh! ispiratemi voi, Vergine santa! Si tratta della sorte della vita mia, si tratta del povero prigioniero, che forse in questo momento medesimo rende l’anima a Dio. Fornita questa preghiera, Rosa attese religiosamente la ispirazione che invocava dal cielo. Frattanto un gran sussurro alzavasi alla estremità di Groote Markt; le genti accorrevano, schiudevansi le porte; e Rosa sola era impassibile a tutto questo movimento della popolazione. — Bisogna, mormorò, ch’io ritorni dal presidente. — Ritorniamo, disse il navicellaio. Presero il vicolo della Paglia che li menò diritti alla residenza del signor Van Herysen, il quale col suo più bel carattere e con la migliore sua penna continuava a lavorare al suo rapporto. Dappertutto passando Rosa non sentiva che parlare del tulipano nero e del premio di cento mila fiorini: n’era già piena la città. Rosa non incontrò ostacolo nessuno per ripenetrare presso Van Herysen, che puranco sentissi commosso, come la prima volta, alla parola magica di tulipano nero. Ma quando riconobbe Rosa, la quale dentro di sè aveva egli battezzato per pazza e forse peggio, montò in collera e voleva scacciarla. Ma Rosa giunse le sue mani, e con un accento di verità, che penetra i cuori, disse: — Signore, a nome del cielo! non mi cacciate: ascoltate al contrario ciò che io vengo a dirvi, e se non potrete farmi rendere giustizia, almeno non avrete a rimproverarvi un giorno in faccia a Dio di essere stato complice di una cattiva azione. Van Herysen trepidava d’impazienza; l’era la seconda volta che Rosa disorientavalo da una redazione, alla quale ei metteva il suo doppio amor proprio di sindaco e di presidente della società orticola. — Ma il mio rapporto! esclamò egli, il mio rapporto sul tulipano nero! — Signore, continuò Rosa con la fermezza della innocenza e della verità, signore, se non mi ascoltate, il vostro rapporto sul tulipano nero poserà sopra fatti criminosi, o sopra dati falsi. Ve ne supplico, signore, fate venir qui alla vostra presenza e mia questo signor Boxtel, il qual sostengo che sia il signor Giacobbe, e giuro a Dio di lasciargli la proprietà del suo tulipano, se non conosco nè il tulipano nè il suo proprietario. — Viva Dio! bella promessa! disse Van Herysen. — Che vorreste dire? — Vi domando che cosa ciò proverebbe, quando voi lo aveste riconosciuto? — Ma alla fine, disse Rosa disperata, voi siete un uomo onesto, o signore. Ebbene non solo andreste a dare il premio ad un uomo per un’opera che non ha fatto, ma ancora per un’opera rubata. Forse l’accento di Rosa cominciava ad ispirare un certo convincimento nel cuore di Van Herysen, che si preparava a risponderle più dolcemente; quando un grande strepito fecesi sentire nella strada, che pareva puramente e semplicemente che fosse un aumento del frastono, cui Rosa aveva già inteso, ma senza attaccarvi importanza nessuna, a Groote Markt, e che non aveva avuto la forza di astrarla dalla sua fervente preghiera. Ardenti acclamazioni scossero la casa. Van Herysen porse le orecchie attente a queste acclamazioni, le quali dapprima non erano state neppure uno strepito per Rosa, ed ora erano per lei un semplice strepito ordinario. — Che cosa è questa, esclamò il sindaco, che cosa è questa? Sarebbe mai possibile! Che io abbia inteso bene! E precipitossi verso la sua anticamera senza più guardare a Rosa che lasciava nel suo scrittoio. Van Herysen appena giunto nell’altra stanza cacciò un gran grido, scorgendo lo spettacolo della sua scala invasa fino al vestibolo. Accompagnato, o piuttosto seguito dalla moltitudine, un giovine vestito semplicemente di vellutello violetto ricamato in argento saliva con nobile lentezza li scalini di pietra, lucenti di bianchezza e di nettezza. Dietro a lui venivano due officiali, uno di marina e l’altro di cavalleria. Van Herysen facendosi largo tra i domestici spaventati, venne a inchinarsi, a prosternarsi quasi davanti il nuovo arrivato, che cagionava tutto questo rumore. — Mio Signore, esclamò, mio Signore! Come? l’Altezza Vostra da me! Onore impareggiabile sempre per la mia umile abitazione! — Caro Van Herysen, disse Guglielmo d’Orange con una serenità che in lui teneva luogo di sorriso, io sono un vero olandese, vedete; amo l’acqua, la birra e i fiori, e qualche volta pure il formaggio, di cui fanno tanto conto i Francesi; tra fiori quelli che io preferisco, sono naturalmente i tulipani. Ho udito dire a Leida che la città di Harlem possedeva finalmente il tulipano nero, e dopo essermi assicurato la cosa esser vera, quantunque incredibile, vengo a chiederne novella al presidente della società di orticoltura. — Oh! mio Signore, disse Van Herysen in estasi, qual gloria per la società, se i di lei lavori possono aggradire all’Altezza Vostra! — L’avete qui il fiore? disse il principe che già senza dubbio pentivasi d’aver troppo parlato. — Ahimè! no, mio Signore, non l’ho qui. — E dov’è? — Presso il suo proprietario. — Chi è il proprietario? — Un bravo tulipaniere di Dordrecht. — Di Dordrecht? Come si chiama?.... — Boxtel. — Alloggia? — Al _Cigno Bianco_; mando ad avvisarlo; e se intanto aspettando, l’A. V. mi vuol far l’onore di passare nel salone, egli certo affretterassi, sapendo che monsignore è qui, a portare il suo tulipano. — Va bene; avvisatelo. — Sì, Altezza. Solamente.... — Che cosa? — Oh! niente d’importanza, mio Signore. — Tutto è importante in questo mondo, signor Van Herysen. — Bene, mio Signore; si eleva una difficoltà. — Quale? — Questo tulipano vorrebbesi rivendicare da degli usurpatori: vale cento mila fiorini! — Davvero! — Sì, mio Signore, da degli usurpatori, da dei falsarii. — Sarebbe un delitto. — Sì, Altezza. — E avete le prove di questo delitto? — No, ma la colpevole... — La colpevole?... — Voglio dire colei che reclama il tulipano, o mio Signore, è qui nella stanza accanto. — Qui! Che ne pensate voi, signor Van Herysen? — Penso, l’appetito dei cento mila fiorini l’abbiano tentata. — E lei reclama il tulipano? — Sì, mio Signore. — E che dice ella dal canto suo, come lo prova? — Cominciavo a interrogarla, quando è entrata l’Altezza Vostra. — Sentiamola, signor Van Herysen, sentiamola; io sono il primo magistrato del paese, sentirò l’interrogatorio e renderò giustizia. — Ecco trovato il mio re Salomone, disse Van Herysen facendo reverenza e accennando il cammino al principe, che precedeva il suo introduttore; quando arrestossi ad un tratto, disse: — Andate innanzi, e chiamatemi Signore. Entrarono nello scrittoio. Rosa era sempre allo stesso posto, appoggiata alla finestra e guardante dai vetri nel giardino. — Ah! ah! una Frisona, disse il principe scorgendo la cuffietta d’oro e le ciocche rosse di Rosa. Costei si volse allo strepito, ma vide solo balenare il principe, che assidevasi nell’angolo più oscuro dell’appartamento. Tutta la sua attenzione, ci s’intende, era volta all’importante personaggio che chiamavasi Van Herysen, e non per quell’umile straniero, che seguiva il padrone di casa e che probabilmente non farebbesi conoscere. L’umile straniero prese un libro dello scaffale, e fece segno a Van Herysen di cominciare l’interrogatorio. Van Herysen sempre al cenno del giovine dall’abito violetto, si assise, e tutto felice e superbo della importanza che eragli accordata, cominciò: — Mia ragazza, mi promettete la verità, tutta la verità, sul conto del tulipano? — Ve la prometto. — Ebbene, parlate dunque davanti al signore, che è uno dei membri della società orticola. — Signore, che cosa potrei dirvi, che io non abbia già detto? — E allora? — E allora, non posso che rinnovare la preghiera che vi ho diretta. — Quale? — Di far venir qui il signor Boxtel col suo tulipano, se io vedo che non sia mio, lo dirò francamente; ma se io lo riconosco, lo reclamerei anco davanti a Sua Altezza lo Statolder, con le prove alla mano! — Voi dunque avete delle prove, bella ragazza? — Dio, che sa il mio buon diritto, me le fornirà. Van Herysen scambiò un’occhiata col principe che dalla prima parola di Rosa, sembrava cercasse di richiamarsi alla memoria, come avesse sentito altra volta quell’armonica voce. Partì un officiale per cercare di Boxtel. Van Herysen continuò l’interrogatorio, proseguendo: — E su che basate voi queste asserzioni, di essere proprietaria del tulipano nero? — Sopra una cosa ben semplice, ed è d’averlo io piantato e coltivato nella mia propria camera. — In camera vostra? E dov’è la vostra camera? — A Loevestein. — Siete di Loevestein? — Sono la figliuola del carceriere della fortezza. Il principe fece un piccolo movimento che voleva dire: — Ah! è lei, ora me ne ricordo. E figurando di leggere, traguardava Rosa anco con più attenzione di prima. — E voi amate i fiori? continuò Van Herysen. — Sì, signore. — Allora voi siete una fioraia sapiente? Rosa esitò un istante; poi con accento tirato dal più profondo del cuore, ella disse: — Signori, parlo ad uomini di onore? L’accento era così vero, che Van Herysen e il principe risposero ambo ad una volta con un movimento di testa affermativo. — Ebbene, no, non sono io una fioraia sapiente! Io non sono che una povera ragazza del popolo, una povera paesana di Frisia, che non son che tre mesi che non sapeva nè leggere nè scrivere. No, il tulipano nero non è stato ritrovato da me. — E da chi gli è stato trovato? — Da un povero prigioniero di Loevestein. — Da un prigioniero di Loevestein? ripetè il principe. Al suono di quella voce, Rosa alla sua volta trasalì. — E allora da un prigioniero di Stato, continuò il principe, perchè al Loevestein non sonvi che prigionieri di Stato. E si rimise a leggere, o almeno fece le viste. — Sì; mormorò Rosa tremante, sì, da un prigioniero di Stato. Van Herysen impallidì udendo pronunziare una simile confessione davanti un simile testimone. — Continuate, disse freddamente Guglielmo al presidente della società orticola. — Oh! signore, disse Rosa indirizzandosi a colui che ella credeva suo vero giudice, è quanto dire che vo ad accusarmi ben gravemente. — Infatti, disse Van Herysen, i prigionieri di Stato dovrebbero essere in segreta al Loevestein. — Ahimè! signore. — Da quello che dite, parrebbe che voi abbiate profittato della vostra posizione di figlia del carceriere, e che abbiate comunicato con un prigioniero di Stato per coltivare dei fiori. — Sì, signore, mormorò Rosa sconcertata; sì, son forzata a confessarlo, lo vedevo tutti i giorni. — Disgraziata! esclamò Van Herysen. Il principe alzò la testa e osservando lo spavento di Rosa e il pallore del presidente, disse con la sua voce spiccata e fermamente accentuata: — Ciò punto spetta ai membri della società orticola: essi debbono giudicare puramente del tulipano nero, e non si occupano di delitti politici. Continuate, giovanetta continuate. Van Herysen con una occhiata eloquente ringraziò a nome dei tulipani il nuovo membro della società orticola. Rosa rassicurata da questa specie d’incoraggiamento che aveale dato lo sconosciuto, raccontò tutto ciò che da tre mesi era accaduto, ciò che aveva fatto, ciò che aveva sofferto. Parlò delle durezze di Grifo, della distruzione del primo tallo, del dolore del prigioniero, delle precauzioni prese, affinchè il secondo tallo arrivasse a bene, della pazienza del prigioniero, delle sue agonie durante la loro separazione; come egli avesse voluto morire di fame, perchè non aveva più nuove del suo tulipano; e della gioia che egli aveva provato nella riunione; con in fine la disperazione di ambedue, quando si avvidero che il loro tulipano appena fiorito era loro stato rubato. Tutto ciò fu raccontato con tale accento di verità che lasciava impassibile il principe, almeno in apparenza, ma che non lasciava di fare il suo effetto sopra il signor Van Herysen. — Ma, disse il principe, non è molto che conoscete questo prigioniero? Rosa aperse i suoi grand’occhi e fissò lo sconosciuto, che cacciossi nell’ombra come se non si fosse voluto far vedere. — A che ciò? dimandò Rosa. — Perchè non sono che quattro mesi che il carceriere Grifo e sua figlia sono a Loevestein. — È vero, signore. — A meno che non abbiate sollecitato la permuta di vostro padre per seguire qualche prigioniero che sia stato dall’Aya trasportato a Loevestein. — Signore! fece Rosa arrossendo. — Finite, disse Guglielmo. — Lo confesso, io aveva conosciuto il prigioniero all’Aya. — Fortunato prigioniero! disse Guglielmo sorridendo. In questo momento l’officiale che era stato inviato a Boxtel rientrò, annunziando al principe che seguivalo col suo tulipano. XI Il terzo Tallo. L’annunzio della venuta di Boxtel era appena dato che egli entrò in persona nel salone del signor Van Herysen, seguito da due uomini portanti in una cassa il prezioso peso, che fu depositato sopra una tavola. Il principe prevenuto, lasciò lo scrittoio, passò nel salone, ammirò e tacque; quindi tornò silenziosamente a prendere il suo posto nell’angolo oscuro, dove da se stesso aveva collocato la sua seggiola a braccioli. Rosa palpitante, pallida, esterrefatta, aspettava di essere alla sua volta invitata per andare a vederlo. Sentiva la voce di Boxtel. — Gli è lui! ella esclamò. Il principe fecele segno che ella guardasse dalla porta socchiusa: e Rosa esclamò: — È il mio tulipano! è lui, lo riconosco. O mio povero Cornelio! E si struggeva in lacrime. Il principe alzossi e andò fino alla porta, dove rimase per un istante alla luce. Gli occhi di Rosa si fermarono su di lui; e più che mai si convinse che quella non era la prima volta che ella avesse veduto quello straniero. — Signor Boxtel, disse il principe, entrate. Boxtel accorse frettoloso e trovossi faccia a faccia con Guglielmo d’Orange. — Sua Altezza! esclamò tirandosi indietro. — Sua Altezza! ripetè Rosa tutta stordita. A questa esclamazione venuta dalla sua sinistra, Boxtel si volse, e vide Rosa. A questa vista tutta la persona dell’invidioso si scosse come al contatto della pila voltaica. — Ah! mormorò tra sè il principe, egli si è turbato. Ma Boxtel con uno sforzo potente sopra di sè, erasi già rimesso. — Signor Boxtel, disse Guglielmo, parrebbe che voi aveste trovato il segreto del tulipano nero? — Sì, mio Signore, rispose Boxtel con una voce che rivelava un po’ di turbamento. È vero che il turbamento poteva originare dalla emozione provata dal tulipaniere nel riconoscere Guglielmo. — Ma, riprese il principe, ecco una giovine che ha pure la stessa pretensione. Boxtel sorrise di sdegno e fece una spallata. Guglielmo notava tutti i suoi movimenti con uno interessamento di rimarcabile curiosità. — Del pari, non conoscete punto questa giovine? — No, mio Signore. — E voi, ragazza, conoscete Boxtel? — No, non conosco il signor Boxtel, ma conosco il signor Giacobbe. — Che volete voi dire? — Voglio dire che a Loevestein, costui, che si fa chiamare Isacco Boxtel, chiamavasi signor Giacobbe. — Che rispondete, signor Boxtel? — Dico, mio Signore, che questa giovine mentisce. — Voi negate di non essere mai stato a Loevestein? Boxtel esitò; l’occhio fisso e imperiosamente scrutatore del principe impedivagli di mentire. — Non posso negare di essere stato a Loevestein, mio Signore, ma niego di avere rubato il tulipano. — Me l’avete rubato e di camera mia! esclamò Rosa indignata. — Lo niego. — Ascoltate; niegate voi d’avermi seguito nel giardino il giorno, in cui io preparava la casella, dove io doveva sotterrarlo? Niegate voi d’avermi seguito nel giardino il giorno, in cui io finsi di piantarlo? Niegate voi quella sera stessa d’esservi gettato, dopo la mia partenza, sul luogo dove voi speravate di trovare il tallo? Niegate voi di aver frugato la terra con le vostre mani, ma inutilmente per grazia di Dio, perchè non era che una furberia per conoscere le vostre intenzioni? Dite, mi negherete tutto questo? Boxtel non giudicò punto a proposito di rispondere a queste diverse interrogazioni; ma lasciando la polemica suscitata da Rosa e volgendosi al principe, disse: — Sono venti anni, mio Signore, che coltivo tulipani a Dordrecht; ho parimente acquistato in quest’arte una certa reputazione: uno dei miei ibridi portò in Catalogna un nome illustre. L’ho dedicato al re di Portogallo. Ora ecco la verità. Questa ragazza sapeva che io aveva trovato il tulipano nero e di concerto con un suo amante, che ha nella fortezza di Loevestein, si è formata il progetto di rovinarmi coll’appropriarsi il premio de’ cento mila fiorini, che otterrò, spero, in grazia della vostra giustizia. — Oh! esclamò Rosa soffocata dalla collera. — Silenzio! disse il principe. Poi volgendosi a Boxtel, gli disse: — E chi è questo prigioniero che voi dite amante di questa ragazza? Rosa fu per isvenirsi, perchè il prigioniero era raccomandato dal principe come un gran colpevole. Niuna cosa poteva essere più aggradevole a Boxtel di questa dimanda. — Qual’è il prigioniero? rispose Boxtel. — Sì. — Il prigioniero, mio Signore, è un uomo, il di cui nome solo proverà all’Altezza Vostra, qual fede possa prestargli: è un reo di Stato, condannato già alla morte. — E si chiama?... Rosa nascose il viso nelle sue mani con un movimento disperato. — Si chiama Cornelio Van Baerle, disse Boxtel, ed è il vero figlioccio dello scellerato Cornelio de Witt. Il principe si scosse, il suo occhio calmo gettò una favilla, e il freddo di morte si stese di nuovo sul suo viso impassibile. Egli appressossi a Rosa e fecele segno col dito di togliersi le mani dal viso. Rosa obbedì, come avrebbe fatto senza vedere una donna sottomessa al magnetismo. — Per costui dunque veniste a dimandarmi a Leida la permuta di vostro padre? Rosa abbassò il capo e mormorò disperata: — Sì, mio Signore. — Continuate, disse il principe a Boxtel. — Non ho altro a dire, seguitò costui, Vostra Altezza sa tutto. Ora ecco ciò che io non voleva dire per non fare arrossire questa fanciulla della sua ingratitudine. Sono andato a Loevestein, perchè i miei affari mi vi richiamavano; hovvi fatto conoscenza col vecchio Grifo, sonomi innamorato di sua figlia, l’ho chiesta in moglie e, come io non era ricco, le ho confidato la mia speranza di conseguire cento mila fiorini; e per giustificare questa mia speranza, le ho mostrato il tulipano nero. Allora, siccome il suo amante, a Dordrecht per dare la polvere negli occhi su i complotti che ei tramava, affettava coltivare tulipani, ambedue hanno macchinato la mia perdita. La vigilia della fioritura del fiore, il tulipano mi fu involato da questa ragazza, portato in camera sua, donde ho avuto la fortuna di riprenderlo al momento in cui ella aveva l’audacia di spacciare un espresso per annunziare ai signori Membri della società di orticoltura, che aveva trovato il gran tulipano nero; ma la non si è discreduta per questo. Senza dubbio, le poche ore che lo ha tenuto in camera sua, avrallo mostrato a qualcheduno che chiamerà in testimonio? Ma fortunatamente, mio Signore, eccovi prevenuto contro questa intrigante e contro i suoi testimoni. — Oh! mio Dio! mio Dio! Oh! profferì Rosa lacrimando e gettandosi ai piedi dello Statolder, che per quanto la stimasse colpevole, sentiva pietà della di lei terribile angoscia. — Voi avete male operato, o ragazza diss’egli, e il vostro amante sarà punito per avervi così consigliata; perchè siete così giovane e avete l’aria così buona, che mi giova credere che il male venga da lui e non da voi. — Mio Signore, mio Signore! esclamò Rosa, Cornelio non è colpevole. Guglielmo fece un movimento. — Non colpevole di avervi consigliata. Volete dir questo, non è vero? — Io voglio dire, mio Signore, che Cornelio non è colpevole tanto del primo che del secondo delitto, che gli si vuole imputare. — Del primo? E sapete voi qual sia il suo primo delitto? Sapete voi di che sia stato accusato e convinto? D’avere, come complice di Cornelio de Witt, conservata la corrispondenza del gran pensionario e del marchese di Louvois. — Ebbene, mio Signore, egli ignorava di essere detentore di tale corrispondenza; la ignorava completamente. Eh! mio Dio! me l’ha detto lui. Quel cuore per adamantino che fosse, qual segreto mai avrebbe avuto per me? No, no, mio Signore, lo ripeto, dovessi io incontrare anco la vostra collera, Cornelio non è colpevole tanto del primo che del secondo delitto. Oh! se voi, mio Signore, conosceste il mio Cornelio! — Un de Witt! esclamò Boxtel. Oh! mio Signore, lo conoscete pur troppo, dacchè gli faceste grazia della vita. — Silenzio, disse il principe. Tutte queste cose di Stato, l’ho già detto, non interessano punto la società orticola di Harlem. Poi aggrottando il sopracciglio: — Quanto al tulipano, siate tranquillo, signor Boxtel; sarà fatta giustizia. Boxtel col cuore pieno di gioia fece un inchino, e ricevette le congratulazioni del presidente. — Voi, ragazza, continuò Guglielmo d’Orange siete caduta in un grave delitto, di cui non già punirò voi; ma il vero colpevole la pagherà per tutti e due. Un nomo del suo calibro può cospirare, tradire ancora... ma non mai rubare. — Rubare! esclamò Rosa, rubare! lui, Cornelio! Oh! Signor mio, non lo dite; ei morrebbe, se ascoltasse le vostre parole! che le vostre parole ucciderebberlo più sicuramente che non fece la scure del boia sul Buitenhof. Se v’è furto, mio Signore, quest’uomo, ve lo giuro è il ladro. — Provatelo, disse freddamente Boxtel. — Ebbene, sì. Coll’aiuto di Dio lo proverò, disse la Frisona con molta energia. Poi voltatasi a Boxtel: — Il tulipano era vostro? — Sì. — Quanti talli aveva? Boxtel esitò un momento; ma comprese che la giovine non farebbe cotale dimanda, se soli esistessero i due talli conosciuti. — Tre, disse. — Di che ne sono stati? dimandò Rosa. — Di che ne sono stati?... Uno è abortito, l’altro ha dato il tulipano nero... — E il terzo? — Il terzo! — Il terzo dov’è? — Il terzo l’ho io, disse Boxtel tutto turbato. — L’avete voi? dove? A Loevestein o a Dordrecht? — A Dordrecht, rispose Boxtel. — Mentite, esclamò Rosa. Mio Signore, soggiunse volgendosi al principe, vi andrò a raccontare io la vera storia dei tre talli. Il primo è stato calpestato da mio padre nella stanza del prigioniero, e costui lo sa benone, perchè sperava d’impossessarsene; e quando vide svanita la sua speranza, si mise a maltrattare mio padre, perchè operando in quel modo aveagli tolto di effettuarla. Il secondo da me custodito ha dato il tulipano nero, e il terzo e ultimo (la giovane se lo cavò di seno) eccolo qui nello stesso foglio che involtava gli altri due, quando prima di montare il patibolo, Cornelio Van Baerle davameli tutti e tre. Prendete, mio Signore, prendete. E Rosa svolgendo il tallo dal foglio, lo porse al principe, che preselo in mano per esaminarlo. — Ma, mio Signore, questa ragazza non me lo potrebbe avere rubato come il tulipano? borbottò Boxtel spaventato dell’attenzione, con la quale il principe esaminava il tallo, e specialmente di quella che ponea Rosa a leggere alcune linee tracciate sul foglio rimasto in mano sua. Ad un tratto gli occhi della giovine s’infiammarono, rilesse ansante quel foglio misterioso, e cacciando un grido, lo porse al principe, dicendo: — Oh! leggetelo! mio Signore; a nome del cielo, leggetelo! Guglielmo passò il terzo tallo al presidente, prese il foglio e lesse. Appena vi ebbe gettato gli occhi, che tentennò; la sua mano tremante lasciò quasi cadere la carta; e i suoi occhi presero una espressione di dolore e di pietà. Il foglio datoli da Rosa, era la pagina della Bibbia che Cornelio de Witt aveva spedita a Dordrecht a mano di Craeke cameriere del suo fratello Giovanni, per pregare Van Baerle che bruciasse la corrispondenza del gran Pensionario con Louvois. Cotal preghiera, si ripete, era concepita in questi termini: «Caro figlioccio! «Brucia il deposito che ti ho confidato, brucialo senza guardarlo, senza aprirlo, affinchè ti sia sconosciuto. Son di tal genere i segreti, che ucciderebbero il depositario. Brucialo, e avrai salvato Giovanni e Cornelio. «Amami, addio. «20 Agosto 1672. «CORNELIO DE WITT.» Questo foglio era ad un tempo la prova della innocenza di Van Baerle e il suo titolo di proprietà sul tallo del tulipano. Rosa e lo Statolder cambiarono un solo sguardo. Quello di Rosa voleva dire: «Voi vedete bene!» Quello dello Statolder significava: «Silenzio e attendete». Il principe asciugossi una goccia di sudor freddo che gli era colata dalla fronte alla guancia. Piegò lentamente il foglio, lasciando sprofondare col pensiero i suoi sguardi nell’abisso senza fondo e senza risorsa che chiamasi pentimento e vergogna del passato. Ben presto rialzando il capo con isforzo, disse: — Andate, signor Boxtel, sarà fatta giustizia; ve l’ho promesso. Poi al presidente: — Voi, mio caro Van Herysen, custodite qui questa ragazza e il tulipano. Addio. Tutti s’inchinarono, e il principe escì ricolmo di numerose acclamazioni popolari. Boxtel se ne tornò al _Cigno Bianco_ molto inquieto. Quel foglio che Guglielmo avea ricevuto dalle mani di Rosa, che avea letto, piegato e messo in tasca con tanta cura, quel foglio inquietavalo. Rosa si accostò al tulipano, ne baciò religiosamente le foglie e confidossi del tutto in Dio, mormorando: — Dio mio! voi sapete il buon fine, per cui Cornelio insegnommi a leggere! Sì, e Dio lo sapeva, dacchè egli punisce e ricompensa gli uomini secondo i meriti loro. XII La canzone dei fiori. Intanto che compievansi gli avvenimenti da noi or ora raccontati, lo sfortunato Van Baerle, obliato nella stanza della fortezza di Loevestein, soffriva per parte di Grifo tutto ciò, che un prigioniero può soffrire, quando il suo carceriere si sia prefisso di trasformarsi in carnefice. Grifo non avendo nuova nessuna di Rosa, nuova nessuna di Giacobbe, si persuase che tutto ciò che eragli accaduto, fosse opera del demonio, e che il dottore Van Baerle fosse un di lui inviato sulla terra. Ne resultò che una bella mattina, — era il terzo giorno della sparizione di Rosa e di Giacobbe, — ne resultò che una bella mattina che salì nella stanza di Cornelio era anche più furioso del solito. Costui con i gomiti appoggiati alla finestra e la testa dentro alle mani, gli sguardi perduti nell’orizzonte nebbioso, che i molini di Dordrecht rompevano con le loro ali, spirava l’aria per respingere le sue lacrime e per impedire alla sua filosofia che si evaporasse. Eranvi sempre i piccioni ma non v’era più la speranza, ma l’avvenire mancava. Ahimè! Rosa sorvegliata non più sarebbe potuta venire; potrebbe scrivere forse? ma scrivendo potrebbe fargli pervenire le sue lettere? No! Aveva scorto la sera, e la sera innanzi troppo furore e malignità negli occhi del vecchio Grifo, perchè la di lui vigilanza si rallentasse un istante; e poi oltre la reclusione, oltre l’allontanamento, chi sa che non soffrisse tormenti ancora peggiori. Quel bestiale, quel sacripante, quell’ubriacone non vendicherebbesi alla maniera dei padri del teatro greco? Quando il ginepro montavagli al cervello non dava al suo braccio troppo bene rimesso da Cornelio, la vigoria di due braccia e di un bastone? L’idea che Rosa forse fosse maltrattata, esasperava Cornelio. Sentiva allora la sua inutilità, la sua impotenza, il suo niente. Dimandava a sè stesso se fosse giusto che due creature innocenti soffrissero tanto; e certamente in quel momento la sua fede vacillava. La disgrazia non rende credenti. Van Baerle aveva bene formato il progetto di scrivere a Rosa; ma Rosa dov’era? Aveva bene avuto l’idea di scrivere all’Aya per allontanare dalla sua testa il nuovo uragano, che Grifo senza dubbio stava suscitandogli contro per una denunzia. Ma con che scrivere? Grifo aveagli tolto apis e carta. D’altronde avesse avuto pure l’uno e l’altra, dicerto non sarebbe stato Grifo che sarebbesi incaricato della sua lettera. Allora Cornelio andava e riandava nella sua testa tutte quelle povere furberie solite impiegarsi dai prigionieri. Aveva ancora pensato a una evasione, cosa a cui non aveva pensato, quando vedeva Rosa tutti i giorni. Ma più vi pensava, più una evasione parevagli impossibile. Egli era di quelle nature perfette, che hanno orrore anco dell’apparenza del disonesto; e perciò ogni buona occasione della vita loro manca, sbaglio imperdonabile di non aver preso la via dei volgari, battuta dalla gente di mezza tacca, la quale menali a tutto. — Come sarebbe possibile, dicevasi Cornelio, che io me ne possa fuggire di Loevestein, donde già se ne fuggì Grozio? dopo questa evasione, non è stato a tutto previsto? Le finestre non sono assicurate? le porte non sono doppie e anco triplicate? I guardioli non sono dieci volte più vigilanti? «E poi oltre le finestre assicurate, le porte doppie, i guardioli più vigilanti di prima, non ho io un Argo infallibile, un Argo tanto più maligno, che ha gli occhi dell’ira, non ho io Grifo? «Infine non evvi una circostanza che mi paralizza? L’assenza di Rosa. Quand’anco impiegassi dieci anni della mia vita a fabbricarmi una lima per segare le mie sbarre, a intrecciare le mie corde per discendere dalla finestra, o ad attaccarmi delle ali alle spalle per involarmi come Dedalo... Ma sono in un pessimo bivio! La lima potrebbesi consumare, le corde rompere, le mie ali struggersi al sole: mi ammazzerei malamente. E al più mi rialzerei zoppo, monco, sfilato; e sarei classato nel museo dell’Aya tra la porpora tinta di sangue di Guglielmo il Taciturno e la femmina marina raccolta a Stavoren, non avendo la mia intrapresa avuto per resultato che di procurarmi l’onore di far parte delle curiosità dell’Olanda. «Ma no; un bel giorno, ed è assai meglio, Grifo farammi qualche angheria. Perdo la pazienza dopo aver perduto la gioia e la società di Rosa, e soprattutto dopo aver perduto il mio tulipano. Non cade dubbio che un giorno o l’altro Grifo non mi attacchi d’una maniera sensibile al mio amor proprio, al mio amore o alla mia sicurezza personale. Dalla mia reclusione in poi mi sento una forza strana, stizzosa, insopportabile; ho un pizzicore d’accapigliarmi, un appetito di adoprare le mani, una sete di pugni; salterei insomma con tutta la buona volontà del mondo alla gola del mio vecchio aguzzino, e lo strangolerei!» Cornelio a quest’ultimo proponimento arrestossi un istante con la bocca contratta e l’occhio fisso. Un’idea, che sorridevagli, affacciavasi alla sua mente. — E già! continuò Cornelio, una volta Grifo strangolato, perchè non prendergli le chiavi? Perchè non prendere la scala, come se io avessi commesso l’azione la più virtuosa? Perchè non andare a trovar Rosa nella sua camera? Perchè non ispiegarle il fatto e saltar seco lei dalla finestra nel Wahal? Io so certo nuotare per due. Con Rosa? ma Grifo, mio Dio, è suo padre; ella per quanto mi ami, non potrebbe perdonarmi giammai d’averle strangolato il padre benchè bestiale, benchè più che severo cattivo. Bisognerà allora entrare in discussione, in ragionamento, durante il quale sopraggiungerà qualche aiuto, qualche soprastante, che avendo trovato Grifo ancora scalciante o strozzato affatto, mi rimetterà le mani a dosso; e rivedrò allora il Buitenhof e il lampeggiare di quella maledetta spada, che questa volta non si arresterebbe a mezzo, e farebbe conoscenza con la mia nuca. Niente di tutto questo, Cornelio, amico mio, niente; gli è un cattivo mezzo! Ma allora cosa almanaccare? come ritrovar Rosa?» Tali erano le riflessioni di Cornelio, tre giorni dopo la scena funesta della separazione tra Rosa e suo padre giusto nel momento, in cui noi abbiamo mostrato Cornelio appoggiato sulla sua finestra. E in questo stesso momento entrò Grifo. Ei teneva in mano un enorme bastone; gli occhi suoi balenavano un pensiero sinistro; un sinistro sorriso increspava le sue labbra; un sinistro ondeggiamento agitava la sua persona, e il suo contegno silenzioso spirava disposizioni sinistre. Cornelio affranto, come lo abbiamo visto, dalla necessità, che il raziocinio avea condotto fino alla convinzione, Cornelio lo intese entrare, indovinò che fosse lui, ma non si volse nemmeno un tantino. Ei sapeva che questa volta Rosa non verrebbegli dietro. Non avvi cosa più spiacevole a chi sia in vena di stizza, della indifferenza di coloro, cui deve essa dirigersi. Fatta la spesa, si vuol godere. Uno che siasi montato la testa, uno che abbiasi messo il sangue a bollore, vuole almeno la soddisfazione di una piccola scarica. Ogni onesto briccone, che abbia aguzzato il suo cattivo genio, desidera di fare almeno una buona ferita a qualcuno. Così Grifo, vedendo che Cornelio non fiatava, si mise a interpellarlo con un vigoroso: — Ohè! ohè! Cornelio canticchiò tra’ denti la canzone dei fiori, triste ma graziosa canzone. Del fuoco segreto Del fuoco, che serra Per entro ogni vena Fecondo la terra; Dell’Alba dai crini Lucenti, vermigli, E della rugiada Noi tutti siam figli. Siam figli dell’aria, Siam figli del rio, Ma prima di tutto Siam figli di Dio. Questa canzone di un’aria calma e soave accresceva la placida melanconia, esasperava Grifo. Percosse l’impiantito col suo bastone, gridando: — Eh! signor cantante, non mi date retta? Cornelio si volse: — Buon giorno, disse. E riprese la sua canzone. Amando, ci uccide Ognuno; che solo Un fragile filo Ci tiene qui al suolo; Un fil, che la vita Qui solo ci allaccia. Ma in alto ben alto Sporgiamo le braccia; — Ah! stregone maledetto, tu mi prendi a gabbo! gridò Grifo. Cornelio continuò: Al ciel, nostra patria Verace, le alziamo, Al ciel, donde in terra Noi puri scendiamo; E dove il profumo, Nostr’anima vera, Soave risale Sull’ala leggiera. Grifo accostossi al prigioniero: — Tu non vedi dunque che ho preso la buona via per metterti giudizio, e per farti confessare le tue scelleratezze? — E io ci scommetto che siete impazzato, signor Grifo mio caro? disse Cornelio volgendosi a lui. E siccome, nel proferire tai detti, vide la faccia alterata, gli occhi scintillanti, la bocca schiumante del vecchio carceriere: — Diavolo! continuò, siam più che pazzi a quel che pare; siamo furiosi! Grifo fece il molinello col suo bastone; ma senza scrollarsi, seguitò Van Baerle incrociando le braccia. — Via messer Grifo, che vi salterebbe il ticchio di minacciarmi? — Oh! sì, ti minaccio! urlò il carceriere. — Con che? — Primieramente guarda cosa tengo in mano. — Un bastone, disse Cornelio con calma, e grosso bene; ma non posso supporre che mi vogliate minacciare con codesto. — Ah! non lo puoi supporre! E perchè? — Perchè ogni carceriere, che percuota un prigioniero, si espone a due punizioni; la prima art. 19 del regolamento di Loevestein: «Sarà espulso ogni carceriere, ispettore e soprastante che metta le mani addosso ad un prigioniero di Stato.» — La mano, disse Grifo fuor di sè per la collera, non il bastone. Il regolamento non parla punto di bastone. — La seconda, continuò Cornelio, la seconda, che non istà registrata nel regolamento, ma che si trova nel Vangelo, la seconda eccola: «Chi di coltello ammazza convien che muoia. «Chiunque percuota col bastone, sarà rosolato col bastone.» Grifo sempre più inasprito dal tuono calmo e sentenzioso di Cornelio, brandì il suo randello; ma al momento che alzavalo, Cornelio slanciossi su lui, e glielo strappò di mano, e se lo mise sotto al braccio! Grifo urlava di rabbia. — Via, via, buonuomo, disse Cornelio, non vi esponete a perdere l’impiego. — Ah! stregone maledetto! ti arriverò altrimenti, va là! mugghiò Grifo. — Alla buon’ora. — Tu vedi che la mia mano è vuota, eh? — Già, lo vedo e ne godo. — Tu sai che non l’è egualmente quando la mattina salgo la scala? — Ah! l’è vero; mi portate secondo il solito la più trista minestra del mondo, o la più misera pietanza che possa mai immaginarsi. Ma ciò non è mica per me una privazione; mangio pane, e il pane quanto più cattivo è pel tuo gusto, o Grifo, tanto è migliore pel mio. — È migliore pel tuo? — Sì. — La ragione? — È semplicissima. — Sentiamola dunque. — Volentieri; so che col darmi cattivo pane, tu credi farmi soffrire. — Il fatto però sta, che io non te lo do per farti piacere, o brigante. — Benissimo! Io che sono stregone, come sai, cangio il tuo pane cattivo in buono, che mi appetisce più dei biscottini; ed allora ho un doppio piacere, prima di tutto di mangiare secondo il mio gusto, e poi di farti orribilmente arrabbiare. Grifo urlò di collera, dicendo: — Ah? tu confessi dunque che sei stregone! — Perbacco! e di che tinta. Non lo dico davanti a persone, perchè ciò mi farebbe correre in mano del beccaio come Goffredo o Urbano Grandier, ma siccome siamo a quattr’occhi, io non ci vedo nessuno inconveniente. — Bene, benone, rispose Grifo, ma se lo stregone può fare il pane di nero, bianco; se egli non ne abbia neppure un pochino, può egli morire di fame? — Psih! fece Cornelio. — Dunque non ti porterò più punto pane, e allora ci rivedremo tra otto giorni. Cornelio impallidì. — E comincieremo da oggi, continuò Grifo. Giacchè tu sei così bravo stregone, vediamo un po’, se cangi in pane i mobili della stanza; che quanto a me guadagnerò ogni giorno i diciotto soldi, che mi si danno pel tuo mantenimento. — Sarebbe un assassinio! esclamò Cornelio, trasportato da un primo movimento di terrore ben concepibile, che venivagli ispirato da tal genere orribile di morte. — Bene, continuò Grifo rampognandolo, bene, dappoichè sei tu stregone, vivrai a tuo marcio dispetto. Cornelio riprese la sua aria disinvolta, e scuotendo la testa: — Non hai visto che ho fatto venire i piccioni di Dordrecht? — Ebbene?... disse Grifo. — Ebbene! i piccioni sono un buon’arrosto; e un uomo che mangi ogni giorno un piccione arrosto, non può, mi pare, morire di fame. — E il fuoco? disse Grifo. — Il fuoco! ma tu sai bene che ho fatto un patto col diavolo. E pensi tu, che il diavolo mi lasci mancare il fuoco, quando il fuoco è il suo elemento? — Un uomo per robusto che sia, non saprà mangiare un piccione tutti i giorni. Sonosi fatte per questo delle scommesse, e sonosi dati per vinti. — Benissimo! Quando sarò nauseato dei piccioni, farò montar quassù i pesci del Wahal e della Mosa. Grifo fece tanti d’occhi. — Amo molto i pesci, continuò Cornelio; tu non me ne porti mai. Ebbene! giacchè vorresti farmi morire di fame, m’imbandirò allora del pesce. Grifo fu lì lì per sfinire di collera e di spavento. Ma riavendosi: — Ebbene, disse mettendo la mano in tasca, giacchè mi vi forzi... E ne cavò un coltello aperto. — Ah! un coltello! esclamò mettendosi sulle difese col suo bastone. XIII Come Van Baerle, prima di lasciare Loevestein, metta in pari i suoi conti con Grifo. Ambedue soprastettero un istante. Grifo sulla offensiva, Van Baerle sulla difensiva. Poi, siccome la situazione poteva prolungarsi all’indefinito, Cornelio volendosi informare delle cause di questa recrudescenza di collera presso il suo antagonista, domandollo: — Ebbene! che cosa volete? — Che cosa io voglio, te lo vado a dire. Voglio che tu mi renda la mia figlia Rosa. — La vostra figlia! esclamò Cornelio. — Sì, Rosa! La mia Rosa che mi hai involata con la tua arte diabolica. Vediamo; vuoi tu dirmi ov’ella sia? — Rosa non è a Loevestein? esclamò Cornelio. — Fai il nesci. Me la vuoi tu rendere, ancora una volta? — Eh! disse Cornelio, l’è un’insidia che tu mi tendi. — Per l’ultima volta, mi vuoi tu dire ove trovasi mia figlia? — Oh! indovinalo, farabutto, se non lo sai. — O guarda, o guarda! pronunziò Grifo pallido e con le labbra tremanti per la furia, che salivagli al cervello. Ah! non mi vuoi tu dir niente; ebbene! t’aprirò io i denti. E fece un passo verso Cornelio, a cui mostrando l’arme che luccicavagli in mano: — Vedi, disse, questo coltello? ho ucciso con questo più di cinquanta galli neri. Ammazzerò pure come quelli il diavolo loro principale: aspetta, aspetta! — Dunque, furfante, mi vuoi tu ammazzare davvero? — Ti voglio spaccare il cuore, per vedervi il luogo dove tu nascondi mia figlia. E dicendo queste parole con lo smarrimento febrile, Grifo si precipitò su Cornelio, che ebbe appena tempo di ripararsi dietro la sua tavola per ischivare il primo colpo. Grifo brandiva il suo coltello proferendo orribili imprecazioni. Cornelio previde che, se egli era fuori di tiro del braccio, non l’era però fuori della portata dell’arme; perchè lanciata da lontano poteva traversare lo spazio e venire a conficcarsi nella sua pancia. Non perdè dunque tempo, e col bastone, che non aveva abbandonato, assestogli un colpo vigoroso sul pugno che teneva il coltello. Il coltello cadde a terra, e Cornelio vi pose sopra il piede. Poi, siccome Grifo pareva volesse attaccarsi a una lotta accanita, la quale il dolore del colpo di bastone e la vergogna di essere stato per la seconda volta disarmato avrebbe resa implacabile, Cornelio abbracciò un gran partito. Scaricò una tempesta di colpi sul carceriere col più eroico sangue freddo, azzeccandoli in modo che ogni bussa cadeva appieno. Grifo non tardò molto a chiedere misericordia; ma prima di chiederla aveva strillato e molto. Le sue grida erano state intese ed avevano messo in allarme tutti gl’impiegati della casa. Due soprastanti, un ispettore e tre o quattro secondini comparvero dunque ad un tratto, e sorpresero Cornelio in flagrante col bastone in mano e il coltello sotto il piede. Alla vista di tutti quei testimoni del misfatto or ora commesso, le circostanze attenuanti, come si dice oggigiorno, non erano conosciute, Cornelio sentissi senza scampo perduto. Difatti tutte le apparenze gli stavano contro. In un attimo Cornelio fu disarmato e Grifo circondato, rialzato, sostenuto potè contare le ammaccature, che gonfiavano le sue spalle e la sua schiena come altrettante giogaie addentellanti le creste di una montagna. Fu steso il processo verbale delle violenze esercitate dal prigioniero sopra il suo guardiano; e questo processo insufflato da Grifo non potevasi accusare di tiepidezza. Non trattavasi niente meno che di un tentativo di assassinio premeditato da lungo tempo e attentato sul carceriere; dunque premeditazione e ribellione aperta. Mentrechè istruivasi il processo contro Cornelio, i ragguagli dati da Grifo rendendo il suo confronto inutile, i due soprastanti l’avevano fatto scendere nel suo quartiere tutto maculato e gemebondo. Intanto le guardie, che eransi impadronite di Cornelio, occupavansi cristianamente ad istruirlo degli usi e costumi di Loevestein, che del resto egli conosceva bene quanto loro, essendogli stata fatta lettura del regolamento quando entrò in quella prigione, e certi articoli specialmente essendogli rimasti perfettamente a memoria. Gli raccontarono inoltre, come l’applicazione di quel regolamento fosse stata fatta sul conto di un prigioniero nominato Mattias, che nel 1668, cioè cinque anni prima aveva commesso un atto di ribellione ben altrimenti più lieve di quello che erasi permesso Cornelio. Egli aveva trovato la sua minestra bollente e aveala schiaffata sul muso del capoguardia, che al seguito di questa ablazione aveva avuto il disappunto asciugandosi il viso di venirgli dietro una buona parte di pelle. Mattias dentro le dodici ore era stato estratto dalla sua stanza, poi condotto al guardiolo, dove era stato iscritto come assente di Loevestein; poi menato alla spianata, la cui visuale è bellissima, estendendosi a dodici leghe di distanza; poi quivi avendogli legate le mani e bendati gli occhi, si recitarono tre preghiere; e poi fu invitato a inginocchiarsi, e le guardie di Loevestein in numero di dodici a un segnale fatto da un sergente gli applicarono ognuno abilissimamente una palla nello stomaco. Per quelle pillole Mattias essere morto nell’atto. Cornelio ascoltò con la più grande attenzione questo racconto non molto piacevole; e dopo averlo ascoltato, disse: — Ah! ah! dentro le dodici ore, dite voi? — Già, la dodicesima ora, a quel che credo, non era finita di suonare, disse il narratore. — Grazie, disse Cornelio. La guardia non aveva finito la graziosa sua risata, che serviva di puntuazione al suo racconto, che un passo sonoro risuonò per la scala: un tintinnio di sproni come di marcia militare. Le guardie scansaronsi per lasciar passare un officiale, che entrò nella stanza di Cornelio al momento in cui il cancelliere di Loevestein stendeva il verbale. — È questo il N.º 11? domandò. — Sì, capitano, rispose il sottofficiale. — Allora è questa la camera di Cornelio Van Baerle? Egli domandò dirigendosi questa volta allo stesso prigioniero. — Sì, signore. — Seguitemi. — Oh! oh! disse Cornelio il di cui cuore si risollevava, oppresso dalle prime angoscie della morte, come ci si spiccia alla fortezza di Loevestein! E il mariolo che mi aveva parlato di dodici ore! — Ohè! la va come ve l’ho contata? fece il novelliere all’orecchio del paziente. — Una bugia. — Come? — Mi avete promesso dodici ore. — Ah! sì. Ma vi si manda un aiutante di campo di Sua Altezza, e anche uno de’ suoi più intimi, il signor Van Deken. Canchero! Non si fece un simile onore al povero Mattias. — Andiamo, andiamo, disse Cornelio gonfiando i suoi polmoni con la più gran quantità d’aria possibile; andiamo e mostriamo loro che un popolano, battezzato di Cornelio de Witt, può, senza fare smorfie, contenere altrettante palle di moschetto, quante quel Mattias di buona memoria. E passò fieramente dinanzi all’attuario, che interrotto nelle sue funzioni si azzardò di dire all’officiale. — Ma, capitano Van Deken, il processo verbale non è ancora terminato. — Non vale neppure la pena di finirlo, rispose l’officiale. — Buono, replicò il processante chiudendo filosoficamente le sue carte e la sua penna in un portafoglio usato e tutt’unto. — È stato scritto, pensò il povero Cornelio, che io in questo mondo non abbia da dare il mio nome nè a un bambino, nè a un fiore, nè a un libro, tre necessità, di cui Iddio una almeno, come ci si assicura, impone a ciascun’uomo per organizzato alla meglio che e’ sia, e che egli si degna che gioisca sulla terra della proprietà di un’anima e dell’usufrutto di un corpo. E seguì l’officiale col cuore risoluto e con la testa alta. Cornelio contava i gradini che conducevano alla spianata, rimproverandosi di non aver dimandato alla guardia quanti ve ne fossero; che colui nella sua officiosa compiacenza non avrebbe certo mancato di dirglielo. Ciò che oltremodo spiaceva al paziente in questo tragitto da lui riguardato come l’ultimo suo viaggetto, si era di veder Grifo e non Rosa. Infatti qual soddisfazione doveva brillare sul viso del padre, e qual dolore sul viso della figlia. Grifo come avrebbe applaudito a quel supplizio, vendetta feroce di un atto eminentemente giusto cui Cornelio aveva la coscienza d’aver compìto come un dovere! Ma, Rosa, la povera ragazza, s’ei non vedevala, se andava a morire senza darle l’ultimo bacio o almeno l’ultimo addio; s’egli andava a morire in fine senza avere alcuna nuova del gran tulipano nero, e risvegliarsi lassuso senza sapere da qual parte bisognasse volgere gli occhi per ritrovarla! In verità per non disfarsi in lacrime in simile momento il povero tulipaniere, aveva intorno al cuore più l’_aes triplex_ (triplice bronzo) di Orazio, da lui attribuiti al navigatore che il primo visitò l’infami sugli acrocerauni. Ebbe un bel riguardare a dritta, ebbe un bel riguardare a sinistra; arrivò sulla spianata senza avere scorto Rosa, e senza avere scorto Grifo. Eravi quasi una compensazione. Cornelio giunto sulla spianata cercò col guardo i suoi esecutori, e vide di fatti una dozzina di soldati assembrati a chiacchera; ma senza moschetto, senza essere a rango; condotta che parve a Cornelio indegna della gravità che presiede d’ordinario a consimili avvenimenti. Ad un tratto Grifo zoppicante, barcollante, appoggiato ad una gruccia, apparve fuori del suo guardiolo. Egli aveva acceso per lanciare un ultimo sguardo d’ira tutto il fuoco de’ suoi occhi grigi di gatto; e nel tempo stesso si mise a vomitare contro Cornelio una tale tempesta di abominande imprecazioni, che Cornelio dirigendosi all’officiale: — Signore, disse, non credo sia ben fatto lasciarmi così insultare da cotest’uomo, e soprattutto in un momento simile. — Datemi retta, rispose l’officiale ridendo, è ben naturale che questo bravuomo vi rampogni: pare che non lo abbiate conciato molto bene. — Ma, signore, fu per sola difesa. — Ohè! disse l’officiale dando alle sue spalle un movimento superlativamente filosofico; ohè! lasciategli almeno il fiotto libero: non ve ne vien nulla. Un sudor freddo venne sulla fronte di Cornelio a questa risposta, che riguardava come una ironia che puzzasse di bestiale, per parte specialmente di un officiale che gli si diceva stare al fianco della persona del principe. Il disgraziato comprese che non aveva più risorsa nessuna, non più amici, e rassegnossi. — E sia, mormorò abbassando la testa; se ne fecero delle più acerbe a Cristo; e la mia innocenza non è alle mille miglia paragonabile alla sua. Cristo sarebbesi fatto battere dal suo carceriere, e non l’avrebbe battuto. Poi rivolgendosi all’officiale, che pareva attendesse gentilmente, che egli avesse finito le sue riflessioni: — Via, signore, domandò, dove debbo andare? L’officiale accennogli una carrozza tirata da quattro cavalli, che ricordavagli molto la carrozza che in una simile circostanza aveva già colpito i suoi occhi al Buitenhof. — Montate là dentro, gli disse. — Ah! mormorò Cornelio, parrebbe che non mi fosse riserbato l’onore della spianata! Pronunziò queste parole abbastanza forte da essere comprese dallo storico che non avealo lasciato. Senza dubbio ei credette che fosse suo dovere di dare nuovi schiarimenti a Cornelio, perchè accostossi alla portiera e intanto che l’officiale col piede sul montatoio dava alcuni ordini, ei diceva sommessamente: — Si è dato che qualche condannato sia stato tradotto nella propria città e, perchè fosse l’esempio più strepitoso, vi abbia subito il suo supplizio davanti la porta della propria casa. È forse questo. Cornelio fece un segno di ringraziamento; e poi a quello di rincontro: — Ebbene, disse, alla buon’ora! ecco qui un giovanotto che non manca mai di interporre una consolazione, quando gli si presenti il destro. Amico mio, ve ne sono davvero obbligato. Addio. La vettura si mosse. — Ah! scellerato! ab! brigante! urlò Grifo mostrando le pugna alla sua vittima che scappavagli di mano. E dire che se ne va senza rendermi mia figlia! — Se mi si conduce a Dordrecht, disse Cornelio, vedrò passando da casa mia almeno le mie casellette se siano ben tenute. XIV Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual supplizio sia riserbato. La vettura trottò per tutta la giornata; si lasciò Dordrecht a sinistra, traversò Rotterdam, toccò Delft: alle cinque di sera erano state percorse almeno venti leghe. Cornelio diresse qualche interrogazione all’officiale che servivagli a un tempo di guardia e di compagno; ma per circospette che fossero le sue dimande, egli ebbe il cordoglio di vederle restare senza risposta. Cornelio rimpianse di non aver più a fianco suo quella guardia così compiacente, che parlava almeno senza farsi pregare. Colui senz’altro avrebbegli prodigato intorno a questa singolarità, che sorvenivagli nella sua terza avventura, dettagli così graziosi e spiegazioni così precise come intorno alle due prime. Si passò la notte in vettura; l’indomani alla punta del giorno, Cornelio si trovò al di là di Leida, avendo a sinistra il mar del Nord e a diritta il mare di Harlem. Tre ore dopo entrava in Harlem. Cornelio ignorava affatto l’accaduto in quella città, e noi lo lasceremo in questa ignoranza, finchè non ne sia tratto dagli avvenimenti. Ma non può essere così del lettore, che ha il diritto di essere messo in corrente delle cose prima del nostro eroe. Abbiamo visto che Rosa e il Tulipano come due fratelli e due orfani erano stati lasciati dal principe Guglielmo d’Orange presso il presidente Van Herysen. Rosa non ricevette nuova alcuna dello Statolder dalla sera del giorno che avealo visto di persona. Verso la sera un officiale venne da parte di Sua Altezza in casa di Van Herysen, per invitare Rosa a portarsi al palazzo comunale, dove, in una gran sala di consiglio introdotta, trovò il principe che scriveva. Egli era solo e aveva a’ piedi un gran levriero di Frisia, che guardavalo fisso, come se il fido animale si volesse ingegnare di fare quello che non era dato neppure all’uomo: leggere nel cuore del suo padrone. Guglielmo continuò a scrivere per un altro momento; poi alzando gli occhi e vedendo Rosa ritta presso la porta: — Accostatevi, ragazzina, disse senza lasciare di scrivere. Rosa fece qualche passo verso la tavola. — Mio Signore, diss’ella arrestandosi. — Va bene, profferì il principe. Accomodatevi. Rosa obbedì perchè il principe la guardava. Ma appena egli ebbe rimessi gli occhi sulla carta che si ritrasse tutta vergognosa. Il principe finiva la sua lettera; e intanto il can levriero era andato di faccia a Rosa, e l’aveva fiutata e accarezzata. — Ah! ah! fece Guglielmo al suo cane, si vede bene ch’ell’è una tua compatriotta; tu la riconosci. Poi rivoltosi verso Rosa, e fissando su lei i suoi sguardi scrutatori e velati ad un tempo. — Vediamo, figlia mia, cominciò egli. Il principe aveva appena vent’otto anni. Rosa diciotto o venti al più; avrebbe detto meglio: sorella mia. — Figlia mia, disse con un accento stranamente imponente, che gelava tutti quelli che lo avvicinavano, non siamo che tra noi due, discorriamo un poco. Rosa cominciò a tremare da capo a piedi; contuttochè fosse dipinta sul viso del principe una tal quale benevolenza. — Mio Signore, ella malamente espresse. — Avete un padre a Loevestein? — Sì, mio Signore. — Che l’amate? — Non l’amo tanto, quanto una figlia dovrebbe amare suo padre. — È male di non amare suo padre, mia ragazza, ma è bene di non mentire al suo principe. Rosa abbassò gli occhi. — E per qual ragione non amate tanto vostro padre? — È cattivo. — In qual maniera si mostra la sua cattiveria? — Maltratta tutti i prigionieri. — Tutti? — Tutti. — Ma non maltratta particolarmente più qualcuno che gli altri? — Mio padre maltratta particolarmente più Van Baerle, che... — Che è vostro amante. Rosa fece un passo indietro. — Che io stimo, mio Signore, rispose con alterezza. — Da molto tempo? dimandò il principe. — Dal giorno che l’ho veduto. — E l’avete veduto?... — Il domani del giorno, in cui furono così terribilmente messi a morte il gran pensionario Giovanni e Cornelio suo fratello. Le labbra del principe si chiusero, la sua fronte impallidì, e le sue palpebre abbassaronsi in modo da nascondere per un istante i suoi occhi. Dopo un momentaneo silenzio, ei riprese: — Ma che vi giova amare un uomo destinato a vivere e morire in prigione? — Se non ad altro gioverammi ad aiutarlo a vivere e morire. — E voi accettereste la condizione d’essere la moglie di un prigioniero? — Io sarei la più fiera e la più felice delle creature umane essendo la moglie di Van Baerle; ma... — Ma che? — Non l’oso dire, mio Signore. — Avvi un sentimento di speranza nel vostro accento, che sperate voi? Alzò i suoi begli occhi sopra Guglielmo, occhi così puri e di una intelligenza così penetrante, che andarono a ricercare nel fondo di quel cuore cupo la clemenza addormentatavi di un sonno simile alla morte. — Ah! capisco! Rosa sorrise giungendo le mani. — Voi sperate in me, disse il principe. — Sì, mio Signore. — Ehi! Il principe piegò la lettera che aveva scritta, e chiamò un suo officiale. — Van Deken, disse portate a Loevestein quest’ordine, di cui prenderete lettura, e eseguirete ciò che vi riguarda. L’officiale salutò, e s’intese rimbombare sotto le volte sonore della casa il galoppo di un cavallo. — Mia figlia, seguitò il prìncipe, domenica è la festa del tulipano, e domenica è posdimani. Fatevi bella con questi cinquecento fiorini; perchè voglio che quel giorno sia per voi un gran giorno di festa. — Come vuole l’Altezza Vostra che io sia vestita? mormorò Rosa. — Prendete il costume delle spose frisone, disse Guglielmo, che vi starà molto bene. XV Harlem. Harlem, dove noi fin da tre giorni fa siamo entrati con Rosa, e dove noi rientriamo seguendo il prigioniero, è una graziosa città, che a buon dritto è superba di essere una delle città più ombreggiate dell’Olanda. Mentrechè altre mettevano il loro amor proprio a brillare per gli arsenali e per i cantieri, per i magazzini e per i bazar, Harlem metteva tutta la sua gloria a primeggiare su tutte le altre città degli Stati con i suoi olmi fronzuti, co’ suoi pioppi slanciati, e soprattutto con i suoi passeggi ombreggiati a cui facevano volta la quercia, il tiglio e il castagno. Harlem, vedendo che Leida sua vicina, e Amsterdam sua regina prendevano l’una il cammino per diventare una città di scienze, e l’altra quello di diventare una città di commercio, Harlem aveva voluto essere una città agricola, o piuttosto orticola. In effetto ben riparata, ben riscaldata dal sole, ella dava ai giardinieri tal garanzia, che ogni altra città co’ suoi venti marini, o col suo suolo di piano non avrebbe a loro potuto offrire. Così vedevansi stabilire ad Harlem tutti li spiriti tranquilli, che amano la terra e i suoi beni, come vedevansi a Rotterdam e ad Amsterdam tutti gli spiriti inquieti e girovaghi che amano i viaggi e il commercio, come vedevansi stabilire all’Aya tutti i politici e i galanti. Abbiam detto che Leida era stata la conquista dei sapienti; Harlem dunque prese il gusto delle cose dolci, della musica, della pittura, dei verzieri, dei passeggi, dei boschetti e dei viali. Harlem divenne pazza pei fiori e tra gli altri dei tulipani. Propose premii a onore dei tulipani, e giungiamo così naturalissimamente, come si vede, a parlare di quello che la città propose il 15 maggio 1673 in onore del gran tulipano nero, senza macchia e senza difetto, che doveva portare cento mila fiorini al suo inventore. Harlem avendo messo in luce la sua specialità, avendo fissato il suo gusto pe’ fiori in particolare in tempi, in cui tutto era volto alla guerra o alle sedizioni; Harlem avendo avute l’insigne gioia di veder fiorire l’ideale delle sue pretensioni e l’insigne onore di veder fiorire l’ideale dei tulipani: Harlem graziosa città piena di boschetti e di sole, d’ombra e di luce, aveva voluto fare della cerimonia dell’inaugurazione del premio una festa, che durasse eternamente nella memoria degli uomini. Ed ella aveane tanto più il diritto, essendo l’Olanda il paese delle feste; giammai natura più flemmatica spiegò ardore più brillante, cantante e danzante di quei dei buoni repubblicani delle Sette Provincie all’occasione dei divertimenti. È meglio vediate i quadri dei due Tenier. Egli è certo che i flemmatici sono di tutti gli uomini i più ardenti a spossarsi, non già quando mettonsi al lavoro, ma quando mettonsi al piacere. Harlem erasi dunque messa in triplice gioia, perchè aveva da festeggiare una triplice solennità: era stato scoperto il tulipano nero, poi il principe Guglielmo d’Orange assisteva alla ceremonia da vero Olandese come egli era, finalmente era onore degli Stati di mostrare ai Francesi in seguito di una guerra così disastrosa, com’era stata quella del 1672, che le dighe della repubblica batava erano solide a segno da potervi ballare sopra con l’accompagnamento dei cannoni dei vascelli. La società orticola di Harlem erasi mostrata degna di sè, dando centomila fiorini per una cipolletta di tulipano. La città non aveva voluto rimanere indietro, e aveva votata una somma eguale, che era stata rimessa in mano de’ suoi notabili per festeggiare quel premio nazionale. Però alla domenica fissata per questa ceremonia eravi un tale accalcarsi di gente, un tale entusiasmo dei cittadini, che era gioco forza, anco col sorriso narcotico dei Francesi che di tutto ridono, ammirare il carattere di que’ buoni Olandesi; pronti a spendere il loro denaro tanto per costruire un vascello destinato a combattere il nemico, cioè a sostenere l’onore della nazione, quanto per ricompensare l’invenzione di un fiore nuovo destinato a brillare un giorno, e destinato a distrarre per quel giorno le donne, i sapienti e i curiosi. A capo dei notabili e del comitato orticolo brillava il signore Van Herysen, addobbato dei suoi più ricchi abiti. Il degno uomo aveva fatto tutti i suoi sforzi per rassomigliare al suo fiore favorito con la eleganza dimessa e severa degli abiti suoi, e ci affrettiamo a dire per gloria sua che eravi riuscito a meraviglia. Nero di spolverino, velluto a squamme, seta violetta, tale era con biancheria nettissima il vestiario di ceremonia del presidente, che procedeva alla testa del suo comitato con un mazzo mostro eguale a quello che portava dugento ventuno anni dopo Robespierre alla festa dell’Ente Supremo. Solo il bravo presidente in luogo del cuore tumido d’ira e di risentimenti ambiziosi del tribuno francese, aveva in petto un fiore più innocente del più innocente che egli tenesse in mano. Vedevansi dietro al comitato, stretto come piota erbosa, profumato come una primavera, le corporazioni sapienti della città, le magistrature, le milizie, i nobili e i contadini. Il popolo anco presso i signori repubblicani delle Sette Province non aveva luogo in questa marcia ordinata; facevale ala. Era del resto il miglior posto di tutti per vedere... e per avere. Gli è il posto delle moltitudini, che aspettano, filosofia degli Stati, che i trionfi abbiano sfilato, per poi sapere ciò che dirne, e qualche volta ciò che farne. Ma questa volta non trattavasi nè del trionfo di Pompeo nè di quello di Cesare; questa volta non celebravasi nè la sconfitta di Mitridate, nè la conquista delle Gallie. La processione era placida come il passaggio di un branco di pecore, e inoffensiva come il volo di una schiera di uccelli. Harlem non aveva altri trionfatori che i suoi giardinieri; adoratrice dei fiori, Harlem divinizzava i coltivatori dei fiori. Vedevasi nel centro del corteggio pacifico e profumato il Tulipano Nero, portato sopra una barella addobbata di velluto bianco a frange d’oro. Quattro uomini portavano le stanghe, e vedevansi rimpiazzati da altri, come erano egualmente a Roma rimpiazzati coloro, che portavano la madre Cibele, quand’ella entrò nella città eterna portatavi dall’Etruria al suono delle fanfare e all’adorazione di tutto il popolo. Cotale esibizione del tulipano era un omaggio reso da tutto un popolo senza coltura e senza gusto al gusto e alla coltura dei capi celebri e pietosi, il cui sangue sapevano spargere sulla fangosa piazza del Buitenhof, o più tardi a iscrivere i nomi delle sue vittime sulla pietra più bella del Panteon Olandese. Era convenuto che il principe Statolder conferirebbe certamente in persona il premio dei cento mila fiorini, il che interessava tutti in generale, e che forse pronunzierebbe un discorso, il che interessava i suoi amici e nemici in particolare. Difatti nei discorsi i più indifferenti degli uomini politici gli amici o nemici di costoro vogliono sempre travedervi, e credono sempre potervi interpretare per conseguenza un raggio del loro pensiero. Come se il cappello dell’uomo politico non fosse un coperchio destinato a intercettare ogni luce. Finalmente quel gran giorno tanto aspettato del 15 maggio 1673 era dunque arrivato, e Harlem tutta intera rinforzata dai suoi dintorni erasi sfilata lungo i magnifici alberi del bosco con la risoluzione col proposito fermo di non applaudire questa volta nè i conquistatori guerrieri, nè scienziati, ma prettamente i conquistatori della natura, i quali obbligavano questa inesauribile madre al parto finallora creduto impossibile, del tulipano nero. Ma niente tien meno presso il popolo che la risoluzione presa di non applaudire che a tale o a tal’altra cosa. Quando una città è in treno d’applaudire, è come quando l’è in treno di fischiare; non sa mai finirla. Ella dapprima applaudì dunque a Van Herysen e al suo mazzo, applaudì le sue corporazioni, applaudì sè stessa; difatti giustamente questa volta, confessiamolo, ella applaudì all’eccellente musica che i signori della città prodigavano generosamente ad ogni fermata. Tutti gli occhi cercavano presso il semidio della festa, che era il tulipano nero, l’eroe della festa che era naturalmente l’autore del tulipano. Quest’eroe conoscendosi dal discorso, che abbiamo visto con tanta coscienza elaborare da Van Herysen, avrebbe prodotto dicerto più effetto dello stesso Statolder. Ma per noi l’interesse della giornata non è nè nel venerabile discorso del nostro amico Van Herysen, per eloquente che fosse, neppure nella gioventù aristocratica masticante i suoi gravi pasticci, e nemmeno alla povera meschina plebaglia mezza nuda trangugiante anguille affumicate simili a bastoni di vainiglia. Non è l’istesso interesse per le belle olandesi dalle trecce rosse e dal candido seno, nè per i loro ortolani grassi pinzati che non erano mai usciti quattro braccia fuori della porta di casa, neppure per gli smilzi e gialli viaggiatori giunti da Ceylan e da Giava, e nemmeno pel popolaccio alterato che ingozza come un rinfresco il cetriolo acconciato nella salamoia. Per noi non istà qui l’interesse della situazione scenico-drammatica. L’interesse è nella figura raggiante e animata che cammina in mezzo ai membri del comitato di orticoltura, l’interesse è nel personaggio fiorito a cintola, leccato, lisciato, vestito tutto di scarlatto, colore che fa risaltare il suo nero pelame e la sua tinta giallastra. Questo trionfatore raggiante, inebriato, questo eroe destinato all’insigne onore di far dimenticare il discorso di Van Herysen e la presenza dello Statolder, gli era Isacco Boxtel, che vedeva alla sua diritta andarsi innanzi sopra un drappo di velluto il Tulipano nero, suo prezioso figlio; a sinistra in una vasta borsa i cento mila fiorini in belle monete d’oro luccicanti, abbaglianti, che egli avea preso il partito di sbirciarli di fuori per non perderli un istante di vista. Di tempo in tempo Boxtel affretta il passo per strisciare il suo gomito al gomito di Van Herysen. Boxtel da ciascuno prende un po’ del suo valsente per formarne un valsente proprio, tale quale ha fatto rubando a Rosa il suo tulipano per farsene sua gloria e sua fortuna. Anche un quarto d’ora e il principe arriverà e il corteggio farà alto all’ultima posata; il tulipano essendo posto sopra il suo trono, il principe cedendo il primo posto al suo rivale nell’adozione pubblica, prenderà una pergamena squisitamente miniata, sulla quale è scritto il nome dell’autore, e proclamerà a voce alta e intelligibile, che è stata scoperta una meraviglia; che l’Olanda per l’intermediario di quel Boxtel ha forzato la natura a produrre un fiore nero e che questo fiore chiamerassi per l’avvenire _Tulipa nigra Boxtellea_. Di tratto in tratto perciò Boxtel leva gli occhi per un momento dal tulipano e dalla borsa, e guarda timidamente nella folla, perchè in questa paventa soprattutto di scorgere la pallida faccia della bella Frisona. La gli sarebbe uno spettro, si capisce, il quale turberebbe la festa, presso a poco come lo spettro di Banco turbò il convito di Macbetto. E lo ripetiamo, questo miserabile, che scavalcò un muro che non era suo, che scalò una finestra per entrare nella casa del suo vicino, che con una contracchiave riaprì la camera di Rosa, costui finalmente che ha rubato la gloria di un uomo e la dote di una ragazza, costui non si crede mica un ladro. Egli ha talmente vegliato sul tulipano, lo ha seguito così ardentemente dall’armadio del prosciugatoio di Cornelio fino al palco del Buitenhof, da questo alla prigione della fortezza di Loevestein; hallo visto nascere così bene e crescere sulla finestra di Rosa, ha tante volte intorno a lui intiepidita l’aria col suo alito, che niuno più di lui può vantarsene autore; cosicchè chi adesso a lui prendesse il tulipano nero, parrebbegli che gliel derubasse. Ma non scorse punto nè poco Rosa. Ne resultò che la gioia di Boxtel non fosse minimamente turbata. Il corteggio arrestossi nel centro di una rotonda ricinta di alberi magnificamente decorati di ghirlande e di iscrizioni; e arrestossi al suono di una musica fragorosa, e allora le giovinette Olandesi fecersi innanzi per scortare il tulipano all’alto seggio, ch’ei doveva occupare sulla gradinata accanto alla poltrona d’oro di Sua Altezza lo Statolder. E l’orgoglioso Tulipano, collocato sul suo piedistallo dominò ben presto l’assemblea, che battè le mani, e fece risuonare gli echi di Harlem di un applauso prolungato. XVI Un’ultima preghiera. In quel solenne momento allo scoppio dei ripetuti applausi, una carrozza passava per la strada fiancheggiata dal bosco, seguiva lentamente il suo cammino a cagione dei bambini spinti fuori della linea degli alberi per l’accalcamento degli uomini e delle donne. Polverosa, stanca, cigolante sopra i suoi fuselli quella carrozza chiudeva l’infelice Van Baerle, cui dall’aperta portiera cominciavasi ad offrire lo spettacolo che noi abbiamo impreso, molto imperfettamente senza dubbio, a mettere sotto gli occhi dei nostri leggitori. La folla, il frastuono, la pompa di tutti gli umani e naturali splendori sbalordirono il prigioniero come se un baleno fosse entrato nel suo ergastolo. Malgrado la poca prontezza che aveva usata il suo compagno a rispondergli allorquando avealo interrogato sulla propria sua sorte, egli si azzardò d’interrogarlo un’ultima volta intorno a tutto quel tramestio, che sulle prime poteva e doveva credere ch’ei ne fosse affatto estraneo. — Che cosa è questa, vi prego, signor luogotenente? domandò all’officiale incaricato di scortarlo. — Come potete vedere, o signore, replicò costui, è una festa. — Ah! una festa! disse Cornelio con quel tuono tristamente indifferente di un uomo, a cui nessuna gioia di questo mondo non più appartenga da molto tempo. Poi dopo un po’ di silenzio e qualche passo della vettura, domandò: — La festa patronale di Harlem? perchè vedo gran fiori. — Infatti l’è una festa in cui i fiori sono, o signore, i protagonisti. — Oh! il dolce profumo! oh! che bei colori! esclamò Cornelio. — Fermate, disse l’officiale al soldato che faceva da postiglione con uno di quei dolci movimenti di pietà che non trovansi che nei militari, fermate perchè il signore possa vedere. — Oh! grazie, signore, della vostra gentilezza, soggiunse malinconicamente Van Baerle; ma emmi ben dolorosa la gioia altrui, vi prego dunque, risparmiatemela. — Come vi aggrada; andiamo, via. Avevo comandato che si fermasse, perchè me lo avevate richiesto, e di più perchè passate per amatore dei fiori, e di quelli specialmente, di cui oggi si celebra la festa. — E quali fiori si festeggiano oggi, signore? — I tulipani. — I tulipani! esclamò Van Baerle; oggi è la festa dei tulipani? — Sì, signore; ma giacchè questo spettacolo vi affligge, andiamo. E l’officiale si apprestava a dare l’ordine di continuare il cammino. Ma Cornelio l’arrestò; un dubbio doloroso attraversogli la mente. — Signore, domandò di una voce tremante, non sarebbe oggi che si conferisce il premio? — Il premio del tulipano nero, già. La faccia di Cornelio imporporossi; il brivido gli corse per tutto il corpo; e il sudore gocciavagli dalla fronte. Poi riflettendo che lui e il suo tulipano assenti, la festa abortirebbe senza dubbio per mancanza di un uomo e di un fiore per coronarla: — Ahimè! egli disse, tutte queste brave persone saranno come me infelici, perchè non vedranno questa gran solennità, alla quale sono invitate, o per lo meno la vedranno incompleta. — Che volete voi dire? — Voglio dire, disse Cornelio, accovacciandosi in fondo della vettura, che eccetto qualcuno che io conosco, il tulipano nero non sarà mai trovato. — Allora, signore, disse l’officiale, cotesto qualcuno che voi conoscete, lo ha trovato; perchè quello che in questo momento tutta Harlem contempla, è il fiore che voi riguardate come introvabile. — Il tulipano nero! esclamò Van Baerle, gettandosi più che a metà fuori della portiera. Dov’è? dov’è? — Laggiù sul trono, lo vedete? — Lo vedo! — Andiamo, signore, disse l’officiale, ora bisogna partire. — Oh! per pietà, di grazia, signore, disse Van Baerle, oh! non mi menate via! lasciatemi guardare un altro poco! Come? Quello che vedo laggiù è il tulipano nero, proprio nero... possibile? Oh! signore, l’avete voi visto? No, no, deve avere delle macchie, deve essere imperfetto, e forse è tinto di nero; oh! s’io fossi lì, saprei ben dirlo io, o signore; lasciatemi scendere, lasciatemelo vedere da vicino, ve ne prego. — Che siete matto? Non posso. — Ve ne supplico. — Ma dimenticate che siete prigioniero! — Sono prigioniero, è vero; ma sono un uomo d’onore, e sul mio onore, o signore, non fuggirei mai, non tenterei mai di salvarmi; lasciatemi solamente guardare il fiore! — Ma i miei ordini, signore? E l’officiale fece un nuovo movimento per ordinare al soldato di rimettersi in via. Cornelio l’arrestò ancora. — Oh! siate paziente, siate generoso! tutta la mia vita dipende da un moto della pietà vostra. Ahimè! la vita mia, o signore, probabilmente non sarà lunga. Ah! che voi non sapete quanto io soffra; non sapete l’aspra guerra che fassi nella mia testa e nel mio cuore; perchè se fosse mai, continuò Cornelio disperatamente, perchè se fosse mai il mio tulipano rubato a Rosa! Oh! signore; capite bene che cosa sia l’aver trovato il tulipano nero, l’averlo visto un momento, averlo conosciuto perfetto, che gli è a un tempo un capo d’opera dell’arte e della natura, e doverlo perdere e perdere per sempre? Oh! signore bisogna che scenda e vada a vederlo; voi mi starete accanto se vi piace, ma voglio vederlo, sì, voglio vederlo! — Tacete, disgraziato, e rientrate presto in carrozza, perchè ecco la scorta di Sua Altezza lo Statolder che passa d’innanzi; se il principe rimarcasse uno scandalo, se sentisse un rumore, si sarebbe fatta buona io e voi. Van Baerle più spaventato pel suo compagno che per sè, si rimise in carrozza, ma non vi potè stare un mezzo minuto, ed erano appena passati i primi venti cavalieri, che si rimise alla portiera, accennando e supplicando lo Statolder giusto al momento ch’ei passava. Guglielmo impassibile e semplice secondo il solito, portavasi al posto per compire il suo officio di presidente. Aveva in mano il suo rotolo di pergamena, che in questo giorno di festa era divenuto il suo bastone del comando. Vedendo quell’uomo che accennava e supplicava, riconoscendo forse ancora l’officiale che accompagnavalo, il principe diede l’ordine di fermarsi. Nel momento i suoi cavalli frementi sugli zoccoli ferrati fermaronsi a sei passi da Van Baerle rannicchiato nella sua carrozza. — Che cosa c’è? dimandò il principe all’officiale, che al primo cenno dello Statolder era saltato giù dalla vettura, e gli si avvicinava rispettosamente. — Mio Signore, gli rispose, è il prigioniero di Stato che per ordine vostro, sono stato a cercare a Loevestein e che vi conduco a Harlem, come Vostra Altezza ha desiderato. — Che cosa vuole? — Dimanda istantemente che gli si permetta di fermarsi qui per un momento. — Per vedere il tulipano nero, mio Signore, esclamò Van Baerle, giungendo le mani, e poi quando lo avrò visto, quando avrò saputo ciò che mi preme sapere, allora morirò, se bisogni, ma morendo benedirò a Vostra Altezza, misericordiosa intermediaria tra la Divinità e me, Vostra Altezza che permetterà che la mia opera abbia avuto il suo fine e la glorificazione sua. Era infatti un curioso spettacolo vedere questi due uomini, ciascuno alla portiera della sua carrozza, cinta dalle loro guardie; uno onnipotente, e l’altro miserabile; l’uno nell’atto di salire sul suo trono, l’altro credentesi vicino a montare sul suo palco. Guglielmo aveva riguardato freddamente Cornelio e ascoltato la di lui fervorosa preghiera. Allora indirizzandosi all’officiale: — Costui, disse, è il prigioniero ribelle, che ha tentato di uccidere il suo carceriere a Loevestein? Cornelio cacciò un sospiro e abbassò la testa. La sua faccia dolce e mesta arrossì e impallidì al tempo stesso. A quelle parole, a quella infallibilità divina del principe onnipotente e onnisciente, il quale, per qualche secreto messaggio invisibile al resto degli uomini, sapeva già il suo delitto, e presagivagli non solo una punizione indubitata, ma ancora un rifiuto. Non si provò niente affatto a contrariare o a difendersi: offerse al principe il toccante spettacolo di una ingenua disperazione bene visibile e commovente per un cuore così grande e di uno spirito tanto vasto quanto quello che lo contemplava. — Permettete al prigioniero che scenda, disse lo Statolder, e che vada a vedere il tulipano nero, ben degno di essere veduto almeno una volta. — Oh! fece Cornelio mezzo svenuto dalla gioia e pencolante sul montatoio della carrozza; oh! Signor mio!... E gli si strinse la gola; e se non l’avesse sorretto l’officiale col braccio, co’ ginocchi e la fronte nella polvere il povero Cornelio avrebbe ringraziato Sua Altezza. Dato il permesso, il principe continuò il suo cammino nel bosco in mezzo alle acclamazioni le più entusiaste. Giunse ben presto alla sua gradinata, e il cannone tuonò nel lontano orizzonte. XVII Conclusione. Van Baerle accompagnato da quattro guardie, che aprivansi un passo tra la folla, tagliò obliquamente verso il tulipano nero, cui via via che si avvicinava, divorava con gli occhi. Lo vide finalmente, vide quell’unico fiore, che doveva sotto sconosciute combinazioni di caldo, di freddo, d’ombra e di luce apparire un giorno per mai più scomparire. Lo vide a sei passi; ne assaporò le grazie e la perfezione; lo vide da dietro le giovinette, che formavano una guardia d’onore a quel re della nobiltà e della purezza. E intrattanto però quanto più assicuravasi co’ suoi occhi della perfezione del fiore, tanto più il suo cuore era lacerato. Egli cercava attorno di sè alcuno per indirizzargli una domanda sola; ma dovunque visi sconosciuti, dovunque intenti col guardo al trono, dov’erasi assiso lo Statolder. Guglielmo, che attirava l’attenzione generale, si alzò, girò intorno tranquillamente lo sguardo sulla folla esaltata, e il suo occhio perspicace arrestossi a riprese sulle tre estremità di un triangolo formato in faccia di lui da tre scene e tre drammi ben differenti. A uno degli angoli, Boxtel impaziente e divorante senza battere occhio la persona del principe, i fiorini, il tulipano nero e l’assemblea. All’altro, Cornelio ansimante, muto, fisso, senza vita, senza cuore, senza amore, se non che pel tulipano nero sua creatura. Finalmente al terzo, ritta sopra di un gradino tra le vergini di Harlem, una bella Frisona vestita di merino rosso ricamato d’argento, e velata di merletti cascanti in larghe pieghe dalla sua cuffietta d’oro; Rosa finalmente che appoggiavasi palpitante e l’occhio tumido al braccio di un officiale di Guglielmo. Vedendo allora il principe tutto il suo uditorio disposto, svoltolò lentamente la pergamena, e con voce calma, chiara e benchè fievole senzachè si perdesse un accento in grazia del silenzio religioso che formossi ad un tratto sopra i cinquanta mila spettatori e rattenne perfino il respiro sulle loro labbra: — Voi sapete, disse a qual fine vi siete qui congregati. «Il premio di cento mila fiorini è stato promesso a colui che trovasse il tulipano nero. «Il tulipano nero! — e questa maraviglia dell’Olanda è là esposto ai vostri sguardi; — il tulipano nero è stato trovato, e tale con tutte le condizioni volute dal programma della società orticola di Harlem. «La storia del suo nascimento e il nome del suo autore saranno inscritti nel libro di onoranza della città. «Fate accostare il proprietario del tulipano nero». E pronunziando queste parole, il principe per giudicare dell’effetto che produrrebbero, girò il suo occhio aquilino sulle tre estremità del triangolo. Vide Boxtel lanciarsi dal suo gradino; Vide Cornelio fare un movimento involontario; Vide finalmente l’officiale incaricato di sorvegliare Rosa, condurla o piuttosto spingerla dinanzi al trono. Un doppio grido partì contemporaneamente dalla diritta e dalla sinistra del principe. Boxtel fulminato, Cornelio smarrito avevano ambedue gridato: — Rosa! Rosa! — Il Tulipano è vostro, o giovinetta, non è vero? disse il principe. — Sì, mio Signore! mormorò Rosa, che un bisbiglìo universale salutavala nella sua commovente bellezza. — Oh! mormorò Cornelio, ella dunque mentiva quando diceva che avessergli rubato il fiore. Ah! ecco perchè dunque ha lasciato il Loevestein! Oh! dimenticato, tradito da lei, da lei che io credeva la mia amica migliore! — Oh! gemè Boxtel dal canto suo, io sono perduto! — Il Tulipano, proseguì il principe, porterà dunque il nome del suo inventore, e sarà inscritto al catalogo dei fiori sotto il titolo di _Tulipa nigra Rosa Barlaeensis_ a cagione del nome di Van Baerle, che sarà in seguito il nome di questo fiore. E al tempo stesso Guglielmo prese la mano di Rosa e la pose nella mano di un uomo che erasi slanciato pallido, istupidito, morto dalla gioia, a piè del trono, salutando ora il suo principe, ora la sua fidanzata, ora Iddio che dal sublime dei cieli di zaffiro riguardava benigno lo spettacolo di due cuori felici. Nel tempo stesso era del pari caduto ai piedi del presidente Van Herysen un altro uomo colpito da una ben differente emozione. Boxtel annichilato sotto la rovina delle sue speranze, erasi svenuto. Fu rialzato, gli fu sentito il polso e il suo cuore; era morto. Tale incidente non turbò niente affatto la festa attesochè nè il principe nè il presidente non paresse che molto se ne interessassero. Cornelio indietreggiò spaventato: nel ladro, nel falso Giacobbe aveva riconosciuto il vero Isacco Boxtel, suo vicino, che nella purezza della sua anima non aveva mai sospettato neppure per un istante di una azione così iniqua. Del resto fu una gran fortuna per Boxtel che Dio gli spedisse proprio a tempo quell’attacco apopletico fulminante, che gli tolse di vedere più a lungi cose tanto dolorose al suo orgoglio e alla sua avarizia. Poi al suono di trombe la processione riprese il suo cammino senzachè niente fosse cambiato nel ceremoniale, se togli Boxtel morto, e Cornelio e Rosa trionfanti che camminavano accanto impalmati. Quando si fu rientrati al palazzo comunale, il principe accennando col dito a Cornelio il sacchetto di cento mila fiorini d’oro: — Io non so bene, diss’egli, da chi sia guadagnato quel denaro, se da voi o da Rosa; perchè voi avete ritrovato il tulipano nero, ella lo ha allevato e fatto fiorire; cosicchè offrendolo ella per dote non sarebbe giusto. D’altronde è il dono della città di Harlem fatto al tulipano nero. Cornelio stava attento per sapere che volesse inferire il principe, che continuò: — Io dono a Rosa cento mila fiorini, che ha ben guadagnati e che può offrirvi; sono il premio del suo amore, del suo coraggio e della sua onestà. Quanto a voi, o signore, grazie pure a Rosa che ha portato la prova della vostra innocenza, — e dicendo queste parole, il principe porse a Cornelio il famoso foglio della Bibbia, sul quale era scritta la lettera di Cornelio de Witt, e che aveva servito a rinvoltare i tre talli; — quanto a voi si è convinti che siete stato carcerato per un delitto che non avevate commesso. Perciò non solo siete libero, ma ancora i vostri beni come innocente sono per non confiscati, e vi sono resi. Signor Van Baerle, voi siete il battezzato di Cornelio de Witt e l’amico di Giovanni; restate degno del nome che vi ha affidato l’uno sul fonte battesimale, e dell’amicizia dell’altro, della quale aveavi onorato. Conservate la tradizione dei loro meriti, perchè quei de Witt mal giudicati, mal puniti in un momento d’aberrazione popolare erano due grandi cittadini, di cui l’Olanda va oggi superba. Il principe a queste ultime parole, che pronunziò di una voce commossa contro il suo solito, diede a baciare le sue mani ai due sposi, che inginocchiaronsi dai lati. Poi sospirando, continuò: — Ahimè! siete voi ben felici, voi che forse sognando la vera gloria dell’Olanda e soprattutto la sua felicità vera, non cercate di conquistarle che tulipani di nuovi colori. E gettando un’occhiata verso la Francia, come se egli vedesse nuove nuvole addensarsi da quella banda, rimontò nella sua carrozza e partì. Dal canto suo Cornelio il medesimo giorno partì per Dordrecht con Rosa, la quale per mezzo della vecchia Zug spedita a suo padre in qualità d’ambasciatrice, fecelo prevenire di tutto il successo. Quelli, che per il da noi esposto conoscono il carattere di Grifo, comprenderanno che ben difficilmente si riconciliò col suo genero. Egli aveva fitto nel cuore tutte le bastonate ricevute e da lui contate sulle ammaccature; egli diceva che sommavano a quarant’una; ma però finì coll’arrendersi per non essere meno generoso, come ei diceva, di Sua Altezza lo Statolder. Divenuto custode dei tulipani dopo essere stato carceriere di uomini, fu il più crudo guardiano dei fiori che s’incontrasse in tutti i Paesi Bassi: bisognava vederlo sorvegliare le farfalle dannose, uccidere i gattacci e scacciare le api troppo affamate. Siccome seppe la storia di Boxtel, e andava per le furie nel solo pensare che era stato lo zimbello del finto Giacobbe, fu lui che demolì l’osservatorio alzato già dall’invidioso dietro il sicomoro; perchè il recinto di Boxtel venduto all’incanto venne a ingrandire le caselle di Cornelio, che si chiuse in maniera da sfidare tutti i cannocchiali di Dordrecht. Rosa sempre più bella, divenne anche più istruita, e a capo di due anni di matrimonio sapeva così ben leggere e scrivere da potersi sola incaricare della educazione di due bei figlioloni, che avea partorito nel mese di maggio del 1674 e 1675, come due tulipani, ma che aveanle dato tanto meno dolore del fiore famoso, al quale ella era debitrice di averli. La ci s’intende che uno un bimbo e l’altro una bambina ebbero il nome di Cornelio e di Rosa. Van Baerle restò fedele a Rosa come ai suoi tulipani; per tutta la sua vita si occupò del benessere di sua moglie e della coltura dei fiori, mercè la quale ei trovò un gran numero di varietà che sono iscritte al catalogo olandese. I due principali ornamenti della sua sala erano in due gran cornici d’oro le due pagine della Bibbia di Cornelio de Witt; sopra d’una, sovvenghiamocene, il suo compare aveagli scritto di bruciare la corrispondenza del Marchese di Louvois; sull’altra aveva ei testato a Rosa la cipolletta del tulipano nero a condizione che ella con la dote di cento mila fiorini sposasse un bel giovine da ventisei a vent’otto anni, che riamata l’amasse, condizione scrupolosamente adempita, benchè Cornelio non fosse morto, e appunto perchè non era morto. Finalmente per combattere i futuri invidiosi, di cui la Provvidenza non si sarebbe forse compiaciuta di sbarazzarnelo come aveva fatto del _mynheer_ Isacco Boxtel, egli scrisse sulla sua porta questo detto, che Grozio aveva scolpito il giorno della sua evasione sul muro del suo carcere: «Chi alcuna volta non ha molto sofferto non può mai avere il diritto di dire: _Io sono troppo felice_.» _Fine della seconda ed ultima Parte._ NOTE: [1] _Luigi XIV; così chiamato per adulazione._ INDICE L’Editore ai suoi lettori Pag. V PARTE PRIMA I. Un popolo riconoscente 1 II. I due fratelli 13 III. L’allievo di Giovanni de Witt 24 IV. 35 V. L’amatore dei Tulipani e il suo vicino 48 VI. L’odio di un Tulipaniere 58 VII. L’uomo felice fa conoscenza con l’infelicità 68 VIII. La Camera di famiglia 81 IX. La Camera di famiglia 90 X. La figlia del Carceriere 96 XI. Il Testamento di Cornelio Van Baerle 102 XII. L’esecuzione 116 XIII. Ciò che in quel tempo passava nell’animo di uno spettatore 121 XIV. I piccioni di Dordrecht 126 XV. Il Carceriere 132 XVI. Maestro e Scolara 140 PARTE SECONDA I. Primo Tallo 151 II. L’amante di Rosa 162 III. Donna e Fiore 170 IV. Ciò che era accaduto negli otto giorni 179 V. Il secondo tallo 191 VI. 200 VII. L’Invidioso 208 VIII. Come il Tulipano nero muti padrone 217 IX. Il presidente Van Herysen 223 X. Un membro della società orticola 231 XI. Il terzo Tallo 242 XII. La canzone dei fiori 251 XIII. Come Van Baerle, prima di lasciare Loevestein, metta in pari i suoi conti con Grifo 261 XIV. Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual supplizio sia riserbato 270 XV. Harlem 275 XVI. Un’ultima preghiera 283 XVII. Conclusione 289 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine volume. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL TULIPANO NERO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. Project Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark license, especially commercial redistribution. START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a Project Gutenberg™ electronic work and you do not agree to be bound by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the person or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph 1.E.8. 1.B. “Project Gutenberg” is a registered trademark. It may only be used on or associated in any way with an electronic work by people who agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few things that you can do with most Project Gutenberg™ electronic works even without complying with the full terms of this agreement. See paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project Gutenberg™ electronic works if you follow the terms of this agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg™ electronic works. See paragraph 1.E below. 1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation (“the Foundation” or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection of Project Gutenberg™ electronic works. Nearly all the individual works in the collection are in the public domain in the United States. If an individual work is unprotected by copyright law in the United States and you are located in the United States, we do not claim a right to prevent you from copying, distributing, performing, displaying or creating derivative works based on the work as long as all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™ works in compliance with the terms of this agreement for keeping the Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily comply with the terms of this agreement by keeping this work in the same format with its attached full Project Gutenberg™ License when you share it without charge with others. 1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern what you can do with this work. Copyright laws in most countries are in a constant state of change. If you are outside the United States, check the laws of your country in addition to the terms of this agreement before downloading, copying, displaying, performing, distributing or creating derivative works based on this work or any other Project Gutenberg™ work. The Foundation makes no representations concerning the copyright status of any work in any country other than the United States. 1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg: 1.E.1. The following sentence, with active links to, or other immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed, performed, viewed, copied or distributed: This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. 1.E.2. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not contain a notice indicating that it is posted with permission of the copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in the United States without paying any fees or charges. If you are redistributing or providing access to a work with the phrase “Project Gutenberg” associated with or appearing on the work, you must comply either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg™ trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.3. If an individual Project Gutenberg™ electronic work is posted with the permission of the copyright holder, your use and distribution must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms will be linked to the Project Gutenberg™ License for all works posted with the permission of the copyright holder found at the beginning of this work. 1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg™ License terms from this work, or any files containing a part of this work or any other work associated with Project Gutenberg™. 1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this electronic work, or any part of this electronic work, without prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with active links or immediate access to the full terms of the Project Gutenberg™ License. 1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary, compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including any word processing or hypertext form. However, if you provide access to or distribute copies of a Project Gutenberg™ work in a format other than “Plain Vanilla ASCII” or other format used in the official version posted on the official Project Gutenberg™ website (www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means of obtaining a copy upon request, of the work in its original “Plain Vanilla ASCII” or other form. Any alternate format must include the full Project Gutenberg™ License as specified in paragraph 1.E.1. 1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying, performing, copying or distributing any Project Gutenberg™ works unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9. 1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing access to or distributing Project Gutenberg™ electronic works provided that: • You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from the use of Project Gutenberg™ works calculated using the method you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed to the owner of the Project Gutenberg™ trademark, but he has agreed to donate royalties under this paragraph to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid within 60 days following each date on which you prepare (or are legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty payments should be clearly marked as such and sent to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in Section 4, “Information about donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation.” • You provide a full refund of any money paid by a user who notifies you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he does not agree to the terms of the full Project Gutenberg™ License. You must require such a user to return or destroy all copies of the works possessed in a physical medium and discontinue all use of and all access to other copies of Project Gutenberg™ works. • You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the electronic work is discovered and reported to you within 90 days of receipt of the work. • You comply with all other terms of this agreement for free distribution of Project Gutenberg™ works. 1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project Gutenberg™ electronic work or group of works on different terms than are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing from the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the manager of the Project Gutenberg™ trademark. Contact the Foundation as set forth in Section 3 below. 1.F. 1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread works not protected by U.S. copyright law in creating the Project Gutenberg™ collection. Despite these efforts, Project Gutenberg™ electronic works, and the medium on which they may be stored, may contain “Defects,” such as, but not limited to, incomplete, inaccurate or corrupt data, transcription errors, a copyright or other intellectual property infringement, a defective or damaged disk or other medium, a computer virus, or computer codes that damage or cannot be read by your equipment. 1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the “Right of Replacement or Refund” described in paragraph 1.F.3, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project Gutenberg™ trademark, and any other party distributing a Project Gutenberg™ electronic work under this agreement, disclaim all liability to you for damages, costs and expenses, including legal fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH DAMAGE. 1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a written explanation to the person you received the work from. If you received the work on a physical medium, you must return the medium with your written explanation. The person or entity that provided you with the defective work may elect to provide a replacement copy in lieu of a refund. If you received the work electronically, the person or entity providing it to you may choose to give you a second opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If the second copy is also defective, you may demand a refund in writing without further opportunities to fix the problem. 1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in accordance with this agreement, and any volunteers associated with the production, promotion and distribution of Project Gutenberg™ electronic works, harmless from all liability, costs and expenses, including legal fees, that arise directly or indirectly from any of the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any Defect you cause. Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™ Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of electronic works in formats readable by the widest variety of computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.