Title: Storia della città di Roma nel medio evo, vol. 1/8
dal secolo V al XVI
Author: Ferdinand Gregorovius
Translator: Renato Manzato
Release date: July 10, 2025 [eBook #76473]
Language: Italian
Original publication: Venezia: Antonelli, 1866
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This transcription was produced from images generously made available by Bayerische Staatsbibliothek / Bavarian State Library.)
STORIA
DELLA CITTÀ DI ROMA
NEL MEDIO EVO
DAL SECOLO V AL XVI
DI FERDINANDO GREGOROVIUS.
Vol. I.
VENEZIA E TORINO,
G. ANTONELLI E L. BASADONNA EDIT.
—
M DCCC LXVI.
PRIMA VERSIONE ITALIANA
DI RENATO MANZATO.
(PROPRIETÀ LETTERARIA.)
Esce finalmente alla luce questo volume, al quale intendiamo che debbano seguire gli altri quanto più presto ci possano consentire l’accuratezza della versione e la diligenza della stampa. Le cure in fatti che il traduttore e noi stessi abbiamo spese intorno a questo lavoro, erano domandate e dal pregio del libro e dalla generosità dell’autore, il quale non solamente ci accordò l’esclusivo diritto di publicare nella nostra lingua l’opera sua, ma ci fornì tutte quelle correzioni ed aggiunte ch’egli aveva già apparecchiate per una nuova edizione della sua storia; autorizzandoci [iv] eziandio a dichiararlo, affinchè per parte sua nulla manchi al merito di questa nostra publicazione. Noi gliene siamo riconoscenti; ma ci sentiamo in dovere di attendere con ogni studio perchè e la versione e la stampa corrispondano quanto più e quanto meglio per noi si possa al valore dell’opera originale.
L’EDITORE.
[v]
La storia civile dell’alma Città di Roma nel medio evo, è rimasta, come san tutti, oscura e trascurata di molto; eppure, per la sua importanza, dovrebbe essere oggetto delle più sollecite investigazioni della scienza storica. L’immenso lavoro, mediante il quale l’antica civiltà trasformossi e sorse la nuova, non potrebbe intendersi appieno senza conoscere parimente la storia della caduta e del risorgimento di Roma, metropoli del Cristianesimo e primo centro della nuova civiltà latino-germanica.
Ben si comprende che la storia di Roma in questo lungo periodo non può essere circoscritta al municipio solo, cioè al solo cerchio delle mura Aureliane; giacchè, sotto qualanque rispetto si voglia considerare, la storia [vi] di Roma collegasi a quella di tutta l’umanità. Tre diritti meravigliosamente tenaci la governarono nel medio evo: l’antichissimo diritto municipale, ossia della romana republica, che i Romani anche nel medio evo mantennero con orgoglio e con fermezza, protestando ch’era l’eredità dei loro grandi avi; la monarchia romana, diritto d’origine posteriore, che i re di stirpe germanica sostennero devoluto loro dai Cesari antichi loro predecessori; finalmente il supremo dominio della Chiesa romana, diritto che si stabilì dopo il tempo di Carlo Magno e derivò da ragioni teocratiche e da libere donazioni, per mezzo del quale i pontefici combatterono e vinsero infine i loro competitori, trasformando Roma divenuta col progresso dei secoli loro pacifica sede, e facendole subire un’altra e splendida metamorfosi monumentale.
Ora codesti diritti, nati nella stessa Città, collidendosi tra loro in lunghe e tremende contese, produssero effetti di gran momento nella storia d’Europa. Nella Città eterna questi diritti perdurarono quasi dogmi di modo che, per iscoprire le cause profonde delle più importanti quistioni del nostro tempo, è necessario ricorrere al medio evo di Roma, il quale nei suoi diversi periodi spiega lucidamente la non interrotta legge della causalità, irresistibile forza nella storia dei popoli. E veramente nei bassi tempi la vita dell’alma Città è un aggirarsi continuo intorno ai tre principî medesimi: [vii] spettacolo stupendo, nè altrove mai più veduto, e che rende la storia di Roma la più sublime tragedia dell’umanità.
Son queste le norme delle quali mi valsi come d’un filo, che nel vasto labirinto assicurasse i passi dubbiosi. Il resto, ed è quanto! rimane enimma inscrutabile e mistero profondo! Chi mai potrebbe togliere il velo alla venerabile fronte del genio di Roma, che sui marmi rovesciati della monarchia romana si asside, e per forza ideale impera di nuovo dalle squallenti ruine, con uno splendore forse più vivo ancor dell’antico?
L’impresa a cui m’accinsi è arditissima, nè deve parerlo meno a chi sappia ch’io da molti anni dimoro in Roma, e che non v’è pagina in questa storia che non sia scritta dinanzi ai monumenti, sopra le pergamene e nelle biblioteche di Roma. Nulla dirò del materiale storico: inesauribile per l’una parte, lascia per l’altra interi periodi oscurissimi, a causa d’una mancanza quasi assoluta di documenti contemporanei; sicchè lo stendere una storia civile del medio evo di Roma, compiuta in ogni sua parte, non sarà possibile mai.
Però, senza darmi vanto delle tante difficoltà che ingombravano il mio cammino, scrissi gli annali di Roma nel medio evo; con lunghi studî e con indagini faticose apparecchiando un’opera molto difettosa a dir vero, ma che, in seguito ai pochi e ristretti saggi di cui si parlerà nelle note, è almeno il primo tentativo d’una [viii] accurata storia civile di quei secoli importantissimi, attinta, per quanto mi fu lecito, alle fonti originali e illustrata a lume di critica. L’amore di Roma mi spinse a scrivere, mi confortò l’amor della patria; poichè queste istorie hanno un nazionale interesse anche per la mia patria. Il nome di Roma gloriosamente risuona negli annali germanici, in ogni pagina dei quali si trova scritto, durante l’êra di mezzo, a cagione dell’impero romano-germanico: e parimenti, per altrettanti secoli, il nome della Germania risuona in tutte le pagine delle storie italiane. Roma e l’Italia son sacre adunque a quanti Alemanni ricordano quel grande legame storico che strinse nel medio evo le due nazioni. Legame fu questo d’intellettuale necessità, per guerre ed odî, per rovine ed errori sovente assai doloroso, ma nondimeno fecondo di civiltà: opera imperitura dei secoli, che non può rinnegarsi per contrarietà di fortuna, e che oggidì viene disconosciuta solamente da quelli che, preoccupati lo spirito, si scordano che il passato si regolò con leggi sue proprie, ed ebbe concetti e bisogni diversi da quelli della nostra più avanzata e più libera età. Certamente, se fosse degna di qualche lode quest’opera, non potrei desiderarne altra più bella che questa: d’aver saputo, cioè, per quanto poco valga il mio stile, rendermi in qualche modo l’interprete del genio civilizzatore ch’ebbe sì grande influenza nella storia dei due paesi, che sono le più illustri province nell’impero della civiltà umana.
[ix]
Io mi professo poi sommamente obbligato dei solleciti ajuti che tanti dotti italiani mi porsero dovunque ho fatto alcuna ricerca a vantaggio di questa storia. Scorrendo da molti anni le città dell’Italia, incontrai dappertutto le più squisite accoglienze. E sarei già troppo lungo se volessi nominar soltanto coloro che a Roma, nelle private o publiche biblioteche e in molti insigni archivi, concorsero con liberalità somma a fornirmi materiali preziosi: le mie lodi non potrebbero mai eguagliare tanto favore. Ma essendo oggi in grado di offrir questi libri alla lettura degl’Italiani fra cui da tanto tempo, ospite felice, dimoro, desidero vivamente che li aggradiscano almeno come segno di riconoscenza sincera e attestato di verace simpatia, e che allo studio della patria istoria non li ritrovino interamente disutili.
Roma, 17 Marzo 1866.
[xi]
STORIA
DELLA CITTÀ DI ROMA
NEL MEDIO EVO.
[1]
[3]
È mio intendimento narrare in questi volumi la storia della città di Roma durante il medio evo, che ancora non ebbe chi ne scrivesse in ordinato racconto. Imperocchè, quantunque possediamo un gran numero di lavori storici intorno le gesta dei Pontefici e sulle relazioni di Roma coi popoli dell’orbe, e quantunque storie sieno state scritte le quali trattano di avvenimenti che colla grande città durante l’età media hanno particolare riferimento, manca tuttavia una storia di lei speciale e in sè compiuta. Gli eruditi romani, meglio che quelli di ogni altra nazione, bene avrebbero potuto scriverne, ma poichè ne gl’impedirono ostacoli di cui qui non conviene fare parola, mossi da carità di patria, diedero opera con laudabile diligenza a studî [4] pregevolissimi, i quali servissero alla compilazione di una storia prammatica della loro città nei tempi di mezzo, ch’essi non vollero scrivere. Dopo i Romani e dopo gli Italiani nessun altro popolo, all’infuori del tedesco, ha diritto maggiore a trattarne: e ciò perchè coi popoli germanici ebbe Roma relazioni assai più antiche che non con altre nazioni: chè già i Goti sottomisero la Città colla forza e dipoi la riposero in onoranza; ed i Franchi, al tempo di Pipino e di Carlo, la strapparono alla dominazione dei Longobardi e dei Bizantini e la resero independente; e poi specialmente perchè il sacro romano Impero tenne Germania per lunga serie di secoli in gloriosa relazione con Roma. Non già che la Scienza, bene sommo ed egualmente ripartito tra gli uomini, conosca legami di nazione, ma questo dico perchè sono di patria Tedesco e vivo lontano dal mio paese natale e scrivo in terra straniera. Imperocchè l’ansioso desiderio, proprio ai miei connazionali, di vedere la grande città, a Roma mi trasse, dove da anni siedo e medito la sua storia e ne contemplo i monumenti.
Allorchè la prima volta concepii in mente il disegno di un’opera sì difficile, accolsi speranza ch’essa presterebbe servigio non lieve alla Scienza e nello stesso tempo a me sarebbe cagione di compiacimento. Deliberai quindi scrivere la storia di Roma durante il medio evo, traendola dai documenti storici già esistenti, per quanto a me fosse dato di sottoporli ai miei studî, e illustrandola colle notizie che porgono la contemplazione dei luoghi che furono teatro degli avvenimenti e lo studio dei monumenti eretti in quegli antichi tempi. Per medio evo della città di Roma io intendo quel periodo che comincia [5] dalla conquista della Città fatta dai Visigoti nell’anno 410, e si stende fino ai tempi di papa Clemente VII, ossia all’ultimo saccheggio di Roma operato dalle soldatesche del Borbone e del Frundsberg nell’anno 1527. Io non voglio narrare unicamente gli avvenimenti politici che succedettero entro alla cerchia delle mura di Roma, ma è mio intendimento dare un quadro completo delle condizioni della città e del popolo, narrare tutto quanto successe di memorando dentro alla Città durante questo lungo periodo di più che undici secoli, tutto legando in un compiuto racconto. Egli è certo uno dei cómpiti più difficili per lo Storico congiungere insieme ordinatamente materie sì varie fra loro; ma ciò che io non farò bene, uomini migliori di me potranno imprendere nell’avvenire. Il graduale ordinamento della Chiesa entro alle mura di Roma; la forma che il culto cristiano e lo spirito stesso dell’età di mezzo ebbero ad assumere entro alla Città; le relazioni dei Pontefici coi Romani, le lotte di questi contro i Papi, contro gl’Imperatori di Germania, e le loro discordie intestine; gli sforzi ripetuti per ottenere libertà di republica sull’esemplare di quella dei loro grandi antenati; la costituzione cittadina ai differenti periodi; le costumanze del popolo, la forma tradizionale della vita di Roma antica, la poesia delle leggende romane; le condizioni della Scienza e dell’Arte durante i secoli della barbarie e sotto il reggimento dei Pontefici che la Città a sè sottomisero; l’influenza che Roma esercitò sulla civiltà di Occidente; tutto questo ci è mestieri considerare e raccogliere in ordinata narrazione. Oltracciò ne tornerà spesso necessario in quest’opera considerare le relazioni tra Roma [6] cristiana e la pagana, imperocchè la novella Roma sorse dall’antica come la civiltà cristiana ebbe suo svolgimento dalla pagana. Edificata sulle rovine e con rovine dell’antica, Roma novella mostra nella sua natura organica la più perfetta affinità di cultura colla prima, ed è aperto e luminoso esempio delle metamorfosi che subisce la storia del mondo, le quali farebbero credere a portento di occulta magia. Chi scrive dunque la storia di Roma nel medio evo, deve tessere anche la storia delle rovine della Città e del decadimento del popolo e delle trasformazioni esterne ed interne che subì quella illustre tra tutte le città dell’orbe. Imperocchè due fiate a capo del mondo civile, ch’essa la prima volta dominò colla violenza dello Impero assoluto e la seconda volta guidò colla possanza della Chiesa assoluta, Roma sola può intitolarsi col superbo nome di «Città eterna», laddove tutte le altre città della terra, fornito il cómpito temporaneo a cui erano state per un certo periodo appellate, storicamente muoiono e spariscono per sempre.
Tra le città dell’Asia v’ebbero nell’antichità alcune illustri che durarono potenti lunga pezza di tempo: tali furono Babilonia e Ninive, Tiro e Persepoli, ma la loro influenza si ristrinse a formarne centri di civiltà dei popoli indigeni. Gerusalemme sola esercitò un’opera universale su tutta l’umanità. Capitale del piccolo territorio ove aveva stanza il popolo d’Israello poco numeroso, fu sede alla credenza in quel Dio da cui procedette il Cristianesimo; laonde quella città, duplice monumento della religione più perfetta d’Asia e d’Europa, andò debitrice al suo principio religioso di novella vita, ch’ebbe tanta parte nella storia del mondo durante il [7] medio evo, a lato di Roma ed in relazione con essa. I Romani nei tempi antichi aveanla distrutta, il popolo suo errava disperso pel mondo, la sua missione sacra era stata trasfusa nella Roma cristiana, nella Gerusalemme novella; eppure nel secolo undecimo, dalla profondità ov’era caduta rialzò il suo capo venerando, e dalla tomba di san Pietro volgendo al sepolcro di Cristo gli animi commossi dei popoli di Occidente, ridivenne durante il lungo periodo delle Crociate la città santa dei popoli cristiani, fu l’oggetto della gran pugna tra Asia ed Europa, fu il centro di rivolgimenti che scossero il mondo, finchè nel secolo decimoterzo ricadde con quelle idee di cui essa era stata l’espressione simbolica.
Non parlo delle città che fiorirono nell’Egitto antico, quali Memfi, Tebe, Sais, Cartagine ed Alessandria. In Europa però fu Atene che l’umanità compresa di ammirazione, la quale non sarà mai per venir meno, celebra gemma della terra e santuario di civiltà. Vincoli indissolubili uniscono Atene e Roma, e chi rammenta l’una è condotto di conseguente alla ricordanza dell’altra città. Perocchè esse rappresentano quell’antichità così detta classica, e l’una all’altra è complemento, e si rispondono fra loro come il concetto all’azione, come il conoscere al volere, come l’idea all’opera pratica, in maniera che in quelle due altissime creazioni della civiltà la forza operosa dell’uomo si mostrò in tutto il nerbo della sua vigoria. Esse rappresentano dunque le forme della cultura del mondo, ed hanno perciò sì alta importanza da non essere alcun’altra città che possa farsi loro emulatrice. Atene commuove ad amore, Roma incute ammirazione e rispetto. La felicità, ossia la [8] perfezione di natura cui tutti, individui e nazioni, si sforzano di pervenire, in Atene toccò il massimo grado. Tutte le più nobili produzioni dell’intelletto e della fantasia si raccolgono ivi in un foco centrico della cultura, il cui calore feconda, la cui luce abbellisce la terra in tutta la sua estensione: le leggi fondamentali della libertà (bene massimo in cui tutti i beni si accolgono) ricevono pratica applicazione nella vita publica operosissima. Per la qual cosa questa Republica resse tutto il mondo nell’ordine delle idee con pacifica signoria, la cui potenza è inapprezzabile perchè dura oggidì ancora nella cultura dei popoli, e durerà eterna.
Non così Roma. Chi si fa a considerare anche superficialmente la sua storia, vede energia, valore, senno politico senza pari rendere soggetto mezzo il mondo e correre alla distruzione o alla rovina di nazioni fiorenti, compresa pure quella Grecia sì splendida, di maniera che chi contempla tanto rovinio e tanta opera di disfacimento e ne fa il paragone coll’operosità pacifica di Atene, sente orrore di quel popolo despota che compieva quella riprovevole opera di soggiogamento. Laddove da una parte si considerano i rigogliosi frutti che dava la splendida cultura di Atene, si vede di rincontro Roma difettare dei principî fondamentali della civiltà. In essa, potente soltanto la tendenza politica alla conquista e alla signoria universale; in essa l’intelletto non intende che alle grandi necessità della vita pratica, e quindi alza un edificio gigantesco di legislazione, perfetto sino nelle particolarità più minute: i vasti e liberi campi della scienza sono invece deserti, e tutto quello che vi fiorisce è trapiantato da straniere regioni. Le creazioni [9] stesse dell’arte onde Roma nel corso dei tempi si abbella, sono un’altra forma sotto cui si palesano le vittorie della tirannide, che dietro al suo carro trionfale tragge in ceppi le arti costrette ad ornare delle loro opere quella crudele conquistatrice. Nè tutto si comprende in questa incontestabile verità. Roma sorse da un germe, da un principio che si asconde nelle tenebre fitte del mito: cresciuta poco a poco, giunse a tale apogeo di grandezza da sottomettere essa sola tutto il mondo: fenomeno che nel corso della storia è il più meraviglioso, se ne togli il fatto dell’origine e della diffusione del Cristianesimo, il quale poi doveva porre sua sede nella capitale del mondo che il corso degli eventi andavagli preparando, quasi soglio sublime su cui si sarebbe eretta la figura colossale della Chiesa che, durante il medio evo, doveva tenere la signoria morale del mondo. Chi volesse indagare in che stesse il principio di forza di Roma antica, che rendeva questa città signora dispotica di tutte le nazioni, e quali fossero gli elementi di una natura così accentratrice, avrebbe opera di una difficoltà senza pari. Era una forza assoluta che, raggiando da un centro, esercitava un’influenza di attrazione e di assorbimento simile a quella che regge il sistema planetario: che se per conoscere questa forza fatale della nazione intera, tu ti faccia a considerare l’indole dell’uomo romano, tu non vedi che valore in guerra e disciplina severa, natura ardita e vaga d’imprese, fermezza, prudenza, intelligenza somma nell’ordinare Stato e colonie, indole facile ad accogliere le costumanze di strani paesi e capace di porre sua stanza in qualunque regione e sotto qualunque clima, ingegno versatile che abbraccia [10] in sè la natura di tutti i popoli del mondo, popolo infine che nel tempo stesso in cui accoglie in sè poco a poco lingua, costume, arte, religione degli altri popoli stranieri, non ne perde per questo il suo proprio genio nazionale dotato di sì potente energia. Le vittorie di Roma sopra popoli liberi e illustri che eranle di gran lunga superiori nella cultura intellettuale, quali ad esempio i Greci, appariscono a prima giunta trionfi della forza materiale che vince ed opprime la civiltà dell’ingegno: tuttavia dobbiamo riconoscere ch’elle erano le vittorie dell’intelletto che volgeva sua operosità ai fini pratici della vita, e la cui vivissima energia si esplicava nella formazione del diritto privato e publico donde traeva le idee perfette intorno l’essenza della persona e intorno la costituzione della famiglia e dello Stato; era l’operosità di un intelletto prosaico quanto si voglia, ma i cui risultamenti nella vita pratica erano di gran lunga superiori a quelli dell’intelletto che spazia nei campi ideali. Tutti gli eventi convennero con rara felicità a trarre i popoli ai piedi di Roma, e l’uomo in cui il cuore batte forte di amore per l’umanità, si cruccia pensando alla sorte del mondo retto per un tempo troppo breve dal genio benigno e incivilitore della libertà e della scienza, perocchè il monarcato dei Cesari e la barbarie sopravvenuta al cadere di quello involgessero in lutti lunghi e dolorosi la terra. Ei lamenta che il genio della civiltà non ispiccasse il suo volo dall’Acropoli, che Atene aveva sacrata a Minerva, per conquistare con pacifiche lotte il mondo, per riunirlo e per reggerlo; e che invece il Giove feroce del Campidoglio abbia soggiogato le nazioni in mezzo a torrenti di sangue. E Roma diventava grande, e l’Ellade [11] bella, e Asia e Africa cadevano prive di vita fra le braccia di ferro di quella città che s’impadroniva dei tesori della civiltà e si ornava delle spoglie gloriose di tre parti del mondo, in mezzo alle quali, nella contrada più bella della terra, essa sorgeva sublime. Incapace di creare col proprio suo genio l’Arte e la Scienza, era però in altissimo grado valente a far suoi gli studî degli stranieri, i quali poi insieme colla sua grande civiltà pratica diffondeva nel mondo.
Le spedizioni di guerra, le grandi strade edificate, le colonie militari e civili dei Romani, erano innumerevoli vie per le quali si diffondeva la cultura fino alle più remote regioni della terra. I Romani facevano il mercato universale dei prodotti dell’agricoltura e delle industrie del mondo, e la letteratura classica e l’arte lasciavano splendide tracce di sè sulle rive del Reno e del Tamigi, dell’Eufrate e dell’Istro. Ed oggi ancora l’ardito viaggiatore che penetra nel deserto africano di Fessan, in mezzo a quella selvaggia regione ove è muta l’armonia della voce dell’uomo e a cui crescono orrore le urla dello sciacallo, mira ruderi di splendidi monumenti di architettura romana e resta attonito di meraviglia al pensiero della grandezza di quegli antichi i quali portavano la loro civiltà in quelle regioni remote, ove ora regna squallore di morte[1]. Se fosse stato concesso alle nazioni di vivere continuamente sotto la mite [12] signoria di Trajano o di Marco Aurelio, egli è probabile che non avrebbero mai mosso lamento di essere cadute sotto la soggezione di Roma, e quel sistema di accentramento, che in certe condizioni è tanto dannoso, e che per la prima volta, rompendo i legami di nazione, ordinava i popoli soggetti in un impero in cui parlavasi una sola lingua, che era retto da una uniforme legislazione e da un mite governo, quel sistema sarebbe stato anzi celebrato come opera sapiente di Roma che avrebbe superato il senno di Grecia. Imperocchè tutti gli avvenimenti onde si tesse la storia tendano evidentemente a condurre i popoli al pareggiamento ed all’unità; laonde fino dalle origini del mondo v’è nel corso degli eventi uno sforzo a trovare quel centro ideale di gravità in cui può aversi equilibrio. Tuttavia la vita dell’umanità è soltanto un prodotto di leggi composte svariatissime, e quella società in cui sono annullati i contrasti, ha in sè il germe che trarralla a morte inevitabile. La monarchia dispotica dei Cesari colla prepotenza di un fato doveva inaridire le rigogliose oasi di cultura greca; e le sorgenti di libertà, di amore nazionale, di carità del natio loco, di scienza, di ogni virtù civile, poco a poco venivano disseccate da turbini di arena uniforme; decadevano sempre più le città; le nazioni simili a stupide greggi erano amministrate da turbe di uffiziali publici, privi di amore del bene dello Stato. Quantunque l’organamento e le leggi dell’Impero, rette da una certa tolleranza tradizionale, non permettessero che la monarchia degenerasse fino agli ultimi eccessi del despotismo orientale, tuttavolta le nazioni soggette all’Impero, perduto ogni interno vigore, miseramente agonizzanti, traevano la [13] catena della schiavitù. Così quello Stato, onde si era diffusa la civiltà a tutto il mondo, era mutato in un vasto deserto, in cui la forza vitale si fiaccava, ogni movimento s’intorpidiva, il genio speciale di tutte le nazioni periva, finchè sopra quello squallido e morto Impero si lanciavano le torme dei Barbari, la cui missione era di salvare l’umanità dal morire affranta sotto il despotismo romano. Gli è vero però che, prezzo di questa redenzione, era la distruzione della civiltà universale; chè i funerali di Roma celebravano i Barbari con loro tremende danze di guerra, e coi loro orribili banchetti di morte onde funestavasi il mondo tutto. Ma è vero puranco che, duranti quei secoli, si ristoravano tante perdite coi nuovi elementi di civiltà che andavano lentamente elaborandosi, perocchè i Germani, nei quali era fervidissimo il sentimento dell’independenza, facessero rivivere quell’amor di nazione che Roma aveva soffocato, e ne dessero ripetute prove lottando contro il novello sistema di accentramento che da Roma, ove aveva posta sua sede la Chiesa assoluta, ebbe origine anche la seconda volta.
La grandezza, la decadenza, la fine dell’Impero romano, lasciarono scolpite tracce di sè anche nella città di Roma. Imagine della monarchia e della civiltà universale, edificata colle spoglie e coi tributi, col sudore e col sangue dei popoli depredati, Roma era il Panteon delle favelle e delle religioni, l’accademia delle arti e delle scienze, il mercato dei prodotti, il ridotto dei piaceri e dei vizî della umanità. Quantunque Atene la superasse di gran tratto per bellezza artistica, non è città nè potrà essere mai, che sia a paragonare alla maestà sublime di quella metropoli, ch’era creazione e monumento della [14] storia del mondo. Al tempo degli Antonini, Roma, sacra donna delle nazioni, città splendida ed eterna, si ergeva meraviglia del mondo, cui ogni uomo contemplava con venerazione. Ma quell’albero gigante della civiltà andava appassendo via via che il tarlo del despotismo rodevagli i germi della vita, finchè cadeva estinto. La lenta decadenza di Roma è un fenomeno sì meraviglioso come già fu il suo grandeggiare, e per iscrollare ed abbattere quel colosso di leggi, d’istituti, di monumenti, faceva al tempo mestieri di uno sforzo non minore di quello che già eragli stato necessario a innalzarlo.
E qui incomincia la storia di Roma in linea discendente; laonde sarà una parte del mio cómpito descrivere la successiva decadenza e la fine di lei: argomento elevato ed in un pietoso, che impone severa meditazione a qualunque pensatore anche di animo leggiero, e che indirizza la mente dello Storico a investigare le ragioni per cui di quella città eccelsa non doveva rimanere che qualche cumulo di rovine. Sette anni avanti che i Barbari del settentrione irrompessero per la prima volta in Roma, Claudiano, l’ultimo poeta dei Romani, dall’alto del Palatino ove aveva accompagnato l’imperatore Onorio, mirava a Roma ancora indomata che stava a’ suoi piedi; e commosso dal sublime spettacolo, scioglieva il canto a celebrare le bellezze indicibili della canuta imperadrice dei popoli, a descrivere i numerosi templi dai tetti sfavillanti d’oro, e gli archi di trionfo ornati di trofei, e le colonne e le statue torreggianti sublimi, e gli edificî smisurati nelle cui basi colossali l’arte umana rivaleggiava colla natura: ma i suoi versi non erano che un debile eco di quel commovimento che voce [15] umana non vale ad esprimere[2]. Duecento anni circa dopo di lui, il vescovo Gregorio, che sedeva allora sulla cattedra di san Pietro, in un suo sermone ai congregati Romani, paragonava quella città, che era stata un tempo sì grande, ad un vase spezzato, e quel popolo, che anticamente aveva dominata la terra, paragonava ad un’aquila che, spennacchiata e decrepita, giacesse morente sulle sponde del Tevere. Ottocento anni dopo Gregorio, al tempo di papa Martino V, dai ruderi del Campidoglio, Poggio Bracciolini volgeva il triste pensiero all’antica Roma di cui rimanevano poche rovine gigantesche, avanzi di templi atterrati, infranti architravi, archi sconnessi e crollati; e lo spettacolo degli armenti che pasceano tra i ruderi ond’era coperto il sacro terreno del foro, muoveva l’animo di lui a meditare sulla varietà della fortuna, che fu sempre oggetto agli studî del filosofo e dello storico[3]. Trecento anni dopo di Poggio, l’inglese Gibbon sedeva nel Campidoglio, nel cui recinto allora andavano sorgendo palazzini pigmei di stile moderno, e mentre anch’egli, come quel Fiorentino, contemplava le rovine di Roma, pensava con ammirazione non minore alla varietà delle sorti della città e deliberava farne tema a una storia, ch’egli poi allargò nel [16] concetto più vasto onde ebbe origine l’immortale sua opera del decadimento e della fine dell’Impero romano. Quantunque grande possa sembrare l’audacia di porre me, perchè scrivo questa Storia, dopo quegli uomini illustri, coi quali non ho di comune che la venerazione per Roma e il desiderio di meditare la varietà dei casi dei popoli, io voglio pur dire ch’io mi trovai nella medesima condizione di quelli. Imperocchè allorquando, or fanno sei anni[4], vidi per la prima volta questa Roma due fiate illustre, fu tanta la meraviglia ond’ebbi commosso lo spirito, che determinai di scrivere la storia della caduta di essa, argomento che agli occhi miei sembrò il più elevato fra tutti quelli che sono offerti alla investigazione dello Storico.
Ma non già soltanto la storia della caduta; imperocchè se si studiassero le sole rovine di Roma, se ne avrebbe quel senso di tristezza e di disgusto che ci prende alla contemplazione di un cadavere che si putrefà. Nel tempo medesimo in cui Roma declinava alla sua fine, essa cominciava già a rinnovellarsi, ond’è che alla storia della caduta di lei succede, in una maniera di cui non abbiamo altro esempio, la storia del risorgimento. Il Cristianesimo, per opera del quale periva l’antico Impero e la città antica dei Romani, faceva sorgere dalle catacombe, sua armeria sotterranea, una Roma novella. Ed anche questa, come già l’antica, ravvolgeva l’origine sua nei misteri del mito, perocchè se Romolo e Remo furono fondatori della antica, due santi Apostoli, Pietro e Paolo, [17] erano gli edificatori della Città del medio evo. Ed essa pure crebbe lentamente in mezzo a molte e terribili mutazioni di fortuna, finchè giunse a quell’altezza da cui doveva avere impero su tutto Occidente e venerazione di Città santa del tempo di mezzo. Indagare la causa per cui Roma, durante quel lungo periodo della storia dell’umanità che ha nome di medio evo, ne diventasse la forma generale, come già un tempo era stata la forma dell’antichità, è impresa a cui lo storico deve volgere tutte le forze del suo ingegno, per iscoprire gli elementi che in quella città nuovamente si accoglievano, e che dovevano porre per la seconda volta in sua balia lo scettro del mondo. Da questa città che, dopo la caduta dell’Impero si alza, Ararat della civiltà, sopra i flutti del diluvio della barbarie, ebbe vita l’umanità durante il medio evo, librandosi intorno a Roma come intorno ad un centro della cultura; cosicchè i varî gruppi di popoli latini e germanici, come i pianeti che camminano in loro orbita intorno al sole che in essi infonde la vita, sembravano muovere in continua attrazione intorno alla Città eterna. Ed è soverchio ai limiti del discorso poter dire in poco che fosse Roma durante il medio evo, e quali forze partissero dalle mura di lei per diffondersi in mille torrenti su tutta intera l’Europa.
Il medio evo alcuni chiamarono età di barbarie, altri di romanzo: di barbarie, perchè sulle rovine della civiltà antica avevano posto loro sede ignoranza, superstizione, fanatismo, violenza brutale che non conosceva ritegno di legge: di romanzo, perchè una forza energica ispirava negli uomini di quel tempo il genio ad imprese ardite [18] e avventurose, e gli agitava una tendenza mistica al soprannaturale, trasportandoli dai campi della realità nel regno incantevole della fantasia. Nel medio evo troviamo lotta di elementi disparati e contrarî che l’antichità non aveva conosciuto. Sotto l’impero despotico di Roma il mondo stava intorpidito nelle sue forze vitali: sopravvenne il turbine delle migrazioni dei popoli che nel suo rivolgimento ruppegli il sonno profondo, e infranto quel grande ordinamento che aveva nome d’Impero romano, una esaltazione febbrile s’impadronì dello spirito umano. Il Cristianesimo, il più potente dei rivolgimenti morali, colle sue grandi dottrine e col principio della libertà, infondeva un’anima novella nel mondo; ond’è che il medio evo è quel periodo in cui si ammirano gli sforzi ardenti per porre in atto l’idea della religione cristiana. Animata da sentimento profondo di religione, fu quella l’età in cui ebbe signoria assoluta la Chiesa: e laddove tutte le altre istituzioni umane vacillavano e perivano, essa sola rimaneva inconcussa ed educava le nazioni colla legge religiosa; e promuovendo la fede, suscitando la speranza, giovandosi della coscienza timorata, lentamente e spesso anche a fatica elevava lo spirito di quegli uomini. La Chiesa aveva suo seggio in Roma. Nel tempo in cui il Cristianesimo si diffondeva nell’Impero romano, gravi discordie facevano temere che andasse scisso in parecchie sette e in chiese nemiche. Le passioni dell’umana natura, la superbia, il desiderio d’impero, la vanità, movevano guerra al principio fondamentale dell’eguaglianza democratica dei fedeli e dei sacerdoti. Se nei tempi in cui la Chiesa era oppressa dalle persecuzioni, i Vescovi di Gerusalemme, di Antiochia, di Cartagine, di Alessandria, [19] di Milano e di Roma, alzavano il capo timidamente, vinta finalmente la pugna dal Cristianesimo, egli fu duopo che uno di essi ottenesse la dittatura della Republica cristiana. E quest’uno non poteva essere che il Vescovo romano. La Chiesa di Roma, la ricca e la potente fra tutte, era stata fondata dall’apostolo Pietro, che aveva ricevuto sua missione sacra direttamente da Cristo; onde essa sosteneva che i suoi Vescovi, quali succeditori di Pietro vicario di Cristo, avevano soli diritto ad essere i capi apostolici di tutta la Chiesa. E le sue pretensioni trovavano fondamento nell’avere suo seggio in quell’antica metropoli del mondo che le acquistava il rispetto e l’obbedienza dei popoli; nell’essere erede del genio, della disciplina, delle virtù, dell’indole conquistatrice dei Romani antichi, dei quali se era caduto l’Impero, ne rimaneva il congegno, grande ancora benchè inanimato. Le province conservavano ancora i solchi profondi lungo i quali Roma aveva spinto il suo carro trionfatore, ond’è che la Città della Chiesa diffuse di bel nuovo la sua signoria nel mondo per quegli stessi solchi che Roma pagana aveva già impressi.
La trasformazione della Città profana nella Città santa, del Monarcato imperiale nel Papato, dello Stato romano nella Chiesa romana, è il fenomeno forse più meraviglioso che si riscontri nella storia. Dopo la caduta dell’Impero, mentre ancora durava la tradizione del suo organamento universale, quel sistema che era stato puramente politico si tramutò lentamente in ordinamento ecclesiastico di cui era centro il Pontefice. L’antico Senato circondava questo monarca spirituale elettivo sotto forma di consiglio di Cardinali e di Vescovi; il [20] principio di governo costituzionale, che i Cesari non avevano adottato, era introdotto nei concilî e nei sinodi; e le province inviavano loro rappresentanti al Laterano di Roma, ove risiedeva l’universale Senato. I governatori di quelle province ecclesiastiche erano i Vescovi consecrati da Roma, che li teneva sotto la sua sorveglianza: i chiostri fondati in ogni parte rassomigliavano alle antiche colonie romane, ed erano altrettante piazze forti e stazioni della dominazione spirituale di Roma e della civiltà; e dopochè i Barbari pagani od eretici di Britannia, di Germania, delle Gallie e delle Spagne furono soggiogati dalle armi incruente di Roma e ne furono inciviliti, la Città eterna imperava di bel nuovo alla parte più bella del mondo e le indiceva leggi morali. In qualunque guisa si voglia pur considerare il sistema di accentramento che per la seconda volta diffondevasi da Roma, esso trovava il suo fondamento nella debolezza e nei bisogni degli uomini di quella età: per la qual cosa il primato cattolico di Roma può dirsi quasi essere stato una necessità di quei secoli rozzi e sferrati da ogni legge, ed aver conservato l’unità del Cristianesimo. Perocchè, se la Chiesa assoluta non fosse stata, se stato non fosse il senso di soggezione dei Vescovi verso di Roma, per il quale, con energia degna di Scipione e di Mario, reprimevano nelle province ogni tendenza a discostarsi dagli insegnamenti ortodossi, il Cristianesimo si sarebbe facilmente scisso in cento religioni create dalla fantasia dei popoli secondo i loro antichi miti nazionali. Tuttavia la storia di Roma e del mondo doveva due fiate ripetersi, ed era finalmente ai Germani che toccava d’infrangere per la seconda volta il giogo assoluto di Roma [21] novella, e di conquistare con un ardito rivolgimento la libertà del pensiero e della coscienza.
La reverenza figliale dei popoli del medio evo per la città di Roma non aveva confini. In Roma, come nella grande arca dell’alleanza della civiltà cristiana, vedevano riunirsi le leggi, gli ammaestramenti, i simboli del Cristianesimo; nella Città dei Martiri e dei Principi degli Apostoli veneravano il tesoro donde emanavano tutte le grazie soprannaturali. Ivi era la novella Delfo, la Gerusalemme novella, il terreno sacro da cui Dio reggeva l’umanità; ivi il centro della Chiesa universale; ivi sedeva il grande Sacerdote del novello patto che rappresentava Cristo sulla terra. Ogni opera spirituale e mondana innanzi a quell’altare riceveva consecrazione divina, ogni malvagità riceveva innanzi a quel tribunale sentenza. Le fonti del potere che rimetteva le colpe, della gerarchia ecclesiastica, della maestà imperiale e di ogni potestà suprema, le fonti tutte, a dir breve, della civiltà, sembravano scaturire dai colli sacri di Roma, simili ai quattro fiumi del Paradiso che si riversavano ai quattro lati della terra a recarvi fecondità. Da questa mistica Città era partita la luce che aveva illuminate tutte le nazioni; i vescovati, i conventi, le missioni, le scuole, le biblioteche erano tante colonie fondate da Roma. Monaci e sacerdoti, come altra volta consoli e pretori, erano stati spediti nelle province che avevano convertite alla soggezione di Roma. Di Roma trasportavansi al di là dei mari e dei monti quelle reliquie sacre che avevano onore di sepoltura sotto gli altari nelle più remote contrade di Britannia e di Germania. La lingua usata nei riti e nelle scuole tra i Barbari era quella che Roma [22] parlava: la letteratura sacra e la profana, la musica, le matematiche, la grammatica, l’architettura e la pittura avevano in Roma loro seggio e di qui diffondevansi. E quegli uomini che traevano loro vita oscura là nei più remoti confini dell’occidente e del settentrione, e che avevano appena contezza delle città vicine al luogo ove avevano stanza, tutti pur sapevano di Roma; e quando loro feriva l’orecchio quel nome «Roma», tremendo comeo il fragore del tuono, e che da secoli innumerevoli riempieva il mondo di sua grandezza, prendevali un senso di venerazione tremebonda come dinanzi ad un mistero ineffabile; e Roma alla loro fantasia scossa vivamente si pingeva come un Eden splendido di bellezze, nel quale si aprivano o si chiudevano le porte dorate del cielo. Nel medio evo furono lunghi secoli nei quali Roma era legislatrice, maestra, madre dei popoli, e questi, figli suoi, accoglieva ad unità con triplice abbracciamento: perocchè in essa aveva sede l’autorità spirituale col Papato, la temporale coll’Impero, di cui i re di Germania cingevano la corona in san Pietro, in essa finalmente era la fonte della civiltà universale, retaggio che i Romani antichi avevano lasciato al mondo.
E basti questo a dimostrare l’altezza a cui durante il medio evo era pervenuta Roma qual centro di civiltà, in cui si accoglieva la forza che dominava la società cristiana tutta quanta. Ma di rincontro a questa azione benefica ci avverrà pur troppo di dover parlare dei mali che uscirono più tardi di Roma, delle intemperanze del potere papale, della inquisizione e dei roghi, delle superstizioni e della tirannia nelle credenze. Tuttavolta chi sappia cogliere il concetto storico in tutta la sua ampiezza, [23] tempera nella sua mente anche le brutture dei tempi più oscuri, pensando che le peccata dell’antica tiranna dei popoli meritano qualche venia, allorchè si guardi alla potenza dell’idea religiosa diffusa ed al grande concetto dell’unità armonica del mondo, concepimento che Roma mandò ad effetto liberando l’Europa dalle tenebre della barbarie e salvandola dall’abbrutimento.
Mio intendimento si fu di porgere un’idea delle condizioni di Roma durante l’antichità e il medio evo. Il leggitore potrà chiedere però, innanzi che io lo introduca a considerare la storia della Città nei tempi di mezzo, che io abbozzi l’imagine di Roma imperiale, qual era ai tempi che precedettero la sua caduta sotto la dominazione dei Visigoti. Tale ricerca potrebbe appena ottenere compiuta soluzione da chi fosse vissuto in quel tempo; poichè una dipintura imperfetta deve dare chi non ha altre fonti di scienza che libri e ruine, e a guida mal sicura la propria fantasia. La grandezza di Roma si eleva sopra il concepimento di ogni imaginativa feconda, ed io mi proverò di dare la descrizione di alcune sue parti, indugiando su quelle più importanti; imperocchè l’occhio abbarbagliato di quella ricchezza indescrivibile, non possa cogliere che i punti culminanti, simili alle cime elevate di una pittoresca regione montana che si distende innanzi allo sguardo.
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Durante i tempi republicani, ornavano Roma pochi monumenti di stile semplice e maestoso, sacri alla religione ed alla patria, chè suo massimo decoro erano le grandi virtù cittadine. Ma, spenta la libertà, mentre rovinava all’interno, cominciava Roma ad ornarsi splendidamente all’esterno. Quando Augusto si rese signore della Città, era questa un ammasso informe di case strettamente addossate le une alle altre e di vie edificate sopra alcuni colli e nelle valli formate da questi. Augusto partilla in quattordici Regioni, ed in unione con Agrippa la ornò di tali edificî da poter ben dire, aver trovata una città di argilla e lasciarne una di marmo. Durante i primi tre secoli della dominazione imperiale, Roma crebbe gigante e si riempì di templi, di portici, di terme, di palazzi, di delizie di ogni genere, in cui era tanta profusione di statue da sembrare che in sè accogliesse un’altra popolazione di marmo. Ai tempi di Onorio, Roma raggiunse l’estensione stessa che ha oggidì, racchiusa tra mura quasi eguali alle odierne. La attraversava il Tevere con duplice curva dolcissima, in modo che sul lato sinistro e dalla parte del Lazio stavano tredici Regioni della città, e sulla sponda tusca a diritta si stendeva la decimaquarta Regione che comprendeva il Vaticano, il Gianicolo ed il Transtevere. Dai lati di settentrione, di mezzogiorno e di oriente la città si alzava sopra otto colli, che presentavano una splendida scena allo sguardo dell’osservatore con loro templi di marmo, con loro castella, con palazzi, con giardini, con ville. Il poggio dei giardini, il Quirinale, il Viminale, l’Esquilino, il Celio si alzavano da una vasta radice che insieme li congiungeva alla base, e scendevano fino al centro della [25] città formando alcune vallate: gli altri tre colli, l’Aventino, il Palatino, il Campidoglio, abitati già fino dalla antichità, si ergevano isolati. Lungo il corso del Tevere si stendeva una bassa pianura assai vasta, ch’era attraversata dalla Via Flaminia e dall’altra Via Lata edificata in successione alla prima, ambedue adorne di archi trionfali. Molti magnifici edificî avevano innalzato gli Imperatori in quella pianura che al popolo non giovava, perchè il campo di Marte, che ivi era situato, in quel tempo serviva più a sollazzo che a dimora; laddove ai tempi posteriori, sotto il Papato, abbandonati alcuni degli antichi quartieri collocati sui colli, in esso addensossi la popolazione.
La Città si era formata diffondendosi tutta all’intorno di un centro, che al tempo della Republica era il Foro, ed il Campidoglio che sopra di quello sorgeva. Se intorno al Foro ed al Campidoglio si conduca una linea irregolare che, comprendendo il monte Palatino, vada radendo il Celio, l’Esquilino e il Quirinale, si vede formarsi un territorio non troppo esteso sulla sponda sinistra del Tevere. Era quello, così ai tempi della Republica come a quei dell’Impero, il vero cuore di Roma, perchè quelle colline da varie direzioni convengono tutte verso il Foro. Quivi era l’antica residenza del popolo libero, la sede della vita politica republicana: sopra di esso il Campidoglio, rocca sacra ove avevano posto dimora gli Dei, ove si conservavano le leggi e le spoglie trionfali di Roma. E lì vicini erano i luoghi destinati ai publici sollazzi dei Romani, perchè il Circo massimo, ove tenevansi giuochi solenni, era situato sotto il monte Palatino, cosicchè erano uniti in vicinanza il Foro del [26] popolo, il Campidoglio di Giove, l’Ippodromo, i tre grandi indici della vita della Città durante i tempi republicani.
Gl’Imperatori che trassero Roma in ischiavitù, aggiunsero a quelli un quarto monumento, il loro proprio palazzo, il castello palatino. Benchè Augusto ed i suoi succeditori accuratamente conservassero ed abbellissero gli antichi monumenti sacri del Campidoglio, vi fondarono tuttavolta pochi edificî novelli, ma lo ornarono di statue, e alla base di esso dalla parte del Foro, eressero statue e colonne ed archi di trionfo. Circondarono il Foro del popolo di bei monumenti, e se allora, sotto la monarchia dei Cesari, aveva propriamente perduto la sua importanza politica, di esso restarono le gloriose rimembranze, e fu sempre la gran piazza publica a lato della quale gl’Imperatori ne edificarono altre magnifiche a monumento di loro superba signoria. Così furono costruiti i Fori imperiali di Cesare, di Augusto, di Nerva e di Domiziano e quello bellissimo di Trajano. Coll’architettura sublime di questo Foro la città imperiale raggiunse l’apogeo di suo splendore artistico, perocchè Roma non avesse ancora veduto sorgere nulla di più perfetto, ed è ancora dubbio se quell’opera meravigliosa sia stata superata dalla stessa basilica di san Pietro che in Roma sorse più tardi. Trajano, sotto del quale principalmente la potenza imperiale giunse al più alto grado, condusse a compimento anche il Circo massimo, e prima di lui, Vespasiano e Tito avevano innalzato l’anfiteatro gigantesco, palestra di ludi cruenti, il celebre Colosseo, che sorge ancora monumento dei trastulli dei despoti e del popolo schiavo. Chi, partendo dal Colosseo, avesse percorsa la Via Sacra, [27] e, passato l’Arco di Tito, varcati il Palatino e il Foro del popolo, attraversati il Campidoglio e la serie delle piazze imperiali, fosse pervenuto al Foro di Trajano, avrebbe veduto i monumenti giganteschi di Roma imperiale succedersi dappresso in modo che l’occhio sarebbe stato stanco e confuso all’aspetto di tante meraviglie. E dopochè Adriano ebbe innalzato nelle vicinanze della Via Sacra il tempio maggiore della Città, sacro a Venere e a Roma, non rimase nel centro di Roma antica un solo palmo di terra ove si potesse edificare; ella era come una spessa selva di belli e sontuosi templi, di basiliche, di portici, di archi trionfali, di monumenti; e al di sopra di quel mondo di meraviglie qui si alzava lo smisurato anfiteatro Flaviano, ivi il torreggiante castello imperiale, più discosto il Campidoglio dallo sfavillante tetto dorato, ed a grande distanza sul Quirinale, secondo Campidoglio, il bel tempio di Quirino.
Al di là di questo recinto, che formava il nucleo della Città, si stendeva Roma imperiale da ogni lato, verso nord-est e a mezzogiorno sui poggi, a nord-ovest lungo la pianura formata dalla valle del Tevere e nelle regioni del Vaticano e del Transtevere dall’altra sponda del fiume. Le colline su cui, come sull’Aventino, nei tempi della Republica eransi innalzati di begli edificî, offrivano ampio spazio al genio edificatore che si era diffuso dopo il tempo di Augusto. Sull’Esquilino, sul Viminale, sul Quirinale furono condotte di belle vie fiancheggiate da palazzi; e giardini magnifici, e piazze pei mercati e terme si andarono costruendo fino ai tempi di Costantino, e qua e là acquedotti dagli alti ed arditi archi rendevano lieta la città delle acque che si [28] diffondevano con corso maestoso. Più in là, nella valle che dal Campidoglio si stendeva lungo il fiume, si elevavano monumenti sì spessi, che l’occhio non poteva numerarli, nè la parola descriverli, fra i quali il teatro di Marcello, il circo Flaminio, lo splendido teatro di Pompeo cogli edificî annessi, che formavano un vero mondo di delizie, il Panteon di Agrippa colle sue terme, i monumenti degli Antonini colla colonna di Marco Aurelio (bel riscontro di quella di Trajano), il grande stadio di Domiziano e finalmente, torreggiante a somiglianza di monte ed ombreggiato da belle piante, il mausoleo di Augusto dove dormivano le ceneri degli Imperatori. Ad esso faceva riscontro dall’opposto lato del Tevere l’altra mole, ove avevano pur sepoltura i Cesari defunti, il sepolcro meraviglioso di Adriano, che respiceva sui giardini vaticani dai quali si passava alla regione del Transtevere men bella di tutte, situata sotto l’antica cittadella del Gianicolo.
Simili a splendida cintura, magnifiche muraglie degne della maestosa città erano state edificate dall’imperatore Aureliano ad abbracciare quell’ammasso di monumenti di marmo e di metallo, sui quali era scolpita la storia del mondo. Quel vasto mare di edificî della Città crescente di grandezza si era spinto al di là della linea segnata dalle antiche fortificazioni di Servio, laonde Aureliano al dilatarsi della città prefisse un confine con quelle mura, che furono in pari tempo baluardo contro i Barbari che andavano sempre più avvicinandosi. Soltanto una parte della regione Transteverina e della Vaticana non aveva Aureliano compresa entro le mura, le quali circondavano tutto il resto della città da ogni [29] lato con numerose torri rotonde o quadrangolari, forti arnesi di guerra che le davano aspetto imponente, e, come il poeta Claudiano si esprime, ne rendevano veneranda la fronte. Quelle tristi muraglie di colore oscuro, che nel corso dei secoli videro tante tempeste frangersi contro, in parte crollate e poi riedificate, ma che si mantennero sempre nella medesima linea del vallo, riempiono anche oggidì chi le contempla di stupore e di ammirazione; quasi che formassero una cornice di pietra su cui si leggono nomi di Consoli, d’Imperatori, di Papi, e si mirano imprese cavalleresche del medio evo e mille ricordanze che vi inscrissero i secoli. Gl’imperatori Arcadio ed Onorio, per munirsi contro gli assalti dei Goti, restaurarono nell’anno 402 le mura di Aureliano, come ne porge notizia l’antica iscrizione che leggesi sopra la porta di san Lorenzo. Se si badi al computo fatto da un geometra sette anni più tardi, il circuito di Roma sarebbe stato di ventun miglia romane[5].
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Per sedici porte uscivasi di Roma alla campagna[6]. Ventotto grandi vie militari (oltre alle piccole strade intermedie) selciate di mattoni poligonali di basalto, da Roma conducevano alle province, e, simili a rete lanciata dal centro dell’Impero, partivano dal milliarium aureum, ossia dalla pietra migliare dorata che Augusto aveva innalzata ai piedi del Campidoglio. Esse attraversavano la Campagna di Roma, fiancheggiate da monumenti sepolcrali, che in forma quale di tempietto, quale di torre circolare o di piramide o di elevato sarcofago o di urna, si elevavano innumerevoli, quasi a narrare i fasti della morte che Roma lungo quelle strade aveva portata al mondo. La Campagna, vasto territorio di genere sublime, or pianura verdeggiante ed ora deserto arso dal sole, circondava la città. La tristezza di quel sepolcreto era ivi interrotta da templi e da cappelle e confortata dalla vista delle ville di Imperatori e di Senatori. La solcavano quattordici acquedotti, monumento mirabile dell’arte, di cui ci scuote la grandezza onde ci sono saggio i ruderi oggi esistenti. Trasportavano essi le acque verso la città in linea retta per il corso di lunghe miglia, simili alle schiere distese delle legioni trionfanti ch’entravano in patria. Per loro arcate gigantesche [31] versavano entro le mura di Roma con cataratte di dolce declivio le acque accolte da ogni parte, e spandendole alle innumerevoli fontane erette da Agrippa e dagli Imperatori, splendide di bronzi e di marmi, dissetavano il popolo colle terse loro onde, e dopo di aver provveduto alle delizie dei giardini, delle ville, dei laghi, dei giuochi sulle acque, si diffondevano alle terme senza numero, fonti di sanità e di voluttuosi piaceri[7].
Così Roma al principio del secolo quarto era pervenuta all’apogeo dello splendore esterno. Ma allorquando ebbe raggiunto quel limite di maturanza al di là del quale comincia uno stadio di sosta che precorre la vecchiaja, essa rimase per un periodo di due secoli nelle condizioni di una decadenza lenta e quasi insensibile in causa della sua stessa grandezza. E a decadere incominciò sotto Costantino, e, se si voglia determinare con esattezza, fu al tempo in cui quell’imperatore edificò Bisanzio, novella Roma, ch’egli rese splendida e popolata, mentre l’antica [32] Città rapiva di molti capolavori dell’arte e rendeva deserta di molte famiglie patrizie. Il Cristianesimo, allora onorato quale religione dello Stato, recò alla canuta Città l’ultimo colpo, e come la storia dei monumenti di Roma si chiude coll’erezione del grande arco trionfale di Costantino, così s’inizia la storia delle sue rovine coll’incominciamento del san Pietro, che si eresse coi materiali tratti dal distrutto circo di Caligola e probabilmente anche colle rovine di altri edifizî. Tuttavia era ancora sì splendida questa Roma deserta dagl’Imperatori, in cui il Cristianesimo cominciava qua e colà una opera di disfacimento, che ai tempi dell’imperatore Graziano, in sul torno dell’anno 384, il retore Temistio sclamava: «Immensa è Roma, Città celebre e illustre, mare di bellezze, che parola non vale ad esprimere»[8]. E Ammiano Marcellino, Claudiano, Rutilio ed Olimpiodoro celebrano con fervidissima ammirazione gli splendidi e numerosi suoi monumenti.
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La storia di Roma nel medio evo prende le mosse dai tempi imperiali: laonde è forza che il leggitore conosca quali fossero i monumenti principali della Città in quei tempi, quale il loro pregio, in quali quartieri fossero situati. Lo scompartimento della Città in quattordici Regioni fatto da Augusto, era rimasto sempre invariato, colle istesse vie per ogni quartiere dette Vici, cogli stessi magistrati del quartiere, colle medesime coorti di guardia. Ed i nomi delle Regioni erano questi: I. Porta Capena, II. Coelimontium, III. Isis et Serapis, IV. Templum Pacis, V. Esquiliae, VI. Alta Semita, VII. Via Lata, VIII. Forum Romanum Magnum, IX. Circus Flaminius, X. Palatium, XI. Circus Maximus, XII. Piscina Publica, XIII. Aventinus, XIV. Transtiberim. Queste denominazioni, se non furono date alle Regioni nello scompartimento ufficiale, furono consecrate dall’usanza popolare e ne è conservata ricordanza in due Descrizioni topografiche della città compilate al tempo di Costantino ed a quello posteriore di Onorio o di Teodosio il giovane, Descrizioni conosciute sotto il nome di Curiosum Urbis e di Notitia. Sono una specie di catalogo ove con narrazione regolare si descrivono i monumenti compresi in ciascuna delle quattordici Regioni. In sulla fine v’è aggiunta l’enumerazione delle biblioteche, degli obelischi, dei ponti, dei colli, degli orti, dei fori, delle basiliche, delle terme, degli acquedotti, delle vie di Roma, e da ultimo una breve statistica. Le notizie che se ne ricavano, benchè sieno talvolta oscure e dubbie, hanno tuttavia valore inestimabile, perchè sono uniche fonti autentiche a cui possiamo attingere per formarci un’idea delle condizioni di Roma al secolo [34] quarto ed al quinto. E dietro la loro guida condurremo il leggitore ad avere contezza dei luoghi e dei monumenti che furono teatro agli avvenimenti succeduti durante l’età di mezzo[9].
La prima Regione di Roma, detta Porta Capena, si spingeva al di là dell’antica porta aperta nel vallo di Servio fino alle mura Aureliane, oppure ancor più in là oltre la porta Appia, oggidì detta di san Sebastiano. Attraversata dalla Via Appia e dalla Via Latina, si stendeva verso la città fino alle falde del monte Celio. Comprendeva la celebre valle della ninfa Egeria col suo bosco sacro, un santuario eretto ad onore delle Muse ed il tempio famoso di Marte in prossimità del quale scorreva il rivo dell’Almo celebrato nelle due Descrizioni che ci sono guida, e da cui era conservata viva la ricordanza del culto della dea Cibele. Non molto lungi, sulla Via Appia ed entro la cerchia delle mura, s’elevavano tre archi trionfali ad onoranza di Druso, di Vero e di Trajano: e di essi, uno che si reputa esser l’arco di Druso sta ritto anche al dì d’oggi, di fronte alla porta odierna, benchè l’invidia del tempo gli abbia recato guasto non lieve. La popolazione in questo quartiere deve essere [35] stata assai densa, perchè esso formava un sobborgo che metteva capo al circo di Massenzio ed al sepolcro di Cecilia Metella. Questi due monumenti ai tempi di Onorio erano ancora in perfetta condizione: il circo era il più recente ed ultimo edificio di quel genere che privata persona avesse eretto in Roma e probabilmente non era allora più in uso: il sepolcro già antico e coperto di musco era tuttavia rivestito perfettamente del suo intonaco esterno di marmi e adorno di suoi fregi, chè ancora erano lontani i tempi barbarici nei quali doveva essere tramutato in fortezza. In questo quartiere avevano sepoltura le salme dei Pagani e dei Cristiani di Roma, perocchè al di sotto delle tombe della via Appia fosse e sia ancora l’ingresso al cimitero di san Calisto, dove con lunghi e stretti corridoi e con celle che scendevano a tre ed a cinque ripiani sotto terra, i Cristiani da lunghi anni andavano costruendo una necropoli, fino al tempo in cui l’Editto di Costantino poneva in onoranza alla luce del giorno la figura della Chiesa, che involta nel secreto era cresciuta nelle cripte dei Martiri. E già nel secolo sesto un luogo della via Appia i Romani denominavano: ad Catacumbas[10]. Oltre ad altri [36] edificî di niuna importanza esistenti in quella Regione, la Notitia parla anche delle terme di Severo e di Commodo e del misterioso Mutatorium Caesaris, di cui non ci curiamo come di quello che non ha importanza nella storia del medio evo[11].
Coelimontium era la seconda Regione. Nel suo territorio non molto esteso comprendeva il monte Celio, da cui si estendeva dietro il Colosseo. La Notitia ci narra che qui erano situati il tempio di Claudio, il Macellum Magnum ossia la grande piazza del mercato, la stazione della quinta coorte della guardia, i Castra peregrina ossia l’accampamento ove in tempo posteriore ebbero stanza le legioni straniere, il Caput Africae ch’era una via di cui occorre menzione soventi volte nella storia di Roma dei tempi di mezzo[12], ed [37] edificî eretti presso l’anfiteatro di Vespasiano nei quali avevano loro dimora i gladiatori.
Di quell’edificio mirabile che non era ancora chiamato Coliseo, come ebbe nome nel secolo ottavo, fanno menzione le due Descrizioni antiche allorchè parlano della terza Regione, Isis et Serapis. Cento sessant’anni prima che Onorio ivi desse i suoi giuochi, Filippo, a render solenne il millesimo anniversario della fondazione di Roma, aveva celebrate feste secolari splendidissime in quell’anfiteatro, che poco tempo innanzi Alessandro Severo aveva restaurato dal danneggiamento che in parecchi luoghi vi aveva recato una folgore scoppiata nell’anno 217. Ai tempi di Onorio questo edificio magnifico era in condizione perfetta, con tutte le arcate che sostenevano i suoi quattro ripiani, con tutti i suoi pilastri; nè una mancava di tutte le sue statue, nè uno dei suoi seggi che, stando alle notizie tramandateci nelle descrizioni più volte citate, ascendevano a ben 87,000. La Regione in cui era situato l’anfiteatro conservava ancora il nome originale Isis et Serapis che le era derivato da santuarî eretti ad onore delle due divinità d’Egitto e dei quali più non si conserva vestigio. E in simil modo niuna traccia è rimasta della Moneta, onde aveva nome la Zecca imperiale situata in questo quartiere, niuna traccia del Ludus magnus e del Ludus Dacicus ch’erano bellissimi ginnasî di gladiatori; nè pietra rimaneva dell’accampamento dei marinai del Miseno (Castra Misenatium) e del portico di Livia. Il luogo ov’erano situate le terme di Tito e di Trajano, che le Descrizioni qui pongono, conosciamo dai ruderi che ne rimangono. Egli è incerto però se quegli splendidi [38] bagni di cui Tito aveva gettate le fondamenta là dove sorgeva l’aurea casa di Nerone e che erano stati poi compiuti da Trajano, fossero ancora ai tempi di Onorio il convegno degli uomini eleganti di Roma, posto che le terme di Diocleziano, di Costantino e di Caracalla avessero innumerevoli visitatori. Tuttavia in quel tempo il Romano poteva ancora deliziarsi in quella sontuosa casa di piaceri, poteva mirare il gruppo del Laocoonte nel luogo ove in origine era stato innalzato, e ricreare l’animo colla vista degli splendidi dipinti, che coi vaghi concepimenti dell’arte mitigavano la tetra severità di quei corridoi e di quelle sale dalle vôlte elevate[13].
L’anfiteatro segnava il confine tra la terza e la quarta Regione. S’alzava quest’ultima di fronte al Foro romano e si stendeva fino ai Fori imperiali ed oltre alla Via Subura fino alle Carine. Aveva avuto il suo nome prima dalla Via Sacra, indi dal tempio della Pace. Nelle due Descrizioni non troviamo però più alcun cenno di questo illustre monumento eretto da Vespasiano, perocchè già nell’anno 240 il folgore l’avesse ridotto a un cumulo di macerie. Prossima all’anfiteatro s’alzava allora la fontana di Domiziano, la Meta sudans, i cui ruderi elevantisi in figura conica eccitano tristezza in chi li mira. In quel tempo esisteva ancora il celebre colosso di Zenodoro, che eretto prima ad onoranza di Nerone, [39] era poi stato da Adriano trasportato sotto il gran tempio da lui innalzato al duplice culto di Roma e di Venere. Questo tempio, monumento sublime eretto da Adriano, colle smisurate colonne d’ordine corinzio e col suo tetto dorato, era ancora la più splendida creazione dell’arte in Roma. La quarta Regione era illustre fra tutte per la bellezza degli edifizî che s’alzavano entro i suoi confini presso l’arco di Tito e lungo la Via Sacra, tra i quali s’ergeva, bellissimo fra tutti, la Basilica nova, che, edificata da Massenzio, era stata inaugurata nei tempi di Costantino, e le cui grandiose ruine furono in Roma per lungo tratto di tempo reputate erroneamente ruderi del tempio della Pace. Nelle Descrizioni è fatto cenno del tempio di Giove Statore, del tempio di Faustina, della basilica di Paolo, del Foro Transitorium, del quale ammiransi ancora i magnifici ruderi d’un portico dedicato a Minerva[14]. Vi è fatta menzione del tempio della Terra, della celebre Via Subura, e parlano del Tigillum Sororium, monumento che esisteva nel Vicus Cyprius a ricordanza di Orazio e della sorella da lui uccisa, e che i Romani conservavano con cura gelosa, come già diligente opera davano alla [40] conservazione della sacra casa di Romolo sul Palatino e della favolosa nave di Enea sulla sponda aventina del fiume.
Nella descrizione della quinta Regione la Notitia ci tragge sul monte Esquilino e su una parte del Viminale. Ci parla dal Lacus Orphaei, ch’era un serbatojo di acque adorno della statua di quell’antico; ci descrive il Macellum Liviani o Livianum, grande piazza del mercato delle grasce edificata da Augusto, ed i portici sotto i quali erano i venditori del mercato; ci descrive il Nymphaeum di Alessandro, bel monumento eretto da Alessandro Severo a ornamento d’una grande fontana[15]. Sappiamo che più lungi erano l’accampamento della seconda coorte della guardia, i giardini di Pallante, famoso liberto di Claudio, il tempio eretto da Silla ad onore di Ercole, l’Amphitheatrum Castrense, il Campus Viminalis, il tempio di Minerva Medica ed il santuario di Iside Patricia. E quest’ultimo dev’essere stato situato nella via più bella del quartiere, nel Vicus Patricius, dove fra le altre terme erano quei bagni di Novato, di cui è ricordanza nella storia dei primi secoli di Roma cristiana. Al tempo della decadenza della Città, in tutto il territorio dell’Esquilino, del Viminale ed in una parte [41] del Quirinale avevano dimora le classi più povere del popolo, alle quali davano sovvenzioni negli ultimi secoli gl’Imperatori colle imposizioni onde gravavano le terme. Le descrizioni non collocano in questa Regione, come fanno il falso Vittore e Rufo, le terme di Olimpia poste sul Viminale al di là della Subura e neppur ne fanno menzione. I Martirologî narrano che in questo quartiere morisse santo Lorenzo e la tradizione ricorda che qui si innalzasse la chiesa antica di san Lorenzo in Panisperna.
Le rimanenti terme di Roma erano situate nella sesta Regione, Alta Semita. Riceveva il nome da una via, la quale credesi che dal Quirinale si volgesse alla porta Nomentana. Ivi sul Quirinale le due Descrizioni che ci sono guida collocano il tempio antico e bello della Salute ed il tempio di Flora, che s’ergeva in vicinanza del Capitolium antiquum. Era questo l’antico Campidoglio di Roma posto sul vertice del colle ed opera di Numa, col celebre tempio ove in triplice cella erano collocate le statue di Giove, di Giunone e di Minerva. Ed uno dei più mirabili fatti di cui ci conservi ricordanza la Notitia è che questo modello antichissimo del Campidoglio, che in tempi posteriori sorse sul Tarpeo, ergevasi ancora in piedi nel secolo quinto. E sappiamo dall’istessa fonte che esisteva pure il tempio di Quirino, uno dei più celebri e belli monumenti sacri della Città, il quale ad opera di Augusto era stato con magnificenza restaurato. Non havvi dubbio che esistesse ancora il bel portico di Quirino sostenuto da colonne che Marziale celebra in un epigramma, e sembra che ancora durasse in piedi non lungi dal tempio quella statua di [42] piombo di cui era stato autore quell’antico Mamuro Veturio che aveva gettato in metallo lo scudo ancilio. Ed infatti le Descrizioni la dicono situata fra il tempio di Quirino e le terme di Costantino. Questo gigantesco edifizio destinato al bagno fu l’ultimo che vedesse sorgere Roma pagana, fu l’ultimo grande monumento costruito nello stile artistico dell’antichità, e con esso si chiuse la lunga serie delle opere imperiali destinate ad utilità del popolo. Al tempo di Onorio, e molto dopo ancora, s’ergevano dinanzi a quelle terme i due celebri colossi dei domatori di cavalli. Quell’edificio però deve essere stato in cattiva condizione, forse a causa di un incendio o di qualche altro danneggiamento che lo scrollò nell’anno 367, quando il popolo si sollevò contro il prefetto Lampadio il cui palazzo sorgeva nelle vicinanze, e nel 443 ad opera di Perpenna dev’essere stato racconcio.
Ancor più grandiose e magnifiche erano le terme che Diocleziano aveva edificate in questa Regione sul Viminale. Erano le più estese di Roma, ed esse e le terme di Caracalla erano il ridotto più gradito a cui accorreva tutta la Città. Testimonî vivi di loro grandezza rimangono anche al dì d’oggi ruderi giganteschi. Al tempo d’Onorio erano ancora nel loro splendore primiero, ed i Cristiani di Roma dovevano mirare ad esse con orrore e con disdegno pio, perocchè Diocleziano a fabbricarle avesse usato dell’opera di parecchie migliaja di schiavi cristiani. Ma la bellezza dei marmi e dei dipinti, e le sale suntuose, e le stanze adorne di splendidi musaici, e la raffinatezza d’ogni voluttà le rendevano grato convegno degli uomini eleganti. Se si creda ad [43] Olimpiodoro, nelle stanze di quei bagni contenevansi duemillequattrocento vasche[16].
Non meno celebri erano gli orti di Sallustio che dal Quirinale si stendevano nelle vicinanze di monte Pincio ed in direzione della porta Salara. Erano soggiorno favorito degl’imperatori Nerva ed Aureliano, splendide dimore in cui si riunivano le delizie dei giardini, dei bagni, dei templi, del circo, dei bei viali fiancheggiati da alte colonne. Ne fa menzione la Notitia senza dire però che queste case sallustiane fossero già cadute in rovina. Imperocchè fossero i primi edificî di Roma che cinque anni dopo il trionfo di Onorio rovinassero. Sembra che presso questi giardini fosse situato il Malum Punicum e la così detta Gens Flavia. Era il primo un quartiere il cui nome «Melogranato» dev’essere derivato [44] da qualche monumento colà esistente o da qualche albero che in quello spazio avesse fiorito. Ivi Domiziano aveva trasformato le sue case in un tempio destinato ad accogliere dopo morte la sua salma ed a sepolcro della gente Flavia.
Gli orti di Sallustio erano situati all’estremo confine della sesta Regione, di fronte a monte Pincio, verso porta Pinciana: l’ultimo confine di quella Regione nella direzione della porta Salara e della porta Nomentana tenevano i Castra Praetoria. Non fa cenno il Curiosum di questo accampamento dei Pretoriani sulle rive del Tevere, ma ne parla abbastanza chiaramente la Notitia, quantunque Costantino lo avesse distrutto e Aureliano prima vi avesse condotto sue mura.
Per passare alla settima Regione, dai tre colli volti a nord-est si discendeva nella bassa pianura situata sotto il monte Quirinale ed il Capitolino, verso il campo di Marte. La denominazione Via Lata aveva ricevuta dalla via che corrisponde precisamente alla parte inferiore del Corso odierno. La Notitia conserva ricordanza di un arco di trionfo ivi eretto detto Arcus Novus, ma senza darne illustrazione: sembra che fosse eretto là dove la Via Lata si congiungeva alla strada Flaminia. Il più splendido edificio di questa Regione era il celebre tempio da Aureliano innalzato ad onore del Sole sul pendio del monte Quirinale, edificio gigantesco di magnificenza orientale, che nel secolo quinto doveva reggersi ancora in piedi ma che nel secolo sesto già rovinava[17]. Al di sotto di quello era situato [45] probabilmente il campo di Agrippa, piazza magnifica ornata di bei portici e ridente di giardini che servivano ai sollazzi del popolo. Il grande numero di portici come i Gypsiani ed i Constantini, l’ampio Forum Suarium ove tenevasi il mercato dei majali, e i vasti giardini (Horti Largiani) dimostrano che questo quartiere della Città situato in quel basso territorio dev’essere stato un centro animatissimo di vita popolare, collocato com’era tra il campo di Marte e quella Regione che comprendeva il Foro romano, le piazze imperiali ed il Campidoglio.
Nella Regione più illustre, nella ottava, che aveva nome di Forum Romanum Magnum e che poteva dirsi il centro in cui doveva svolgersi la storia di Roma, specchiavasi la grandezza dell’Impero del mondo: perchè ivi monumenti sublimi d’ogni genere e innumerevoli, ivi splendide ricordanze che la vista dei templi, delle colonne commemorative, degli archi di trionfo, dei rostri, [46] delle basiliche rendeva più vivaci. Egli è prezzo dell’opera indugiarvici sopra alcun tempo, tanto grande era ancora lo splendore di quelle opere magnifiche, delle quali non era spenta la maestà se anche interrotta l’operosità d’un tempo, riunione di monumenti giganteschi che i secoli posteriori non vedranno più e che ad imaginare è impotente la fantasia più vivida e calda.
Cominciando dal Campidoglio, dei cui edifizî la Notitia non dà particolare descrizione, tutti comprendendo nel concetto generale di Capitolium, ciò che a prima vista ne colpisce lo sguardo è il tempio di Giove Capitolino. Da quel tempio riceveva il Campidoglio nome di aureo, e probabilmente ne deriva la dizione di Aurea urbs onde Roma durante il medio evo era appellata. Perocchè il tetto fosse ricoperto di lamine di bronzo dorato, e le colonne avessero dorate le basi ed i capitelli, e riccamente dorati fossero bassi rilievi e statue. E le porte erano di bronzo dorato, e lamine d’oro ne coprivano i battenti. Ricchezza sì grande di prezioso metallo doveva eccitare l’avidità dei conquistatori: eppure nè i Goti, nè i Vandali toccarono a quei sontuosi ornamenti del tempio; chè uno Storico pagano ci narra: primo Stilicone aver messe le ingorde mani sulle lamine ond’erano ricche le porte. Che il tempio, quantunque spogliato, si conservasse in perfetta condizione ancora ai tempi di Onorio, sembra potersi ricavare da Claudiano; e Procopio in termini positivi cel dice[18]. Quale fosse in quel tempo [47] l’aspetto del Campidoglio, in quale stato fossero i suoi templi antichi, il suo Asylum, il suo Tabularium di cui ammiriamo ancora gli avanzi, se ancora avesse l’ornamento di un numero infinito di statue, non vogliamo indagare. Mesto alla vista e crollante sarà stato quel delubro antico ed illustre dopochè la Religione cristiana ebbe posto in bando quel culto che ne rendeva venerate le sacre mura.
Se discendiamo il Clivus Capitolinus e lungo la via dei Trionfatori procediamo verso il Foro (siamo al tempo di Onorio), troviamo sotto il Tabularium parecchi templi che allora s’ergevano in tutto lo splendore primiero e di cui oggidì vediamo cumuli di rovine: sono il tempio della Concordia situato dietro l’arco di Severo, il tempio di Saturno, e quello di Vespasiano e di Tito. Di tutti conserva ricordanza quell’antico catalogo e fa menzione dell’aureo Genio del popolo romano ossia del tempio a quello eretto, e parla della statua equestre di Costantino che deve essersi conservata lungo tempo ancora presso l’arco di Severo e che non può certo andare [48] confusa con quella celebre di Marco Aurelio[19]. In vicinanza altre statue s’ergevano, ed una era stata innalzata ad onore del grande Stilicone. Ricorda la Descrizione il Milliarium aureum ossia la pietra migliare dorata che Augusto aveva eretta presso l’arco di Severo, e la distingue con precisione dall’Umbilicus Romae. I rostri erano situati in tre luoghi: gl’imperiali in vicinanza dell’arco di Severo, i rostri giulî di fronte al tempio del Divus Julius, i rostri del popolo dirimpetto al tempio di Castore. Le Descrizioni citate non parlano dell’arco di Severo nè di quello di Tiberio, eppure al quinto secolo dovevano elevarsi di fronte al tempio di Saturno. Ed ambidue ornavano la fronte del Foro ove il Campidoglio scende in pendio.
L’enumerazione dei rimanenti edificî che fa la Notitia nel descrivere il Foro, non è completa; vi si ricordano soltanto i più illustri. Prima d’ogni altro parla del Senato, e sembra che ne descriva il novello palazzo [49] eretto da Domiziano là dove sorge oggidì la chiesa di santa Martina e quindi situato poco lungi del luogo ov’era l’arco di Severo, nel lato del Foro che per lungo tempo fu il più cospicuo per bellezza di monumenti. In quel tempo conservavasi forse ancora la Curia Julia più antica, situata sul declivio del Palatino. Non ne fa cenno la Notitia; ma siccome essa parla di una Curia vetus posta nella decima Regione, Palatina, così può cogliere nel vero chi sostenga che desse quel nome alla Curia di Giulio Cesare, per distinguerla dalla novella Curia ossia dal Senato. Un’iscrizione trovata nella chiesa di san Martino parla di un Secretarium del Senato edificato nell’anno 399, che ad opera di un prefetto fu nel 407 racconcio[20]. Sembra dunque che non più nella Curia antica, ma in questo novello palazzo si congregasse il Senato ai tempi di Onorio, per iscansare forse litigi coi senatori cristiani.
Nell’istesso quartiere era anche il tempio illustre di Giano Gemino. Non ne è fatto cenno dalla Notitia, ma Procopio ne parla diffusamente, ed a noi toccherà spesso di tenere discorso di questo tempio che il popolo nel [50] medio evo reputava fatato. La Notitia ricorda che da questo lato del Foro s’ergeva la Basilica Argentaria situata presso il Clivus Argentarius (detto oggi Salita di Marforio); non fa cenno però nella descrizione di questa Regione, della basilica di Emilio Paolo, di cui parla ove discorre della Regione quarta, limitrofa alla ottava. Il sontuoso monumento della famiglia Emilia, adorno di belle colonne di marmo di Frigia, era situato presso al luogo dove sorge oggidì la chiesa di santo Adriano, e ad esso faceva riscontro dall’altro lato del Foro la basilica Giulia, di cui gli scavi praticati hanno fatto conoscere la posizione precisa. La Descrizione ci fa sapere che alla parte del Foro volta a mezzogiorno era il Vicus Jugarius, lo stadio greco, la basilica Giulia, il tempio di Castore, e finalmente il santuario di Vesta. Per la qual cosa vediamo che ai tempi ancora di Onorio, il Foro splendeva in tutta la sua pompa; e nel terreno che stava intorno all’arco di Severo, era movimento di vita politica, miserando avanzo dell’antica vita operosa.
Di qui si passava alle piazze imperiali. Secondo la narrazione della Notitia erano quattro, tutte limitrofe, il foro di Cesare e quelli di Augusto, di Nerva e di Trajano. Al tempo in cui furono compilate le due Descrizioni, duravano ancora in tutta la pompa di loro bellezza antica; il primo col tempio di Venere e colla statua equestre di Cesare; il secondo col grande tempio di Marte Ultore, di cui oggi stanno ancora ritte in piedi tre magnifiche colonne corinzie maestre dell’arte antica; il terzo col tempio di Pallade; il quarto finalmente doveva accrescere per lungo tempo splendore alla Città colla colonna celebre di Trajano, monumento sacro di Roma, [51] che, dal barbarico medio evo rispettato, pugnando cogli anni dura meraviglia del mondo. Ed in quel tempo l’osservatore era commosso ad ammirazione alla vista delle due Biblioteche, della statua equestre del grande Imperatore e del suo arco trionfale che probabilmente colà ergevasi ancora in piedi: imperocchè, siccome ad onoranza di Trajano erano stati innalzati in Roma parecchi archi di trionfo, sia opinione tra gli Archeologi quasi universale, che quell’arco sorgesse nel suo Foro e che poi si rubasse delle sculture e dei fregi per ornarne l’arco di Costantino. Quanta fosse la meraviglia a cui era commosso l’animo di colui che contemplasse questo Foro stupendo, cel dice Ammiano Marcellino in un bel passo in cui è celebrata la splendida magnificenza della grande Città. Quarantotto anni innanzi che Onorio facesse il suo ingresso in Roma, vi veniva l’imperatore Costanzo accompagnato dal principe persiano Ormisda. «Visitava egli», dice Ammiano, «i quartieri tutti della Città posti sul vertice e sul pendio dei sette colli e nelle vallate sottoposte; e via via che la percorreva, credeva che le bellezze vedute da altre non potessero essere superate: ammirava il tempio di Giove tarpeo, splendido come opera divina l’umana antecede; vedeva le terme vaste come borgate, la mole dell’anfiteatro, che costruita dei massi di marmo di Tivoli s’ergeva eccelsa sì che occhio umano poteva a fatica osservarne le cime; e mirava attonito il Panteon colle sue vôlte sublimi simile a rotonda sfera celeste, e le altissime colonne a cui si ascendeva per dolcissime scalee adorne delle statue degli antichi Imperatori; e lo empievano di stupore il tempio della Città e il foro della [52] Pace e il teatro di Pompeo e lo stadio e i monumenti tutti onde l’eterna Roma va illustre e superba. Or com’egli fu venuto al foro di Trajano, a quel miracolo d’arte, che male non ci apponiamo se diciamo unico in suo genere sotto il sole, e cui non potrebbero mancare gli Dei stessi di tributare ammirazione, restò simile ad uno scosso dal folgore, quasi trasognato fissando lo sguardo su quei monumenti titanici che lingua non può descrivere, nè artefice mortale può presumere di eguagliare. E cadutogli l’animo di provarsi in qualche opera simile, disse: Il solo cavallo di Trajano, che portava la statua di questo Principe collocata nel mezzo dell’atrio, volere e poter imitare. Ma il principe Ormisda che stavagli accanto, acutamente gli diceva: Concedi però, o Imperatore, che a simil cavallo simile scuderia devi prima preparare, se tu il possa; il destriero che tu ti proponi di costruire non può che in uno spazio splendido sì come è questo essere collocato. E chiesto quel Principe che pensasse di Roma, rispose: Esser lieto di ciò solo, che aveva saputo, anche a Roma gli uomini essere mortali[21]. E dopochè l’Imperatore ebbe tutto veduto con meraviglia profonda, accusò la Fama di impotente o di maligna, perocchè essa, che sempre e tutto esagera, fosse tuttavia insufficiente a narrare lo splendore di Roma. E consigliato a lungo seco stesso che far dovesse, deliberò voler aggiungere alle bellezze di Roma [53] altre di genere simile, ed innalzò nel Circo massimo un obelisco di cui a luogo opportuno parlerò.» Nel foro di Trajano erano erette statue ai grandi filosofi, ai poeti ed agli oratori dell’antichità, ed altre in seguito furono aggiunte. Così una fu innalzata a Claudiano più tardi, sotto il reggimento di Avito, ed una fu collocata ad onore del poeta Sidonio Apollinare. E ai tempi ancora del poeta Venanzio Fortunato, sul principio del secolo settimo, nelle sale della biblioteca Trajana leggevansi i poemi di Virgilio, e recitavansi i versi ampollosi o aspramente sonanti dei poeti viventi in quella età[22].
La dipintura che Ammiano Marcellino dà di Roma ai tempi di Costanzo, possiamo confortare della testimonianza di uno scrittore contemporaneo. Ai tempi di quell’Imperatore, uno Scolastico, di cui non ci pervenne il nome, compilava un’opera in cui proponevasi di dare la descrizione del mondo e delle province del romano Impero e singolarmente d’Italia, sotto il cui nome egli voleva significare propriamente l’Italia centrale. Dopo di averne celebrate le città e di aver lodati i vigneti del Piceno, del Sabino, di Tivoli, del paese tosco, soggiungeva: [54] «Oltrecciò quel paese possiede, bene massimo, Roma splendida di edificî divini. Perocchè tutti gl’Imperatori ivi innalzassero opere superbe che ne eternassero la ricordanza. E chi può numerare i monumenti di Antonino? Chi può descrivere le bellezze delle opere di Trajano? Ivi si trova il circo, edificio superbo, illustre per le statue di bronzo che ne sono decoro sontuoso[23].»
Il Circus Flaminius, nona Regione, era situato là dove è oggi la parte più popolata della Città. È quella vasta e bassa pianura che dal Campidoglio si stende fino alla odierna piazza del Popolo dirimpetto al ponte di Adriano. Comprendeva dunque quel celebre campo di Marte, il quale, al tempo di Augusto, era splendido e bello da strappare a Strabone una descrizione animatissima in cui esprimeva l’ammirazione più viva. Ma un incendio scoppiato ai tempi di Nerone, e le innovazioni operate da quegl’Imperatori che gli succedettero e che fecero a gara nell’erigere monumenti, mutarono l’aspetto di questa estesissima Regione. Splendidissimi edifizî di ogni maniera sorsero d’ogni dove ricoprendola intieramente [55] in modo da poter essere chiamata novella Roma imperiale e brillante di tanto splendore, che allo stesso Strabone sarebbe venuta meno la potenza di divisarne le bellezze a parole. La Notitia, senza accennare al circo Flaminio che negli ultimi tempi del Medio evo stava ancora nella massima parte in piedi, parla delle scuderie, che erano vicine, per i cavalli del circo. Ommettendo di discorrere dell’anfiteatro di Statilio Tauro, parla subito dopo di tre teatri, di quello cioè di Balbo che comprendeva 11510 stalli per gli spettatori, di quello di Marcello la cui negra e gigantesca mole tuttora oggi lascia in parte riconoscere l’antico splendore e che aveva 17580 seggi, del teatro di Pompeo che ne capiva ben 22888. La Notitia tace dello Ecatostilo, ossia portico di Pompeo, e ci abbandona alle forze della fantasia nel pensare ai bei viali di platani e alle piazze che rendevano incantevole quel luogo. Degli altri portici che sappiamo essere ivi esistiti, fa cenno soltanto di quello di Filippo avo di Augusto; nè parla dell’altro prossimo di Ottavia, che Augusto aveva formato allargando quello antico di Metello e che, al tempo in cui fu compilata la Descrizione, doveva conservarsi perfetto. I suoi ruderi grandiosi vediamo ancora nelle vicinanze del Ghetto odierno.
Non lungi di lì era il portico a due navate di Minucio, Minucias duas, come lo intitola la Notitia, ossia Minucia vetus e frumentaria; e sotto quest’ultimo portico facevansi negli ultimi tempi dell’Impero le distribuzioni di grano agli operai bisognosi e scioperati. Trovavasi lì presso la cripta di Balbo, ch’era probabilmente un portico coperto che conduceva al teatro di lui. Se a tutti [56] questi portici si aggiunga l’altro sostenuto da colonne ed eretto da Gneo Ottavio, che dal circo Flaminio conduceva il passeggiero al teatro di Pompeo, si può avere una idea della moltitudine di edificî mirabili che coprivano quel territorio, il quale viene a corrispondere presso a poco allo spazio che dal palazzo Mattei si stende oggidì al palazzo Farnese. Più in là, in direzione del fiume, Teodosio, Graziano e Valentiniano, ventitre anni circa prima che Onorio entrasse in Roma, avevano edificati di bei portici (porticus maximae), ed un arco trionfale dirimpetto al ponte di Adriano, che si conservò fino alla più tarda età del medio evo e la cui iscrizione copiata dal pellegrino di Einsiedeln fu a noi tramandata.
A dritta dell’arco, era il portico di Europa di cui tace la Notitia; come tace di quello di Ottavio, laddove fa menzione del portico degli Argonauti e di quello di Meleagro, i quali, mettendo capo alla basilica di Nettuno, devono essere stati situati nei dintorni della Septa Julia. E questo recinto, ove i Comizi centuriati anticamente radunavansi, e la Villa Publica adiacente, in cui gli ambasciatori dei popoli stranieri ricevevansi, la Notitia oltrepassa in assoluto silenzio.
Se di qui ci volgiamo nella direzione ov’è oggidì piazza Navona, veniamo in luogo ov’era situato il campo Marzio, in quella parte più ristretta della bassa pianura ch’è esterna al campo Flaminio ed al Tiberino. L’antico campo Marzio, dall’altare di Marte eretto al di là del Mausoleo di Augusto, si stendeva forse fino al ponte Milvio, in maniera che la parte maggiore del sobborgo rimaneva fuori delle mura erette da Aureliano. Perocchè la porta Flaminia che si apriva vicino [57] al punto ov’è l’odierna porta del Popolo, desse sulla parte centrale del campo Marzio, e la muraglia della Città guernita di torri, stendendosi lungo il corso del fiume, si spingesse fino al ponte del Gianicolo (S. Sisto). Nel terreno del campo di Marte, compreso tra le mura dall’un lato, e la Via Lata e la Via Flaminia dall’altro, si ergevano gli edificî di cui la Notitia fa cenno, benchè nella sua descrizione non si spinga fino alle vicinanze del Mausoleo di Augusto.
Qui era il grande stadio di Domiziano capace di 33088 seggi, edificio mirabile sul cui terreno è costruita la bella piazza Navona. Più in là, il Trigarium, circo di dimensioni minori, e l’Odeum destinato alle prove musicali, che va rinomato tra le opere celebri di Costanzio e che quindi dev’essere stato mirabilmente bello. Sul Panteon di Agrippa non occorre fermarci di troppo, perchè questo monumento splendidissimo, eretto dal grande benefattore di Roma, è ancora una delle gemme dell’arte onde la grande Città va altera, conservatosi perfetto anche dopo che caddero in rovine i bagni ai quali in origine era congiunto, insieme a quelli di Nerone situati a piccola distanza da esso, e che da Alessandro Severo furono ampliati. Degli uni e degli altri, che esistevano ancora, fa cenno quella Descrizione antica.
Dall’altro lato del Panteon era il tempio di Minerva, sul cui terreno si alza oggidì la chiesa di S. Maria sopra Minerva. Poco distante era un tempio dedicato ad Iside e a Serapide. In direzione della Via Lata altri edificî avevano eretto gli Antonini, ad imitazione di quelli fatti costruire da Trajano e da Adriano; perocchè ivi fossero la basilica di Marciana e quella di Matidia, un tempio [58] innalzato ad onoranza di Adriano, una colonna alla memoria di Antonino, ed ivi il Senato avesse edificato un tempio a Marco Aurelio, e a ricordanza di quel Principe avesse elevata la grande colonna che, insieme a quella di Trajano, doveva sopravvivere alla caduta di Roma. Di due illustri monumenti che avevano avuto origine sotto l’impero di Augusto, il secondo dei quali esisteva certo nel secolo quinto e lungo tempo dipoi, tace la Notitia: vogliamo dire del gnomone od orologio solare, il cui obelisco vedesi oggi sul monte Citorio, e del bel mausoleo che quell’Imperatore aveva eretto a sè ed alla sua famiglia. E la Notitia ommette di descrivere la parte esterna del campo Marzio verso le mura di Aureliano, ove molti cittadini ragguardevoli e parecchie famiglie illustri avevano sepoltura. Ivi erano la tomba di Agrippa, collocata presso a poco ov’è l’odierna piazza del Popolo, e i sepolcri della famiglia Domiziana eretti su quel terreno in cui era stata più in antico deposta la salma di Nerone, e situato al di sotto dei giardini Domiziani e Luculliani che stavano sul monte Pincio. Ed ancora ai tempi di Belisario, il palazzo dei Pinci su quel colle ridente di bei giardini si ergeva, abitazione sontuosa.
La decima Regione comprendeva il monte Palatino, che, dai palazzi degl’Imperatori ivi esistenti, ebbe nome di Palatium. Queste splendide case dei Cesari che coprono oggidì il colle di rovine colossali, quali sparse in tortuoso labirinto, quali in tristi cumuli ammonticchiate, ai tempi di Onorio ed a quelli posteriori degli Esarchi erano abitate, quantunque in più parti cadute e dell’antica magnificenza di ornamenti deserte. Molti Imperatori da Augusto ad Alessandro Severo avevano dato opera [59] ad edificarvi: Augusto e Tiberio ne avevano gettate le fondamenta, ed avevano edificate le parti principali del palazzo alle quali la Notitia dà nome di Domus Augustiana e di Tiberiana. Settimio Severo vi aveva aggiunto il Septizonium, grande e bel portico che si volge in direzione del monte Celio e del Circo massimo, che durò in piedi lunghi anni, e di cui vedevansi le rovine ai tempi ancora di Sisto V e di cui ci accadrà di parlare soventi volte nella storia della Città durante l’età media. La Notitia lo ricorda sotto il nome di Septizonium Divi Severi. Di altri edificî illustri del Palatium è fatto cenno in quella Descrizione: del tempio di Giove Vincitore, del tempio di Apollo eretto da Augusto, in vicinanza del quale era la biblioteca Palatina. E nel tempo stesso in cui narra che ancora conservavansi avanzi della casa di Romolo e del mitico Lupercale, ci fa conoscere che i Romani guardavano con gelosa cura ogni cosa che richiamasse la sacra ricordanza delle origini di loro Città.
Il Circo massimo situato ai piedi del monte Palatino e sotto l’Aventino, con tutto il territorio vicino che da questo colle si stendeva al Velabrum ed al Janus Quadrifrons, formava la undecima Regione che ne riceveva il nome. Era il circo maggiore di Roma, capace, se si stia alla Notitia, di 385000 persone. Costanzo avealo adorno di un obelisco, emulando Augusto, che pel primo uno ne aveva ivi eretto. Era l’arena frequentatissima ove facevansi le corse dei cavalli ed i grandi giuochi, e che durò nel suo splendore perfetto fino al tempo in cui cadde la dominazione dei Goti. Nelle sue vicinanze erano gli antichi santuarî del Sole e della Luna, della Magna [60] Mater, di Cerere e del Diespater: la Porta Trigemina conduceva su pel Clivo Publicio all’Aventino. Il territorio di questa Regione si stendeva al di sotto del Palatino fino al Velabrum ed al Foro boario[24].
Le due Regioni che seguivano, ed erano le estreme della Città al di qua del Tevere, formano oggidì la parte più deserta e più squallida di Roma; si spopolarono durante il medio evo, prima di ogni altro quartiere della Città antica. La duodecima Regione aveva nome di Piscina publica da publici bagni ivi esistenti, di cui oggi non è conservata alcuna traccia. Erano le terme di Antonino od i bagni di Caracalla, ove al secolo quinto ancora accorrevano frequenti visitatori allettati allo splendore di quel ritrovo; solo monumento dell’arte antica onde fosse illustre quel quartiere. I ruderi che ne coprono il terreno, tra i quali furono rinvenuti tanti capolavori di scultura, come la Flora di Napoli, l’Ercole Farnese, il toro Farnese, e che dir si possono miniera sotto cui stanno sepolti tanti tesori artistici, muovono ad ammirazione chi li contempli, e, più che altre rovine di simil genere, ci sono maestri della pompa orientale, della magnificenza, della estensione gigantesca degli edificî che sorgono monumenti della possanza imperiale.
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La decimaterza Regione comprendeva il monte Aventino e la valle bagnata dal fiume. Eravi ancora il tempio antico di Diana che in tempi remoti Servio aveva innalzato a santuario della confederazione latina, il tempio di Minerva; e, quantunque la Descrizione non ne faccia menzione, doveva esister ancora il tempio di Giunone Regina e della dea Bona. Più lungi stavano i bagni di Sura e di Decio. Vicino alle sponde del fiume era l’Emporium ove i navigli del Tevere scaricavano loro mercanzie, e lì presso, ove sono oggi i Marmorata, stavano gli Horrea, ossia granai, ed altri edificî destinati al commercio ed al movimento del porto[25].
Or non ci rimane che a dire brevemente della decimaquarta ed ultima Regione di Roma. Chiamata Transtiberim, abbracciava tutto il territorio posto al di là del fiume, il Gianicolo, che Aureliano aveva compreso entro le mura, e il colle Vaticano, che soltanto nel secolo nono fu cinto di mura, coi campi vicini. A questa parte di Roma situata di là del Tevere mettevano i ponti che qui sotto enumeriamo.
1) Il Pons Sublicius, l’antichissimo di Roma edificato in legno. Egli è incerto quando sia perito; nè è probabile che sia da considerarsi per l’antico Sublicio il ponte che cadde distrutto al tempo di Sisto IV, nell’anno 1484, [62] ed i cui avanzi oggidì ancora sorgono fuor d’acqua in vicinanza di S. Michele.
2) Il Pons Aemilius, oggi conosciuto sotto il nome di ponte Rotto, che gli fu dato dopo l’anno 1598. Era detto anche Pons Lepidi dal nome forse di M. Emilio Lepido che probabilmente lo avrà restituito a buono stato. Il popolo lo chiamava Lapideus ed anche Palatinus. Nel secolo decimoterzo era detto ponte di S. Maria ed anche Pons Senatorius.
3 e 4) Il Pons Fabricius ed il Pons Cestius, che esistono ancora, mettono ad un’isola sul Tevere. Il primo, oggi da un’erma quadrifronte chiamato de’ quattro capi, conduce alla Città; il secondo, che dal nome di uno dei suoi riedificatori Valentiniano, Valente e Graziano fu detto anche Pons Gratiani ed oggi ha nome di S. Bartolomeo, congiunge l’isola col Trastevere.
5) Il Pons Janiculensis, che restaurato sotto Sisto IV nell’anno 1475 ne fu chiamato ponte Sisto, nella Notitia è detto Aurelius e negli Atti dei Martiri ha nome di Antoninus, probabilmente perchè fu anticamente edificato da Caracalla o da M. Aurelio Antonino. Nel medio evo, fino al tempo di Sisto IV, fu chiamato ponte Rotto.
6) Vi seguiva tosto il Pons Vaticanus. Lo edificava Caligola per averne una via pronta ai suoi giardini Domiziani. Questo ponte, detto anche Pons Neronianus e Triumphalis, cadeva già prima dell’anno 403, perocchè la Notitia lo oltrepassi in silenzio assoluto. Ne vediamo ancora i ruderi in vicinanza di Santo Spirito.
7) Il ponte Elio, opera magnifica di Adriano, suppliva al ponte Vaticano caduto in rovina. Già al secolo ottavo ebbe titolo di ponte di S. Pietro, perocchè i [63] viandanti che si dirigevano alla volta della Basilica vaticana, sopra di esso traghettassero il Tevere[26].
Gl’Imperatori avevano adorna la Regione trasteverina di belle opere d’arte. Ivi erano magnifici giardini, come, ad esempio, quelli di Agrippina, quelli di Nerone, sorti più tardi, ed i celebri parchi Domiziani, onde il territorio del Gianicolo e del Vaticano era reso incantevole soggiorno e preferito a qualunque altro dai Cesari, che ivi avevano ville. La Notitia dà un cenno degli Hortos Domities, ma troppo vago e indeterminato. Sotto nome di Vaticanum essa comprende il territorio tutto aderente, e sembra intendere sotto il nome di circo di Cajo (Gaianum), per quello celebre di Nerone, che, sorgendo nei giardini Neroniani, era reso illustre dall’obelisco di Caligola, il quale oggi si alza, splendido ornamento, nella piazza del san Pietro. Nel tempo di cui parliamo e durante tutto il medio evo, fu il solo degli obelischi di Roma che non crollasse ed ergevasi sulla spina del circo, entro il quale, fin dai tempi di Onorio, era edificata la basilica del Principe degli Apostoli. La Notitia fa menzione di recinti [64] destinati alle naumachie che erano in questa Regione: tace però della tomba di Adriano, che oggidì ancora esiste trasformata in castello, e ai tempi di Onorio sorger doveva nel suo splendore antico, perchè non ancora i Visigoti di Alarico, nè i Greci di Belisario vi avevano dato saccheggio, nè l’avevano per sempre rapita dell’ornamento delle sue statue.
La Notitia, come del Vaticano, dà la descrizione del Gianicolo. Non sappiamo però in quale condizione si trovasse l’antica rocca che coronava il vertice di quel monte. Più densa che nelle altre Regioni era la popolazione che aveva stanza nel Transtiberim sulle pendici del Gianicolo, e nel corso dei tempi si conservò. Fa cenno la Notitia di molini, di bagni, di vie, di orti, di templi ivi esistenti, e lì esser dovevano i giardini di Geta i quali, edificati probabilmente da Settimio Severo, si stendevano forse fino a porta Septimiana. Di questa porta o piuttosto del territorio adiacente la Notitia fa cenno speciale; e poichè essa in origine aprivasi in quelle fortificazioni di Aureliano che comprendevano il Gianicolo entro due lunghe braccia di mura che si spingevano alla riva del fiume, sembra che derivasse il suo nome da Settimio, il quale aveva eretti in vicinanza suoi edificî.
Egli è incerto se anche l’isola del Tevere fosse compresa nella decimaquarta Regione. La opinione concorde dei Topografi ve la pone a ragione, quantunque la Notitia non ne faccia cenno, come pur taccia del tempio di Esculapio, del tempio di Giove e di quello di Fauno. Sembra che ai tempi di Onorio la possente famiglia degli Anicî ivi avesse un palazzo. Durante l’età media [65] quell’isola avea nome di Licaonia; donde lo ricevesse non si sa[27].
Alcune tavole statistiche compilate nell’ultimo periodo dell’Impero, ci forniscono di notizie intorno al numero delle case, degli edificî publici e persino delle statue esistenti in Roma. Vi sono numerati 2 Campidogli, 2 grandi ippodromi (oltre ai minori), 2 grandi piazze pel mercato delle grasce (macella), 3 teatri, 2 anfiteatri, 4 splendidi ginnasî per gladiatori (Ludi), 5 naumachie per giuochi sulle acque, 15 ninfei ossia bei monumenti che ornavano i gettiti d’acqua, 856 bagni publici, 11 grandi terme, 1352 bacini delle acque e fontane. Di publici edificî di altro genere sono ricordati: 2 grandi colonne spirali, 36 archi trionfali, 6 obelischi, 423 templi, 28 biblioteche, 11 fori, 10 grandi basiliche, 423 quartieri della città, 1797 palazzi o Domus, e 46602 case o Insulae[28].
[67]
Le due Descrizioni antiche di Roma ci danno un’idea della figura della città in sul principio del secolo quinto, ma non ci parlano della condizione in cui allora si trovavano tutti quei monumenti sontuosi, che durante tanto tempo erano stati albergo al culto pagano. Erano allora i templi deserti, e, chiusene le porte, le loro divinità erano forse cacciate in bando nel silenzio dei loro altari? Oppure i Cristiani or che alla fine trionfavano dopo persecuzione sì lunga, dando sfogo all’odio, abbattuti i simulacri, i templi avevano forse demoliti? Oppure finalmente la Religione novella, guidata dalla prudenza, piegando a necessità di tempi, era forse entrata nei delubri pagani, e resili puri colle aspersioni dell’acqua consecrata e colle invocazioni della preghiera, gli aveva fatti suo albergo e vi aveva alzata la Croce?
[68]
Se si leggano alcuni brani degli scritti dei Padri della Chiesa, nei quali sembra ch’eglino abbiano ereditato l’odio antico degli Ebrei contro Roma, cui danno nome di Babilonia e di Sodoma; se si voglia prendere alla lettera tutto ciò ch’essi dicono quando parlano dei Pagani della Città, che da loro vien posta a paragone con Gerusalemme, e del numero delle monache e dei frati ch’erano in Roma, siamo indotti a credere che, già prima dell’invasione di Alarico, i templi e i simulacri degli Dei fossero stati atterrati. Dopo la invasione della Città scriveva santo Agostino, che tutti gli Dei di Roma erano stati rovesciati, e già da qualche tempo, dai loro troni. Egli tenne un sermone sull’Evangelio di san Luca, in cui ritorceva ai Pagani il rimprovero che questi scagliavano contro il Cristianesimo dicendo, non già l’oste barbarica ma il Cristo aver distrutta Roma, perchè gli Dei antichi e venerandi aveva cacciati e distrutti. «Non è vero», sclamava, «che subito dopo la caduta degli Dei, Roma sia stata presa e nel fondo della miseria cacciata; perocchè già prima fossero stati distrutti gl’idoli: eppure i Goti condotti da Radagaiso erano vinti. Ricordatevene, o fratelli, ricordatevene; non è gran tempo, son pochi anni. Erano in Roma rovesciati gl’idoli tutti, allorchè Radagaiso re dei Goti venne con un’oste più possente di quella che Alarico guidava; eppure, quantunque offerisse sacrificî al suo Giove, ei fu battuto e disfatto»[29].
[69]
Verso quel tempo san Girolamo esprimeva la gioia ond’era commosso l’animo suo volgendo un’apostrofe a Roma. «Città possente, città cui il mondo s’inchina come a signora, città cui la voce dell’apostolo lodò: il tuo nome traduce il Greco in sua favella per forza: te l’Ebreo chiama altezza in suo linguaggio. Se ti opprima la schiavitù, te deve elevare la virtù, non l’impurità contaminare. L’anatema che il Redentore ti minacciava nell’Apocalisse, puoi disarmare con penitenza, memore dell’esempio di Ninive. Guardati da Gioviniano il cui nome deriva da quello del nume bugiardo. Squallido è il Campidoglio, i templi di Giove e il suo rito caddero»[30]. In un altro scritto dell’anno 403 lo stesso Padre esclama: «Immerso nello squallore è l’aureo Campidoglio. Tutti i templi di Roma sono anneriti dalla fuligine, e la ragna tesse sue tele sotto le loro vôlte. Tutta la Città è in movimento, e il popolo passando frettoloso davanti i templi crollati a metà, si avvia ai [70] sepolcri dei Martiri. Colui che l’intelletto non induce alla fede, vi è spinto da una specie di vergogna». Poco dopo ei fa menzione con orgoglio di Gracco, cugino della pia Leta; alla quale scrive che quel suo parente, essendo prefetto della Città, aveva fatto atterrare la grotta di Mitra e aveva distrutti tutti gl’idoli sotto le cui forme adoravasi l’astro Corax, Nymphe, Miles, Leo, Perses, Elio, Dromo e Pater, per farsi poi battezzare sulle loro rovine. Ed esclama pieno di gioia: «Nella Città il Paganesimo è cacciato in solitudine e in silenzio: quelli che un tempo erano Dei delle nazioni, rimangono ora coi gufi e colle civette sulle deserte cornici degli edificî. Sui vessilli dei soldati splende la croce; e la porpora dei Re ed i gemmati diademi adorna il segno di quel tormento ond’ebbe salvezza il mondo»[31].
Per conoscere che tali dipinture del disfacimento di Roma contenevano molto di esagerato, basta leggere un solo squarcio di Claudiano. Ed è quello in cui il Poeta, nell’anno 403, dall’alto del palazzo imperiale mostra ad Onorio, entrato allora in Città, gli stessi templi e i simulacri degli Dei, suoi penati, che già al Poeta ancor fanciullo aveva fatti mirare per la prima volta Teodosio padre dell’Imperatore:
Attollens amicem subjectis regia rostris
Tot circum delubra videt tantisque Deorum
Cingitur excubiis. Juvat infra tecta Tonantis
Cernere Tarpeia pendentes rupe Gigantas,
Caelatasque fores, mediisque volantia signa,
[71]
Nubibus et densum stipantibus aethera templis,
Aeraque vestitis numerosa puppe columnis
Consita, subnixasque jugis immanibus aedes,
Naturam cumulante manu; spoliisque micantes
Innumeros arcus. Acies stupet igne metalli,
Et circumfuso trepidans obtunditur auro[32].
Ma la guerra che da lungo tempo il Cristianesimo moveva contro la figura pagana di Roma, vi aveva già indotti molti mutamenti. Durava oramai da ottanta anni dacchè Costantino aveva promulgato il suo Editto sulla religione cristiana; e molti templi nelle province orientali erano stati distrutti e parecchi in Roma stessa dalla furia del popolo erano stati devastati. E i Cristiani nel loro odio devono avere gettate in pezzi e mutilate centinaia di statue. Ma la completa distruzione dei monumenti dell’arte in Roma impedivano le leggi degli Imperatori, e la veneranda grandezza della città, ed il prestigio delle sue memorie, e la potenza considerevole di una aristocrazia pagana che ancora numerosa sedeva in senato. Alla conservazione dei loro monumenti attendevano i Romani con cura gelosa e con tale amore, che n’ebbero lode e ammirazione dallo Storico greco Procopio, che scriveva cento e cinquant’anni dopo lo impero di Onorio: «Quantunque la dominazione barbarica pesi sui Romani da lunghi anni, pure eglino hanno conservato gli edificî della Città e la massima parte dei monumenti che le sono ornamento, per quanto era loro [72] possibile; e malgrado dell’ingiuria del tempo e della incuria, quelle opere dell’arte resistono incolumi, tant’è la grandezza loro, e la solidità di costruzione»[33]. Nè in alcuna maniera potevano i Cristiani di Roma esser compresi della mania di devastazione che accoglievano stranieri quali erano santo Agostino e san Gerolamo: ed anzi, ad onore della loro carità per il loco natio, dobbiamo credere che in pochissimi fosse fervente l’abbominio contro il culto degl’idoli a modo tale da voler rapire Roma di quello splendore onde l’avevano adorna i loro grandi avi, e che tanto secolo che vi corse sopra, aveva reso venerando.
Era carico del prefetto della Città la conservazione degli edificî publici, delle statue, degli archi di trionfo, di tutti i monumenti in somma della Città. Collo stipendio a lui assegnato doveva provvedere alla riparazione degli edificî cadenti, ed ancora nell’anno 331 e nel 332 il Senato romano faceva restaurare il tempio della Concordia situato nel Campidoglio[34]. Nè l’imperatore Costantino, nè i figli di lui erano mossi da acerbità di odio contro le Divinità dell’antica religione; chè ragione politica più che altro motivo gli aveva spinti a rinnegarla: e dalla serie di Editti dei loro succeditori si pare, ch’essi prendessero cura di tutti gli edificî di Roma senza fare distinzioni, servissero quelli al culto pagano oppure a scopi civili o ad utilità del popolo. Era vietato da leggi ai prefetti e agli altri magistrati di costruire in Roma novelli edificî, per tema che rimettessero della [73] loro diligenza nella conservazione degli antichi. Era proibito di rapire i vecchi monumenti dei loro marmi, di danneggiarne le fondamenta e di togliere gl’intonachi esterni di pietra per giovarsi di quei materiali a nuove costruzioni[35]. Per quello poi che riguardava ai templi in particolare, non era mai stato pensiero, neppure remoto, degl’Imperatori di comandarne la distruzione in Roma; chè anzi, mentre davano opera a sradicare le antiche consuetudini, le quali nella vita popolare avevano messe radici profonde, si restringevano a comandare che si chiudessero i templi, e minacciavano severe pene a chi vi frequentasse ed a chi sacrificasse secondo il rito pagano. E ogni qualvolta i Cristiani dessero saccheggio ai templi o profanassero tombe di Pagani, che, situate fuor delle mura della Città e in luoghi remoti nella Campagna, prestavano facilità ai loro assalti, si promulgavano tosto Editti a vietare che simili avvenimenti si ripetessero. «Quantunque,» scriveva l’imperatore Costantino nell’anno 343, «quantunque ogni superstizione deva essere posta in bando, tuttavia vogliamo che i monumenti dell’antica religione situati fuor delle mura devano rimanere illesi, e che nessuno vi porti guasto. Imperocchè, da alcuno di quelli essendo derivate [74] le costumanze dei giuochi e degli spettacoli del circo, ella sia cosa non convenevole, che si distrugga quello da cui ebbero origine le solennità degli antichi sollazzi del popolo romano»[36].
Giuliano, l’eroe filosofo, baldo del fuoco energico della giovinezza, accesa la mente del desiderio d’imitare i grandi uomini dell’antichità, preso ad abborrimento il sacerdozio che con giogo pedantesco gli aveva tenuto nascoste le grandi verità del Cristianesimo, allettato da vaghezza di ripristinare quella civiltà greca che tramontava, tentò di restaurare il culto delle Divinità antiche. Egli previde che sarebbe venuta la caduta dell’Impero dalla religione cristiana, la quale in nome dell’individuo dichiarava guerra allo Stato e minacciava di distruggere l’antico ordinamento civile. Dagl’insegnamenti dei filosofi illustri di Atene e di Asia egli aveva succhiate le dottrine aristocratiche della sapienza antica in modo ancor più profondo che Marco Aurelio: ed egli cadde, ultimo degli eroi operosi del mondo romano, e a lui dobbiamo tributare un pensiero di simpatia e d’ammirazione, se pur l’opera sua non reputassimo degna di approvazione. La breve e isolata guerra ch’egli fece contro il grande rivolgimento spirituale dell’umanità è l’ultimo anelito della vita del mondo antico, che scese nella tomba con quel giovane eroe della Stoa. Vittima infelice, la quale nella sua figura presentava la grandezza dell’Antichità, che alla sua partita dava al mondo [75] l’estremo addio! E i suoi disegni di restaurazione caddero con lui come quelli ch’erano privi di fondamento nella condizione dei tempi; e l’idea civile del Cristianesimo, energica della sua giovinezza, trionfava più balda e più pronta. In tutto il mondo s’alzarono allora i Cristiani minacciando distruzione completa a tutti i templi ed a tutti i monumenti antichi che ancora stavano in piedi. A schiere numerose, quasi accorrenti ad una crociata, eglino s’affrettavano nelle province a recar guerra contro i monumenti; e nelle province e in Roma stessa insorgevano contro le costumanze dei giuochi già usati sin dall’antichità, mettendo a disperazione i Pagani. E i magistrati, ancor pagani in parte, ricorrevano allo strano espediente di porre soldati cristiani a guardia dei templi ai quali era minacciata rovina. Però Valentiniano proibiva questi eccessi ch’egli considerava abusi di religione, e promulgava un Editto dato da Milano nell’anno 365 e indiritto a Simmaco prefetto della Città: nè già nutriva sentimenti ostili contro il Paganesimo, ma buoni officî usava ai Vescovi cristiani: chè sì egli quanto Valente tenevano ancor fermi i principî romani antichi di tolleranza religiosa[37].
Graziano, figlio di Valentiniano, fu il primo imperatore [76] romano il quale sdegnasse di prendere il titolo e la dignità di pontefice massimo, che tutti senza interruzione i Cesari precedenti avevano assunto. Egli entrò decisamente in campo contro il Paganesimo. L’antica religione degli avi era stata prestamente abbandonata dalle classi infime e dal medio ceto del popolo romano: e facilmente dovevano abbracciare la novella dottrina, ch’era anche la religione dell’oppresso e dello sventurato. Ma l’aristocrazia romana stava attaccata con caparbietà al culto tradizionale dei suoi padri: chè l’orgoglio dell’ordine senatorio offendevasi all’idea di aver colla plebaglia comune Iddio; ed i principî democratici del Cristianesimo, e le idee di eguaglianza, di libertà, di amore, di fratellanza che toglievano le distanze tra padrone e servo, mal suonavano all’animo del patriziato educato nelle superbe sue istituzioni. L’aristocrazia vedeva, ed a ragione, nel Cristianesimo un rivolgimento sociale; prevedeva che ne verrebbe la caduta della nobiltà, anzi la ruina dell’antico organamento dello Stato di cui il Cristianesimo scrollava le leggi fondamentali. Quei Senatori romani in cui vivevano ancora le idee dell’antichità, in molti dei quali erano caldo amore di patria e indole nobilissima ed alta, nutriti agl’insegnamenti della filosofia stoica, ricchi, discesi di illustre progenie, si sforzavano pertanto di mantenere in onoranza il culto di quelle Divinità, colle quali, pensavano, l’antico genio politico romano doveva vivere e morire. Or nell’anno 382, avendo l’imperatore Graziano statuito che la statua illustre della Vittoria, ch’era nell’aula del Palazzo senatorio, fosse rimossa, ne venne che, intorno a quel simbolo religioso e politico della grandezza di Roma, si accendesse [77] quella memorabile lotta ch’è uno degli episodi di maggior momento nella tragedia del Paganesimo spirante. Era una statua di bronzo che rappresentava la Vittoria sotto figura di donzella alata, d’alta beltà e divina, che tenendo nella destra una corona di alloro, poggiava trionfatrice sul globo. Questo capolavoro dell’arte tarentina, Cesare aveva collocato sopra un altare nella sua Curia. Augusto aveva adorno quell’altare delle spoglie conquistate in Egitto, e dopo quel tempo il Senato non riunivasi mai senza che sacrificasse a quel palladio nazionale. La statua, tolta ai tempi di Costantino, era stata restituita da Giuliano. Allorchè Graziano diede comando che di nuovo si rimovesse, da dolore profondo furono colpiti i Senatori pagani, come se minacciasse sventura alla patria. Simmaco, prefetto e pontefice di Roma, uomo di nobili sentimenti e fervido ammiratore dell’antichità, capo del partito pagano di cui aveva sostenuto più volte la causa alla testa di ambasciate alla corte di Milano, ebbe il carico dal Senato d’implorare che venisse restituito il simulacro di quella patrona dell’Impero romano. L’orazione animosa che Simmaco tenne nella sua seconda legazione, avvenuta nell’anno 384, è l’ultima protesta formale del Paganesimo cadente: nella quale facendo che Roma deserta parli con sensi altissimi, la presenta sotto la triste figura d’una Cassandra. «Egli mi sembra,» diceva Simmaco in quel discorso agl’imperatori Graziano e Valentiniano II, «egli mi sembra che Roma vi stia innanzi e di tal guisa a voi favelli: Eccellentissimi principi, padri della patria, vi prenda rispetto della mia vecchiezza a cui sacra religione mi trasse. Deh mi sia concesso di seguire il culto degli avi, e voi non avrete cagioni di [78] cordoglio. Lasciate che io viva in mio tenore di vita, perchè libera sono. Questo culto fè cadere il mondo sotto il mio impero, questi riti hanno respinto Annibale dalle mura, e i Sennoni dal Campidoglio cacciarono. Sarò io tanto tempo vissuta, perchè nella mia età canuta deva essere raddrizzata su via novella? Vorrò pur vedere quali dottrine si pretenda di impormi, chè tardo e obbrobrioso è l’insegnamento dato alla vecchiaia»[38].
Ma il discorso del sacerdote di Giove, splendido ma manchevole di sodo fondamento, soggiacque alla ragione dell’idea vittoriosa ed all’eloquenza di santo Ambrogio vescovo di Milano. Un nuovo tentativo fatto più tardi dal partito retrivo di Roma presso l’imperatore Teodosio, cadde con simile risultamento. Il Senato aveva spedito sette ambascerie a quattro imperatori inutilmente, finchè, caduto Valentiniano sotto il pugnale del franco Arbogasto, i Pagani poterono festeggiare la restaurazione della Vittoria. Il retore Eugenio, che la mano di colui ch’era ministro e generale possente aveva innalzato al trono, cercava un appoggio fra i partigiani [79] del Paganesimo. L’antico culto potè aver nuovi onori nei templi, si rialzarono le statue abbattute di Giove, e l’altare della Vittoria fu restituito nella Curia. Ma breve regno aveva Eugenio, e già nell’anno 394 cadeva. Al pio ed ortodosso Teodosio, cui animava vendetta del cognato assassinato, sorrise fausta la Divinità vera sopra gli Dei bugiardi. Gli aristocratici e gli usurpatori godevano di loro vittoria, allorquando un eunuco venuto d’Egitto, terra di fanatismo, si fè nuncio a Teodosio di un oracolo di Giovanni di Licopoli, in cui l’anacoreta prediceva che dopo grande spargimento di sangue vincerebbe. Affidato a quell’esortazione entrò in campo e prestamente sconfisse Eugenio ed Arbogasto. Trionfatore entrò in Roma, ne cacciò i sacerdoti del culto antico e rapì i templi delle ultime offerte. E tant’oltre, narra Zosimo storico pagano, tant’oltre si spinse allora l’audacia, che Serena, moglie di Stilicone, entrata nel tempio di Rea, dal collo della potente Dea staccando il monile prezioso ond’era ornata, sè stessa ne cinse[39]. I simulacri ed i Pagani soffrivano in silenzio, nè alcun retore era più oso di far publica difesa del culto proscritto. Avrà lo zelante Teodosio lasciata nella Curia l’altare e la statua della Vittoria? Non siamo indotti a credere sì di leggieri ch’egli risparmiasse quel monumento antico della nazione, quantunque or fosse divenuto innocuo, e quantunque Claudiano nei suoi poemi parli della Vittoria come di una Divinità che rendeva onorato di sua presenza il trionfo di Stilicone e di Onorio: egli è dubbio però se il Poeta la scorgesse realmente cogli [80] occhi, o se la vedesse piuttosto trasportato sulle ali della fantasia[40].
Quello che havvi di certo si è, che al tempo di Teodosio, malgrado di tutti gli Editti, e quantunque serrati fossero i templi, Roma nella sua vita publica era pur sempre pagana. Verso l’anno 341, traevano a Roma alcuni monaci, discepoli dell’egiziano anacoreta Antonio; e, a piè scalzi, involto il capo nelle ruvide lane del cappuccio, passavano dinanzi ai templi superbi e splendidi di Roma per girsene a compiere il loro pellegrinaggio nella basilica di san Pietro di fresco fondata e per prostrarsi ad orare sulle tombe dei Martiri, nel tempo stesso in cui i Pagani celebravano ancora loro sacrificî proscritti e loro antiche festività. Nei crocicchi delle vie sorgevano ancora illese le cappelle dedicate ai Lari compitali; e Prudenzio, poeta cristiano, lamenta che non a un solo ma a parecchie migliaja di Genî Roma tributasse onoranza, e che le imagini e gli emblemi di quelli, sulle porte, sulle muraglie delle case e delle terme, e in ogni parte di Roma potessero vedersi. E santo Gerolamo volge amare parole contro l’astuzia dei Romani, perocchè questi, sotto pretesto di farlo per sicurezza delle loro case, accendessero torce e lanterne dinanzi le imagini delle Divinità tutelari della famiglia, affinchè in coloro ch’entravano e che uscivano della casa sempre [81] si rinnovasse la ricordanza della superstizione antica[41].
Per la qual cosa si pare, che neppure le leggi energiche di Teodosio avessero avuto possanza di distruggere il partito pagano di Roma guidato da Simmaco e da Pretestato nobile amico di lui; e che non fossero state potenti a bandire del tutto il culto delle antiche Divinità. Chè già gli Editti, i quali del continuo si succedevano con comando di chiudere i templi, di rimuovere altari e statue, dimostrano chiaro abbastanza che anche nelle province caparbiamente tenevansi aperti templi, e che in quelli tributavasi alle Divinità onore di culto. Onorio ed Arcadio, figli di Teodosio, continuarono a promulgare di tali Editti; e non fu che sul cominciamento del secolo quinto che la Religione pagana, simile ad un manto regale lacero e scolorato, cadde finalmente dagli omeri di Roma antica. Le rendite (annonae), che i templi, fino dalla più remota antichità, ricavavano da imposte, da tributi e da proprietà di varia maniera, affinchè provvedessero alle spese del culto ed alle festività publiche, furono tolte loro da una legge di Onorio dell’anno 408: e questo Editto memorando, che privava la Religione pagana dei mezzi di mantenersi in vita, ordinava che si abbattessero altari e simulacri; e, deliberando [82] che i templi stessi cadessero in proprietà dello Stato, li sottraeva di tal guisa, quali edificî publici, alla distruzione[42]. Diciasette anni più tardi un Editto degl’imperatori Teodosio e Valentiniano, dato da Costantinopoli, statuiva: «tutte le cappelle, ed i templi ed i santuarî, i quali rimanessero ancora illesi da rovina, dovere per comando sovrano distruggersi, e dover piantarvisi il segno della santa Religione cristiana affinchè fossero resi puri.» Che però quella espressione «distruzione» (destrui), non deva venir presa alla lettera, dimostra la parte susseguente dell’Editto, la quale prescrive che i templi pagani si trasformino in santuarî del Cristianesimo[43].
Or dunque ben poteva cantare Prudenzio:
Gaudete, quidquid gentium est,
Judaea, Roma et Graecia,
Aegypte, Thrax, Persa, Scytha,
Rex unus omnes possidet[44].
Il Paganesimo, quale religione publica, sparve; e gli ultimi adoratori di Giove antico e di Apollo alimentavano le fiamme delle are dei loro riti proscritti in adunate secrete che tenevansi in luoghi selvaggi e deserti [83] della Campania, o nelle gole di montagne remote. In Roma però, s’ergevano ancora quasi tutti i templi; e la loro grandezza e la maestà, allettando l’orgoglio nazionale dei cittadini e commuovendo il senso della bellezza artistica, li proteggevano da insulto: e, se anche non pochi dei santuarî minori possano essere stati atterrati, uno sguardo che si dia oggidì ai monumenti romani ci fa conoscere, che anche di quelli la massima parte nel secolo quinto doveva conservarsi incolume. Chi contempli le rovine di Roma è scosso d’ammirazione alla vista del tempietto rotondo di Vesta ancora ben conservato, e del tempio della Fortuna Virile che si eleva in prossimità di quello: e si cruccia pensando al capriccio fatale del tempo, che, quasi a derisione, rispettò questi piccoli templi di Roma antica; laddove del Campidoglio, del tempio sacro a Roma ed a Venere, e di mille altri miracoli dell’arte romana, o cancellò i vestigî dal terreno, oppure ne conservò miserande reliquie somiglianti a larve enigmatiche del passato, sulle quali l’ignoranza, la tradizione e la scienza cercano di aprirsi un sentiero, arrampicandosi come il musco che ne copre i sacri marmi. Chiusi erano i templi; e nella Città, che vergeva alla massima povertà, andava sempre più cessando il desiderio della restaurazione del culto antico, altra volta sì fervido nel popolo, il quale ne attendeva la riapertura dei teatri e delle terme: per la qual cosa i templi erano esposti senza riparo alle influenze distruggitrici degli elementi della natura e degli avvenimenti sociali. Ond’è che alla fantasia d’un Padre della Chiesa vivente in Gerusalemme, Roma (Babilonia novella) si dipingeva cadente, con suoi templi maestosi che la fuligine anneriva, [84] e dentro dei quali la ragna, simile a parca fatale, tesseva sue fila attorno alle splendide teste delle Divinità deserte, miracoli dell’arte greca[45].
Ancor più dei templi di Roma, erano esposti a grave pericolo di distruzione o di mutilazione i bei capolavori di scultura greca e romana. In copia innumerevole erano erette statue, a splendido ornamento dei templi, delle piazze, dei portici, dei bagni, delle vie e dei ponti; di modo che, lungo la immensa Città, apparivano schierate vere popolazioni di statue di Dei e di eroi, in metallo ed in marmo, offerendo all’ammirazione di chi s’aggirava per le vie, le splendide creazioni del genio, le opere belle degli studî di molti secoli, in tutta la varietà che lingua non vale a descrivere. Sotto Costantino (che le città tutte d’Europa e d’Asia rapì di loro più bei monumenti per ornarne Bisanzio, Roma novella) la Città eterna vide per la prima volta molti dei suoi monumenti partire per ornare una terra straniera. Nel solo ippodromo della sua nuova città, Costantino innalzò sessanta statue, mirabili certo per la bellezza d’arte, tra le quali era anche la Statua di Augusto[46]. Ma sì grande ne era il numero in Roma, che, fossero anche state tolte a centinaja, [85] occhio non si sarebbe avveduto di vacui. Allorquando poi sotto i succeditori di lui, lo zelo religioso cominciò a mostrarsi avverso ai monumenti pagani, i Cristiani avrebbero volentieri portata la distruzione contro i simulacri delle false Divinità, chè tali consideravano in loro mente i capolavori dell’arte, se non gli avesse rattenuti l’autorità del prefetto e delle magistrature che vegliavano all’ordine publico: ed altrimenti, nel loro cieco fervore, avrebbero messe in pezzi le fantastiche figure delle Divinità d’Asia e i simulacri di nero basalto degli Dei di Egitto; e in parecchi templi insieme coll’altare anche l’imagine del dio avrebbero atterrata. Colle loro leggi però gl’Imperatori facevano rispettare i templi e i monumenti publici, e già primo ne aveva avuto cura Costantino, cui Prudenzio fa dire innanzi al Senato pagano:
Marmora tabenti respergine tincta lavate
O Proceres; liceat statuas consistere puras,
Artificum magnorum opera. Hae pulcherrima nostrae
Ornamenta cluant patriae, nec decolor usus
In vitium versae monumenta coinquinet artis[47].
Da scritti del quarto e del quinto secolo ricaviamo, che le piazze e i bagni ed i portici di Roma erano popolati di statue: e soltanto santo Agostino credeva che, già prima dell’invasione di Radagaiso, i monumenti tutti fossero stati atterrati. Ed inoltre le case delle famiglie [86] illustri di Roma erano splendide di pitture e di sculture bellissime; nè possiamo accogliere il dubbio che gli stessi palazzi di Basso, di Probo, di Olibrio, di Gracco e di Paolino, convertiti al Cristianesimo, non mettessero ancora diletto od orrore in chi vi entrava collo spettacolo di dipinture licenziose rappresentanti le Divinità della antica mitologia. S’avvicinava tempo però in cui molti Romani, o fosse coscienza timorata, o tema dell’invasione di Alarico che li premesse, possono avere seppellite molte statue di bronzo o di marmo rappresentanti Divinità, le quali, dal terreno ove furono deposte, dopo lunghi secoli si trassero, tesori d’arte preziosissimi.
Se ci prenda vaghezza di esaminare le brevi notizie statistiche colle quali conchiude la Notitia, per conoscere il numero dei monumenti publici che sorgevano in Roma al tempo di Onorio, ricaviamo che nella Città miravansi 2 colossi, 22 grandi statue equestri, 80 statue di Dei coperte d’oro e 74 di avorio. Non vi si fa cenno del numero di statue che ornavano a quel tempo i 36 archi trionfali, le fontane, i teatri, i portici, le terme di Roma: sennonchè, da una statistica posteriore, redata al tempo di Giustiniano, sappiamo, che, se non all’epoca in cui compilavasi, tuttavia al secolo quinto, contavansi nella Città 3785 statue di bronzo rappresentanti l’effigie d’Imperatori e d’illustri cittadini[48]. Ed abbiamo argomento [87] da persuaderci, che Roma, ai tempi di Gregorio il grande, benchè coperta dei ruderi dei molti monumenti onde Augusto ed Agrippa, Claudio, Domiziano, Adriano ed Alessandro Severo l’avevano resa illustre; benchè devastata dai saccheggi dei Goti e dei Vandali, possedeva tuttavia tanta ricchezza di capolavori artistici, tanta copia di monumenti publici splendidi, che oggidì Londra, Parigi e la Metropoli pontificia non basterebbero ad emulare.
Il Cristianesimo metteva radici sempre più profonde in Roma imperiale, e la Città ravvolgeva nei suoi misteri per compiervi quella trasformazione, che è uno degli avvenimenti più straordinarî che s’incontrino nella Storia del mondo. Ed operava con triplice forza sulla faccia esterna della Città: distruggeva, creava e riformava; e questa sua triplice operosità può dirsi che fosse quasi contemporanea. Allorquando nel seno d’un antico e generale organamento sociale, si gettano semi d’un organamento novello di civiltà, è forza di natura che nel primo svolgimento i germogli novelli assumano delle [88] forme degli anteriori, innanzi che distruggano o trasformino gli elementi del sistema sociale antico. Egli è un avvenimento importante e degno di nota, che la Chiesa cristiana, fin dal primo periodo di sua esistenza, prendesse rapidamente possesso della città di Roma, formando un proprio sistema amministrativo independente dalla partizione della Città fatta da Augusto in quattordici Regioni, e che la dividesse in sette Regioni, una affidandone a ciascuno dei sette Notari ossiano scrittori delle storie dei Martiri, ed a ciascuno dei sette Diaconi ai quali era affidato l’officio di vegliare all’insegnamento delle dottrine religiose ed alla disciplina ecclesiastica. Vuolsi che autore di quest’ordinamento fosse già stato Clemente, quarto vescovo di Roma, che viveva ai tempi di Domiziano. E credesi che Evaristo, sesto vescovo di Roma, vivente ai tempi di Trajano, affidasse alla cura di preti i Titoli ossiano le Chiese parrocchiali della Città[49].
Il numero di queste Regioni ecclesiastiche, che saliva alla metà del numero delle Regioni imperiali, fu creduto essersi formato dall’unione di queste ultime due a due, o fu messo in corrispondenza alle stazioni delle coorti della guardia. Infruttuosi sforzi [89] furono tentati per determinare i confini entro cui quelle Regioni erano racchiuse. Solo da alcune notizie ricavate dalla più antica Cronica, ossia dalla Storia delle geste dei Papi, si sa, che la prima Regione era detta Aventina e che a lei apparteneva anche la basilica di san Paolo situata fuor delle mura; che la seconda comprendeva il Velum Aureum ossia l’antico Velabrum e la Via Mamertina; che entro i limiti della terza era situato il monte Celio ed anche la basilica di san Lorenzo posta fuor della porta; che più in là, nella quarta Regione, era il titolo di Vestina ossia la chiesa che in tempi posteriori ebbe nome di san Vitale[50]: la quinta, chiamata Caput Tauri o Tauma, si suppose che fosse identica all’antica Regione chiamata Palatium, quantunque forse comprendesse il territorio in cui s’alza la chiesa di santa Pudenziana. Da un passo di quella Storia dei Papi ci è dato conoscere, che sotto la cura dei Preti della sesta e della settima Regione stava la basilica di san Pietro, per la qual cosa sia probabile che vi si comprendesse anche il territorio del Transtevere ed il campo di Marte[51].
Nè più chiare notizie possediamo intorno alle antichissime [90] chiese di Roma preposte a quelle Regioni ecclesiastiche dal vescovo Clemente. La curiosità dello studioso dell’antichità e di chi reverente cerca di conoscere la storia dei primi tempi del Cristianesimo, deve restar contenta al pensiero che i primi oratorî occulti dei Cristiani devono essere stati entro le abitazioni di cittadini privati, e là nei quartieri di Roma appartati, dove viveva la classe più povera della popolazione e dove avevano loro dimora gl’Israeliti immigrati ai tempi di Pompeo: quegli oratorî dunque devono cercarsi nel territorio del Transtevere, sull’Aventino e sui tre colli situati verso nord-est; e finalmente a trovarli conviene discendere in quelle meravigliose catacombe di pozzolana, poste lungo le Vie Appia, Ostiense, Aurelia, Salarica ed altre della Città. Quello che per noi ha importanza, è di conoscere quali fossero le basiliche cristiane di Roma ai tempi di Onorio, che un nuovo aspetto davano alla figura esterna di Roma. Di tali chiese, a quell’epoca, erano molte; alcune già edificate prima dei tempi di Costantino, altre fondate durante il suo regno e non poche finalmente innalzate sotto i succeditori di lui in quei quartieri ove ai Vescovi meglio talentava. Imperocchè, se si faccia osservazione ai luoghi ov’erano eretti questi antichissimi templi cristiani di Roma, troviamo che dapprincipio, ed ancora ai tempi di Costantino, erano edificati nei punti estremi della Città, quasi tutti nei cimiteri e nelle catacombe; e che in seguito, via via che la Religione cristiana guadagnava del campo, scossa ogni tema di persecuzione, alzarono le loro fronti anche nel centro della Città e in vicinanza ai templi delle Divinità antiche, giungendo finalmente a prender seggio [91] entro le mura di alcuni di quegli antichi delubri pagani.
Stando alla tradizione, prima vera chiesa di Roma sarebbe stata quella di santa Pudenziana, che esiste ancora in prossimità di santa Maria Maggiore. La Storia ignora ove l’apostolo Pietro ponesse sua stanza, ma la tradizione e le leggende narrano ch’egli avesse posto dimora sul poggio esquilino, nel Vico Patrizio e nella casa del senatore Pudente e di Priscilla moglie di lui, e che ivi egli edificasse un oratorio. In vicinanza a quel luogo, Novato e Timoteo, due figli di Pudente, possedevano alcuni bagni, dei quali, col loro nome, è fatta menzione negli Atti dei Martiri: ed in un manuale di storie dei Papi sta scritto alla biografia di Pio I (il quale viveva intorno all’anno 143), che questo Vescovo, secondando le preghiere della giovane Prassede, edificasse una chiesa in quelle terme, dedicandola ad onoranza di santa Pudenziana ch’era stata sorella di lei e dei due giovani[52]. [92] È la prima delle chiese di Roma, di cui parli il Liber Pontificalis; e nel Concilio di Simmaco dell’anno 499 comparisce sotto nome di Titulus Pudentis. Nella tribuna conservansi ancora antichi musaici e mirabili, che sono da collocarsi tra i più belli di Roma. Vi è rappresentato il Cristo fra gli Apostoli e le due sante sorelle che gli presentano le corone dei martiri. Il corretto e bello stile fa credere che appartengano al quarto ed anche al terzo secolo, ma parecchi ritocchi condotti sopra la dipintura, furono causa che molto perdessero della loro originalità.
A questa chiesa si congiungeva l’altra detta di santo Pastore (Titulus Pastoris), ch’ebbe nome da un fratello del vescovo Pio I che l’edificò e ne fu primo investito. Sembra che a questo tempio, il quale anche oggidì comprende due chiese, venissero date le due denominazioni[53].
[93]
Credesi che il vescovo Calisto I (217-222), da cui ebbero nome le celebri catacombe, ponesse le prime fondamenta della chiesa di santa Maria in Transtevere: ed al succeditore di lui è attribuita la costruzione della chiesa di santa Cecilia nell’istesso quartiere di Roma. Vuole tradizione, che qualche tempo dopo, sul principio del secolo quarto, venissero fondate le chiese antichissime di santo Alessio e di santa Prisca sull’Aventino. Però tutto quello che riguarda la storia di queste basiliche è cacciato nella fitta e impenetrabile tenebra delle leggende; nè di esse, nè di tutte le altre chiese erette ai tempi anteriori a Costantino, è possibile avere notizie certe e bene determinate[54].
Allora soltanto che Costantino chiamò la Religione cristiana a pienezza di libertà, grandi e magnifiche basiliche s’elevarono in Roma. La loro architettura, che gran tempo prima s’era modellata nelle catacombe e che, come il culto della Chiesa, nella loro solitudine s’era svolta, apparve al mondo già perfetta, nè molta cosa in generale lasciava ai secoli venturi d’aggiungere. Il Romano che nei suoi templi sontuosi, di splendido stile, ancora sacrificava alle Divinità, avrà gettato uno sguardo di sprezzo ai templi del Cristo, simili nella forma ai tribunali romani, con loro colonne che toglievano alla veduta del fedele la parte interna del santuario, e con loro fronte di prospetto che s’alzava in un cortile circondato da elevate muraglie, e nel mezzo del quale era un pozzo detto Cantharus. In quel [94] tempo il genio dell’arte antica era per ispiccare il suo volo dalla terra, la cui faccia per il corso di lunghi secoli aveva abbellito. Del tramonto dell’arte antica è monumento l’arco trionfale di Costantino, il quale s’erge a tracciare il limite di due epoche di civiltà. Allorchè il Senato volle innalzare quell’arco di trionfo, fu duopo distruggerne uno dedicato a onoranza di Trajano, per ornare quello di Costantino delle sue sculture. E poichè di un numero maggiore di esse faceva bisogno, furono chiamati artisti viventi a fornire alcuni bassi rilievi: ed eglino ebbero l’onta, che la sentenza universale affermasse, che del genio artistico degli avi perduta s’era l’idea e la possa. E oggi ancora il pellegrino che mira le rovine della Città, s’arresta meditabondo dinanzi a quel cadavere delle arti di Grecia e di Roma.
La pittura, benchè in generale dividesse le sorti della scultura, era tuttavia a condizione migliore. Esauriti i temi fecondi della mitologia, sembrò che la pittura seguisse Costantino a Bisanzio ed attingesse ispirazioni alle idee del Cristianesimo: ed ivi, in quella corte orientale sontuosa, si fè imitatrice della pompa brillante di pietre preziose e di perle col mettere in voga i disegni di musaico. Anche in Roma, dopo il secolo quinto, la pittura non si fè più imitatrice degli esemplari antichi che ancora s’erano conservati, ornamento bellissimo, nelle catacombe; e il disegno di musaico, appoggiato alle arti tecniche che avevano avuto perfezione nei tempi imperiali, usurpò l’onore della pittura. Il musaico è l’arte del decadimento, l’aureo fiore artistico della barbarie, e per sua natura s’acconcia ai tempi in cui la società è oppressa da rozzo despotismo e da una costituzione aristocratica; [95] e se ne trova vestigio persino nei dipinti sacri di quell’epoca, in cui, disperse totalmente le istituzioni di libertà, una gerarchia di officiali publici, splendidi di toghe di broccato d’oro, invadeva lo Stato e la Chiesa. E il musaico possiede mirabile energia nel dipingere la severità profonda e mistica, il raccoglimento solitario dei sentimenti religiosi, e la truce e fanatica prepotenza delle passioni che ne scaturiscono nei secoli in cui il lume santo della scienza e della filosofia s’estinse.
In simil guisa anche l’architettura era caduta dalla altezza cui era giunta nell’antichità. In quest’arte i Romani avevano potuto spiegare tutta la possanza originale del loro genio, fino a che, spenta la loro vita politica, cessare doveva anche la loro operosità. Fra le ultime opere grandi d’architettura in Roma, è da farsi menzione del tempio del Sole e delle mura di Aureliano, dei bagni di Diocleziano, e finalmente della Basilica Nova e delle terme di Costantino. Dopo di lui la Città non vide più sorgere alcuna opera improntata del vero genio romano; ed è cosa degna di nota, che, insieme al decadimento dei concepimenti artistici, andasse perdendo di solidità l’esecuzione tecnica dei lavori. Imperocchè grandi differenze appariscano tra gli edificî costruiti sotto i primi Imperatori e quelli innalzati ai tempi di Adriano, e inferiori di tutti sieno quelli fabbricati all’epoca di Costantino, di costruzione leggiera e meschina. Ora che invece di templi elevavansi chiese, conveniva che l’architettura scendesse da quell’apogeo di perfezione artistica, cui da gran tempo era già pervenuta. E da gravi difficoltà essa era circondata; perocchè ogni cosa che di paganesimo ricordasse, dovesse fuggire, lo stile perfetto dell’antichità [96] dovesse rigettare; di maniera che per la configurazione delle chiese togliesse a tipo le aule dei tribunali, ossia le basiliche, che bene acconciavansi ai riti ed alle ceremonie del Cristianesimo. Le chiese cristiane ricevevano continuamente ampliamenti e mutazioni; locchè il puro stile, la forma semplice e la figura matematica dei templi antichi non permetteva. Vi si aggiungevano edificî destinati all’insegnamento ed al culto, e ampliavansi irregolarmente con cappelle, con oratorî e con grande numero di altari che ne alteravano la forma in siffatta guisa da darvi apparenza di altrettante catacombe. E nel corso di questa Storia non ci verrà mai fatto di parlare d’una basilica di Roma che non abbia subite parecchie alterazioni nella sua forma. Molti potranno dare onore al culto ed al Sacerdozio perchè così l’architettura ne venisse in fiore: ma egli è peraltro dubbio se l’arte ne guadagnasse.
Narra la tradizione che l’imperator Costantino edificasse in Roma la basilica Lateranense, la basilica Vaticana, e quelle di san Paolo fuor delle mura, di santa Croce in Gerusalemme, di santa Agnese fuori di porta Nomentana, di san Lorenzo fuor delle mura e la chiesa dei santi Marcellino e Pietro fuori di porta Maggiore. Ma la Storia non ne possiede prova alcuna; e forse la chiesa di san Giovanni in Laterano è la sola che egli fondasse.
Fausta, moglie di lui, possedeva ivi le case della [97] famiglia laterana d’antico lignaggio romano, il cui nome, reso illustre non da geste gloriose ma dal possedimento di quell’immenso palazzo, in tutto il corso dei tempi non si disgiunse mai da quegli edifici e dal luogo ove sono situati[55]. Credesi che l’Imperatore costituisse a dimora del Vescovo romano quella parte del Laterano che aveva nome speciale di Domus Faustae: ed i succeditori di Silvestro tennero colà loro residenza per il corso di quasi mille anni, fino alla traslazione della sede in Avignone; e, durante il corso dei tempi, molti cangiamenti operarono in quell’antico palazzo, ampliandolo coll’aggiunta di cappelle, di triclinî e di basiliche. Nel mezzo dei palazzi lateranensi sorgeva la basilica edificata da Costantino, che sarà stata probabilmente di estensione non grande, di stile severo e pesante, a tre oppure a cinque navate. E nessuna notizia possediamo sulla forma di lei originaria, e soltanto ci pervenne una descrizione alquanto diffusa sui mutamenti che vi si effettuarono quando fu rifabbricata al principio del secolo decimo sotto Sergio III[56]. La basilica era dapprima [98] dedicata al Cristo sotto il titolo di Salvatore, e dopo il secolo sesto per la prima volta ebbe nome di san Giovanni Battista, ad onoranza del quale Santo in comunione con san Giovanni evangelista era stato edificato un convento di Benedettini in prossimità della chiesa. Essa però, dal nome del fondatore, era appellata basilica di Costantino, ed era detta anche basilica aurea, a cagione degli abbondanti e ricchi fregi d’oro che la ornavano. Nel libro pontificale si parla dei donativi onde Costantino l’aveva resa ricca: vi si annovera una immensa quantità di quadri d’oro e d’argento di gran peso, di arredi d’altare, di statue di Apostoli e di Angeli, di patere, di calici, di vasi, di doppieri, di ornamenti d’ogni maniera, splendidi di pietre preziose. Tuttavia possiamo accogliere l’opinione che il biografo di san Silvestro attribuisse a liberalità di Costantino tutti i ricchi doni che nel corso dei secoli posteriori si ammassarono nel tesoro di quella chiesa. La basilica di Costantino prendendo il titolo di madre chiesa della Cristianità, Omnium Urbis et Orbis Ecclesiarum Mater et Caput, pretendeva al primato sopra le chiese tutte, ed anzi affermava: la santità del tempio di Gerusalemme in lei essere stata trasfusa, poichè l’arca dell’alleanza degli Israeliti sotto il maggiore suo altare era conservata. Ma questa chiesa vescovile di Roma, della quale ogni Pontefice prende possesso ad esordire nel suo governo spirituale, cadde nell’ombra di rincontro allo splendore onde doveva brillare il san Pietro; e già vedremo che nel medio evo quella basilica di Costantino in cui veneravansi il pannolino della santa Veronica e le teste dei due Principi degli Apostoli, conservate entro custodie seminate di pietre preziose, e la [99] istessa imagine del Salvatore, il cui artefice non vestì umana spoglia, e tante altre reliquie sacre, perdette del suo lustro allorchè sorse il san Pietro.
Non si sà in quale anno e sotto quale pontefice e al tempo di quale imperatore, venissero gettate le fondamenta della chiesa di san Pietro: tuttavia, tradizioni concordi e tutte le notizie conservateci negli Atti della Chiesa e da scrittori antichissimi, c’inducono a credere che venisse edificata ai tempi di Costantino il grande. Il libro pontificale narra che l’Imperatore, dietro preghiera del vescovo san Silvestro, ergesse una basilica ad onore del santo apostolo Pietro in quel terreno ove anticamente sorgeva un tempio di Apollo, e ch’egli racchiudesse il cadavere del Santo in un’arca di bronzo ciprio fitta nel terreno. Quel tempio di Apollo non esiste certamente se non nella leggenda; chè da scavi fatti in tempi recenti si conobbe, che la chiesa di san Pietro fu fondata nel territorio vaticano in prossimità d’un tempio dedicato a Cibele, il cui culto abbominevole si conservò in Roma per tempo lunghissimo; perocchè già durasse anche dopo che Teodosio aveva orato presso la tomba dell’Apostolo[57]. La leggenda ci narra che Costantino col badile cavasse la prima palata della fossa ove ne furono gettate le fondamenta, e che trasportasse egli stesso dodici [100] panieri pieni di terra per dare onore con quell’atto di umiltà ai dodici Apostoli. Se allora il circo di Nerone fosse già distrutto, oppure se durante la fabbrica del san Pietro rovinasse, non sappiamo: ma ci è noto, che quel recinto cruento di stragi inumane e bagnato del sangue di tanti Cristiani dei primi tempi, fu eletto a fondarvi la basilica, e ch’essa in fatti in un angolo del circo fu innalzata.
L’architettura di quella chiesa, quale sarà stata ai tempi posteriori a Costantino ed a quelli di Onorio, possiamo di leggieri imaginare somigliante a quella originaria della basilica lateranense; imperocchè durante i tempi di mezzo il san Pietro fosse bensì abbellito ed ampliato, ma non riedificato dalle fondamenta: chè, primo, Giulio II ne incominciò la ricostruzione nei primi anni del secolo sestodecimo[58]. La chiesa, lunga più di cinquecento palmi, alta censettanta, aveva cinque navate ed una navata trasversale e terminava ad una tribuna o abside formata a emiciclo[59]. Prima di entrare [101] nella chiesa trovavasi un atrio, detto Paradiso, lungo duecencinquantacinque palmi e largo duecencinquanta, circondato internamente da portici sostenuti da colonne. Per una vasta scalea di marmo si saliva all’atrio; ed era sullo spazzo superiore della gradinata che i succeditori di san Pietro accoglievano i succeditori di Augusto allorchè venivano ad orare sulla tomba dell’Apostolo, oppure, nei tempi più tardi del medio evo, a ricevere dalle mani del Pontefice la corona imperiale.
La grande chiesa dev’essere stata costruita in fretta, oppure l’arte di edificare doveva vergere al massimo decadimento, perocchè le muraglie di quell’edificio facessero pessimo riscontro alla solida e bella costruzione delle mura del vicino circo di Nerone. La faccia di prospetto, l’abside, le muraglie esterne erano rozzamente formate con materiali di costruzione di vario genere accozzati insieme; gli architravi, che internamente poggiavano sulle colonne, erano bruttamente composti di frammenti antichi; le colonne stesse ch’erano in numero di novantasei, quali di marmo, quali di granito, avevano basi e capitelli gli uni dagli altri differenti. Alla formazione delle soglie delle porte erano stati adoperati i marmi lavorati del circo, sui quali leggevansi ancora frammenti d’iscrizioni antiche e vedevansi bassi rilievi rappresentanti emblemi e fatti del Paganesimo[60]. Ed [102] è cosa degna di osservazione, che già nella basilica antichissima del san Pietro si trovasse impressa quella ch’è nota particolare, anche al giorno d’oggi, di parecchie chiese di Roma; nelle quali, in molti frammenti di antichi marmi raccozzati insieme per gli edifici novelli, appariscono emblemi e vestigi pagani, quasi spoglie trionfali della Religione cristiana. La parte interna della chiesa, in cui s’entrava per cinque porte, ognuna delle quali metteva ad una delle cinque navate, era di proporzioni imponenti. Da finestre arcuate non molto grandi penetrava la luce nell’ampia navata del centro, il cui tetto con rozzi modiglioni poggiava su un grande numero di colonne: e la luce che penetrava dalle finestre, illuminava il pavimento, formato di frammenti di antichi marmi, e le elevate muraglie le quali non avevano ancora alcun ornamento di musaici. Un arco di mole poderosa serrava la navata maggiore; e i musaici onde sarà stato ornato, insegnavano a chi penetrava entro la chiesa, che, in luogo degli archi trionfali degl’Imperatori di Roma, sorgevano allora gli archi di trionfo dei Santi i quali [103] del loro sangue avevano imporporate le zolle dei campi sui quali erano state combattute le battaglie della Religione. Ed i pii Cristiani saranno stati commossi a senso altissimo di venerazione allorchè avranno innalzato il loro sguardo all’altare situato dietro alla Confessione, ove era la tomba di san Pietro entro una specie di piccolo tempio sostenuto da sei colonne di porfido. È tradizione che la salma fosse collocata sotterra, in una stanza dalle pareti coperte d’oro, entro l’arca di bronzo dorato in cui Costantino l’aveva deposta, e che vi ardessero intorno lampade d’oro. E il biografo di santo Silvestro dà la notizia, assai importante per la storia della costruzione della chiesa, che sovra l’arca e lunga quant’essa, si alzasse una croce d’oro massiccio su cui era scritto in lettere d’argento:
Constantinus Augustus et Helena Augusta.
Hanc domum regalis simili fulgure coruscans aula circumdat[61].
La navata maggiore terminava nell’abside, ossia tribuna semicircolare, la cui figura era costruita ad imitazione della tribuna delle basiliche civili di Roma, dove erano il tribunale, la cattedra del pretore ed i seggi dei giudici. Non è probabile che la tribuna dell’antica chiesa di san Pietro andasse priva di fregi: egli è certo che la ornavano musaici simbolici condotti in campo d’oro, dei quali a noi non pervenne descrizione: e sotto di essi [104] dovevano leggersi allora questi versi, che ancora esistevano fino agli ultimi tempi del medio evo:
Quod duce te mundus surrexit in astra triumphans
Hanc Constantinus Victor tibi condidit aulam[62].
Forse ai tempi di Onorio vedevasi già nella nicchia dorata dell’emiciclo l’imagine del busto del Salvatore in mezzo alle figure dei santi Pietro e Paolo. Alla parete dell’abside era appoggiata la cattedra vescovile sulla quale il Papa sedeva. Egli è incerto, se questa, come le cattedre vescovili di tante altre chiese cristiane di Roma, fosse un antico sedile di legno, tolto alle terme: e forse era lo stesso seggio antico di legno adorno d’intarsi d’oro e di avorio che oggidì è nella tribuna, racchiuso entro la cattedra di bronzo, e su cui sono condotti, con mirabile ed elevato concepimento, i disegni dello Zodiaco e delle dodici fatiche d’Ercole.
Decoro bellissimo del tempio di san Pietro fu il battistero edificato dal vescovo Damaso dopo l’anno 366, che, splendido d’oro e di porpora, fu celebrato da Prudenzio nelle sue poesie[63]. Quei versi ed una breve descrizione lasciatane da san Paolino, sono le uniche memorie di ciò che fosse il san Pietro ai tempi di Onorio. L’illustre vescovo di Nola, poeta al pari di Prudenzio, acceso di profondo fervore cristiano, aveva soffocato in sè il genio delle arti del Paganesimo fra il cui splendore [105] egli era pure cresciuto. Essendo stato presente al banchetto che il ricco senatore Alessio, secondo la costumanza di quel tempo, aveva dato ai poverelli nel Paradiso della basilica, per rendere solenni funerali a Rufina pia moglie sua, san Paolino descrive la sensazione che in quella occasione aveva destato in lui l’aspetto della chiesa, colle seguenti parole: «Lo stesso Apostolo deve essere stato commosso a gioja, allorchè per opera tua d’ogni parte s’empì di spesse turbe di poverelli la sua basilica: là sotto l’elevate vôlte dell’ampia e lunga navata centrale fino al punto remoto dove sorge la cattedra apostolica che gli occhi abbarbaglia ed i cuori di chi entra nella chiesa agita a gioia: e là dove da un lato e dall’altro con duplice ordine di portici la basilica stende sue braccia: e là dove dal primo atrio si penetra nel secondo splendidissimo ove è il pozzo in cui si conserva l’acqua della salute, onde intingiamo la mano e la bocca, e sul quale si eleva a vôlta arcuata una cupola di bronzo massiccio, cui circondano con mistico senso quattro colonne. Imperocchè l’ingresso alla chiesa sia adorno di tanta bellezza, affinchè il sentimento del bello che fuor delle porte si bee per gli occhi, prepari l’animo ai santi misteri ch’entro si compiono[64].»
Durante il medio evo, intorno al san Pietro sorse a circondarlo, quasi corona, un grande numero di cappelle, di chiese, di chiostri, di case pei chierici, di ospizî di ricovero pei pellegrini, di maniera che il Vaticano crebbe città santa della Cristianità. Ai tempi di Onorio [106] vedevansi soltanto pochi edificî costruiti in vicinanza alla basilica. L’antichissimo di tutti, eretto presso la tribuna, era il Templum Probi, ossia cappella funeraria dell’illustre famiglia senatoria degli Anici, che in Roma prima d’ogni altra aveva abbracciato il Cristianesimo. Anicio Petronio Probo possedeva immense ricchezze, aveva tenute le più alte magistrature; ed infatti aveva diviso il consolato coll’imperatore Graziano, e quattro volte era stato prefetto della Città: egli elevò quella cappella in cui fu deposta la sua salma entro un sarcofago che ancor si conserva. E conservasi oggidì ancora quello più antico e più bello di Giunio Basso, dell’anno 358, che non fu però deposto nella cappella, quantunque egli fosse di quella stirpe[65]. La famiglia imperiale stessa aveva il suo mausoleo in prossimità del san Pietro, poichè nell’anno 404 Onorio aveva scelto quel recinto perchè vi fosse deposta la sua salma: e colà egli diede sepoltura alle sue due mogli Maria e Termanzia, figlie del grande Stilicone. Di quel mausoleo non rimase vestigio, e soltanto nei tempi recenti fu dato di rinvenire il sarcofago che conteneva le ceneri della imperatrice Maria.
Questi pochi cenni valgano a dare un’idea generale [107] di ciò che fosse l’antica basilica di san Pietro al tempo di Onorio. Era un vasto edifizio di forma allungata, costruito in mattoni: il suo duplice tetto (il più alto, e il più basso) non era ancora ornato delle lamine di bronzo dorato di cui in seguito spogliavasi il tempio sacro a Roma ed a Venere. La fronte di prospetto adorna di croce, si elevava con forma severa sopra un vasto atrio, che, simile ad un chiostro, era racchiuso tra colonne. Con quale animo i Pagani di Roma avranno contemplato taciti quel nuovo edificio pensando che là, entro una cella dorata, veneravasi il corpo d’un pescatore ebreo! Quali idee saranno sôrte nella loro mente se avranno alzati gli occhi al vicino mausoleo dell’imperatore Adriano, la cui magnifica rotonda, sostenuta da due ordini di colonne, poggiava sopra un immenso cubo di marmo adorno di statue e sembrava guatare con disprezzo quella chiesa di forma strana! E in vicinanza, il circo dove Pietro era stato crocefisso, cadeva in rovina; ed i suoi ruderi, dai quali erano stati tratti i materiali per la costruzione della basilica, presentavano il selvaggio e triste aspetto di un labirinto oppure delle Latomie di Siracusa; e dalla spina infranta del circo, in prossimità della chiesa cristiana, s’elevava ancora il grande obelisco di Caligola. La chiesa di san Pietro che s’ergeva sulle rovine del circo, era certo dimostrazione di un avvenimento sorprendente; ed i Cristiani avranno mirato ad esso quasi a simbolo di loro Religione trionfante che aveva posto suo seggio sulle rovine del Paganesimo abbattuto. E già, ai tempi di Teodosio il vecchio, accorrevano da ogni parte al s. Pietro numerose schiere di pellegrini per celebrarne la festività, che, insieme a quella di [108] s. Paolo, solennizzavasi in Giugno. Ed anche allora come oggidì, vi si recavano traghettando il Tevere sul ponte di Adriano, il quale, sovra ogni altro ponte del mondo, ebbe la sorte di essere calcato da immense turbe di genti che muovevano a sciogliere loro voti di pietà[66]. Era scorso un secolo appena, e già gli edificî sontuosi di Roma pagana cadevano in oblio; ed i figli ed i nepoti di quei Romani che avevano contemplato con corruccio e con dispetto sorgere la basilica, vi accorrevano con animo commosso di fervore religioso, e a ginocchi ne ascendevano i gradini. E i loro sguardi miravano con istupore la bellezza del novello Campidoglio che, ad opera dei succeditori di san Pietro, ergevasi splendido d’oro e di argento, di gemme e di perle, ricco di musaici e dei prodotti dell’arte bizantina.
La stessa onoranza ch’era resa a san Pietro, era tributata all’apostolo Paolo. È probabile che Costantino, mosso dalle istanze di santo Silvestro, gli abbia eretto la basilica situata ad un miglio di distanza dalla Città, lungo la via Ostiense, remota da templi pagani, in quel [109] luogo medesimo dove la leggenda narrava che l’Apostolo fosse stato ucciso, oppure dove gli fu data sepoltura dalla pia matrona Lucina. Ma la forma dell’antico san Paolo riusciva troppo umile al gusto ingentilito dei Cristiani; e la sua area diveniva insufficiente a capire la moltitudine dei fedeli e dei pellegrini che vi accorrevano in numero sempre crescente. Per la qual cosa, nell’anno 383, gl’imperatori Valentiniano, Teodosio ed Arcadio ordinarono con loro rescritto a Sallustio, prefetto della Città, di edificare una novella basilica, più grande e più bella là dove sorgeva l’antica[67]. Sotto Teodosio se ne gettarono le fondamenta, ed Onorio la trasse a compimento; ma non si sa precisamente in quale anno. Siccome però i Goti condotti da Alarico, nel saccheggio di Roma risparmiarono rispettosi la basilica di san Paolo, che a quel tempo già sorgeva bellissima, possiamo ammettere che, quando Onorio nell’anno 404 entrò in Roma, quel tempio fosse già completo e che l’Imperatore vi orasse[68].
La forma di questo celebre tempio, che in bellezza superava la basilica di san Pietro, nell’essenza era a quella somigliante. Situato tra la via Ostiense ed il Tevere, verso il quale esso volgeva la sua elevata fronte di prospetto in cui erano aperte alcune finestre, aveva un atrio circondato da quattro portici sostenuti da colonne, in mezzo al quale era il pozzo. Superava l’antica [110] basilica di san Pietro in grandezza, imperocchè le si attribuisca una lunghezza di quattrocentosettantasette piedi, e la larghezza di duecencinquantotto[69]. L’occhio di chi entrava per una delle sue porte, si smarriva nelle vôlte elevate di cinque maestose navate, che posavano sopra quattro serie di colonne. Ogni serie ne conteneva ben venti, ed erano tutte antiche; nè si conosce da qual monumento romano fossero state tolte, imperocchè l’antica supposizione che le più belle di esse sieno state rapite al mausoleo di Adriano, non sia convalidata da alcuna prova. Quantunque mancassero di uniformità nella materia e nel disegno, e quantunque alcuni dei loro grandi capitelli d’ordine corintio lavorati in istucco fossero di forma rozza e goffa, tuttavia il grande numero, la loro mole, la bellezza dei marmi le rendeva altamente pregevoli. Nella sola navata di mezzo ve n’avevano ventiquattro di sceltissimo marmo frigio, oggi chiamato pavonazzetto, tutte di un sol pezzo, ed alte più di quaranta palmi. A differenza del san Pietro, invece che l’architrave posasse rettilineo sulle colonne, l’architetto di cattivo gusto aveva condotte fra esse alcune arcate, al di sopra delle quali s’elevava rigidamente la parete in linea perpendicolare. I soli segmenti della muraglia ch’erano immediatamente superiori ai capitelli delle colonne, erano adorni di musaici: allora però non vi si vedevano ancora i ritratti dei succeditori di san Pietro, che vi furono collocati in tempi posteriori. Il tetto delle navate era splendido di bronzo dorato, ed il pavimento e le pareti erano coperti di lamine [111] di marmo. A somiglianza della chiesa di san Pietro, un arco trionfale gigantesco, che posava su due imponenti colonne jonie, serrava la navata del centro. Ma la sorella di Onorio, Galla Placidia, ai tempi di papa Leone I, adornò per la prima volta quell’arco del suo mirabile musaico[70]. Nel mezzo di quel disegno torreggia una mezza figura gigantesca del Cristo, il quale, tenendo in mano una verga, è in atto di mirare sopra i fedeli con isguardi che mettono terrore, quasi voglia far cadere il popolo dinanzi a sè nella polve; chè nessun altra significazione può darsi all’espressione di quel volto simile ad una testa di Medusa. Ai due lati sono i quattro simboli degli Evangelisti descritti nell’Apocalisse, più sotto i ventiquattro Seniori, ed alle estremità dell’arco sono le imagini di san Pietro e di san Paolo. Quei musaici furono in Roma i primi saggi di quello stile che si suole chiamare bizantino. Ella è però un errore la credenza, che di Bisanzio s’importasse quell’arte la quale era invece tradizionalmente romana: chè si aveano nelle terme e nei palazzi di Roma i modelli per la trattazione tecnica di grandi figure; e quanto all’ispirazione dell’arte cristiana, vi suppliva la fantasia del tempo. E per lo meno non possiamo determinare con sicurezza, quanta influenza abbia esercitato l’Oriente sul genio artistico di Roma cristiana.
L’arco trionfale del san Paolo si apriva al di sopra del maggior altare e della Confessione, sotto la quale era deposto il corpo dell’Apostolo entro un sarcofago di [112] bronzo, e lasciava scorgere la tribuna adorna di musaici che la navata trasversale separava per lungo tratto.
La chiesa di san Paolo era quasi altrettanto ricca che il san Pietro, imperocchè il libro pontificale si restringa alla semplice notizia che Costantino la onorò degli stessi donativi che aveva tributati al san Pietro. E le due basiliche avevano redditi costituiti sopra latifondi situati in Europa ed in Asia. L’oro, l’argento, le gemme ond’erano formati con sontuosa magnificenza i vasi e gli arredi sacri del san Paolo, commuovevano la fantasia dei devoti Cristiani, ed erano più tardi di eccitamento alla cupidigia dei Barbari orientali. Il poeta Prudenzio vide la basilica ai tempi di Onorio in tutto il suo splendore primitivo, e ne cantò in alcuni versi più belli di quelli con cui aveva celebrato il battistero di Damaso. E sono questi:
Parte alia titulum Pauli via servat Ostiensis,
Qua stringit amnis caespitem sinistrum.
Regia pompa loci est: princeps bonus has sacravit arces
Lusitque magnis ambitum talentis.
Bracteolas trabibus sublevit, ut omnis auralenta
Lux esset intus, ceu iubar sub ortu.
Subdidit et parias fulvis laquearibus columnas
Distinguit illic quas quaternus ordo.
Tum camuros hyalo insigni varie cucurrit arcus:
Sic prata vernis floribus renident[71].
[113]
Queste erano dunque le tre basiliche maggiori ed antichissime di Roma, la cui origine fu storicamente anteriore alle altre tutte. Egli è poi importante per la storia dello svolgimento del culto cristiano in Roma, por mente a chi fossero state dedicate quelle chiese. Al Cristo ed ai due Principi degli Apostoli, a san Pietro ed a san Paolo, i Romani, verso la metà del secolo quarto, tributavano massima onoranza. E i due Apostoli erano i Santi nazionali di Roma: il primo veneravasi quale fondatore e primo vescovo della Chiesa, il secondo era riverito quale maestro dei Pagani. Nel secolo quarto non s’era ancora diffuso in Roma il culto della Vergine Maria; e molti Martiri, che più tardi dovevano salire in tanta venerazione nella Città, onoravansi in quel tempo soltanto nei racconti della leggenda, di maniera che ignoriamo quando sieno state loro innalzate per la prima volta publiche chiese in Roma. Però la venerazione che si tributava alle tombe dei Martiri situate fuori delle mura di Roma, crebbe di guisa, che il loro culto, uscendo delle catacombe, ebbe onore di riti nelle chiese stesse della Città. Dalla campagna traeva la moltitudine di quei defunti entro le mura di Roma chiedenti loro seggio sugli altari. Ed era pur necessario di combattere le vive e numerose ricordanze del Paganesimo coll’erigere un numero non minore di chiese in ogni parte della grande Roma.
San Lorenzo è uno dei primi Martiri che, allato a [114] san Pietro ed a san Paolo, avesse onore di una basilica. Fu arcidiacono e amministratore delle ricchezze della Chiesa; e, quantunque spagnuolo di nascita, fu tuttavia Santo prediletto dei Romani, forse perchè l’eroica morte ch’egli sofferse ai tempi di Decio nelle terme di Olimpia, abbruciato sulla graticola secondo la narrazione della leggenda, commuoveva la fantasia del popolo ad ammirazione venerabonda. Se ne mostrava la tomba lungo la via di Tivoli, nelle catacombe di pozzolana dell’agro Verano, in mezzo a molte cripte di Martiri. Ivi traevano immensi stuoli di pellegrini di Toscana e della Campania, e lo spagnuolo Prudenzio ne ricavava inspirazioni al suo canto[72]. Di queste celebri catacombe, dove aveva avuto pure sua sepoltura il venerato santo Ippolito, la cripta di santo Lorenzo formava il vero punto centrico. Cessate le persecuzioni, si eresse colà al grande Martire una basilica, ch’era la terza elevata fuori delle mura di Roma, imperocchè allora anche il s. Pietro fosse esterno alla Città. Nella biografia di papa Silvestro si attribuisce ad opera dell’imperatore Costantino anche l’erezione di questa chiesa: ma dapprima fu una semplice cappella eretta sulla tomba del Martire, che più tardi, a’ tempi di Sisto III e di Leone I, fu per liberalità di Galla Placidia ampliata ed abbellita. Papa Pelagio II la edificò di nuovo nel secolo sesto.
Quanto grande fosse l’amore che i Romani nutrivano a san Lorenzo, dimostra il fatto che negli ultimi anni del secolo quarto due altre chiese furono erette nel campo di Marte della Città ad onoranza di lui. L’illustre vescovo [115] Damaso, portoghese di nascita e perciò connazionale del Santo, dedicò a lui, tra l’anno 366 ed il 384, una chiesa edificata presso il teatro di Pompeo, che fu appellata S. Laurentius in Damaso. Se Damaso la edificasse dalle fondamenta, oppure se soltanto rinnovasse, non si sa: ciò solo conosciamo ch’egli a lui dedicolla e la innalzò a titolo di presbiterio. Il fatto ch’essa venne edificata presso il teatro di Pompeo, trae alla supposizione che questo ancora esistesse; ed è probabile che la basilica s’ergesse in vicinanza della Curia e dell’atrio di Pompeo in cui Cesare fu ucciso. E ciò è confermato dall’altro fatto che la celebre statua di Pompeo, la quale è oggidì bello ornamento del palazzo Spada, fu trovata in quelle vicinanze. Sciaguratamente l’antica chiesa di Damaso, verso la fine del secolo decimoquinto, cadeva in totale ruina, e vi si sostituiva il novello edificio, che sorge nell’interno del palazzo del vice-cancelliere[73].
La seconda chiesa di san Lorenzo, già edificata prima dei tempi di Onorio, è quella del titolo ancor più celebre: S. Laurentius in Lucina. Poichè colle dizioni in Lucina, in Damaso ec., solevasi denotare il nome del fondatore o di chi aveva edificata la chiesa, così se ne attribuì l’erezione ad una matrona romana di nome Lucina. Ma [116] un’altra opinione trova suo fondamento nel Libro Pontificale, il quale, alla vita di Sisto III, narra che questo Pontefice edificasse una basilica ad onore di san Lorenzo dopo di averne ottenuta permissione dall’imperatore Valentiniano[74], e che quella chiesa ricevesse il nome da un tempio di Giunone Lucina: imperocchè, essendo i monumenti di Roma proprietà dello Stato, quel Papa, avesse ottenuto in dono dall’Imperatore le fondamenta e la superficie ove quel tempio sorgeva, per edificarvi la basilica. Infatti egli è vero che sotto gl’Imperatori non si potesse costruire alcuna chiesa senza averne ottenuta licenza, ma non conservasi memoria che sorgesse nel campo di Marte un tempio di Giunone Lucina. La basilica s’alzava in prossimità dell’orologio solare il cui obelisco era stato già eretto da Augusto.
Anche la prima chiesa di santa Agnese fuori di porta Nomentana sorgeva già ai tempi di Onorio sopra la tomba di quella Martire che in Roma aveva culto assai esteso. E in vicinanza, era l’antico battistero di forma rotonda, che ancor si conserva, e che, a cagione dei suoi musaici di stile antiquato rappresentanti le operazioni della vendemmia, fu per lungo tempo reputato antico tempio di Bacco. Ed invece, la costruzione di questa rotonda appartiene a quel tempo; e nella cappella avevano avuto sepoltura due figlie di Costantino, Elena e Costantina. E la seconda, che fu donna di sfrenato libertinaggio, fu per errore santificata dalla Chiesa, che scambiolla con una pia femmina Romana dell’istesso [117] nome[75]. Un sarcofago di porfido trovato in quella Rotonda, nel quale credesi che fosse stato deposto il corpo di lei, sta oggidì nel Museo del Vaticano, e fa riscontro all’arca di forma simigliante della madre di Costantino. Imperocchè alla pia imperatrice Elena, che tanto bene meritò del Cristianesimo, Costantino avesse dato sepoltura a due miglia di distanza fuori di porta Prenestina (Porta Maggiore), in una cappella rotonda, i cui ruderi, che conservansi ancora, ebbero nome di Torre dai vasi d’argilla, ossia di Torre Pignatarra.
Alla santa madre di Costantino la tradizione attribuisce la prima erezione della illustre basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Narra infatti la leggenda ch’ella edificasse una cappella ove si conservasse il legno della Croce ch’ella stessa avrebbe trovato in Gerusalemme. E racconta la leggenda, che una parte della Croce affidasse al vescovo di Gerusalemme, e l’altra a Bisanzio portasse, donde poi un frammento sarebbe stato recato a Roma, e conservato nella chiesa della Croce da lei fondata. Costantino avrebbe ricevuto in dono i chiodi che servirono alla crocifissione di Cristo, i quali, dice la tradizione con ingenuo racconto, egli adoperò con uso profano quasi d’altrettanti talismani: chè uno fè incastonare nel suo cimiero, dell’altro fè un freno al suo cavallo. Ed il terzo poi perdutosi in mare, ne lo ripescava [118] più tardi Venezia. Roma però affermò che Cristo fosse crocifisso con quattro chiodi, non con tre; che il quarto chiodo si mostra anche oggidì in quella chiesa di santa Croce in Gerusalemme. Già per tempissimo la Croce di Cristo, quale altissimo simbolo della Religione, poteva essere titolo ad una propria basilica: ma la Storia ignora il tempo preciso in cui venne fabbricata. Fondata in un quartiere deserto e bello di Roma, era assai prossima a quell’angolo delle mura di Aureliano che si volge a nord-est, presso l’anfiteatro Castrense, e nelle vicinanze dei bagni di Elena e del ninfeo di Alessandro Severo, che fu per qualche tempo reputato tempio di Venere e di Cupido. I ruderi coprono quel terreno estesamente, nè ancora se ne conosce la storia; e le indagini che si spingono con operosità indefessa riconoscono che quella parte di Roma antica, attraverso la quale scorreva il gigantesco acquedotto Claudiano, è involta nella tenebra del mistero. Il Libro Pontificale narra, che la basilica di santa Croce fosse innalzata in un palazzo Sessoriano, la cui esistenza non è che una fola, e dal quale la magnifica porta Maggiore ebbe nel medio evo nome di Sessoriana. E simile appellazione riceveva la chiesa, che in origine era però chiamata Basilica Heleniana: e poichè, già nell’anno 433, è citata sotto questo titolo nel Concilio di Sisto III, egli è evidente che ai tempi di Onorio essa dovesse esistere[76].
[119]
Di tutte le chiese che il Libro Pontificale annovera erette da Costantino, non ci rimane a parlare che di quella dedicata a due santi sacerdoti, a Pietro esorcista ed a Marcellino. Essa alzavasi in Via Labicana presso il terzo stadio migliare; ed Anastasio denota quel luogo col nome inter duas Lauros, e dice che, non lungi di quello, Costantino avesse eretto un mausoleo ad Elena madre sua. Ma la storia di questa basilica antica, che sembra averne formata una sola con quella di san Tiburzio, è tutta involta di dubbî e d’incertezze riguardo al tempo in cui fu fondata, ond’è che reputiamo utile passarvi oltre in silenzio[77].
Noi vediamo che tutte queste chiese antiche di Roma, le quali per la maggior parte ergevansi sopra catacombe, erano state innalzate o fuori delle mura od ai punti estremi e più remoti della Città, dove fuggivano alla vicinanza dei templi del Paganesimo, che ancora era in vita. Tuttavolta il Cristianesimo andava serrando in una cerchia sempre più stretta la Città; e già, nell’ultimo anno del regno di Costantino, poneva suo seggio nel Campidoglio, se vero è il fatto che il vescovo Marco vi dedicasse una basilica all’Evangelista del suo nome[78]. [120] Nel Concilio di Simmaco dell’anno 499, apparisce il titolo di questa chiesa.
Senza dubbio rimonta a questi antichi tempi la costruzione di una delle più belle basiliche di Roma, di santa Maria Maggiore posta sul monte Esquilino. Il vescovo Liberio, tra l’anno 352 ed il 366, ivi edificò, in vicinanza del Macellum di Livia, ossia del mercato delle grasce, una chiesa che da lui ebbe nome di Liberiana.
Una strana leggenda del secolo duodecimo o del secolo decimoterzo, racconta di una visione da cui ebbe origine la fondazione di quel tempio. Giovanni, ricco patrizio di Roma, nella notte del quattro di Agosto, vide in sogno la Madre di Dio, la quale gli impose di edificarle una basilica in quel luogo in cui al mattino sarebbe di fresco caduta neve. Allo svegliarsi, fu prima cura di Giovanni di correre al vescovo Liberio e di narrargli del suo sogno: ed il Vescovo stupito gli confessò, ch’egli pure nella notte aveva avuto una simile visione. E mentre ancora ne parlavano, vennero alcuni messaggieri a recare notizia di un fenomeno strano, che nel mattino fosse caduta della neve sul monte Esquilino, in vicinanza del Macello di Livia. Eglino affrettaronsi a correre in quel luogo, e mirarono il portento, e Liberio fece tracciare su quello strato di neve il disegno di una basilica, alla cui costruzione provvide il patrizio colle sue liberalità. La Storia può in qualche modo svelare ciò che si nasconda sotto il velame allegorico della leggenda. La costruzione della novella basilica era un monumento del simbolo di fede di Nicea e degl’insegnamenti ortodossi di Atanasio; e lo stesso Liberio per essersene fatto seguace aveva dovuto soffrire due anni di esilio. Ma nel [121] secolo quarto tributavasi in Roma alla Vergine Maria culto povero e poco esteso; chè soltanto dopo l’anno 432 ebbe onori divini, allorchè Sisto III riedificò la basilica di Liberio, e resela splendida di bei musaici e dedicolla alla «Vergine Deipara»[79].
Molte chiese in poco tempo s’edificarono dipoi fino al secolo quinto. I nomi e l’antica posizione della massima parte di esse furono conservati dalla pietà dei Romani, quantunque molte aggiunte e molti mutamenti si inducessero nella loro forma durante il corso dei tempi. E già in epoca antica sorgeva la bella basilica di santa Maria in Transtevere. Se ne vuole attribuire, ma senza fondamento, la costruzione primitiva al vescovo Calisto I (217-222), donde la chiesa avrebbe avuto titolo da Calisto oltre a quello di Giulio. Imperocchè Giulio I vescovo, la ebbe riedificata tra l’anno 337 ed il 354, o, con più accettabile opinione, la eresse dalle fondamenta. In qual tempo fosse poi dedicata alla Vergine, è incerto, e sua forma odierna ricevette per opera di Innocenzo II[80].
[122]
Ancor più illustre è la chiesa di san Clemente. Questa basilica antica, situata tra il Laterano ed il Colosseo, di cui già parla Gerolamo verso la fine del secolo quarto, era dedicata a san Clemente martire, secondo succeditore dell’apostolo Pietro. La sua conformazione interna è ancora oggidì l’esatto esemplare delle basiliche antiche di Roma[81].
Il secolo quinto vide sorgere un numero ancor maggiore di basiliche: e se fino a quel tempo non ci vien fatto di scoprirne alcuna che si alzasse sui ruderi dei templi antichi, o che ponesse sua sede in essi stessi, dopo la metà di quel secolo ne potremo additare parecchie. Ed invero il Paganesimo era bensì spento in Roma, la Città era bensì cristiana e tutto devota al culto della Religione novella, e dominata dal sistema di amministrazione ecclesiastica già svoltosi pienamente e perfezionatosi, con alla testa il Vescovo altamente riverito: ma tuttavia l’aspetto esterno di Roma era ancora tutto pagano. Durava la magnificenza pomposa della architettura antica; i monumenti pagani senza numero ergevano ancora loro vertici sublimi: e le basiliche cristiane, le maggiori situate fuori delle mura od ai punti estremi della Città, le minori sparse qua e là, sparivano quasi tra la copia dei grandi monumenti dell’antichità, [123] nè avevano ancora tanta potenza che valesse a dare una figura novella alla Città.
Chi avesse mosso per Roma in sull’incominciamento del secolo quinto, si sarebbe sentito commuovere da un senso di tristezza profonda. Se l’apostata Giuliano, invece di Onorio, avesse fatto suo ingresso in Roma, avrebbe chiesto a sè stesso con grave cordoglio se fosse venuto in una città fatata ove morte avesse posto sua sede. Tutti quegli splendidi edificî dei Romani che sembravano sfidare il cielo con loro moli eccelse, non erano che morti marmi ostentanti una pompa già estinta. Il Cristianesimo padrone della immensa Città, era impossente a ispirare novella vita in quel retaggio del genio degli avi; perocchè i principî che lo animavano avessero in dispetto, in abborrimento tutto che ritenesse ancora di forma pagana. I grandi monumenti della civiltà antica, la bellezza e lo splendore dell’arte dell’antichità, frutto del genio e degli studî raccolti di tanti secoli, lasciava cadere in rovine; e di essi non sapeva che usufruire qua e colà di un tempio, di qualche colonna, di frammenti di marmo caduti. Non mai la Storia scrisse nei suoi annali uno spettacolo simile di una generazione la quale disdegna da sè le creazioni di una splendida civiltà che sono ancora in condizioni perfette. Mezza Roma era ombra, era lo spettro dell’antica; e la meraviglia del mondo era condannata alla lunga agonia che precedeva ad una caduta inevitabile. I quattrocento templi, abbominio allo sguardo dei Cristiani, erano vuoti e deserti; e dietro la loro rovina trascinavano anche il decadimento della vita sociale, che abbandonava per sempre i ritrovi dei portici sontuosi e delle terme, e che lasciava [124] nel silenzio e nello squallore i teatri e gl’ippodromi, altre fiate animati da tante feste, da tanta gioja. Roma diventava cadavere senza moto in una parte del suo corpo, nel tempo stesso che l’altra suscitavasi a giovinezza novella: ente singolare in cui due anime allignavano, fenomeno unico nella Storia della umanità, di cui era chiamata due volte alla testa. E questo alto contrasto della vita e della morte ebbe origine dal tempo di Costantino il grande, nè ai giorni nostri ancora disparve. Le rovine hanno pure la loro storia quanto la Chiesa ed il Pontificato, il quale accoglieva in sè lo spirito politico della dominazione di Roma sul mondo intero, suscitandolo dalle rovine del Monarcato romano: e le grandi ombre di Roma antica vedremo pure negli ultimi tempi del medio evo apparire, e mescersi tra i cittadini di quell’età, ed inspirarli.
Abbiamo descritto sin qui la duplice figura esterna della Città in sull’incominciamento del secolo quinto. Ed ora entriamo a narrare la storia di Roma nei secoli lunghi e in parte oscuri che vi succedettero: argomento vasto, elevato, tremendo quasi, e grave troppo alle scarse forze nostre. Sennonchè, dicevano gli antichi ch’egli è bello volgere l’animo alle grandi cose, ed io mi propongo di non badare a fatiche, nè di lasciarmi atterrire da difficoltà che mi tolgano speranza della via.
[125]
Chi legge questa storia della città di Roma nel medio evo, ben conosce le condizioni in cui trovavasi nel secolo quarto l’Impero romano. Cadeva esso dell’estrema fiacchezza dopo la divisione delle province d’Oriente e di Occidente, e dopo che il torrente impetuoso dei popoli emigranti aveva incominciato a spezzare gli argini frali delle legioni romane. Il leggitore sa che Roma non era più sede degl’Imperatori d’Occidente, i quali avevano posta loro residenza in Ravenna, che, situata sulla marina e protetta dalle paludi, offeriva maggior sicurezza entro sue mura. Ed i Romani timorosi delle invasioni dei Barbari di Sarmazia e di Germania, stancavano con preghiere i loro deboli regnatori affinchè, abbandonata Ravenna, ritornassero alla Città deserta: alla maniera stessa [126] che, quasi mille anni più tardi, i loro nepoti supplicavano ai Papi di lasciare Avignone, e di riprendere loro seggio in Roma decaduta.
Il giovane Onorio s’arrese alla chiamata universale, e sullo scorcio dell’anno 403 Roma celebrava con grandi feste il suo ingredire nella Città, che per l’ultima volta mirava la pompa di un trionfo imperiale. Dopochè Stilicone colle sue vittorie segnalate di Verona e di Pollenza aveva reso sicuro l’imbelle Imperatore ed aveva salva Roma tremante dall’invasione che le minacciavano gli Ostrogoti irrompenti in Italia, veniva Onorio finalmente di Ravenna per la via Flaminia a festeggiare i suoi decennali e il suo sesto consolato, ed a ricevere gli omaggi delle vittorie che egli, o a miglior diritto Stilicone, aveva riportato sopra i Barbari.
Dopo il trionfo di Diocleziano e di Massimiano dell’anno 303, la Città non era mai stata animata da tanta gioja di feste. In quel tempo antico, Roma, orgogliosa di sua signoria universale, aveva festeggiato le vittorie riportate sui popoli di regioni remote, di Persia, d’Africa, di Bretagna e di Germania: ora invece, con minore alterezza ma con gioja più grande, celebrava la sua liberazione dal pericolo sovrastante della invasione nemica. Il poeta Claudiano ha una bella descrizione del viaggio di Onorio, della sua entrata in città e delle festività che furono date a sua onoranza[82]. La cadente Roma aveva l’apparenza di una fidanzata che si abbiglia per correre incontro allo sposo cui attende da gran tempo: ma la fidanzata era antica d’anni e lo sposo era un uomo imbelle.
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Passava Onorio dal ponte Milvio e muoveva lentamente sotto gli archi di trionfo eretti per la sua venuta. Sedeva sul carro trionfale, ed aveva al suo fianco Stilicone suocero suo, ch’era ad un tempo ministro ed eroico guerriero. Il popolo effeminato applaudiva a un capitano che ben meritava l’alto onore di entrare trionfante in quella Città che Mario, Cesare e Trajano avevano ornata delle spoglie di tanti popoli vinti. Tutto il territorio che si stende dal ponte Milvio sino al Campidoglio ed al Palatino era gremito di popolo. Persino sui tetti delle case affollavasi gente d’ogni sesso e di ogni età, la quale con gioja fervidissima mirava il corteo ed acclamava ora al giovine Augusto ed ora al pro’ guerriero, e con plauso infantile accennava alle schiere che seguivano l’Imperatore. La milizia era per la maggior parte formata di Barbari; ed i vessilli che s’agitavano al vento, gli arnesi guerreschi di acciaio, i cimieri scintillanti e ornati di penne di pavone, i manti su cui erano profusi ricami d’oro, ed i cavalli coperti di ferrea maglia eccitavano la meraviglia della moltitudine. Le corporazioni della Città s’erano raccolte per ricevere l’Imperatore, il quale non permise che il Senato precedesse a piedi il suo carro in atto servile, come era consuetudine. Non pochi Senatori erano ancora ostinati seguaci del Paganesimo; e ben di leggieri possiamo imaginare con quanta tristezza rimembrassero il tempo passato in cui gl’Imperatori muovevano al Campidoglio lungo la via trionfale, e con quale rabbia mirassero il clero che, col vescovo Innocenzo alla testa, s’era recato al ponte Milvio ad incontrarvi l’Imperatore.
Onorio mosse al palazzo dei Cesari, ove pose dimora; [128] e gli stuoli degli eunuchi di vario colore e le turbe di officiali della casa imperiale empirono nuovamente di moto le marmoree sale del Palazzo già rimaste deserte e mute. Imperocchè da cento anni il Palazzo fosse abbandonato, e due sole volte durante questo periodo avesse servito di albergo agl’Imperatori, venuti della loro sede a visitare Roma. Costantino il grande avevalo rapito dei suoi ornamenti preziosi ch’egli aveva trasportato a Bisanzio, laonde quell’immenso Palazzo sembrava una magione signorile, di cui, morti gli abitatori, comincia a decadere lo splendore. «Ma ora,» diceva con esagerata adulazione il poeta Claudiano, «il patrio palazzo dei Cesari riacquistò sua pompa antica; il monte Palatino sali ancora nell’onore d’un tempo; e, lieto che il Nume vi abbia posto novellamente sua dimora, ai popoli che imploravano prostrati, rese oracoli più sapienti di quelli che un giorno parlava la divinità di Delfo; e intorno alle statue rinverdirono i lauri rinnovellati di fronde novelle».
Durante il suo soggiorno in Roma nell’anno 404, Onorio diede al popolo romano nel Circo massimo splendidi spettacoli di corse di carri, di cacce di animali, di danze pirriche, che Claudiano descrisse con suoi versi.
I Pagani però furono delusi nella loro aspettazione di vedere restituiti i giuochi secolari nella loro forma antica: ed anzi ebbero il dolore di veder soppressi i combattimenti di gladiatori. Questi antichissimi e brutali spettacoli di sangue aveva già condannato Costantino con suo Editto dell’anno 325, ma non aveva potuto che imporre alcuni limiti a quella costumanza; imperocchè sotto i succeditori di lui fossero sempre dati [129] di quei ludi cruenti[83]. Secondo la testimonianza d’un antico Padre della Chiesa, riuscì soltanto ad un monaco di ottenere col sacrificio di sè stesso che, se pure non se ne togliesse il barbaro gusto dall’animo dei Romani, quei giuochi fossero almeno aboliti per sempre. Fu un Telemaco il quale lanciossi nell’arena dell’anfiteatro in mezzo dei gladiatori che ferocemente stringevansi nel bollor della lotta: animato da nobile fanatismo tentò di separarli e di impedire la pugna, ma pagò la pena del suo tentativo colla vita, chè i Romani irritati a colpi di pietra uccisero lo sciagurato. Ma il pio Onorio pacificò l’anima di quel defunto, ordinando che si venerasse tra i santi Martiri, e vietando per sempre i giuochi di gladiatori. La leggenda è bella e meriterebbe di essere vera, imperocchè, di tutti i giuochi antichi ai quali il Cristianesimo impose un fine, nessuno sia la cui abolizione torni a maggior onore della umanità. Mancano tuttavolta notizie certe del tempo in cui cessarono del tutto quei giuochi; ciò solo sappiamo, che la lotta e i combattimenti d’uomini contro le belve continuavano ancora ai tempi di Teodorico re dei Goti, il quale, benchè gli avesse ad orrore, non fu potente ad abolirli: per la qual cosa ancora a quei tempi deve aver suonato gradevolmente all’orecchio dei meschini Romani il ruggito [130] dei leoni e l’urlo delle tigri nell’anfiteatro di Tito[84].
Ma il soggiorno di Roma ad Onorio non riusciva gradito. La muta pompa della Città gli era di noja; la grandezza dei monumenti di lei opprimeva la sua anima gretta e meschina, e gli pesava l’influenza che esercitava il Vescovo di Roma troppo vicino. E già, verso la fine dell’anno 404, il terrore che lo prese alla notizia dell’appressarsi di una nuova orda di Barbari, lo costrinse a partirsi e a ricoverarsi a Ravenna, che sorge tra paludi, bello e forte arnese di guerra. Grave corruccio si impossessava dell’animo dei Romani alla sua partita, e bentosto, com’ebbero saputo del nemico irrompente, si mutava in terrore febbrile e ancor più grande di quello che in essi si fosse destato all’avvicinarsi del terribile Alarico. In sull’incominciamento dell’anno 405 un torrente di Barbari si riversava dalle Alpi, ed erano orde di Celti e di Germani in numero maggiore di 200,000 condotte da Radagaiso che le traeva dietro ai suoi passi colla speranza del ricco bottino dei palazzi dorati di Roma. Mentre que’ Barbari desolavano i fiorenti paesi d’Italia superiore, Onorio tremante si nascondeva in Ravenna, ed i patrizî romani intimoriti all’annunzio che i Barbari erano già sopra Firenze, s’apparecchiavano alla fuga. Ma Stilicone ivi sorprendeva il nemico, e lo sconfiggeva completamente e in tempo tanto breve, da potersene fare il paragone con uno sciame di locuste, che un turbine improvviso travolge e caccia nel mare.
Per la seconda volta Stilicone salvava l’Impero [131] occidentale; e i Romani riconoscenti gli erigevano appiè del Campidoglio una statua di bronzo e di argento; nè mai alcun capitano aveva avuto maggior diritto a un tale onore. Agl’imperatori Arcadio, Onorio e Teodosio alzavano un arco trionfale di brutta forma, l’ultimo che Roma vedesse sorgere[85]. E quella statua era l’estrema dimostrazione di onoranza cui Stilicone doveva ricevere nel corso di sua vita gloriosa; chè già nell’Agosto del 408 egli cadeva vittima degli intrighi di corte e dei suoi propri maneggi con Alarico re dei Visigoti, intorno alla natura dei quali la Storia non ci dà che cenni dubbiosi. Alarico, sceso di illustre lignaggio, era stato acclamato re dall’irrequieto suo popolo poco prima della morte di Teodosio. Egli si spingeva poco a poco in tutte le province orientali dell’Impero al di sotto del Danubio, portandovi guasto e distruzione; e penetrava fino nell’Ellade e nel Peloponneso; e la bella e sventurata Grecia tramutava in deserto squallido. Sorpreso da Stilicone negli angusti [132] passi d’Arcadia, poco mancò che non vi fosse distrutto, ma il suo genio militare lo trasse del pericolo. Poco dopo, la cabala dei nemici di Stilicone, potenti alla corte di Bisanzio, fecero che questa lo richiedesse di alleanza e lo creasse generale delle province d’Illiria. Finalmente egli guidava il suo popolo contro Italia, ma, disfatto negli anni 402 e 403 presso Pollenza e presso Verona, era ricacciato sulle sponde del Danubio. Stilicone con secreti maneggi e con promesse aveva saputo staccarlo dalla alleanza coll’Impero orientale e indurlo a entrare negli stipendî di Roma. Il trattato era già stato conchiuso; e mentre sembrava intento a preparativi di guerra in Illiria, che Stilicone voleva togliere all’impero d’Oriente, egli entrò di repente in Italia. E fermatosi in Emona, richiese alteramente Onorio che gli desse una remunerazione, e che lo indennizzasse di quanto aveva perduto desistendo dalla guerra d’Epiro. L’Imperatore era allora tornato a Roma, e Stilicone vi accorse in fretta di Ravenna, per poter interporsi colla propria influenza in quel difficile negozio. Il Senato, ch’egli aveva restituito ancora in qualche autorità[86], forse per farne un valido sostegno a sè ed ai suoi disegni, fu congregato nel Palazzo. Ad esso il generale fece aperte le pretese del nemico, ed espose ragioni per cui egli reputava che si dovessero accogliere: però soltanto dopo molti sforzi egli potè ottenere che i venerandi Padri dessero ad Alarico la somma di quattromila libbre d’oro. Ma Lampadio, l’uomo più illustre di quelli che sedevano in senato, s’alzò; ed in nome delle anime dei Grandi di Roma [133] antica, che avrebbero velata la fronte per vergogna udendo quella deliberazione, esclamò con ira generosa: «Non è pace questa, bensì pattuizione di servitù!»[87] Appena ebbe detto, che, sbigottito del suo ardire, corse nella chiesa cristiana più vicina a cercarvi asilo. Fu scintilla che infiammava il sentimento patrio dei Romani; ed i nemici di Stilicone ne trassero giovamento ai loro mali pensieri. Si alzarono alte grida di tradimento; al debole Imperatore si fè credere che Stilicone congiurasse con Alarico, suo alleato secreto, per gettarlo del trono, e che meditasse di disfarsi di lui per cingere la corona egli stesso o per darla al proprio suo figlio. La perdita del grand’uomo fu giurata. Gli avvenimenti succeduti durante il viaggio di Onorio al campo di Pavia, e che presentano uno spettacolo simile alle condizioni dei paesi di Persia o d’India, oltrepassiamo qui in silenzio, e solo arrestiamo con cordoglio lo sguardo nostro sull’ultimo eroe di Roma, il quale, fuggendo in cerca d’un asilo, abbraccia l’altare di una chiesa di Ravenna donde è fellonescamente strappato, e che, calmo ed altiero, offre il suo collo alla scure del carnefice.
Ritorniamo alla città di Roma. Nello stesso anno 408, dopo la uccisione di Stilicone, funestolla un terremoto di sette giorni[88]. La notizia della morte dell’eroe fu accolta da alcuni coll’attonitaggine dello stupore, da altri [134] con letizia. I Pagani odiavano in lui il Cristiano che aveva fatto ardere i libri sibillini, ed i Cristiani scagliavano contro di lui e contro del figlio suo Eucherio la accusa di propensione all’idolatria[89]. Le statue di Stilicone furono abbattute, e mentre i Romani miravano il teschio sanguinoso del giovane Eucherio, loro mostrato dagli eunuchi, scuoteva i loro petti un senso di angoscia ch’era presagio di loro tristi destini.
Alla notizia della fine ignominiosa del suo antico emulo ch’egli sperava amicarsi per dividere seco lui l’impero del mondo, Alarico fu commosso di nobile dolore nel tempo stesso in cui s’allietava di un avvenimento che, mettendo in aperto la debole mente di Onorio e la viltà dei consiglieri di lui, poneva Roma in sua balìa. Ed egli scese a vendetta e a conquista. Di quell’uomo straordinario narrasi che la voce di un Genio incessantemente gli parlasse all’orecchio comando di muovere su Roma. E raccontasi di un monaco che, angosciato delle sorti della Città, si presentasse ad Alarico e lo scongiurasse a desistere dall’impresa orrenda, a cui il Re rispondesse: non è mia volontà che mi guida, ma havvi alcuno, che sempre mi cruccia, e mi caccia, e mi grida: [135] «Innanzi! innanzi! distruggi Roma!»[90] San Gerolamo, santo Agostino ed il cardinale Baronio spiegano la natura del Genio di Alarico per un impulso della Divinità, la quale voleva colpire di sua vendetta Roma degenere, nella pienezza delle sue colpe. E già può vedersi che l’animo del Re goto era dominato da una di quelle tendenze irresistibili e quasi fatali, che spingono l’uomo a cercare impresa infinita. Imperocchè il pensiero di vincere Roma apparisse alla mente umana come qualche cosa d’infinito e quasi trascendente le forze dell’uomo, e l’idea orgogliosa di porre il giogo alla capitale del mondo, dovesse esercitare un’attrattiva irresistibile sullo spirito di un Barbaro. Ed Alarico dalla conquista di Roma poteva sperare solo di porre in maggior disordine le condizioni politiche d’Italia, non già di potersi mantenere nella sua signoria; perocchè egli, il potente dell’oggi, fosse senza alleati, nè lo favorissero quelle opportunità politiche che altra volta erano state di giovamento ad Annibale ed a Pirro.
E già da cento anni s’addensavano su Roma quelle oscure nubi ch’erano nuncio di sua rovina. La Città era il monumento di ogni cultura, di ogni civiltà, il palladio della umanità. Quantunque poco a poco con guerre ardite di cui non ha altri esempî la Storia, avesse reso soggette le nazioni di mezzo mondo, e ne avesse distrutta l’independenza, Roma non ne aveva eccitato l’odio; chè anzi era venerata quale centro sacro della terra. I soli Cristiani potevano avere Roma in abborrimento, come [136] quella ch’era stata sede al culto degl’idoli; e già quei libri sibillini ch’erano stati composti in Alessandria al tempo degli Antonini, avevano predetto che la Città sarebbe distrutta dopo la venuta dell’Anticristo, ch’era da attendersi fra non molto tempo, e che dipingevasi nella figura del matricida Nerone il quale farebbe ritorno dallo estremo confine della terra. Le orde di popoli sarmati e germanici, che nel secolo quarto s’avvicinavano alle frontiere dello Impero, sembravano confermare quelle predizioni; e un terribile sbigottimento si spargeva tra il popolo la cui mente paurosa già scorgeva l’antica Città caduta sotto il ferro dei Barbari. E tra i Cristiani s’era sparsa la credenza che i popoli conquistatori metterebbero Roma a ferro e a fuoco, non lasciandone pietra, come anticamente era avvenuto di Ninive e di Gerusalemme. Non è da stupire se già ai tempi di Costantino s’elevasse una voce che, simile a quella che s’alzava dipoi nel secolo ottavo ai tempi del monaco Beda, dichiarava che la caduta di Roma sarebbe indizio e cagione della fine del mondo. «Allorchè questa dominatrice della terra», diceva l’oratore Lattanzio, «sarà stata atterrata ed il fuoco l’avrà distrutta, non c’è niuno il quale dubiti, che ogni cosa deva perire, e che del mondo sia venuta la fine; imperocchè questa Città sia ancora sostegno del mondo. Perlocchè fervide preci innalziamo al Dio del cielo, affinchè, se il compimento dei suoi decreti possa essere differito, egli voglia ritardare il tempo in cui apparirà l’abborrito tiranno che funesterà la terra dell’empie sue opere, e che spegnerà quella luce al cui estinguersi il mondo tutto cadrà nel nulla»[91].
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Quelle ombre di terrore ricevettero una sostanza ed un ragionevole motivo allo scendere dei primi Goti in Italia. E già i poemi di Claudiano della guerra gotica, sono improntati di quel senso di tristezza profonda, che il presentimento della caduta inevitabile del colosso romano induceva nel cuore dell’uomo. «Alzati», sclama il Poeta, «o madre venerabile: scuoti da te la tema vergognosa della vecchiezza, o città coeva del mondo. Imperocchè la Parca porrà sopra di te la ferrea mano allora soltanto che le acque del Don irrigheranno Egitto, e allora che il Nilo si getterà nella palude Meotide». Ma sotto queste apostrofi ardite si nascondevano gemiti di paura repressa. E alla notizia che Alarico s’avanzava, un terrore febbrile s’impadroniva dell’animo dei Romani, che lo stesso Claudiano ci descrive con tanta evidenza di stile. Nell’anno 402 il Re dei Goti guadava il Po, e già agli imbelli Romani pareva di udire il nitrito dei corridori dei Barbari. E molti s’apprestavano alla fuga in Corsica, in Sardegna e nelle isole di Grecia: e s’accresceva lo sbigottimento universale con racconti della luna che s’era oscurata, e di apparizioni di tetre comete, e di fantasimi vagolanti, e di portenti spaventosi: e spargevasi tra il popolo la credenza che i dodici avoltoi apparsi in antico a Romolo fossero presagio che la Città dovesse durare dodici secoli e che ora si compiesse[92]. Altra volta Roma era salva da Stilicone, ma ora egli non era più; ed i generali Turpilio, Varane e Vigilanzio, ch’erano chiamati a surrogarlo, non ne avevano ereditato il genio, [138] nè potevano mettere riparo alla cecità profonda della corte di Ravenna, la quale con caparbietà fanciullesca aveva rigettata la pace offerta da Alarico e le sue requisizioni moderatissime.
Sprezzatore dei suoi nemici il Re goto non sostò lungo tempo: guadato il Po presso Cremona, mettendo a ruba tutto il paese, e lasciando dietro le sue orme incendio e strage, in breve era sopra Bologna e Rimini; e, accelerando il suo cammino lungo la via Flaminia, giungeva d’improvviso alle mura di Roma ch’egli faceva circondare dai densi stuoli dei suoi agili cavalieri, che abbeveravano i loro corridori nelle onde dell’Anio e del Tevere, e dalla moltitudine dei suoi pedoni, che, avanzandosi fin sotto le mura gettando grida selvagge, percuotevano colle loro lance le porte d’Aureliano.
Alarico non diede alcun assalto; egli cinse la Città ordinando le sue soldatesche dinanzi le porte, e intercettando ogni via di terra e del fiume alle vettovaglie, e attese la riuscita infallibile dei suoi provvedimenti. Roma era immobile, quasi immersa in letargo; e, tremanti dietro il riparo delle loro mura fortificate, i Romani cercavano di atterrire il nemico collo spettacolo sanguinoso della testa recisa della illustre Serena. Quell’altera e sciagurata sposa di Stilicone viveva entro il suo palazzo di Roma immersa in amaro cordoglio, divenuto ancor più grave allorchè gli eunuchi le ebbero condotta la figlia Termanzia, che Onorio aveva cacciato del suo talamo; imperocchè, morta la sorella di lei, Maria, l’Imperatore la avesse disposata in secondo maritaggio, giovinetta ancora, appena uscita di puerizia. Il Senato aveva accolto sospetto che Serena, per trarre vendetta, avesse chiamati [139] i Goti su Roma, e che con loro tenesse segreti accordi; laonde precipitava al vile consiglio di darla in mano al carnefice. La principessa Placidia, giovine di ventun anno, sorella di Onorio e cugina di Serena per via di Teodosio, non ebbe ribrezzo di acconsentire a quell’assassinio vituperevole. Ella aveva stanza allora nel Palatium; ed in quel tempo passavano in Roma gli anni di loro vedovanza altre donne regali: Leta, già moglie dello imperatore Graziano, e la vecchia madre di lei, Pissamena. Ma il Senato s’ingannò nella credenza che i Goti, perduta la speranza di penetrare in Roma per tradimento, dopo la morte di Serena cedessero e ne partissero: chè invece mossero il campo soltanto per istringere più vicino l’assedio. Allora la Città incominciò ad affamare; e la carestia ed un feroce morbo coprivano le vie di cadaveri: nè molto giovava che quelle nobili donne tramutassero i loro monili in iscarso pane per alleviare i bisogni del popolo.
Ridotti finalmente agli estremi, i Romani diedero incarico allo spagnuolo Basilio, ed a Giovanni tribuno dei notai imperiali, d’un’ambascieria, perchè trattassero della pace. E durante l’assedio, avevano sì poco mirato in faccia il nemico, che accoglievano quasi speranza che non il temuto Alarico, ma bensì un altro condottiero avesse posto campo dinanzi alle loro mura. Condotti i legati innanzi al Re, assunsero la dignitosa baldanza di cittadini romani, e parlarono quei sensi arditi di cui il Senato gli aveva fatti messaggieri: dissero, il popolo, destro nelle armi, approntarsi alla pugna se il Re volesse spingerlo agli estremi colla durezza delle sue esigenze. Ai quai detti il Re rispondeva con ischernevole sprezzo: [140] «Il falciatore sega le erbe del prato tanto più facilmente quanto più sono fitte», e con alto riso applaudivano tutti quelli che lo circondavano. Poi chiedeva colla baldanza del vincitore a prezzo della sua partita che gli si consegnasse tutto quanto la Città possedeva di oggetti preziosi in oro ed in arredi, e che gli si dessero tutti gli schiavi di origine barbarica. E avendo domandato uno degli ambasciatori atterriti, che pensasse di lasciare a Roma: «le vite!», rispondeva. E accomiatatili, i legati tornavano al Senato.
Mentre la Città stava in tanta trepidanza, un avvenimento strano succedeva entro le sue mura. Uomini venuti di Toscana e dotti negli antichi misteri degli auguri (arti coltivate nella loro patria), che forse il pagano Pompejano, prefetto della Città, vi aveva chiamati, promettevano di liberare Roma dal nemico incalzante con loro incanti, se il Senato volesse offrire sacrificî solenni alle Divinità della Religione antica. Zosimo storico pagano, che narra quest’avvenimento, afferma che lo stesso vescovo Innocenzo, avrebbe permesso di operare agli auguri, quantunque non approvasse. Egli è duopo però confessare che il Paganesimo fosse affatto spento in Roma, imperocchè nessuno volesse sacrificare. I Toscani furono cacciati e si pensò a mezzi più efficaci per liberare da Alarico la Città[93].
Dopo una seconda ambasceria, più pressante della prima, il Re si dichiarò soddisfatto ad una taglia di cinquemila libbre d’oro, e di trentamila libbre d’argento. [141] Egli voleva inoltre tremila pelli colorate in porpora, quattromila tessuti di seta, tremila libbre di pepe, e questa requisizione dimostra la raffinatezza del gusto e dei bisogni dei Barbari al paro dei Romani. Per raccogliere la somma di denaro contante del riscatto, non bastò un’imposizione forzata su tutti i cittadini agiati; chè si dovette ricorrere agli ornamenti dei templi chiusi, e si fusero statue d’oro e d’argento: e questa è dimostrazione che in Roma ancora s’ergevano in piedi simulacri preziosi degli Dei antichi. E fra quelle statue che perdettero le loro forme squisite entro il crogiuolo, Zosimo deplora con isdegno la perdita del simulacro nazionale della dea Virtù, col quale, dic’egli, perì in Roma anche l’ultimo avanzo di valore e di virtù.
Dopochè furono numerate le somme imposte per il riscatto, il Re dei Goti allentò la rigidezza dell’assedio lasciando libertà di uscita per alcune porte, concedendo tre giorni di mercato e adito alle vettovaglie per la via del fiume. Egli partiva finalmente di Roma colle sue soldatesche, e poneva suo campo nel territorio di Toscana, ove raccoglievansi ben quarantamila schiavi di origine barbarica, che pochi a pochi fuggendo di Roma, erano corsi dietro alle orme di lui. Ivi egli attendeva risposta dalla corte di Ravenna sulle proposizioni di pace che in [142] suo nome le offerivano i legati spediti dal Senato e chiedenti che con Alarico si stringesse alleanza, resa sicura dalla tradizione di nobili ostaggi. Ma Onorio, o piuttosto Olimpio ministro di lui, respinse quelle proposte con orgoglio tanto più condannevole che l’Impero era debole e Roma sguernita, e che le richieste di Alarico erano moderate. Imperocchè egli si dichiarasse pago ad una contribuzione annua d’oro e di grano, alla cessione del Norico, della Dalmazia e delle due Venezie, ed al titolo di generale dell’esercito imperiale.
Fra i legati che Roma mandò parecchie volte all’irresoluto Imperatore, fu anche il vescovo Innocenzo: ma nè le sue esortazioni, nè le energiche istanze degli altri ambasciadori che dipinsero con foschi colori le calamità sofferte e i nuovi pericoli che minacciavano Roma, valsero a smuoverlo; ed Alarico ebbe l’onta che Giovio, novello ministro, gli desse convegno in Rimini per dichiarargli sprezzantemente che Onorio gli rifiutava il titolo di generale imperiale. Rodendosi del dispetto, il Re goto partiva di Rimini e muoveva la seconda volta contro Roma; eppure faceva cheta ancora una fiata la voce del suo Genio, sia che lo ritenesse venerazione della Città, oppure lo muovesse ragione politica. Raccolti i Vescovi di molte città d’Italia, mandavali ad Onorio, affinchè lo esortassero, che non volesse caricarsi dell’orrenda colpa di abbandonare all’avidità dei Barbari quella Città la quale da più che mille anni dominava il mondo e di darne gli splendidi monumenti in preda alle fiamme. Anzi egli recedeva dalle sue pretensioni; chè gli bastava una carica qualunque dell’Impero, il solo Norico, qual si fosse quantità di grano, un trattato di alleanza che [143] gli permettesse di muover guerra ai nemici dell’Impero. Stupiva il mondo alla moderazione di quel Re, eppure i ministri rispondevano aver giurato pel sacro capo di Onorio, che non stringerebbero mai la pace con Alarico; ed essere lecito mancare a Dio con uno spergiuro prima che all’Imperatore[94].
Le temperate domande del Re dei Goti devono, a dir vero, sembrare misteriose, e sarebbe male avvisato chi volesse darne ragioni morali. Imperocchè un conquistatore sia rade volte rattenuto da senso di venerazione verso un santuario dell’umanità, se non siano piuttosto altri motivi di prudenza. Il valente Goto ben vedeva che, affidato al solo suo esercito privo d’alleati e mal nutrito, non avrebbe potuto tenere la Città in sua signoria per lungo tempo; laonde pensava ch’era da prescegliersi il possedimento di una provincia dell’Impero più ristretta, ma reso sicuro da un trattato publico. Giunto di nuovo innanzi all’atterrita Roma, raffrenò l’ardore guerriero delle sue soldatesche che si sarebbero altrimenti spinte alle mura, e spedito ai Romani un messaggio di brevi ma superbe minacce, continuò con mossa affrettata il suo cammino sino al porto della foce destra del Tevere. Ivi gl’Imperatori avevano eretto come per incanto opere gigantesche sulle paludi che stanno presso l’imboccatura: in questo tempo s’alzavano splendidi ancora e animati di vita quegli edificî, che oggidì invece, profondati nelle salse gore, mostrano soltanto poche ruine tra le quali s’appiattano stuoli di uccelli palustri. Giunto, superò la resistenza del presidio romano e prese il [144] Porto. Padrone di tutte le vie onde Roma poteva trarre vettovaglie, minacciò di nuovo la Città degli orrori della fame e della peste se non fosse obbediente al suo impero e se non disdicesse ossequio all’imbelle Onorio.
Il Senato, forse astrettovi dal popolo tumultuante, cedeva, e chinavasi all’obbrobrio di ricevere dalle mani del Re goto una scimmia d’Imperatori, e d’insediarlo nel palazzo dei Cesari. Quel fantoccio fu Attalo, che Onorio aveva in tempi anteriori eletto prefetto della Città. Involto nella porpora e cinto del diadema, circondato da un corteggio di dignitarî fabbricato all’improvviso, fu condotto al Palatium ove, seduto sul trono imperiale, diede ordinamenti al suo Stato che non aveva delimitazione, elesse Alarico a generale supremo degli eserciti dell’Impero, Ataulfo cognato di lui a prefetto della cavalleria, ed altri ad altre magistrature. Il giorno dopo congregò il Senato, e con un discorso ampolloso promise che renderebbe l’universo suddito a Roma.
Tuttavia i Romani erano lieti del mutamento, chè ormai li rallegrava ogni novello spettacolo che interrompesse la loro quiete letargica. E l’elezione del loro concittadino Tertullo a console faceva loro accogliere grata speranza che sarebbero restituiti i giuochi del circo e le altre gioie della vita cittadina di un tempo. La sola famiglia ricchissima degli Anicî, chiusa nelle sue case, si teneva orgogliosamente in disparte con grave dispetto del popolo. Gli Anicî erano alla testa dell’aristocrazia cristiana di Roma; e nell’istesso tempo in cui, rimembrando le geste dei loro maggiori, che avevano avuta tanta potenza nel reggimento dello Stato, sentivano profonda vergogna della Città avvilita, avevano [145] gravi motivi di temere delle conseguenze di quell’avvenimento. Attalo era pagano, e benchè, per amicarsi l’animo dei Goti, si fosse fatto battezzare da uno dei loro Vescovi ariani, tuttavia favoriva publicamente il Paganesimo; nè soltanto dava licenza che i templi si riaprissero, ma faceva cancellare dalle monete l’imagine del Labaro col monogramma di Cristo, e, invece del segno di croce, vi faceva incidere la lancia e la figura della Vittoria romana[95].
Il nuovo Imperatore partiva di Roma con Alarico e muoveva alla volta di Ravenna per cacciare, come avevane espresso il vanto, Onorio di quella fortezza. Alla vile proposta di quest’ultimo di associarlo al trono, rispondeva: non soltanto il titolo volere strappargli, ma neppure volere lasciargli integro il sacro corpo; chè, dopo di averlo mutilato, lo condannerebbe a relegazione in qualche isola. Più di queste meschine e ridicole minacce, la codardia del ministro Giovio metteva tale paura in Onorio, che s’apprestava a fuggire a Costantinopoli, allorchè l’ingredire improvviso di sei coorti nel porto di Ravenna rialzò il suo animo. Poco tempo scorreva, ed Alarico, che si maneggiava continuamente con Onorio per la pace, toglieva il favore alla sua creatura. Irritato per gli stolti provvedimenti che Attalo aveva dati in Africa contro il conte Eracliano governatore di [146] quella provincia, trattolo un giorno fuori delle mura di Rimini, gli fè strappare la porpora dalle spalle e il diadema regale dalla fronte; e, spedite quelle insegne ad Onorio, tenne Attalo e il figlio di lui Ampelio in condizione privata, sebbene onorevole, presso di sè, affine di avere sempre pronta un’arma con cui atterrire la corte di Ravenna quando gli talentasse.
Ma fallirono le speranze di uno scioglimento pacifico. L’arrivo di Saro, valoroso condottiero goto che nutriva sanguinosa inimicizia contro Alarico, l’attacco repentino con cui egli sorprese con trecento scelti soldati le truppe di Ataulfo, finalmente il festevole accoglimento ch’egli ebbe entro le mura di Ravenna, persuasero ad Alarico che i negoziati della corte imperiale non erano che scaltre finzioni diplomatiche; laonde, ardente di rabbia, levò il campo dalle mura di Ravenna, ed a mossa forzata spinse l’esercito contro di Roma.
Dalle alture circostanti gli Unni ed i Goti gettavano gli avidi sguardi su Roma; e alla loro impazienza febbrile il Re non poneva più freno, ma anzi stimolava. Dinanzi ad essi la Città immensa si stendeva nella triste Campagna, cui da lunge facevano splendido contorno le giogaie del Sabino e di Preneste e i bei poggi d’Alba, dai quali in antichi tempi Annibale aveva gettato il suo sguardo feroce sulla terra romana, e donde l’occhio scorreva sulla linea retta formata dalla Via Appia, fiancheggiata da sepolcri, in mezzo ai quali torreggiava sublime il mausoleo di Cecilia Metella. Nel territorio vaticano, che si stendeva ai loro piedi, quei guerrieri feroci vedevano la basilica del san Pietro, e più in su, presso la sponda del Tevere, miravano la basilica di san Paolo che [147] sorgeva isolata. E i loro condottieri dicevano che dovessero staccare gli avidi occhi da quei santuari degli Apostoli, ricchissimi d’oro e d’argento; ma che le rimanenti ricchezze che si accoglievano entro le mura di Aureliano, sarebbero loro, tostochè avessero superati quei baluardi altissimi. Animati dal disio di rapina già sembrava loro di toccare i monti d’oro che numeravano nella fantasia. Dinanzi ai loro occhi si apriva lo spettacolo di monumenti ch’erano veri miracoli d’arte: un mondo di case antiche di secoli, al di sopra delle quali si ergevano qua e colà obelischi, e colonne coronate di statue dorate, e templi che si alzavano maestosi in lunghe serie sulle piazze, e teatri, e il circo che si lanciava al cielo con ardite curve, e terme dagli ombrosi portici e dalle ampie cupole che splendevano percosse dai raggi del sole, e giganteschi palazzi dei cittadini ragguardevoli che avevano l’aspetto di tante ricche città nel mezzo della Città, e che alla mente dei Barbari si dipingevano pieni di tesori e abitati da belle Romane, cui nessuna difesa proteggeva. E la loro imaginativa era alimentata dalle favolose narrazioni delle ricchezze della Città, che da fanciulli avevano udite dalla bocca dei loro padri sulle sponde dell’Istro o presso la palude Meotide. Ignoravano che quella fosse la città degli Scipioni, di Catone, di Cesare, di Trajano, che aveva diffuse tra gli uomini le leggi della civiltà; e, se anche lo avessero saputo, mossi da impulso bestiale non ne avrebbero ricavato alcuna idea elevata: ma ciò soltanto sapevano che Roma aveva soggiogato il mondo colla forza dell’arme, e che accoglieva in sè le ricchezze del mondo tutto, le quali nessun nemico aveva mai tocche e che loro [148] appartenevano come preda di guerra. E tra loro erano molti i quali speravano d’impadronirsi di tanta quantità di perle e di gemme, da contarle come il grano si misura, e di trasportare a colme carra i vasi d’oro e gli arredi preziosi. Gl’irsuti Sarmati dell’esercito d’Alarico, coperti di rozze pelli di animale, armati di archi e di frecce, ed i robusti Goti coperti di corazze di rame, rozzi figli della natura e della vita nomade guerriera, non potevano avere cognizione delle lautezze del gusto e della perfezione delle arti romane, chè la loro indole selvaggia racchiudeva entro angusta cerchia i concepimenti della loro mente: sentivano soltanto oscuramente che in Roma eglino s’immergerebbero entro un bagno di voluttà e ne inebbrierebbero tutti i sensi, e già sapevano che i Romani erano spregevoli crapuloni, oppure imbelli asceti.
A dare la descrizione della città e del popolo di Roma, su cui già pendeva la spada dei Goti, non abbiamo altri colori da quelli che lo storico Ammiano Marcellino usava a dipingere i costumi del popolo romano del tempo suo. Il quadro offertone da lui appartiene, per vero dire, all’epoca di Costantino e di Graziano; tuttavolta rappresenta le condizioni della società romana nell’anno 410, perocchè durante il periodo di trenta o di cinquanta anni, quelle tinte non potessero impallidire, ma dovessero [149] anzi farsi sempre più oscure[96]. Ammiano dà la dipintura del ceto patrizio e della plebe di Roma: e nel suo quadro mette in risalto con colori luminosi le condizioni sociali dell’aristocrazia, involgendo in una massa di ombre la vita delle classi inferiori. Molti tocchi del suo pennello ricordano le descrizioni dei satirici antichi: del resto la figura del patrizio romano ci appare simile a quella ch’era ai tempi di Nerone e di Domiziano, e soltanto ravvolta entro un paludamento di foggia bizantina orientale. Ammiano ci dipinge i costumi del nobile romano quale era in casa, al bagno, in cammino per la Città, oppure in viaggio per le sue possessioni della Campania. Lo vediamo in sale splendide di sculture e di preziosi musaici, sedere a mensa circondato da parassiti e da giuocatori di professione, e pompeggiare in mezzo alle loro adulazioni servili, lodando la magnificenza del palazzo e la bellezza dei suoi quadri, e facendo ammirare la mole dei fagiani, dei pesci, dei ghiri che comparivano sul desco, e del cui peso alcuni scrivani dall’aria importante tenevano nota. Ammiano lo dipinge, come il Parini descrive il gentiluomo milanese, sedente su molli cuscini di seta mentre sta leggicchiando le satire di Giovenale, che col racconto delle avventure galanti dei suoi avi ne solleticano i gusti pravi, oppure gli scritti di Mario Massimo: imperocchè le biblioteche sieno come le tombe sempre spalancate ove si depongono cadaveri l’uno appresso dell’altro, chè il filosofo è cacciato dallo scribacchino di scurrili facezie e l’oratore è messo in bando dal maestro di arti oscene. Allorchè il [150] nobile signore, che si è imposto i nomi bizzarri di Reburro o di Tarrasio od altri simili, è sorpreso da noja, egli chiude gli occhi al sonno, cullato da melodie di flauti oppure dal canto delizioso dei suoi musici; e allorchè si risveglia, l’armonia di organi e di cetre (della grandezza di un cocchio a due ruote), rianima gli spiriti di lui. Se lo prende vaghezza di gire al teatro, sono pronte a rallegrare i suoi sensi tremila cantatrici ed altrettante ballerine che rappresentano le favole antiche, facendo mostra di tutte le grazie e delle pose più voluttuose del loro corpo. Al teatro oppure alle terme egli va colla pompa superba di un pascià facendosi trasportare in lettiga, oppure facendosi trascinare in un cocchio sontuoso. Lo precede uno stuolo di schiavi ordinati in ischiere, innanzi alle quali cammina l’ispettore che tiene la verga: poi vengono i camerieri, indi i cuochi, ed ultima una turba di schiavi e di oziosi plebei dimoranti nel quartiere ove ha stanza il patrizio: chiude finalmente il corteggio una folla di eunuchi d’ogni età, che, al colore terreo ed al contorcimento abituale del volto, mettono schifo. Così Fabunio o Reburro, eccitando la meraviglia di chi lo incontra, attraversa le vie di Roma, s’egli ha talento di girsene alle terme di Caracalla, ov’egli tragge non già perchè il bagno publico offra maggiore splendidezza di quello del suo palazzo, ma perchè il magnifico signore vuole ivi far pompa della sua ricchezza, e farsi baciare il ginocchio e la mano da coloro cui dona il suo favore. E se colà gli viene presentato qualche straniero, egli lo alza al sommo grado di felicità se degna di chiedergli ove prenda il suo bagno, di quali acque medicinali faccia uso, in quale palazzo dimori.
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Allorchè poi, dice Ammiano, quegli uomini ragguardevoli di Roma se ne vanno alle loro possessioni, credono di andare a spedizioni simili a quelle di Alessandro Magno e di Cesare; e nel cammino fanno pompa di cacciagioni raccolte da altri, oppure varcano il lago di Averno per girsene a Puteoli ed a Gaeta sopra gondole variopinte, entro le quali hanno riparo dagli ardori del sole. E se una mosca entra sotto i lembi di seta delle cortine dorate, o se il più sottile raggio di sole penetra da una fessura dell’ampio baldacchino, si dolgono del destino che non gli abbia fatti nascere fra i Cimmerî.
Non c’indugiamo a dare altre dipinture della vita corrotta di quei patrizi di Roma, pagani o cristiani. Affine soltanto di dare un’idea delle immense ricchezze dei Grandi romani riferiremo alcune notizie che ne dà Olimpiodoro. A descrivere la magnificenza dei palazzi romani, quello Storico, che ne parlava di veduta, dice ch’essi potevano contenere entro le loro mura tutto ciò che una città di media estensione in sè comprende, un ippodromo, piazze, templi, fontane e terme, per la qual cosa poteva ben dirsi: «Una sola casa è una città, e innumerevoli città la Città entro di sè contiene»[97].
Molte famiglie romane, dietro sua testimonianza, cavavano dai loro possedimenti una rendita annua di quattromila libbre d’oro, senza comprendervi i prodotti in natura che formavano la terza parte di quella somma, [152] se cambiavansi in denaro. Lo Storico narra che Probo, figlio di Alipio, per celebrare la sua elezione a pretore spese milleduecento libbre d’oro soltanto: e l’oratore Simmaco, ch’era un senatore che possedeva mediocre ricchezza, nei tempi anteriori alla caduta della Città consumò duemila libbre d’oro nelle feste date per solennizzare la elezione di suo figlio alla pretura, e Massimo vi spese l’enorme somma di quattromila libbre dando giuochi che durarono sette giorni.
I giuochi del teatro e del circo, e il piacere del bagno erano ancora di sollievo alla miseria della plebe, la quale godeva delle distribuzioni che continuavano ad esserle fatte di pane, di grasce, di olio, di vino[98]. Ammiano cita i nomi dei plebei più famosi della Città al suo tempo, come quelli di Cimessore, di Statario, di Semicupe, di Serapino, di Pordaca e di altri; e dice che loro vita passavano tra il vino ed i dadi, nei bordelli e nelle taverne, e che il Circo massimo era loro tempio, loro dimora, loro curia, luogo cui rivolgevasi ogni loro speranza ed ogni loro desio. E ce li descrive che formano capannelli nelle piazze, e a torme nei crocicchi delle strade disputanti acremente, i vegliardi giurando per loro bianchi capelli che Roma deve perire se nelle prossime corse questo o quel cavallo non guadagna il premio, se la fazione di questo o di quel colore non trionfa. Nel giorno delle corse tanto desiato, allo spuntar del sole s’accalcano con commovimento febbrile alle porte del circo. E la istessa mania li prende per ogni altro spettacolo, si rappresenti il dramma o la pantomima, oppure si dieno cacce [153] o corse di carri. Il genio frenetico di sollazzi, già insito nell’indole dei Romani ed accresciuto nell’ozio, sembrava ora formare una parte essenziale della loro natura; e santo Agostino giungendo le mani deplora, che coloro i quali dal sacco di Roma fuggivano a Cartagine e che nella miseria estrema andavano accattando un pane, accorressero ogni giorno ai teatri per assistere agli spettacoli, e vi formassero partiti che davano origine a contese accanite[99].
Gli ultimi elementi della società pagana di Roma si trovavano in una condizione di corrompimento universale; e d’altro canto il Cristianesimo in questo periodo di decadimento operava con influenza debolissima sul popolo romano, il quale, lasso di vecchiezza e privo di vigore, non poteva accogliere nei costumi antichi di sua vita la scintilla animatrice di quella energia giovanile. La religione di Cristo, il cui codice non avevano già dettato ragioni politiche, nè l’egoismo che regge le costituzioni dell’uomo, aveva eretto a principî morali la libertà e l’eguaglianza nella società, entro il cui seno gli uomini formare dovevano comunione di amore. Queste idee, le quali minacciavano la rovina esiziale allo «Stato», cui facevano guerra come ad un istituto pagano ed aristocratico eretto dal sospetto del despotismo, non poterono però ottenere vittoria sul civismo romano. Il quale si cacciò entro la società cristiana sotto forma di una Chiesa visibile e gerarchica, la quale si eresse di fronte allo Stato pagano. Il despotismo di questo, il suo corrompimento che toglieva speranza di restituirlo in [154] vigoria, la sua decrepitezza avida e schifosa, disgustavano gli uomini, dinanzi ai cui occhi s’alzava la figura della Chiesa, che, splendida e robusta di giovinezza, gli induceva a fuggire la vita civile ed i doveri che quest’ultima imponeva. I Romani, che anticamente avevano mostrata la più grande operosità politica e civile di cui un popolo sia capace, entravano adesso in un’epoca durante la quale dovevano immergersi in un letargo d’indifferenza assoluta per tutto ciò che spettasse alla conservazione ed allo splendore dello Stato: e questa era cagione suprema di rovina a Roma. La filosofia stoica, che un tempo era stata rifugio ai migliori contro gli orrori del despotismo imperiale, eccitava pure il cittadino all’operosità nell’adempimento dei doveri politici, laddove invece la filosofia cristiana lo induceva a rinunciare alla vita publica. Basta soltanto paragonare gl’insegnamenti pratici di Epitteto e di Marco Aurelio con quelli di san Gerolamo e di san Paolino di Nola perchè balzi all’occhio la differenza. Come esemplare della perfezione umana proponevasi l’ebbrezza mistica della vita claustrale, quantunque però anche l’ascetismo ed il monachismo fossero un progredimento grande e necessario per la civiltà interiore dell’umanità. L’uomo cui respingeva un mondo corrotto ed odioso, fuggiva dalla torbida agitazione delle cure publiche; e, chiudendosi entro la cerchia ristretta della propria personalità, cercava quella libertà morale che il Paganesimo romano aveva disconosciuta. Così sottraevasi al corrompimento universale, elevandosi a contemplazioni di natura eterna. Ma il monachismo fu d’altro lato ragione che si perdessero anche le ultime reliquie di virtù civile e politica; e [155] l’ultima virtù di Roma, che spingeva i suoi cittadini a cingere il cilicio, fu causa del suo estremo esizio. Nobili Senatori si chiudevano nei conventi; nepoti e figli di Consoli non arrossivano più di mostrarsi fra i loro pari colla testa rasa e ravvolta entro le lane del cappuccio. «Ai tempi nostri», esclama san Gerolamo, «Roma presenta uno spettacolo non mai veduto dal mondo in tempi anteriori. Altra volta pochi cristiani si contavano tra i sapienti, tra i possenti e tra i patrizî; oggidì invece molti uomini illustri per potenza, per sapienza, per nobiltà di sangue si numerano tra i monaci»[100].
Nella Città di Roma prevaleva ormai in quel tempo con vaste proporzioni il chericato: non si creda però che gli elementi di esso, sparsi tra il popolo, fossero di natura purissima, chè anzi il Cristianesimo aveva trovato in Roma il corrompimento in brevissimo tempo: nè è da stupirne, perocchè il terreno in cui era stato gettato il seme dei suoi insegnamenti fosse guasto, e meno di qualunque altro del mondo atto a produrre buoni frutti.
In molte lettere di san Gerolamo troviamo una descrizione dei costumi di Roma cristiana che è simile ad una satira. È bel riscontro al quadro di Ammiano, nè perciò possiamo ommettere di farvi osservazione. E Ammiano stesso, il quale è scrittore non avverso ai Cristiani, già facevasi amaro censore del lusso e dell’ambizione dei Vescovi romani, in quel celebre passo in cui parla delle lotte sanguinose avvenute tra Damaso ed Ursicino che si disputavano il seggio vescovile di Roma. «Io non nego», dice Ammiano, «allorquando considero lo splendore [156] delle cose mondane, che quegli uomini per ansioso desio di superarsi in potere dovessero combattersi con tutta la rabbia dei partiti; imperocchè, ove raggiungessero il loro scopo, sarebbero sicuri di arricchire coi doni delle matrone, di pompeggiare in cocchi splendidi, di vestire magnificamente, di tenere apparati di mense che sarebbero più sontuose dei conviti principeschi. Eppure beati potrebbero appellarsi, se, sprezzatori del lusso mondano col quale saziano i loro vizî, imitassero la semplice vita di alcuni buoni preti delle campagne. La temperanza nel cibo, la modestia nel vestimento, l’umiltà dello sguardo costringono il vero adoratore dell’eterno Iddio a venerarli quali uomini puri e santi»[101].
San Gerolamo che nei tempi suoi primi era stato secretario del vescovo Damaso, narra di avvenimenti dei quali era stato testimonio oculare, e descrive la vita dei preti e dei laici cristiani, degli uomini e delle donne, e singolarmente delle donne che in ogni tempo sono maestre di costume. Egli dipinge l’ipocrisia della pinzocchera, l’astuzia del monaco che va a caccia di eredità, l’orgoglio delle monache, la stolta superbia dei frati, il libertinaggio dei diaconi che fanno pompa del Cristianesimo con aristocrazia romana.
Egli c’introduce nelle case di una matrona, della nipote di Decio o di Massimo. La nobile donna veste gramaglia per la morte dello sposo. Ha le guance coperte di belletto ed è sdrajata sopra un sontuoso lettuccio, [157] tenendo in mano il libro degli Evangeli legato in porpora e carico di fregi dorati[102]. La stanza di lei è piena di parassiti adulatori, che trattengono la nobile dama con narrazioni di pettegolezzi ecclesiastici o mondani, e che le tessono la cronaca degli scandaletti del giorno di laici e di preti. Ella è superba d’intitolarsi patrona dei chierici. I quali accorrevano a visitare la nobile signora e la baciavano in volto, e nella mano largamente stesa (la alzavano senza dubbio per benedirla) ricevevano una pingue elemosina. Eglino la mettevano in saccoccia con una certa ritrosia gentile; laddove invece monaci scalzi e ravvolti in sucida tonaca, ciuffavano avidamente la offerta che loro porgevano dalla soglia i servitori. Ma gli eunuchi di varî colori s’affrettavano a spalancare le porte tostochè scorgevano da lungi il sontuoso cocchio del diacono, che, trascinato da focosi e bei cavalli, capitava a inchinare la dama, splendido sì che lo avreste creduto fratello del Re di Tracia. Il suo abito di seta olezzava di profumi, la sua chioma acconciata con bell’arte aveva costata lunga cura al parrucchiere per arricciarla coi ferri. Le sue dita cariche di gioielli sostenevano con arte di vanitoso zerbino la sua veste per mettere in mostra piedi gentili, calzati di scarpe eleganti di saffiano bianco e lucidissimo. «Chi vede quest’uomo», dice Gerolamo, «lo crede un fidanzato piuttosto che un prete». E noi aggiungiamo: chi oggi lo vedesse crederebbe ch’ei fosse uno dei profumati Don Giovanni di Roma moderna. [158] Tutta la Città lo conosce sotto il nome di «cocchiere della Città», e i monelli gli gridano dietro le spalle: Pippizo e Geranopepa[103]. Lo incontri dappertutto e in nessun luogo: nulla accade ch’ei non sappia; nè v’ha aneddoto in Città ch’ei non iscaturisca e che non divulghi colle frange. In breve: fu scopo di sua vita essere prete per aver libera entrata presso belle donne. In breve: è tenore di sua vita alzarsi la mattina e pensare a chi farà visita, e tosto dopo mettersi in viaggio. S’egli trova in una casa qualche cosa che gli piaccia, sia un bel drappo, oppure un cuscino, o uno splendido arredo, lo loda tanto finchè la signora ne lo presenta, perchè a tutte le donne mette a paura la linguaccia atroce del «cocchiere della Città».
Se la nobile dama voleva fare qualche buona opera di cristiana carità, la compieva con pompa romorosa. A somiglianza di Fabunio o di Reburro cugino di lei (già si vede che è lo stesso esemplare dell’aristocrazia romana descritto da Ammiano e coperto soltanto di manto cristiano), ella va alla basilica di san Pietro in lettiga, seguita da un codazzo di eunuchi. Ivi per fare mostra della sua pietà, ella dispensa di propria mano offerte ai poverelli, e celebra quei banchetti d’amore detti Agapi, che essa fa annunciare publicamente per mezzo di un banditore.
[159]
Quelle due figure bastano a dare la idea precisa di ciò che fosse il loro ceto. Gli antichissimi abusi che esistevano nella Chiesa conosciamo da mille passi che leggiamo nelle opere dei Padri della Chiesa. Nella gerarchia ecclesiastica s’era ficcata l’orgogliosa boria dell’aristocrazia romana, e l’eguaglianza democratica dei preti s’era ridotta una fola. L’indole dei Romani non era mutata dall’antica, imperocchè il battesimo non trasformasse lo spirito del tempo: la società cristiana di Roma aveva comuni colla società pagana tutti gli elementi vitali della cultura, del gusto, dei bisogni publici. La moltitudine non comprese in nessun tempo gl’insegnamenti di Cristo; e se alcuni Romani, quali Pammachio, Marcella e Paola, rifuggendo dalla vita mondana corrotta abbracciavano una vita monacale virtuosa, erano d’altra banda migliaja di persone che avevano scambiato Apollo per Cristo, solo per ottenerne vantaggi esteriori, oppure per andazzo di moda, o per solletico di curiosità. Tutti i vizî s’univano nell’ordine numeroso dei preti orgogliosi; e di rincontro al voto monacale di castità trionfava il più licenzioso libertinaggio.
San Gerolamo narra di un caso di matrimonio avvenuto tra due Romani che sembra quasi incredibile, e che dipinge le condizioni morali di quell’epoca meglio che nol facciano narrazioni di grossi volumi. «Parecchi anni or sono», egli dice, «quand’io era secretario del vescovo romano Damaso, mi venne fatto di vedere nel ceto plebeo una coppia la meglio appaiata che dar si possa: l’uomo aveva già messe in sepoltura venti mogli, e la donna aveva già avuti ventidue mariti, e finalmente s’erano congiunti in quel matrimonio, ch’essi stessi credevano [160] che sarebbe stato il loro ultimo. L’aspettazione di tutti, degli uomini e delle donne era rivolta a vedere quale dei due, dopo tanti trofei, cadrebbe il primo nel sepolcro. La vittoria fu dell’uomo, il quale, in mezzo a una immensa tratta di gente, camminava innanzi la bara di quella moglie valorosa, altiero, coronata la testa ed agitando in mano una palma, fra le grida del popolo che di tratto in tratto sclamava, meritare egli l’onore di un premio[104].» Terribile è il fatto di quella beffa publica scagliata contro il matrimonio; eppure quel connubio non era tanto pernicioso al buon costume, quanto le parentele spirituali, sotto il manto delle quali matrone cristiane stringevano turpi amicizie coi loro figli d’adozione, oppure quanto le relazioni che si formavano in quelle riunioni di spirituale fratellanza dei così detti Agapeti e Synisacti, e il commercio serafico di frati e di monache che vivevano in comunione d’anima e di corpo, e dividevano insieme la mensa ed il letto.
Queste descrizioni della società di quel tempo ci sono fornite dagli scritti di un illustre Padre della Chiesa[105]: affinchè poi il leggitore di coscienza timorata accheti l’animo, noi lo assicuriamo che di rincontro a quelle descrizioni mestissime di turpitudini, quegli stessi Padri della Chiesa presentano alcuni quadri di onesto vivere che rallegrano l’animo.
Di somma importanza riuscirebbero notizie statistiche [161] della popolazione di Roma al tempo in cui Alarico assediava la Città: manca però affatto ogni elemento alle nostre investigazioni. La Notitia numera, in tutte le quattordici Regioni di Roma, circa 46602 insulae o case, e 1797 palazzi[106]. Noi possiamo perciò determinare che Roma comprendesse verso a 45000 case, e più di 1700 palazzi. Ma la popolazione di lei, dopo la divisione dell’Impero e durante l’impoverimento sempre crescente della Città e delle province, deve essere considerevolmente diminuita, e difficilmente essa avrà superato il numero di 300,000 abitanti: forse anzi quella cifra è superiore di troppo alla effettiva popolazione di Roma in quel tempo[107].
[163]
I Goti cinsero la Città ponendo campo di fronte a tutte le porte, come già avevano fatto nel primo assedio. Alarico volgeva tutta la sua operosità contro porta Salara prossima a monte Pincio, dinanzi a cui, forse perchè le mura erano colà più deboli, aveva fin dall’incominciamento dell’assedio eretta la sua tenda. Non giunse fino a noi chiara ricordanza nè dei meschini mezzi di difesa usati dai Romani, nè della durata dell’assedio. Sembra però che Alarico non movesse all’assalto, ma che l’esito della sua impresa tranquillamente attendesse dall’alleanza degli Ariani e dei Pagani della Città coi quali teneva segreti accordi, e dall’alleanza più terribile della fame che desolava di nuovo la misera Roma, quantunque una grande moltitudine di schiavi fossero fuggiti ai Goti. Egli poteva finalmente penetrare di soppiatto [164] entro le mura; e già cento anni dopo, s’era cancellata dalla memoria degli uomini la ricordanza del modo con cui egli aveva preso Roma, di maniera che lo Storico greco Procopio ne spacciava le più inverosimili fole. Egli narra che Alarico, quasi fosse stanco del lungo assedio, facesse mostra di levare il suo campo, ed ai Senatori spedisse trecento ragguardevoli giovani Goti quali donzelli, pregando che li ricevessero come pegno di quella venerazione, che in lui non verrebbe mai meno, per la loro virtù e per la loro fedeltà all’Imperatore. E racconta che a quei giovani segretamente commettesse, che nel pomeriggio d’un determinato giorno si scagliassero contro le schiere che stavano a guardia di porta Salara, e di quella s’impadronissero; e afferma che anche avvenisse[108]. Nel tempo stesso poi scrive Procopio di un’altra versione che correva intorno la presa di Roma: secondo la quale, la nobile Proba (vedova dello illustre Petronio Probo) tocca di dolore alla miseria estrema delle plebi, che la fame cominciava a tramutare in cannibali, avrebbe fatto cessare il flagello, mettendo entro le porte i Goti: ma non è che una favola la quale i Cristiani avranno forse appresa in Africa.
Neppure l’anno della presa di Roma conosciamo con esattezza, imperocchè gli Storici ondeggino tra il 409 ed il 410. La notizia ne andò perduta fra le rovine dello Impero. Da una cronica compilata in tempi meno remoti è determinato fermamente che i Goti entrassero in Roma il giorno 24 di Agosto dell’anno 410, e noi [165] pure abbiamo argomento di accogliere con certezza quell’anno 410[109].
Era notte allorquando i Goti penetrarono per porta Salara[110]. Appena i primi drappelli s’erano messi dentro la Città, che tosto appiccavano fuoco alle case vicine alla porta. L’incendio con rapidità diffondendosi lungo quelle vie strette e immonde[111], giungeva a cogliere le [166] prime fabbriche dei palazzi Sallustiani che in quelle vicinanze s’elevavano. Le belle case dello Storico della guerra Giugurtina e della congiura di Catilina, nelle quali nei tempi andati era morto l’imperatore Nerva, furono la prima fiaccola che illuminò il sacco di Roma. La caduta di Cartagine e di Siracusa era stata una fine degna della vita di quelle città valorose. La loro eroica virtù commuove ad ammirazione, e il dolore nell’animo s’accheta allorchè si pensi ai sentimenti generosi ed alle grandi opere la cui ricordanza sopravvive alle genti cadute. Ma Roma la grande, che cade a quel modo sotto il ferro di Alarico, eccita nell’animo un senso di disgusto al pensiero che tanta viltà allignasse in quel popolo, che altre fiate era stato il più valoroso della terra. Non ci conforta il ricordo di una resistenza generosa: Roma non vide in quel dì che fuga, strage, saccheggio, tumulto spaventevole: spettacolo che a nessun testimone oculare bastò l’animo di descrivere.
Colla celerità con cui il turbine si rovescia, i Barbari si spinsero in tutti i quartieri di Roma cacciando dinanzi di sè torme di cittadini fuggenti e imploranti mercè ad alte grida, e facendone massacro. E poi si lanciarono a dare il saccheggio all’immensa Città. Agitati da istinto di depredare, scorrevano di palazzo in palazzo, irrompevano nelle terme, nelle chiese, nei templi: tutto rovesciavano in cerca di oro, e, strappato quanto ne trovavano, ne rapivano Roma in meno che si dica, e con l’ansia del ladro, caricati di bottino cavalli e carri, lo traevano fuori della Città. L’Unno ebbro del vino bevuto nelle case saccheggiate, non era tenuto in rispetto dalla bellezza artistica che i maestri alessandrini avevano [167] profuso nelle suppellettili e nelle minuterie che ornavano le stanze riposte delle matrone romane; nè comprendeva a che servissero tanti capolavori inestimabili che, tramandati in retaggio nelle famiglie, rimontavano forse ai tempi dello splendore di Grecia; ed ignorava il valore di tanti oggetti preziosi, che gli avi dei vinti avevano rubato con simile rabbia di depredazione nella remota Palmira, in Assiria ed in Persia. I Barbari s’impadronivano di quei tesori dopo di avere ucciso il molle Fabunio e l’imbelle Reburro tremanti di paura, o dopo di aver soffocato nei loro abbracciamenti brutali la signora del palazzo. Molti Romani avevano senza dubbio nascoste durante l’assedio le loro ricchezze: per la qual cosa nei tempi posteriori narravansi in Roma molte leggende di tesori occulti. Ma la maggior parte, o per paura della morte, o denunciati dai loro schiavi fuggiti, o sottoposti a tormenti, avevano abbandonate le loro ricchezze agli invasori[112]. In nessuna altra città del mondo l’oste barbarica avrebbe potuto raccogliere più ricco bottino. Nè alcuno, dice Olimpiodoro che viveva in quel tempo[113], può imaginare quanto grande, quanto smisurato, oltre ogni credenza, esso fosse: e quattro anni dopo il sacco di Roma, Placidia doveva tingere la fronte di rossore, allorquando cinquanta giovinetti goti vestiti di tonache di seta, le porsero sorridendo, quale presente delle nozze di lei con Ataulfo, cento coppe ricolme di minuterie [168] d’oro e di giojelli, che tutti, senza eccezione, i Goti avevano raccolti nel saccheggio della patria di lei.
Alarico aveva conceduta ampia licenza di depredare alla sua soldatesca, ma aveva imposto che si risparmiassero le vite degli abitanti, ed aveva comandato che le chiese, e sopra tutte le basiliche degli apostoli Pietro e Paolo, si rispettassero, quali asili in cui i cittadini fuggenti, di qualunque ceto e di qualunque origine, non dovevano essere molestati[114]. Obbedirono i Goti per quanto lo concedeva la loro cieca rabbia di preda. Irrompevano nelle case in cerca di oro; e i vestimenti poverili degli abitatori tremebondi ad ira li muovevano, reputandoli una maschera sotto cui si occultasse la ricchezza. San Gerolamo narra con dolore che Marcella, pia amica di lui, fu aspramente battuta: ella era nella sua casa situata sull’Aventino, allorquando una turba feroce di Barbari vi irruppe. Quella donna, che fu la prima monaca di Roma che nascesse di nobile stirpe, mostrò loro l’umile suo vestimento di penitenza, e caduta sotto le percosse di quei furibondi ne abbracciò le ginocchia supplicando che rispettassero la virtù della sua allieva Principia. Si commossero i duri petti di quei guerrieri, e rispettosi condussero a salvamento le due pie donne nell’asilo di san Paolo[115]. Ma alcuni di quei Barbari, pagani o ariani [169] fanatici, non ebbero rispetto neppure ai chiostri di donne, chè con loro violenza feroce fecero onta alle sciagurate monache ed a stento soffrirono freno a non depredare gli arredi sacri delle chiese cattoliche. Ed anzi uno Storico ecclesiastico afferma, che se avessero avuto contezza dei tesori del san Pietro, vi avrebbero senza dubbio dato saccheggio[116]. Il vescovo Innocenzo, che allora era a Ravenna, aveva lasciato carico al Principe degli Apostoli della difesa delle sue basiliche: e ciò che era opera del nobile animo di Alarico e della venerazione di lui per la religione di Cristo, non dubitava di definire dal suo asilo remoto e sicuro, essere stato manifestamente miracolo dei Martiri.
In mezzo a quegli avvenimenti di orrore tanto più splendido appare un atto di umanità straordinaria, alla ricordanza del quale gli Storici, sia per il singolare contrasto che offre con quegli spettacoli di sangue, sia per sentimento di religione, si dilungano più che nella descrizione del saccheggio di Roma. Un Goto penetrava nella casa di una pia donzella, che sola, senza difesa, tremante, stava a guardia di un grande cumulo di magnifici arredi sacri. Già egli stava per iscagliarsi su quel ricco bottino, ma lo rattennero le parole che quella pia gli volse con maestosa calma: facesse ei pure ciò che più gli talentasse: di quei tesori il padrone era l’apostolo Pietro, ed il Santo saprebbe cogliere il profanatore. Ne fu talmente scosso il Barbaro che avrebbe voluto piuttosto porre la [170] mano su un ardente braciere che su quegli ori: egli si ritrasse e corse a re Alarico, e narratogli quanto gli era occorso, n’ebbe comando di trasportare i tesori sacri dell’Apostolo al san Pietro, e di accompagnarvi la loro pia custode con buona guardia. Quella schiera di predoni feroci procedeva per le vie verso la basilica, trasportando con senso di devozione i calici, le patene, le lampade, le croci su cui scintillavano smeraldi e giacinti: e tutto a un tratto mutavasi in una processione solenne. Cristiani fuggenti, donne sul cui volto era il pallore della paura, traenti a mano i loro fanciulletti, vecchi imbelli, e uomini tremanti, e pagani atterriti, andavano frammisti ai Barbari dalle armi e dalle vestimenta sozze di sangue, e sulle cui oscure facce leggevasi una lotta ardente tra la passione bestiale di depredare e il sentimento religioso. Tutti muovevano insieme al san Pietro lungo le vie di Roma piene di tumulto, ed interrompevano l’orrendo strepito del saccheggio colle note lunghe, solenni, maestose di un inno sacro, presentando un quadro che all’inspirato pennello di Raffaello sarebbe stato tema più bello, che quello del suo affresco dell’incendio di Borgo[117].
Quell’avvenimento celebrarono i Padri della Chiesa quale vittoria che la Religione cristiana aveva ottenuto [171] in Roma funestata dalle stragi; nè quello fu il solo esempio della mitezza dei Barbari. I Goti, inacerbiti contro i Romani che gli abborrivano per la loro eresia ariana, incrudivano contro la Città; e inaspriti per la ricordanza delle antiche sconfitte delle quali volevano vendicare l’onta, davano libero corso alla loro rabbia contro quel popolo miserabile che sprezzavano. Migliaja di uomini perirono in Roma e fuori delle mura sotto il loro ferro e sotto la spada degli Unni, degli Scirri, degli Alani seguaci del Paganesimo, e delle turbe sfrenate degli schiavi liberati, di maniera che santo Agostino deplorava che mancassero braccia a dar sepoltura ai cadaveri[118]. Tuttavolta i Romani erano tanto caduti di animo, che, attendendo una distruzione universale simile a quella che aveva colpito Gerusalemme e Ninive, ebbero argomento a lodare la mitezza del nemico. Ed alcuni di quegli Storici stessi che deplorano tanto sangue versato in quella strage, narrano pure con gioja che dell’ordine senatorio pochi furono gli uccisi; ed a mitigare l’orrore del quadro ricordano che la Città era stata condotta a condizione di gran lunga peggiore, allorquando cadde sotto i Galli feroci, condotti da Brenno[119].
[172]
La sorprendente brevità di tempo, che Alarico aveva conceduta al furore dei suoi, diminuì anche gli orrori di quel sacco, facendo sì che le soldatesche profittassero del termine loro conceduto unicamente a raccogliere bottino. Alarico era forse commosso da venerazione per la grandezza di quella sacra Roma, la quale, se un dì aveva scosso di tanta ammirazione l’animo del persiano Ormisda, più potente mille volte ora doveva scuotere la grande anima sua. Al mirare quella capitale del mondo che giacevagli prostesa ai piedi avvilita, al pensare che dall’alto delle sue colonne le severe figure di tanti eroi antichi, di cui conosceva in parte le geste ed i nomi, stavano guardandolo, Alarico sarà stato preso da una specie di terrore, ed avrà certamente pensato a Stilicone, vivente il quale non avrebbe mai tocco il suolo di Roma. Alarico non poteva trattenersi più a lungo nella Città donde non gli era possibile di trarre sussidî, e che non gli offriva un accampamento sicuro. L’Impero romano non era ancora ridotto a tale grado di disfacimento che gli fosse dato di farsi gridare Re d’Italia; e la presa di Roma, quantunque fosse un primo grado per giungere a quell’altezza, e benchè di quel grande avvenimento non potessero prevedersi le conseguenze, aveva soltanto le sembianze di una scorreria barbarica non avente altra mira che di porre a ruba il paese. Conoscendo giustamente che gli era impossibile di sostenersi in quella condizione, e preso quasi da terrore panico che la grandezza della sua stessa [173] vittoria inspirava nel suo animo, Alarico dopo tre giorni abbandonò la Città saccheggiata, e mosse per la Campania traendosi dietro una grande moltitudine di prigioni, e conducendo con sè la stessa Placidia, sorella di Onorio, cui egli tributava onore conveniente all’altezza dei suoi natali[120].
Dopochè i Goti furono partiti della Città, quantunque non esercito nemico li cacciasse, nè paura li prendesse di oste che s’avvicinasse, i Romani ebbero agio di considerare la gravezza della loro miseria. L’avvenimento terribile del saccheggio fu accompagnato da una serie di circostanze tali, che non è facile trovare il somigliante negli annali delle altre città del mondo. Quell’avvenimento non lasciava dietro di sè, nè l’occupazione militare del conquistatore, nè alcuno di quei mutamenti [174] politici che sogliono in simili casi avvenire; ma se la Città non vedeva più la faccia del nemico entro le sue mura, vedeva però tutte le tracce spaventose del nemico; e sembrava che non gli uomini l’avessero funestata col flagello della guerra, ma che piuttosto un cataclisma tremendo di natura repentinamente l’avesse colpita e devastata. Possiamo ben di leggieri immaginare quale orrore dovesse presentare l’aspetto di Roma nel giorno in cui i Goti ne uscirono: e non vi fu Storico che abbia avuta la forza di darne la descrizione, nessuno fu che desse ragguaglio particolare delle rovine che i Goti lasciarono dietro di sè. Ma qui si presenta una ricerca sull’estensione di quel danneggiamento, ed è quesito di non lieve importanza, imperocchè la storia dei ruderi di Roma, che in parte è nostro tema, incominci veramente da quel saccheggio dell’anno 410, il quale è avvenimento che determina un’epoca, sebbene già il disfacimento abbia principiato al tempo di Costantino.
Il sentimento di odio nazionale indusse per lunga pezza gl’Italiani a cercar di vendicare sulla memoria dei Goti la caduta di Roma che l’imperatore Onorio aveva sì vilmente abbandonata in loro balia, e che i Romani con somma vergogna non avevano saputo difendere. Le loro voci scagliarono contro il nome dei Goti l’onta eterna che i più bei monumenti dell’antichità abbiano distrutti. Ma studî più profondi, e di Italiani stessi, imposero silenzio a quelle voci: che se alcuna ben rada s’innalza, è prova soltanto di crassa ignoranza. Lo Storico può oggimai risparmiarsi la briga di dimostrare che la è pur folle cosa e ridicola di pingere sempre alla propria fantasia Goti, Vandali e quali altri Germani, che con rabbia [175] strana e come per istinto, si scagliano contro i templi e contro le statue: quasi che nel breve tempo in cui tennero Roma, invece di mettere a ruba la Città, si fossero aggirati per le vie col martello alla mano abbattendo le statue, e con leve nei teatri fossero penetrati per l’unico scopo di provare le loro forze nell’inutile fatica di spezzarne i marmi.
I Goti lasciarono dietro di sè tutta quella rovina che è inseparabile da un saccheggio. Essi danneggiarono gli edifizî di Roma per quanto danneggia una soldatesca feroce che si lancia su una città a depredare, e che, impadronitasi delle robe mobili, non bada alla distruzione delle cose immobili che non può trar seco. Irrompendo nei templi, nelle terme, nei palazzi, ne strapparono tutti gli oggetti d’arte e tutte le cose preziose, e sotto le loro mani rozzissime, forse anche spinti da malo animo, molte statue bellissime di marmo saranno state distrutte per le vie e per le piazze. E una estesa devastazione avrà portato l’incendio, e già abbiamo detto che all’incominciamento del saccheggio i palazzi sallustiani furono messi in fiamme. Le loro ruine annerite dal fumo e fra le quali oggidì ancora miransi sorgere sul terreno poche vôlte arcuate ed alcuni corridoi, sono i vestigi dai quali lo storico Procopio, cento e quaranta anni più tardi, trae argomento a parlare della devastazione di Roma operata dai Visigoti[121]. Ma quello è il solo grande edifizio di Roma che si sappia aver trovata la distruzione in quella conquista, ed alle notizie date da quegli Storici che con esagerazione da retori parlano della Città conquisa dal [176] fuoco, altre narrazioni si contrappongono che le prime attenuano e moderano. Il bizantino Socrate racconta, che la più gran parte delle opere mirabili di Roma fu distrutta dal fuoco; e Filostorgio narra che Alarico ritirandosi in Campania lasciò dietro di sè in rovine la Città, la cui celebre grandezza il ferro, il fuoco e le catene barbariche avevano annientata. E Gerolamo esclama enfatico: «Ahimè! perisce il mondo, ma delle peccata non ci mondiamo: la Città illustre ch’era a capo dell’Impero romano un solo incendio consunse». Ed Agostino in parecchi passi delle sue opere ricorda similmente l’incendio di Roma[122]. Per la qual cosa dobbiamo credere che alcuni edificî di Roma fossero danneggiati da incendî, quantunque lo storico Jornande dica: per comando di Alarico si restrinsero i Goti a depredare, e non appiccarono il fuoco come sogliono fare i Barbari[123]. Ma Orosio, scrittore contemporaneo, narra che Iddio era passato nel [177] suo furore su Roma e l’avea colpita più tremendamente che gli uomini non avessero potuto fare: imperocchè una forza sovraumana avesse messo in fiamme le travi di bronzo, e avesse fatto precipitare la mole poderosa di grandi edificî, e il folgore cadendo nel foro avesse atterrati i falsi idoli, e un fuoco mandato dal cielo avesse divorato tutte le nefandità della superstizione antica, che le fiamme lanciate dal nemico non avevano potuto consumare[124]. Questa narrazione è degna di nota, non solo perchè sembra che ricordi una totale devastazione prodotta dall’incendio, ma perchè ci rammenta una leggenda sparsa fra i Cristiani, i quali, stando alla predizione delle Sibille, attendevano un incendio che doveva conquidere Roma. Ed allorchè ebbero udito della presa della Città credettero che quella profezia si fosse avverata, e che Roma, al pari di Sodoma, giacesse consumata dalle fiamme. Tuttavia, Orosio stesso, il quale giustamente celebra la mitezza di animo dei Goti, era finalmente costretto a narrare, che tre giorni dopo la presa di Roma, i Goti volontariamente ne uscivano, e che il fuoco aveva bensì recato alcuni danneggiamenti alle case, ma non sì grandi quali aveva prodotto l’incendio appiccatosi per accidente in Roma, nell’anno 700 dalla costruzione della Città. Ed anzi quello Storico afferma che i Romani avessero detto che dei mali sofferti nel saccheggio avrebbero messo tosto in pace il proprio animo, se loro si restituisse il sollazzo dei giuochi circensi[125].
[178]
Tutte queste narrazioni di scrittori contemporanei devono dunque persuaderci che quanto narrano gli Storici posteriori intorno alla devastazione di Roma contiene grandi esagerazioni: e perciò dobbiamo accogliere che la Città fosse data al saccheggio, ma che la breve durata di soli tre giorni, e l’ampiezza smisurata di Roma, ed il numero grande dei suoi edificî avessero resi quei danneggiamenti poco considerevoli[126]. Intorno ai grandi monumenti di Roma le torme barbariche si saranno scagliate durante quei tre giorni con grave tumulto, ma non gli atterrarono; chè i Barbari miravano quegli obelischi e quegli archi di trionfo con meraviglia fugace, senza che loro balenasse in mente il ridicolo pensiero di distruggerli. Allorquando trovavano statue d’oro e di argento, spezzavanle per cavarne bottino.; ma nè le statue equestri gigantesche di bronzo dorato, nè quelle di marmo gli allettavano a preda: ed essi lasciarono che stessero finchè venisse a rubarle un Imperatore bisantino del secolo settimo, nel tempo in cui Roma era ridotta all’estrema miseria e in cui la sua ricchezza consisteva negli arredi delle chiese. Due soli anni dopo la conquista di Alarico, uno Storico ed un Poeta venivano a [179] Roma. E Roma desolata dal saccheggio era tanto lontana dall’aver le sembianze d’una Città caduta in rovina, e sì poco oltraggio avevale recato il fuoco, checchè dir possa santo Gerolamo, che ambidue con fervida ammirazione ne celebrarono la bellezza e la maestà senza pari. E infatti Olimpiodoro dà quella descrizione, che già conosciamo, delle terme e dei palazzi i quali s’ergevano ancora in tutto il loro splendore antico; ed il prefetto Rutilio di Numanzia, in quel suo inno di addio che volge a Roma partendo, non dice parola su devastazioni, ma anzi allorquando dalla barca su cui naviga il Tevere si volge per l’ultima volta a cercar dello sguardo la Città, egli si delizia allo spettacolo «della regina bellissima del mondo, i cui templi scagliano loro vertici al cielo»[127].
Allorquando le mille voci della fama ebbero annunciato al mondo civile la notizia che la capitale dell’orbe era caduta, grida di dolore e di paura s’elevarono d’ogni parte. Le province dell’Impero, che da secoli avevano [180] imparato a venerare Roma quale acropoli invitta della cultura, quale maestra delle leggi del vivere civile, videro tutt’a un tratto quel loro santuario cadere, vilmente bruttandosi; e nel tempo stesso in cui la fede nella durata degli umani ordinamenti era in loro potentemente scrollata, pensavano che la fine del mondo incominciasse, secondo il vaticinio dei Profeti e delle Sibille. Le voci di alto lamento perderonsi nella vastità deserta dei tempi, e soltanto negli scritti di alcuni Padri della Chiesa, viventi in quel tempo, troviamo vestigi, quantunque modificati dalla morale cristiana e dalle forme rettoriche, dello sconvolgimento tristissimo che allora aveva colpito il mondo. La caduta di Roma distaccò l’attenzione dello stesso san Gerolamo dalle meditazioni solitarie sulle profezie di Isaia e di Ezechiello, nelle quali egli raccoglievasi allora nella remota Betelemme. Scosso da dolore profondo scriveva alla vergine Eustochia: «Io aveva condotto a compimento diciotto libri di chiose sulle profezie di Isaia, e già proponevami d’incominciare miei studî su Ezechiello, che spesse fiate ho promesso a te, o vergine cristiana Eustochia, ed alla pia madre tua Paola, ed io voleva porre, a dir così, l’ultima mano alla mia opera dei Profeti, quando, ahimè! odo la notizia della morte di Pammachio, di Marcella, e della presa della Città, e della uccisione di tanti fratelli e di tante sorelle. Ne smarrii il sentimento e la voce, così che notte e dì non ebbi altro pensiere se non se del modo di portar loro soccorso, e parevami di essere caduto io stesso nella schiavitù. Ma poichè ora il lume splendidissimo della terra s’è spento, poichè il capo del romano Impero fu svelto dal tronco, e, a dir meglio, poichè con quella sola città [181] il mondo tutto perì, muto io divenni; e mi prese uno scoramento tale che mi tolse l’operosità nel bene; e il mio dolore si rinnovava senza interruzione; e il mio cuore batteva forte; e mi pareva che la mia mente fosse messa in fiamme»[128].
Più oltre egli dice: «Chi avrebbe creduto che Roma, la quale venne edificata delle spoglie di tutto il mondo, cader dovesse, e che la Città sarebbe stata culla e insieme tomba ai suoi popoli? che nelle terre d’Asia, d’Egitto, d’Africa sarebbero tratte in ischiavitù le figlie di Roma, della signora antica? che in Betelemme la santa, ogni giorno entrerebbero, mendicando la vita, uomini e donne, che un tempo brillavano per alti natali, e nuotavano nel soverchio della ricchezza?»
Son pur belli in bocca dell’illustre Gerolamo questi lamenti sulle sorti dell’antica Roma; ed allorquando leggiamo quel passo in cui nel suo cruccio egli esclama: «mi manca la voce, e scoppio in singulti allorquando sto per dire: fu doma la Città che aveva domo il mondo!»[129] l’animo nostro oggidì ancora si empie di tristezza [182] perocchè sia indotto a pensare all’inanità delle cose umane. Tacciono invece le voci virili dei Romani; ed è ancor più sorprendente di udire sensi di duolo sulla caduta di Roma dalla bocca di un vecchio Padre della Chiesa, che siede solitario in Betelemme e che ne scrive ad una debole donzella, ad una pia monacella, e che paragona il destino della illustre e grande Città a quello che narrano le sacre pagine di Moab, di Sodoma e di Ninive. E, senza neppure volerlo, ci occorre alla mente ricordanza dei sospiri di quello illustre Scipione, che assiso sulle rovine di Cartagine, deplorava la caduta futura di Roma sua. E cerchiamo dello sguardo qualche Romano illustre in mezzo a tanta desolazione della Città caduta, e non lo trovando ci sembra che Roma non abbia avuto più nè voce, nè lacrime dopo di quelle del grande Scipione. La storia, o forse la leggenda romana, invece di un eroe immerso nel dolore, ci presenta il quadro disgustoso dell’Imperatore circondato dei suoi eunuchi, il quale, chiuso nelle paludi di Ravenna, confonde la perdita di Roma colla morte di un suo pollo favorito, cui egli aveva dato il nome della capitale del mondo, di Roma[130].
Il vecchio Gerolamo (che in Roma era vissuto lungo tempo) nella sincerità del suo dolore si eleva al di sopra del suo contemporaneo Agostino. Nelle espressioni di duolo del primo parlano alto il sentimento dell’uomo romano e la consapevolezza istorica della grandezza politica di Roma antica, a cui la Città andava debitrice del venerando suo aspetto. Al cuore di Agostino non avevano invece alcuna potenza tali considerazioni. Quel teologo, [183] che per la vastità del suo genio si eleva su tutti gli altri della Chiesa latina, era inebbriato di gioia per la vittoria del Cristianesimo; nè abbiamo alcun argomento che c’induca a darne un giudizio di biasimo perchè egli mirasse con occhio d’indifferenza la caduta di Roma. Egli vedeva in quell’avvenimento la distruzione della Babilonia, dell’ultimo propugnacolo del Paganesimo; nè egli trovava da deplorare in quell’obbrobriosa caduta che il disordine esterno ond’era stata colpita la Chiesa, e la fuga e la morte dei suoi fratelli e delle sorelle in Cristo diletti. Egli scrisse a loro consolazione un trattato in cui egli esclamava: «E che dunque? se Iddio non volle risparmiare la Città, non eranvi neppure cinquanta Giusti fra tanti Fedeli, fra tanti monaci, fra tanti che fecero voti di continenza, in tanta moltitudine di servi e di serve di Dio?» E paragonando Roma a Sodoma, egli si rallegra, che Iddio, il quale la prima dalle fondamenta aveva distrutta, Roma abbia soltanto umiliata col suo castigo; e che, se in Sodoma nessuno aveva potuto uscir salvo, in Roma invece molti avessero potuto fuggire, per ritornarvi di nuovo, e molti, rimanendovi, nelle chiese avessero trovato un asilo inviolato. Ed anzi egli conforta i Romani avviliti, sciagurati nepoti degli Scipioni, richiamando alla loro memoria i mali ben maggiori sofferti da Giobbe: e rammentando loro, che ogni dolore terreno è temporaneo, cerca di consolare l’amarezza della loro doglia col pensiero dei tormenti onde saranno crucciati i dannati alla Gehenna per tutta l’eternità[131].
[184]
Egli scrisse il suo trattato «della caduta della Città» e l’opera sua illustre «della Città di Dio» in apologia del Cristianesimo contro le accuse ripetute mai sempre dagl’inacerbiti Pagani: i quali, se a torto rimprocciavano alla Religione cristiana la catastrofe che inevitabilmente colpir doveva la Città, tuttavia nelle declamazioni di vescovi fervidi di zelo, che con aperto compiacimento parlavano della rovina soprastante a Roma, trovavano ragione di confermarsi in quella loro credenza. E infatti l’odio di que’ Vescovi contro questa Sodoma, contro questa Babilonia era tale, che Orosio deplorava con sincerità che i Barbari di Radagaiso non avessero preso Roma. Colla distruzione dei Numi antichi, colla caduta della Vittoria e della dea Virtù, dicevano quei Pagani, anche la virtù romana s’era spenta, e la croce di Cristo s’era alleata alla spada dei Barbari per la distruzione della Città e dell’Impero. Per ispuntare gli strali di quelle accuse, Agostino scriveva quelle opere nelle quali la caduta di Roma gli offeriva acconci argomenti a enfatiche prediche e ad alte speculazioni morali intorno al reggimento di Dio sul genere umano: ed egli diceva ai Pagani che fra coloro che arditamente e senza rossore calunniavano i servi di Cristo, trovavansi di quelli che alla morte non sarebbero sfuggiti se non si fossero celati sotto le sembianze di confessori di Cristo; imperocchè ciò che in Roma rimase illeso fosse beneficio di Cristo, e tutto quello che durante il saccheggio era stato commesso di devastazione, di strage, di ruberia, d’incendio, di male di ogni maniera, fosse stato soltanto l’ordinario risultamento degli avvenimenti di guerra[132].
[185]
Deplorevole era la sorte dei Romani; tutte le famiglie erano cadute nell’estrema rovina, e loro era tolta speranza di restituirsi nel lustro primiero. Se si scorrano le Storie, sarà difficile trovare un altro avvenimento che a questo si possa paragonare per la gravezza delle sue conseguenze vuoi morali, vuoi materiali. L’aureola dell’antica ed aurea città s’era estinta. E secondo le leggi di natura, questa prima caduta doveva essere causa che essa ancor più profondamente precipitasse: e già il filosofo di quel tempo poteva scorgere le tempeste che si sarebbero riversate su di lei nei secoli venturi in cui Roma, accasciata sulle sue rovine, non sarebbe più stata che un morto nome, o un sepolcreto misterioso su cui, in mezzo ai simulacri caduti dei Cesari antichi, invece del trono dell’Imperatore si sarebbe elevato il seggio di un Vescovo. L’aristocrazia ch’era stata arbitra della vita politica nella costituzione antica, sostegno tradizionale della Città e dello Stato, era stata travolta e dispersa nel mondo. Di repente, dal possedimento di ricchezze immense, da eleganza splendidissima di costume era stata sbalzata nella mendicità; ed i rampolli delle più illustri ed antiche famiglie di Roma facevano meravigliare gli abitatori delle province più remote dell’Impero allo spettacolo della sciagura, non però immeritata del tutto, che gli aveva gettati nell’estremo della miseria.
Non v’ha luogo, scrive san Gerolamo, che non [186] accolga genti fuggite di Roma. Molti cercavano di là dei mari, nell’Oriente remoto, un incerto asilo; molti s’imbarcavano per l’Africa dove le loro famiglie avevano possedimenti; e il conte Eracliano governatore di quel paese, e ch’era stato il carnefice di Stilicone, riceveva le nobili donzelle di Roma per poi venderle ad Assiri che ne facevano traffico. Più felici di questi Romani e degli Italiani erranti in lontane regioni, erano quei fuggitivi che avevano trovato asilo nella solitudine delle isole del mare Tirreno, in Sardegna, in Corsica e nel piccolo Igilium, che è l’odierna isoletta di Giglio, cui Rutilio di Numanzia dalla sua nave volgeva un saluto di gratitudine, perocchè avesse prestato rifugio ai Romani, che così trovavansi «a Roma tanto vicini, e sì lungi dai Goti»[133].
[187]
Finchè i Visigoti rimasero in Italia, la Città doveva sempre temere che d’improvviso ritornassero a darvi un secondo saccheggio; per la qual cosa il commovimento continuo che l’agitava, al pensiero del pericolo sovrastante, le toglieva calma e forza necessaria per riparare a tante perdite fatte e per ripopolarsi. Alarico era morto tosto dopo il saccheggio di Roma, nell’anno 410; quasi che tutta la sua forza vitale lo avesse abbandonato dopo di aver compiuto quel grande fatto. Il prode guerriero moriva colla gloria eterna di aver soggiogato Roma e di averle risparmiata la distruzione. I suoi soldati gli diedero sepoltura nell’alveo del fiume Busento, e indi scelsero a loro re Ataulfo, cognato di lui. Se Alarico [188] non aveva potuto elevarsi al di sopra della condizione di nomade guerriero barbaro, Ataulfo invece, accorto di mente e ardito di mano non meno di Alarico, sembrava avere ingegno più acconcio a fondare un impero goto in Italia e ad assoggettare l’Occidente allo scettro di valorosi Germani. Egli accarezzava nel suo pensiero questo disegno, ma neppur egli poteva compierlo; e quasi un secolo doveva trascorrere in rivolgimenti tumultuosi prima che i Germani, condotte poco a poco a maturanza le loro idee politiche, di truppe irregolari assoldate dall’Impero romano, si facessero veri conquistatori e signori d’Italia.
Non sappiamo con esattezza fino a quando i Visigoti godessero dello splendido cielo d’Italia, e si deliziassero sui poggi del mezzogiorno per vendemmia festanti. Più felici dei guerrieri di Pirro e di Annibale vivevano nel soggiorno beato della Campania, senza che ne li molestasse suon di guerra nemico. Dalle ubertose sponde del Liri occupavano il paese fino a Reggio, dove non la famosa statua incantata ma una tempesta aveva impedito ad Alarico di passare in Sicilia: nè squillo di tromba gli strappava dai molli letti ove stavano sdrajati fra le braccia delle loro belle schiave a lautezza di mense.
Finalmente, Ataulfo stesso li chiamava all’arme, imperocchè, dopo lunghi e difficili negoziati con Onorio, egli avesse deliberato di partire dall’Italia desolata e di valicare le Alpi per girsene in Gallia, ove, al soldo dell’Impero, voleva combattere Giovino che aveva usurpata la dominazione di quella provincia. Nella loro ritirata, che non possiamo determinare con certezza se [189] avvenisse nell’anno 411 oppure nel 412, i Goti avranno forse incusso alto spavento a Roma: ma per il trattato stretto con Onorio, la cui sorella Placidia il Re dei Goti aveva condotta in isposa, i Barbari non devono avere recato danneggiamento alla Città. E la narrazione d’uno Storico dei tempi posteriori, che eglino in questa loro ritirata, simili a sciame di locuste, si gettassero su Roma per la seconda volta ed esterminassero tutto quanto avevano lasciato nella prima, non ha sembianza di verità, non essendo sorretta da altre testimonianze[134].
Un altro flagello, quantunque ben meno terribile, colpiva Roma: l’ambizioso conte Eracliano, nell’anno 413 in cui era stato eletto console, s’era ribellato in Africa; e avendo impedito che ne partisse la flotta ch’era andata a prendere vettovaglie per fornire la Città affamata, mosse egli stesso con molti vascelli; e già s’apparecchiava a entrare nelle acque del Tevere per impadronirsi della Città ch’egli sapeva essere sguernita. Ma allora, Marino, capitano delle truppe imperiali (che, come tali, tornano di nuovo in campo), gli diede battaglia presso la costa; e, disfattolo pienamente, lo costrinse a fuggire in Africa dove perdette il capo[135].
Liberata da questo pericolo, partiti i Goti, la corte di Ravenna ebbe miglior agio di provvedere alla guarigione di tante piaghe che desolavano Italia. Onorio [190] concedette alle province devastate l’esenzione da imposte, e, per la terza volta nell’anno 417, venne a Roma avvilita. Fece uno splendido ingresso trionfale, e assiso nel suo cocchio si pasceva con orgoglio puerile della vista del suo emulo Attalo, il quale, coperto di vergogna, era tratto in catene innanzi al suo carro[136]. Gli sciagurati abitatori di Roma accolsero il loro Monarca con servili acclamazioni, quantunque nel loro animo gli scagliassero muti rimproveri. Non eravi Stilicone dai cui allori egli prendesse a prestito splendore, e taceva la musa che per bocca di Claudiano gli aveva già tributate lodi adulatrici di trionfatore. Stendendo la mano e supplicando colla voce, i Romani lo eccitavano a far risorgere la Città dalle sue rovine. Se si presti fede agli Scrittori, Roma si rimetteva in breve tempo dei mali sofferti durante il saccheggio dei Goti, di maniera che sorgeva «più splendida dell’antica»[137]. I cittadini fuggiti vi [191] ritornavano da tutte le province dell’Impero; ed erano in numero sì grande che Olimpiodoro racconta che in un giorno solo ne arrivassero quattordicimila. Tuttavia, bisogna andare cauti nell’accogliere le notizie date dagli scrittori di quell’epoca. E lo stesso Storico racconta che Albino, prefetto della Città nell’anno 414, aveva riferito all’Imperatore che la popolazione di Roma s’era accresciuta di maniera che non fosse più sufficiente la misura di grano ch’era costituita per le somministrazioni al popolo[138].
La Città andava poco a poco risorgendo e ripopolavasi, quantunque non si restituisse nel primitivo splendore come vorrebbero far credere quelle narrazioni e le voci adulatrici di coloro che celebravano Onorio col titolo di restauratore della Città. Ma che Roma, pochi anni dopo della conquista dei Goti, fosse ancora la grande, la magnifica, ci mostrò Olimpiodoro: ed anche Rutilio, che ne partiva nell’anno 417 per tornare in patria, poteva confortare il suo animo della caduta di lei con quei versi inspirati, nei quali esorta la Città a rialzare il suo capo venerando, ad ornarsi d’alloro ed a cingere il turrito diadema, e ad alzare di nuovo il suo scudo brillante. I terribili mali sofferti nel saccheggio, sclamava, potevano esser posti in obblio dalla remissione dei tributi: elevando lo sguardo al cielo si allevia ogni dolore, imperocchè anche gli astri tramontino per risorgere brillanti sempre di luce novella. L’oltracotanza superba di Brenno aveva ricevuto punizione, ed il Sannita la aveva espiata colla servitù: [192] la fuga e la disfatta di Pirro e di Annibale avevano vendicate le loro vittorie. In simil guisa Roma risorgerà legislatrice dei secoli, essa sola non temente il lavorio della Parca; tutte le contrade della terra di nuovo le porgeranno tributi e il bottino fatto sui Barbari empirà i suoi porti: i campi che il Reno bagna, saranno dissodati eternamente per lei; per lei il Nilo riverserà fuor del suo letto le onde fecondatrici; Africa a lei dispenserà la ubertà dei suoi prodotti: e flotte romane solcheranno le onde del Tebro trionfatore, coronato di giunchi[139].
Questi augurii il Poeta ancora pagano volgeva a Roma, salutandola con voce velata dal pianto. Ma non furono profetici. Abbattuta da quel colpo tremendo, la Città non ebbe più forza di sollevarsi. Per buona sorte dei popoli d’Occidente, Roma non raccolse più dalla polvere la corona d’alloro cadutale di capo. E soltanto dalle ceneri dell’antichità essa si elevò sotto forma novella dopo le pugne lunghe e dolorose della sua seconda nascita, per reggere col pastorale durante lunghi secoli il mondo morale, dopochè essa aveva dominato, per tempo sì lungo, mezzo il mondo colla potenza della sua spada[140].
[193]
Nel tempo in cui la vita politica di Roma si spegneva e le istituzioni civili dell’antichità perivano, nel tempo stesso in cui l’Impero, premuto sempre più dai Germani invasori, perdeva una provincia dopo l’altra e minacciava finalmente di perire esso stesso, era in Roma un solo istituto che non aveva mai vacillato e che sottometter doveva alle leggi della civiltà quei Barbari medesimi, i quali più tardi ne diventavano difensori ed ausiliarî a ottenergli la signoria della Città e di parecchie province d’Italia. Quell’istituto era la Chiesa, era il Papato. Durante i varî avvenimenti che s’erano succeduti nel periodo di presso che quattro secoli di dominazione degl’Imperatori, sulla cattedra vescovile di Roma sedeva una gerarchia di preti elettivi, antica quasi quanto il Monarcato, la quale, dopo di Pietro che la tradizione narra essere stato fondatore dell’Episcopato romano, già contava una serie di quarantacinque Vescovi fino al tempo in cui i Goti conquistarono la Città[141]. Alla storia di [194] Roma e dell’Impero era proceduta allato e di pari passo la storia della Chiesa: storia arcana, dapprima, di un’associazione misteriosa d’amore e di libertà morale; indi storia di martiri eroi a cui era succeduta storia di acri pugne contro il Paganesimo, e del trionfo riportato dal Cristianesimo sulla Religione degli idoli; storia finalmente di continue lotte contro le eresie sorte in Oriente e nel Mezzogiorno. Nei tempi della dominazione imperiale di Roma, la Chiesa aveva accolto in sè le più elevate idee spirituali; e la libertà, bene sommo e felicità del genere umano, otteneva consecrazione nella cerchia della vita morale, poichè era stata soffocata nel mondo politico. L’energia che la Chiesa aveva dimostrata contro il despotismo di Costantino e dei suoi succeditori era stata salutare e gloriosa; ma quell’istituto troppo presto cadeva dalla spirituale sua altezza, corrotto in generale da quella tendenza egoistica che non si disgiunge mai da tutto ciò ch’è dell’uomo, e avvelenato in particolare dall’avarizia e dall’ambizione. Ricchezze d’ogni maniera, composte di offerte di mani liberali e di beni stabili che chiamavansi patrimonii, fluivano a questa Chiesa, la quale, nel tempo stesso in cui dava alla sua amministrazione esteriore un ordinamento sapiente, poneva le basi ed innalzava il suo sistema dogmatico che il genio dei suoi Padri e dei suoi Teologi difendeva e raffermava. Il Vescovo di Roma, sedente in Laterano, volgeva la sua [195] operosità alla sola amministrazione ecclesiastica; e, quantunque non avesse ancora potenza politica, tuttavia cominciava già nel secolo quinto ad esercitare sulla Città una certa influenza che non era unicamente d’indole spirituale e morale, ma che, nelle relazioni innumerevoli della Chiesa sulla universa vita civile, assumeva anche natura tutt’affatto materiale. La lontananza dell’Imperatore da Roma accresceva venerazione alla persona del Vescovo cui la fede insegnava a rendere ossequio come a persona sacra; e le necessità sempre più stringenti e la miseria crescente nel popolo, lo facevano riverire salvatore, difensore, padre della Città. E Roma amministrata nelle bisogne civili da prefetti e dal Senato, nell’ordinamento spirituale retta dal suo Vescovo, quasi separata dalla vita publica dello Impero di cui aveva cessato di essere la capitale, cadeva più e più sempre nella letargica condizione di municipio isolato; ed ora comprendeva che soltanto in grazia del suo Vescovo le veniva ancor tributata onoranza. Poco a poco però il popolo perdeva ogni partecipazione ai negozî politici, nè più ormai doveva aver parte che alle faccende ecclesiastiche e teologiche.
Già dopo l’anno 417, la Città era funestata dalle lotte contro la setta dei Pelagiani e dei Celestini, e poco appresso dividevasi in fazioni che acremente disputavansi per la successione al ricco seggio vescovile. Il greco Zosimo, ch’era succeduto a Innocenzo, moriva addì 26 di Dicembre dell’anno 418. Nel tempo in cui la parte maggiore del clero e del popolo, nella chiesa di santo Marcello, eleggeva il romano Bonifacio a succeditore del defunto, la fazione avversa nella basilica lateranense [196] acclamava vescovo l’arcidiacono Eulalio. Il popolo parteggiava per Bonifacio, ma il prefetto Simmaco amico di Eulalio spediva lettere ad Onorio in Ravenna, in cui egli si dichiarava contro di Bonifacio. L’Imperatore comandava che s’insediasse il candidato del prefetto. Nuovo scisma (era il terzo di questo genere nella Chiesa romana) divideva il popolo; e l’ambizione sacerdotale minacciava di funestare nuovamente la Città con avvenimenti sanguinosi, simili a quelli che la avevano già rattristata ai tempi di Damaso e di Ursicino. Eulalio aveva già preso possesso della basilica di san Pietro, e Bonifacio s’era ritirato in san Paolo fuori delle mura. Il prefetto gli spediva un tribuno a citarlo dinanzi a sè per udire il comando dell’Imperatore, ma il popolo inasprito si sollevava tumultuando e maltrattava il messo. Allora Simmaco publicò i decreti dello Imperatore, e fè chiudere le porte della Città per impedire a Bonifacio di entrarvi. Ma quelli che parteggiavano per il Vescovo escluso corsero all’Imperatore, e gli fecero conoscere che nella elezione di Eulalio erano state violate le leggi canoniche e che invece Bonifacio era stato eletto a vescovo dalla grande maggioranza con ogni regola di forme. Onorio, temendo di irritare i Romani, dichiarò essere sua voglia che della scandalosa scissura pronunciasse sentenza un Concilio. Le due fazioni comparvero innanzi a un Sinodo raccolto prima in Ravenna e poi a Spoleto; e, finchè questo avesse pronunciato il suo decreto, fu proibito ai due Candidati di entrare in Roma. Obbediva Bonifacio, e prendeva dimora nel cimitero di santa Felicita presso la Via Salaria; ma Eulalio, che aveva posta sua sede in Anzio presso la chiesa di santo [197] Ermete, con disprezzo insolente entrava in Città, e nel giorno di Pasqua amministrava il battesimo e celebrava messa solenne in Laterano, laddove il suo competitore stava contento a fare lo stesso nella basilica di santa Agnese fuori delle mura. E ne seguiva che Onorio irritato abbandonava Eulalio, il quale, cacciato della Città, fu condannato a confino nella Campania, laddove Bonifacio, quale Vescovo eletto, saliva alla cattedra di Pietro nell’anno 419[142].
Questi negozî ecclesiastici incominciavano ora a impadronirsi intieramente dell’animo dei Romani, pei quali, perduta ogni operosità di vita politica, l’elezione del loro Vescovo era un avvenimento importante, imperocchè fosse il solo campo in cui potessero usare senza inceppamento del loro volere. E che eglino fossero quasi messi fuori dello Impero, vedevano da ciò, che tutto quanto deliberasse la corte di Ravenna loro s’imponeva, sofferendolo essi come un fatto compiuto.
Addì 15 di Agosto del 423 moriva in Ravenna Onorio imperatore. La sua salma fu trasportata a Roma ed ebbe sepoltura in vicinanza al san Pietro. Tutt’a un tratto l’Impero occidentale mancò di un Principe che, succedendogli, prendesse le redini dello Stato; perocchè la stirpe del gran Teodosio in linea maschile si fosse estinta in Occidente, e Placidia poco tempo prima della morte di suo fratello fosse stata costretta da raggiri di corte a partirsi di Ravenna ed a ricoverarsi a Bisanzio col suo figlio Valentiniano, che ella aveva avuto di [198] Costanzio suo secondo sposo e che era ancora in tenera età. L’imperatore greco Teodosio ondeggiò qualche tempo nel pensiero se dovesse ricongiungere all’Impero d’Oriente le province occidentali, o se dovesse porre sul capo di un bambino che ancor non favellava la corona d’Occidente. Di repente gli giunse, a suo terrore, la notizia che Giovanni primicerio dei notai aveva alzato arditamente in Ravenna lo stendardo della ribellione e s’era coperto della porpora imperiale. Quest’uomo di potente ingegno s’era impadronito senza fatica d’Italia; e Roma stessa avrebbe riconosciuto il suo impero se nell’anno 425 non avesse toccata una grande sconfitta dall’armi di Ardaburio e di Aspare generali di Teodosio, i quali, conducendo seco Placidia col figliuoletto, forti di un potente esercito e di una flotta, s’impadronirono di Ravenna, e l’usurpatore diedero in mano al carnefice.
Il fanciullo Valentiniano accompagnato dalla madre, di Ravenna passava a Roma dove un plenipotenziario di Teodosio gli porgeva il manto imperiale e il dichiarava Augusto sotto nome di Valentiniano III in tutela di Placidia. Egli aveva allora soli sette anni[143]. Il giovinetto Imperatore pose sua residenza nella forte Ravenna dove venne educato in effeminata mollezza dalla madre che anelava ad impero, e che, debole troppo per guidare lo Stato sconnesso da tanto disordine, doveva cadere sciagurata vittima di raggiri astuti. Imperocchè quella donna, la cui vita fortunosa risveglia grande allettamento in chi studia la storia di quel tempo, non possedesse grande ingegno di reggitrice di popoli; e, [199] quantunque avesse potuto giovarsi del senno di due uomini illustri, di Ezio e di Bonifacio, ella, per leggerezza femminile e per passione d’intrigo, perdesse l’uno per l’altro. Conseguenza dell’astuzia di Ezio e della debolezza di lei fu la perdita della ricca provincia di Africa. Bonifacio, indotto al tradimento dalla ignobile gelosia del suo rivale, nel bollore della collera chiamava i Vandali di Spagna. Dopo soltanto che erano sbarcati in Africa nell’anno 429, conosceva l’error suo; ma l’eroico pentimento di lui era troppo tardo, imperocchè Genserico in dieci anni si rendesse soggetta tutta la contrada, e in quella ubertosa provincia, ch’era il grande granajo di Roma, tenesse la chiave d’Italia. Quell’avvenimento recò un colpo mortale a Roma e gettò la Città, sempre più indebolita, in balia del più grave infortunio.
La storia interna di Roma di questo tempo è animata dall’operosità del vescovo Sisto III, il quale, romano di nascita, addì 24 di Luglio dell’anno 432, saliva alla cattedra di san Pietro. Egli fu illustre per fervore nell’ornare Roma di chiese; e poichè fosse consuetudine che i Vescovi romani, a monumento di qualche vittoria riportata sopra perniciose eresie, edificassero novelle chiese, così fece egli pure. Il suo predecessore Celestino I, nell’anno antecedente 431, aveva tenuto il Concilio di Efeso per condannare la setta dei Nestoriani, i quali [200] negavano alla Vergine Maria il solenne predicato di «Deipara», e Sisto celebrava questo trionfo della fede cattolica erigendo a nuovo una splendida chiesa là dove sorgeva la basilica antica di Liberio, e ch’egli dedicava a Maria Vergine, madre di Dio[144]. Egli rese adorno di musaici l’interno di questo tempio che probabilmente fu il primo che in Roma si dedicasse alla Vergine. Molti di quei musaici si conservano ancora; e la loro antichità ed il disegno li rende pregevoli come antichissimi di tutte le chiese di Roma, se si eccettuino i musaici in santa Pudenziana della cui origine è incerto il tempo e gli ornati bacchici esistenti in santa Costanza di stile alquanto rozzo. Di origine contemporanea possono essere soltanto gli avanzi di musaici che vedonsi nella chiesa [201] di santa Sabina posta sull’Aventino, bella basilica che deve essere stata edificata dal vescovo Pietro sotto il pontificato di Sisto III.
Lo stile dei musaici in santa Maria conserva ancora le forme tradizionali dell’arte antica; nè vi si scorge traccia di quel gusto così detto bisantino, il quale, poco tempo dopo, già comincia a intravedersi nei musaici coi quali Leone Magno, succeditore di Sisto, fece ornare, per incarico di Placidia, l’arco trionfale del san Paolo[145].
Egli è prezzo dell’opera che c’indugiamo a parlare di questi musaici; imperocchè sieno i soli in Roma che nei loro disegni rappresentino lo svolgimento del Cristianesimo negli episodî principali di storia dell’antico e del nuovo Testamento. Quantunque l’artefice ne sia sconosciuto, e benchè parecchi soggetti non sieno trattati in pari guisa, tuttavia la idea straordinaria di un ciclo di fatti di storia biblica non poteva accogliersi che nella mente di un solo artista, oppure non poteva essere condotta da parecchi che dietro l’ordinamento di un solo. Le storie sono distribuite in maniera, che le pareti della navata di mezzo sono coperte di disegni rappresentanti alcuni avvenimenti del Testamento antico, i quali servono d’introduzione alla storia della Vergine e del Cristo, di cui si mirano dipinture sull’arco trionfale, all’istessa guisa che la promessa simbolica dell’êra antica corrisponde e [202] precede all’adempimento compiutosi nella nuova. Al di sopra dell’architrave, in tutta la sua lunghezza, le istorie ornano le due pareti di quella navata, in trentasei quadri tetragoni disposti gli uni sopra gli altri in due serie. Ma la loro piccolezza rende difficile all’occhio di comprenderli pienamente, per la qual cosa operano allo sguardo dell’osservatore effetto meno vivo dei musaici normanni di Monreale eseguiti in tempi più tardi. Oggidì se ne può comprendere pienamente il valore soltanto da copie, e si conosce che in generale erano mirabili per bellezza semplice e per il nobile stile dell’arte antica. Essi cominciano la storia dell’antico Testamento da Melchisedecco che rende onore ad Abramo; e rappresentano con tratti espressivi la vita e le geste dei Patriarchi da Mosè e da Giosuè fino all’ingredire nella terra promessa. I primi sono i più belli, e presentano l’idillio della vita patriarcale colla gentilezza dell’arte antica, e sembra che col loro stile siensi fatti precursori di quei piccoli quadri splendidissimi onde Raffaello ornò le logge. In tutti i quadri di battaglie e di guerre della storia di Giosuè, sembra invece che l’artista abbia seguito la maniera fredda dei basso-rilievi della colonna di Trajano goffamente e senza che comprendesse l’animatezza di quel genere di dipinture[146].
Alcuni musaici rappresentanti la storia di Cristo [203] adornano il grande e splendido arco di trionfo che Sisto III ergeva sopra l’altar maggiore a ricordanza della vittoria della Chiesa ortodossa. Il Cristiano di quei tempi leggeva in quelle imagini con compiacimento la storia delle battaglie di Roma religiosa; e se oggi l’osservatore le contempla soltanto per il disegno, in quel tempo invece operavano sulla moltitudine con quella forza per la quale è commosso l’animo nostro alla ricordanza di gravi avvenimenti succeduti in tempo poco remoto. I disegni che coprono tutta la parete al di sopra ed ai due lati dell’arco, sono distribuiti in quadruplici compartimenti fra loro corrispondenti. Nel punto di mezzo ossia nel capo dell’arco si mira l’imagine del trono, dinanzi a cui sta il mistico libro coi sette suggelli. Ai lati sono san Pietro e san Paolo e le figure simboleggianti gli Evangelisti, il vitello e l’angelo, il leone e l’aquila. Indi segue l’annunciazione: l’angelo si presenta alla Vergine che siede in atto soave e dietro a lei sono due altri angeli. In nessuna di queste dipinture Maria ha il capo circondato dell’aureola, ed è cosa che per la storia delle idee di quei tempi merita considerazione. Vi segue il quadro che mostra la presentazione di Cristo al tempio, ossia Maria che tiene tra le sue braccia il bambino cinto la testa dell’aureola di gloria. Nella seconda serie è rappresentata l’adorazione dei Magi con concezione stravagante. Il bambino siede solo sul trono: due Re, dalle svelte forme giovanili e coperti il capo del berretto frigio sormontato da corona e simile agli elmi ovali dei Dioscuri o al berretto dei prigionieri di Dacia dei basso-rilievi dell’arco di Trajano, gli stanno dinanzi offrendogli donativi. Dietro al soglio del Re bambino, vedonsi quattro angeli e l’astro [204] celeste[147]. A questo quadro corrisponde dal lato opposto un secondo che rappresenta Cristo disputante nel tempio con due angeli dietro di sè. Il terzo che succede tosto dopo, a destra dell’osservatore rappresenta un episodio della vita di Erode di cui non si comprende facilmente il significato, ed alla sinistra la strage dei fanciulli. I pittori italiani dei tempi posteriori trattarono quell’argomento doloroso con paurose fantasie; ma questo musaico antico mostra un alto e bello concepimento dell’artista che si restrinse a dipingere un gruppo di dolenti donne, le quali atterrite stringono loro fanciulletti tra le braccia, e tre sgherri che con mossa animatissima si scagliano a strapparli loro dal seno[148]. Finalmente alle estremità dell’arco chiudono la serie dei quadri i soliti disegni delle due città di Gerusalemme e di Betelemme verso le quali alzano gli occhi alcune greggi di agnelli che sono simbolo dei fedeli. Sono questi i celebri musaici in santa Maria Maggiore. Per altezza e per unità di concetto essi superano tutti gli altri di Roma; e, prossimi per purezza di stile agli antichi, sono un bel [205] monumento dell’ultimo splendore dell’arte romana del secolo quinto.
Il Libro Pontificale narra degli splendidi arredi onde papa Sisto fè dono alla sua chiesa di santa Maria; e dalla descrizione che ne dà si pare che, dopo il saccheggio dei Goti, l’oro fosse divenuto raro nella Città. Imperocchè in esso sia fatto menzione di un solo calice (schyphus) di puro oro che avrebbe pesato, se si possa crederlo, cinquanta libbre. Gli altri doni offerti sono invece d’argento; e fra essi è cenno di un altare coperto di lamine del peso complessivo di trecento libbre, e di una figura di cervo che, posta sopra il bacino del battistero, versava acqua dalla bocca, ed era pesante di trenta libbre. Malgrado dello erario depauperato, Valentiniano era cortese alle preghiere del Vescovo, chè la confessione del san Pietro ornava di un basso-rilievo in oro seminato di pietre preziose rappresentante la figura del Salvatore e dei dodici Apostoli, e nella basilica lateranense poneva un tabernacolo (fastigium) d’argento in sostituzione dello antico, che i Goti, ad onta del loro rispetto alle chiese, avevano rapito[149]. Questo solo arredo pesava cinquecento undici libbre, per la qual cosa si può di leggieri argomentare quale ricchezza avranno raccolta gli Ariani nel bottino delle chiese. Onorio, Placidia e Valentiniano ed i Vescovi di quel tempo davano con fervore opera a restituire ciò che nel sacco era stato rapito. Le chiese si riempivano di nuovo di ornamenti d’oro e di argento massiccio, nè v’ha alcuno di quei Vescovi che il Libro [206] Pontificale non celebri pei donativi offerti a parecchie chiese in vasi, in doppieri, in altari ed in arredi. Indarno innalzava la voce santo Gerolamo contro quella eccessiva magnificenza. «Le pareti splendono di rilucenti marmi», esclamava, «i tetti brillano per l’oro, gli altari sfavillano di gemme, ma i veri servi di Cristo dello splendore esterno non sono vaghi. Potrà dirmi qualcuno che il tempio d’Israello ricco era, e che la mensa, i doppieri, i turiboli, le patene, i calici, i bacini e gli altri arredi erano d’oro. Ma poichè il Signore elesse la povertà a suo tempio, alla croce dobbiamo pensare, e la ricchezza come fango vile avere a disprezzo.» Così san Gerolamo[150]. Ma il clero zelante delle chiese di Roma pensava altrimenti, e voleva che ognuna di esse fosse ad imitazione del tempio di Salomone, e lo prendeva a modello nella pompa orientale degli arredi sacri e degli abiti sacerdotali. Di maniera che nel periodo di soli quaranta anni si ammassava in Roma una ricchezza novella la quale avrebbe servito di bottino a quei Barbari, che la sorte e l’indole di vita nomade dovevano spingere di bel nuovo sopra la Città.
[207]
Moriva Sisto III addì 11 di Agosto dell’anno 440, ed i Romani ad una voce eleggevano a suo succeditore il diacono Leone. Figlio di Quintiano, era toscano di nascita; e la Città non aveva a dolersi dell’elezione di quest’uomo illustre, che colla sua influenza salvare doveva la Città dalla distruzione. Trent’anni prima, torme di uomini fuggenti da Roma avevano cercato un asilo in Africa, ed ora invece erano mutate le sorti con inversa vicenda. Una moltitudine di gente fuggiva da Cartagine che allora cadeva in mano dei Vandali; e dalle province devastate di Numidia e da Ippona, dove santo Agostino nell’anno 430 era morto, riparavano a Roma: e forse fra coloro che chiedevano ospitalità ai Romani, che dovevano essere memori del beneficio simile che ne avevano ricevuto, saranno stati alcuni che scampati di Roma al tempo del sacco di Alarico, avranno continuato a dimorare in Africa finchè la novella sciagura ne li ricacciava. Tra i fuggiaschi, molti erano che appartenevano alla setta panteistica dei Manichei, e che continuarono a tenere loro congreghe in Roma finchè le discopriva papa Leone. Costretti ad abiurare le loro credenze o ad esulare, quegli sciagurati deserti di patria erano caduti di male in male. Avevano veduto in Africa le loro case arse dai Vandali seguaci di Ario, ed ora dovevano mirare ardere dinanzi [208] le chiese di Roma i loro scritti ereticali, ed era un gran numero di volumi che per buona sorte dei posteri furono distrutti. Ed offrono prova mirabile di duplice fanatismo religioso, dall’un lato genti le quali fuggendo trasportano seco un grave peso non utile alla vita, e dall’altro i roghi sui quali quei volumi sono arsi[151].
Leone volgeva tutta la sua operosità a conservar la purità della dottrina ortodossa. Le forze dello intelletto umano, oziose adesso che era loro precluso il campo dell’operosità politica e civile, s’erano rivolte con ardore alle speculazioni teologiche. Manichei, Priscilliani, Pelagiani ergevano arditamente il capo nelle province, e la nuova eresia sôrta in Costantinopoli dagli insegnamenti di Eutichio, il quale aumentava le sottili dispute agitantisi intorno la natura di Cristo, affermando che Cristo era di due nature, non in due nature, trascinava il Vescovo di Roma a violente ed ostinate contese coll’Oriente. In tali cure trovava egli valido appoggio in Placidia ed in Valentiniano che egli vedeva soventi volte in Roma, dove traevano di Ravenna a pregare sulla tomba degli Apostoli. In quei loro pellegrinaggi, offrivano donativi preziosi alle chiese; e già abbiamo veduto che, ad opera di Placidia, ai tempi di Leone era stata ornata di musaici la chiesa di san Paolo. Placidia moriva in Roma, ove ella si era recata insieme col figlio, addì 27 di Novembre del 450, poco dopo che Teodosio il Giovane era passato di vita in Bisanzio. Ella non ebbe sepoltura nel mausoleo di san Pietro, ma fu trasportata a Ravenna; ed il suo [209] corpo collocato nella tomba sopra un trono di legno di cipresso, si conservò in integro stato per secoli[152].
La morte di questa donna illustre precorse la caduta di Roma imperiale, come già alla morte di Cleopatra era succeduta la caduta della Republica romana. Egli è un fenomeno meraviglioso nella Storia, che nei tempi di decadimento s’elevino alcune figure di donne, la cui influenza sulla loro epoca è grande, e la cui vita è lo specchio in cui si riflette l’imagine dei costumi del loro tempo. Durante il periodo del decadimento di Roma, furono in Occidente ed in Oriente Placidia, Pulcheria, Eudocia, Eudossia ed Onoria figlia di Placidia, donne le quali colla storia dei loro affetti recano qualche lume nella deserta oscurità di quel tempo e ne scemano l’orrore. E tra le storie della vita di tutte quelle donne illustri, poche sono che abbiano maggiore importanza storica, nessuna forse che risvegli tanta meraviglia per gli avvenimenti sì vari e sì fortunosi, per l’attrattiva delle avventure e dei luoghi ove si compirono, quanto la vita di Placidia, della quale in poche parole tracceremo il profilo. Figlia a Teodosio il grande e sorella ad Onorio, giovinetta di ventun anno, cadeva in mano di Alarico che la traeva seco in Calabria. In Narbona diveniva sposa di Ataulfo re dei Goti. Un figlio avuto di quel maritaggio le moriva in Barcellona, e tosto dopo perdeva il marito trucidato in una congiura. Strappata vilmente dal suo palazzo dall’assassino Singerico, caricata di catene, era condannata a camminare lungo tratto dinanzi al cavallo dell’usurpatore. Rimandata a Ravenna presso il fratello, [210] era costretta, ella, la vedova di Ataulfo, a dare contro sua voglia la mano di sposa al generale Costanzio del quale aveva due figli, Valentiniano ed Onoria. Costanzio moriva d’improvviso; e l’imperatore Onorio, il quale poco tempo prima era accusato dalla fama di una passione colpevole per la sorella, cacciava la sciagurata donna che coi suoi due figli ricoverava a Bisanzio. E di qui ella faceva ritorno poco tempo dopo con un’armata, e dopo molte traversie sofferte in viaggio, approdava in Italia, collocava il figlio sul trono d’Occidente, e per lo spazio di venticinque lunghi anni come tutrice o piuttosto come vera signora, teneva sotto il suo potere l’Impero romano.
Tosto dopo la morte di Placidia e di Teodosio, s’eleva la figura di Onoria figlia di lei, che sì triste influenza aver doveva sul destino di Roma. La vita quasi claustrale cui era condannata alla corte di Ravenna, era in abborrimento alla giovinetta sedicenne, la quale, trascinata dal tumulto delle passioni ardenti nel primo periodo della vita, faceva lieto di secreti abbracciamenti il suo maggiordomo Eugenio. Ma ben presto gl’indicî della gravidanza tradivano il secreto agli occhi di Placidia, la quale mandava la traviata donzella alla corte di Costantinopoli, dove la spietata severità della vergine Pulcheria la rinchiudeva in un carcere ad espiazione involontaria del fallo. Colà sin dall’anno 434 nel languore della prigionia, la bella desolata scontava i piaceri vietati dello amore, e sulle ali della fantasia accesa dallo spiro ardente del cielo di Bisanzio, s’abbandonava a pensieri romanzeschi, e balenavale alla mente l’idea avventurosa d’invocare in suo ajuto il terribile guerriero del suo [211] tempo, l’unno Attila, e di chiamarlo di Pannonia, promettendogli in premio la sua destra e i suoi diritti ad una parte dell’Impero. La ricordanza delle avventure di Eudocia moglie di Teodosio, e della bella greca Atenaide, l’esempio della vita errabonda della propria madre che non aveva avuto a schivo di calcare il letto di un Re barbaro, del conquistatore di Roma, valse a dissipare le sue dubbiezze se pure ne accolse. Ella potè trovare opportunità di spedire ad Attila un eunuco che gli recasse una sua lettera e l’anello di fidanzata. Ciò era succeduto prima ancora della morte di Teodosio; ed appena il senatore Marciano, che Pulcheria aveva scelto a sposo, era salito al trono d’Oriente, Attila, sollevando a pretesto i suoi sponsali con Onoria, a Marciano domandava tributi ed a Valentiniano chiedeva che gli fosse data la sua sposa[153]. Ma l’una cosa e l’altra gli fu negata. La corte di Costantinopoli s’affrettava a rimandare la sciagurata principessa a Ravenna, affine di distogliere da sè l’ira di Attila. Appena arrivata in Italia, Onoria era costretta a dare la sua mano ad un offiziale della corte, imperocchè quel maritaggio dovesse togliere qualunque titolo alle pretese del Re degli Unni. Appena compiuta la ceremonia, la figlia di Placidia era cacciata in un carcere in cui era condannata a languire per lungo tempo.
[212]
Sono questi gli avvenimenti che precedettero la terribile catastrofe che ora minacciava la città di Roma della sua totale rovina. Molte ragioni politiche consigliavano al Re degli Unni di spingere i suoi popoli contro Occidente e contro le province di Gallia, anzichè sopra Costantinopoli. Non seguiamo il cammino di quei Barbari che, seminando sui loro passi strage e distruzione, desolano il centro d’Europa, ma osserviamo con compiacimento quegli stessi Visigoti dinanzi ai quali Roma un tempo aveva tremato, farsi ora difensori della civiltà romana e congiungersi alle soldatesche di Ezio, e vediamo Romani e Germani, quasi fossero conscî dei futuri legami che dovevano più tardi stringere le due schiatte, combattere insieme da valorosi le orde sarmatiche condotte da Attila. Una delle più grandi battaglie combattuta fra popoli di cui serbi ricordanza la Storia d’Europa, fu l’ultimo fatto eroico dell’Impero: e se essa orna di glorioso splendore la fine di Roma, illustra anche il nome dei Goti; e, mondandolo della macchia del saccheggio ch’eglino un tempo vi avevano dato, impone silenzio all’odio che quell’avvenimento eccita contro di loro[154].
[213]
Il Re degli Unni sconfitto, raccozzati gli avanzi dispersi delle sue soldatesche, tornava nella remota Pannonia, ma soltanto per isvernarvi e per raccogliere nuove truppe. Nella primavera dell’anno 452, valicava le Alpi Giulie e scendeva in Italia a liberare la sua fidanzata, a conquistare il retaggio del padre e della madre di lei, e a prendervi il titolo che gli apparteneva quale suo sposo. Traversava il Friuli e distruggeva le città infelici delle Venezie, d’Insubria e dell’Emilia che incontrava nel suo cammino; quando tutt’a un tratto, quasi rattenuto da incerto animo, faceva sosta là dove il Mincio sbocca in Po. Tra lui e Roma non una fortezza s’alzava, nessun esercito s’accampava che lo tenesse in rispetto, imperocchè Ezio si trovasse ben lungi nelle Gallie dove a stento levava soldatesche, e le città sguernite, che impedire non potevano ad Attila la prosecuzione del suo cammino, non promettessero neppure di sostenere un assedio di tre mesi, come aveva resistito l’infelice ed eroica Aquileja. L’imbelle Valentiniano, non ardiva di chiudersi in Ravenna, ma fuggendone a precipizio, riparava in Roma, dov’era esposto a maggiore pericolo che non fosse stato Onorio ai tempi di Alarico, imperocchè lui non difendessero mura bene munite, o rocca da natura fatta difficile ad espugnarsi, o esercito agguerrito. La Città vedeva sè stessa esposta alla balìa d’un inimico inumano; ed i Romani, ridotti alla disperazione e incapaci persino del pensiero di armarsi e di difendere le proprie mura, [214] esclamavano atterriti che da Attila, le cui mani grondavano del sangue sparso di fresco in Aquileja, e dalle orde barbariche di lui, non poteva aspettarsi neppure quella mercè che il grande animo di Alarico aveva loro concesso.
In tale difficoltà, il Senato deliberava di spedire al Re unno un’ambasceria che lo pregasse di pace e di desistere dall’impresa. Avieno presidente del Senato, uomo consolare e dei più ragguardevoli di Roma, Trigezio, che altra volta era stato prefetto pretorio d’Italia, e il vescovo Leone furono eletti a quel difficile messaggio. Leone era aggiunto a quei due senatori, affinchè l’aureola della sua dignità sacerdotale rendesse più onorata e più sacra la loro missione, e perchè fosse di giovamento colla forza di sua eloquenza straordinaria, e acciocchè finalmente si acchetasse l’animo del popolo di Roma, che probabilmente ad alte grida lui avrà designato ad ambasciadore[155]. Rade volte un uomo della Chiesa fu eletto ad opera più gloriosa. La figura di un pontefice, che, calmo e venerando, si presenta dinanzi ad uno dei più terribili mostri dell’umanità, il quale è in procinto di dare alla distruzione la capitale del mondo civile, torreggia sublime nella Storia. E la missione di Leone gli assicurò l’immortalità, e deve valergli la gratitudine dell’uman genere, imperocchè azioni simili sieno rare come i grandi avvenimenti della Storia, e meritino una gloria che mai non morrà a coloro che le compierono, anche se vi sieno stati appellati dal caso.
[215]
I legati si recarono al campo che gli Unni avevano posto presso il Mincio; e, introdotti nella tenda del Re, trovarono quel flagello di Dio che nell’anima truce era combattuto da dubbiezze, le quali lo rendevano meno inflessibile di quello che avrebbero potuto credere. Egli sembra che la ricordanza della morte subitanea onde Alarico era stato colto poco tempo dopo la presa di Roma, avesse scosso di terrore profondo l’animo rozzo dell’Unno, sul quale erano potenti i presagi della religione naturale. Si dice che i suoi amici, proponendogli l’esempio del grande Re dei Goti, lo sconsigliassero di muovere contro la Città santa[156]. Ma una leggenda, formatasi in tempi molto posteriori, narra che re Attila, accanto al vescovo Leone che lo ammoniva, vedesse elevarsi la figura sopranaturale di un estranio vecchio dal venerabile aspetto, che, involto nell’ammanto sacerdotale, ruotando una spada ignuda, gli minacciasse morte se non obbedisse alle esortazioni del santo Vescovo. Questa celebre leggenda è bella e poetica, ed onora il genio cristiano, e cattiva la nostra compassione per Roma infelice, cui difende un’apparizione celeste or che venne meno il valore tra suoi cittadini. L’arte tentò d’impadronirsi di questo subbietto; tuttavolta nè il pennello di Raffaello in una stanza del palazzo Vaticano, nè lo scalpello dello Algardi in una cappella del san Pietro riuscirono ad esprimere la semplice bellezza della poesia. Eglino rappresentarono Attila atterrito all’apparizione degli apostoli Pietro e Paolo, che colle spade sguainate si librano minacciosi sulla sua testa[157].
[216]
La pieghevolezza del Re unno è del resto un enigma come lo è la pronta ritirata di Alarico. Quantunque gli Storici non facciano cenno che forse la fame cominciasse a molestare l’esercito di Attila, e quantunque non parlino che incertamente dei movimenti che Ezio operava alle spalle di lui, non possiamo tuttavia affermare con sicurezza che gli Unni si ritirassero disarmati dalla forza di quella magia che il nome venerando di Roma esercitava pur sempre sulla fantasia del genere umano. Imperocchè un uomo come Attila, in cui era potente il genio della violenza e della dominazione, avrebbe preso la Città, se gli fosse riescito. Che se anche vogliamo credere che egli non la avrebbe condannata alla distruzione, tuttavia il furore sfrenato di genti veramente barbare, quali erano gli Unni suoi, avrebbela facilmente ridotta un cumulo di fumanti macerie. Ma quella rovina orribile fu risparmiata al mondo, e per felice sorte i popoli d’Europa poterono ancora mirare a Roma come ad un sacro monumento creato dai secoli, alla sede della civiltà e delle idee politiche e religiose.
Attila si ritirava in Pannonia, nè sappiamo se i Romani gli pagassero un riscatto e quale mai fosse. Gli [217] Storici hanno conservato soltanto ricordanza, che partendo egli minacciasse lo sterminio a Roma e ad Italia, se non gli fosse stata data la sposa Onoria con una dote conveniente. Ma per buona sorte gli mancò il tempo di porre ad effetto quella sua minaccia, imperocchè nell’anno seguente, così come Alarico dopo la presa di Roma, subita morte lo cogliesse tra le braccia di una sua bella.
La liberazione di Roma dall’invasione di Attila diè origine più tardi ad un’altra leggenda ch’è pur degna di ricordanza. Narrasi che Leone reduce della sua gloriosa ambasceria, lieto dell’esito della sua missione e grato all’ajuto ricevuto dal Principe degli Apostoli, facesse fondere la statua di Giove Capitolino, e che con quel bronzo facesse gettare quella figura di san Pietro, che, sedente sul trono, oggidì mirasi nella basilica. Il celebre Giove del Campidoglio che nella distruzione generale delle statue degli Dei avrà trovato una fine inosservata, comparisce per l’ultima volta nella fola di questa leggenda: ma questo è tuttavia un bel simbolo della trasformazione che operavasi in Roma[158].
Egli si pare che la Città per un certo periodo di anni rendesse grazie solenni per la sua liberazione; e ciò ricavasi da una predica di Leone. Il grande Vescovo tenendo un sermone ai Romani nel giorno anniversario di quell’avvenimento, rampogna il popolo che invece di offrire preci di grazie sulla tomba degli Apostoli corresse in folla ai giuochi del circo. «La festa religiosa», sclama [218] egli, «o diletti fratelli, nella quale la moltitudine dei fedeli, celebrando il giorno della nostra afflizione e della liberazione nostra, rendeva a Dio azioni di grazie, fu lasciata cadere quasi da tutti in obblio, come dimostra lo scarso numero dei buoni qui raccolti: e di ciò il mio cuore si conturba e geme. Ho rossore di dirlo, eppure tacere nol posso: hanno più seguaci gli spiriti del male che gli Apostoli, e maggiore moltitudine tragge agli osceni spettacoli che alle tombe dei Martiri santi. Eppure chi ha salvata questa Città? Chi la liberò dalla schiavitù? Chi la sottrasse alla strage? I giuochi del circo oppure il patrocinio dei Santi?»[159].
Quell’appassionato desiderio di giuochi circensi e di pantomine, che ancora degenerava in una vera frenesia tra i Romani di quel tempo, eccita la meraviglia nostra. Avevano ereditato dai loro padri il genio dei piaceri; e nell’istesso tempo in cui un’indifferenza letale estingueva nel popolo il sentimento di amore per la grandezza di [219] Roma e di sollecitudine per l’Impero cadente, era ancora un furibondo fervore per le lotte ardenti tra le fazioni dei Verdi e degli Azzurri. Un Vescovo di Gallia, contemporaneo a Leone, atterrito di quella mania di piaceri ch’egli considerava condizione morbosa della società, prorompeva in belle e terribili parole che ci dipingono la figura di Roma sulla cui faccia è impressa la contrazione spaventosa della morte: «Chi mai in prossimità della schiavitù può pensare al circo? Chi può accorrere allo spettacolo di un’esecuzione e mostrare col riso che vi prende diletto? Noi ci sollazziamo fra la paura della servitù, noi ridiamo fra il terrore della morte. Potremmo credere che tutto il popolo romano si sia cibato a sazietà di erbe sardoniche: muore e ride»[160].
[221]
Gli avvenimenti che seguono a quelli che abbiamo narrato finora e che or dobbiamo descrivere, ci mostrano l’Impero occidentale giunto a sua ultima sera innanzi la fine estrema. Gravi avvenimenti la precedettero: la disgrazia e l’uccisione di Ezio, la morte di due Imperatori, e finalmente un nuovo e più terribile saccheggio della Città, il quale, simile al saccheggio primo, per una strana accordanza di tragici avvenimenti, seguir tosto doveva alla morte fatale di un eroe.
La caduta dell’illustre guerriero Ezio, come quella del suo predecessore Stilicone, è a metà involta nella oscurità di intrighi cortigianeschi; e, a produrre quella orrenda sciagura, si associa novellamente l’azione di due belle e sventurate donne. Il vincitore degli Unni, sotto [222] la protezione della cui spada tremenda il popolo acchetava a tranquillità l’animo pauroso, era temuto e odiato dai cortigiani che la immensa ricchezza e l’alta potenza di lui invidiavano. Ammaestrato all’esempio di Stilicone, Ezio aveva creduto di evitarne la disgrazia tentando di avvincere a sè la famiglia imperiale con legami di parentela. Egli aveva due figli, Carpilione e Gaudenzio, e Valentiniano aveva due figlie Eudocia e Placidia. L’Imperatore aveva fatto giuro solenne al suo generale, che avrebbe dato una delle due principesse in isposa all’uno od all’altro dei due giovani. Ma i cortigiani, tra i quali l’eunuco Eraclio (e persino il nome di costui richiama alla mente quello dell’assassino di Stilicone), impedivano quella unione, e suscitavano sospetti nell’animo debole del Principe, al quale, rammentando l’inganno con cui Ezio aveva perduto Bonifacio, lo dipingevano come un ambizioso che lo tradiva, e gli bisbigliavano all’orecchio che secrete intelligenze egli tenesse cogli Unni, i quali, fin dal tempo del tiranno Giovanni, erano divenuti suoi amici dichiarati, e coll’ajuto dei quali egli confidava di impadronirsi dell’Impero per sè o per il figlio.
Era l’anno 454. Valentiniano trovavasi nel suo palazzo imperiale di Roma, il cui soggiorno, a differenza dei suoi antecessori, egli prediligeva, forse perchè quella città meglio che Ravenna gli offrisse piaceri più graditi e più secreti. Un giorno entrava Ezio nelle sue stanze, ed ivi, con piglio ardito, ricordandogli sua gloria, sue vittorie, sua potenza, mostrandogli quanto debole fosse la maestà imperiale senza il suo appoggio, chiedeva che desse adempimento alla promessa. Sembra che questa scena violenta fosse stata suscitata con previdente astuzia [223] dai nemici del generale, affine di spingerlo alla sua perdita. Ezio il quale credeva l’animo imbelle di un Valentiniano di null’altro capace che di opere muliebri, vede l’Imperatore cacciare tutt’a un tratto la spada, e tosto sente il ferro entrargli nelle viscere. Cadeva il meschino sul pavimento, e una torma di eunuchi e di cortigiani vilissimi con pugnali e con spade gli si scagliavano addosso a finirlo. Strillando di gioia feroce crivellavano di ferite il cadavere dell’ultimo grande capitano di Roma, e forse nel tempo stesso Valentiniano «frenetico eunuco», per il terrore del fatto atroce, sveniva fra le braccia di uno dei suoi servitori evirati[161].
La caduta di Ezio trasse con sè anche quella di molti dei suoi amici, fra i quali Boezio prefetto del Pretorio, che discendeva dalla nobile famiglia Anicia; e poichè l’infame assassinio da molto tempo era stato deliberato, non è inverosimile la narrazione che in quello stesso giorno succedesse un massacro di quanti uomini devoti al generale in palazzo si trovavano[162].
Quest’è la semplice ed essenziale narrazione della caduta di Ezio e ben anche la più veritiera. Ed infatti ella è cosa più conforme al corso naturale degli avvenimenti che quell’uomo potente, come molti altri dei suoi pari che alla fortuna ed al favore associavano merito vero, sia caduto vittima dell’invida gelosia dei cortigiani e forse anche dei suoi smoderati desiderî, piuttosto che [224] egli cadesse in mezzo ad avvenimenti romanzeschi onde in quel tempo fu teatro il palazzo imperiale, e che la fantasia popolare associò alla fine dell’eroe. I quali essendo però in istretta relazione colla storia della Città, non dobbiamo qui ommettere di parlarne.
Valentiniano aveva condotta in moglie Eudossia, ch’era figlia di Teodosio il giovane e della greca Atenaide. Venutigli a noja i vezzi della sua sposa, nell’ozio molle di Roma aveva vôlto lo sguardo desioso sulla moglie di Petronio Massimo, senatore ragguardevole, la quale, accoppiando beltà splendida a onestà purissima, era destinata ad essere l’ultima Lucrezia di Roma. I suoi omaggi aveva rigettati la nobile donna, per la qual cosa gli osceni paraninfi degli amori di lui ricorsero ad inganno. Massimo un dì, giocando coll’Imperatore, perdeva grossa somma di denaro e gliene dava in pegno il suo anello. Un eunuco andava con quello alla casa del Senatore, e, mostrando alla donna il giojello, dicevale essere spedito con una lettiga dal consorte di lei, che le imponeva di gire al palazzo a prestare omaggio all’Imperatrice. Andava la sciagurata senza conoscere il destino che l’aspettava; e, condotta in un quartiere remoto del palazzo, soggiaceva alla violenza brutale di Valentiniano.
Ritornava Massimo alle sue case, e trovava la moglie la quale scioglievasi in lagrime di vergogna e di rabbia che ella reprimeva di tratto in tratto per iscagliare imprecazioni contro di lui, ch’ella accusava d’infame mercato della propria onestà. L’innocente marito indovinava quanto era accaduto, e, chiudendo il furore entro l’animo, volgeva la mente a disegni di vendetta. Egli deliberava di lavare la macchia fatta all’onor suo col [225] sangue del miserabile; ed è qui dove Procopio, da cui togliamo il racconto, confondendo i tempi, narra che Massimo, affine di giungere alla meta propostasi, con intrighi spazzasse del suo sentiero Ezio ch’egli considerava essere impedimento massimo al compimento di sua vendetta[163].
Egli è indizio meraviglioso dell’acciecamento d’un animo affievolito dal despotismo il fatto, che Valentiniano dopo la uccisione di Ezio prendesse ai suoi stipendî molti dei servitori della sua vittima. Dopo di essersi reso odioso ad essi, amantissimi del loro signore antico, egli gli aveva inacerbiti con questa sua opera, la quale dimostrava che non sarebbe mai per fidare in loro, oppure ch’egli non credesse che quegli uomini d’origine barbarica fossero capaci di accogliere sentimenti di umano affetto. Senza dubbio egli presentò loro opportunità di trarre vendetta di sangue; e fu forse Massimo stesso il quale introdusse nella famiglia di Valentiniano i clienti di Ezio per giovarsi dei loro pugnali e per nascondere sotto il loro manto la propria mano. E così avvenne che l’Imperatore cadde ucciso nel dì 27 di Marzo dell’anno 455. Assisteva egli agli armeggiamenti dei suoi soldati nel campo di Marte, allorquando d’un tratto i congiurati, tra i quali erano Optila e Traustila, Unni di nazione o Goti, gli furono sopra e lo pugnalarono. Neppure una spada uscì della vagina in sua difesa[164].
[226]
Con Valentiniano III si spense la stirpe di Teodosio il grande, e fu novella sciagura per Roma.
Massimo si fece tosto gridare imperatore; e, dopo di aver dato sepoltura al suo antecessore presso la basilica di san Pietro, poichè eragli già morta di dolore sua donna sventurata, tentò d’indurre la moglie di Valentiniano a dimenticare tra le sue braccia la morte di uno sposo indegno di lei. Ma l’orgoglio della figlia di Teodosio il Giovane non ebbe ceduto che all’impero della violenza, e però essa ignorava che Massimo fosse l’occulto assassino del suo sposo. Poichè il novello Imperatore ebbe costretta la vedova dell’offensore di sua moglie, pochi dì dopo l’uccisione di lui, a salire il suo talamo, egli non credette averne cavata vendetta pari al suo odio; chè, per averla piena e atroce, quel dì stesso narrò ad Eudossia quanto aveva fatto. La protesta ch’egli aggiunse di esservi stato spinto da amore onde ardeva per lei, era un sarcasmo amaro che ferì nel profondo dell’animo la donna, la quale da canto suo nascose nell’intimo suo pensiero il disegno di pigliare vendetta tremenda di colui che aveva usurpato il trono del suo sposo e che a lei aveva rapito l’onore.
Volgeva ella il suo pensiero, così narrano gli Storici bizantini, a questo disegno e a quello, ma comprendeva che di Costantinopoli nessun ajuto trarre poteva; imperocchè Eudocia, madre di lei esiliata della corte, vivesse [227] in Gerusalemme, ed il padre Teodosio e Pulcheria zia di lei fossero già morti. Per la qual cosa, nell’odio suo ardente, ricorse al partito d’invocare a sua liberazione e a vendetta re Genserico: e invitollo per mezzo di messi spacciati a lui, che coi suoi Vandali venisse d’Africa a sorprendere Roma con un assalimento improvviso[165]. Sono però alcuni e gravi argomenti i quali fanno dubitare della veracità di questi fatti, e già il Muratori ne fa cenno. Egli è possibile che la fantasia degli Orientali abbia creata intorno alla seconda caduta della Città questa leggenda, su cui è impresso il marchio dell’indole del tempo, ma che però non può dirsi destituita di fondamento. E poichè non abbiamo validi argomenti per poterne dare giudizio certo, basti quanto abbiamo detto; chè lo Storico può seguire l’esempio d’un Cronista, il quale, dopo di aver narrato dell’uccisione di Valentiniano, dell’usurpazione di Massimo, della violenza che costui esercitò sopra Eudossia, si restringe a dire semplicemente che l’usurpatore scontò ben presto le sue colpe, imperocchè due soli mesi dacchè era salito al trono gli giungesse tremenda la notizia che re Genserico approdava[166].
[228]
Appena dai lidi di Porto si potevano vedere le vele dell’armata del Re, seco recante schiere di Vandali bellicosi e di pagani Mauri, orde feroci di Barberia, Roma suonava di gemiti di disperazione. Massimo aveva unito in maritaggio il proprio figlio Palladio con una figlia di Eudossia ed avevalo eletto a Cesare, unica opera del suo governo. Non fece alcun apparato di difesa, ma, impedito nei suoi sensi e simigliante ad uomo che vede in sogno agitarsi il fantasima di gravi avvenimenti, congedò la sua famiglia, diè licenza a tutti di andare ove più loro talentasse, e vacillante uscì del palazzo per cercare scampo, che già il popolo e la nobiltà di Roma muovevano a tumulto. Sorpreso nella via, cittadini e servitori di palazzo lo uccisero a colpi di pietra, e, fatto a brani il suo corpo, lo gettarono in Tevere. Così moriva Massimo nel Giugno dell’anno 455, dopo un brevissimo regno di soli settantasette giorni.
La morte di lui precedette l’entrata dei Vandali; e Procopio erra allorquando dice che Massimo fosse ucciso dopo che Genserico si era impadronito del palazzo imperiale. Le soldatesche di questo terribile conquistatore, il quale (se anche non fosse stata la chiamata di Eudossia), alla notizia della morte di Valentiniano e del rivolgimento [229] di palazzo, sarebbe venuto spontaneamente, erano frattanto sbarcate e si avanzavano lungo la via di Porto contro la Città, senza badare ch’essa fosse munita o indifesa. Non trovarono impedimento in loro mossa, tranne il venerabile vescovo Leone, che intrepido s’era presentato in tempi anteriori innanzi al più terribile Attila. Seguito dal suo clero egli trattenne i Vandali in loro cammino, e volse al re Genserico eloquenti parole, simili a quelle che aveva indiritte, anni prima, al Re degli Unni. Genserico diè ascolto con calma al discorso dell’uomo di Dio, ma questa volta non apparve l’ombra irata dell’Apostolo che colla spada sguainata minacciasse la testa dell’invasore: però egli promise a Leone che non porrebbe a ferro e a fuoco la Città, che risparmierebbe da strage gli abitanti e che si restringerebbe a dare il saccheggio ai tesori della Città[167].
Il terzo giorno dopo l’uccisione dell’imperatore Massimo i Vandali entravano nella Città indifesa dalla via di Porto[168]. Gettando grida di gioia feroce, quelle masnade si sparsero per le piazze e per le vie deserte: ed i Romani, quarantacinque anni dopo che avevano veduto irrompere nei loro palazzi i figli selvaggi delle steppe di Pannonia e del Don anelanti saccheggio, miravano ora [230] nel cuore della loro Città gli abitatori dei deserti d’Africa, i figli della terra di Giugurta, mescolati ai Vandali di stirpe germanica. Eglino si lanciavano al saccheggio senza che alcuno si levasse ad opporre loro resistenza, non accoppiando, come già i Visigoti di Alarico, al desio di preda furore di vendetta; ma, avventurieri felicissimi, inebbriavansi con tutta la calma nelle voluttà che avevano conquistate senza battaglia. Spettacolo turpemente obbrobrioso per Roma! Laddove i Goti avevano dato saccheggio alla Città per soli tre giorni rubando frettolosi quanto veniva loro sotto le mani, laddove eglino, sbigottiti della grandezza della loro impresa non mai tentata prima di essi, non s’affidavano quasi agli stessi loro sensi, i Vandali invece depredavano senza ritegno e a loro bell’agio, imperocchè Genserico avesse loro concessa una fermata di quattordici giorni.
La fantasia deve qui pure supplire al difetto di narrazioni di scrittori contemporanei, e deve pingerci la condizione della Città durante devastazione così lunga, nella quale è facile imaginare che si commettessero crudeltà d’ogni guisa. Ciò che i Goti avevano risparmiato, o ciò che i Romani posteriormente avevano restaurato nei palazzi, nelle chiese, nei publici edificî, cadde presto in mano dei predoni, nel saccheggio che veniva condotto dietro una regola determinata. Mettevasi a ruba contemporaneamente ciascun quartiere della Città, e centinaia di carri caricavansi di bottino e facevansi uscire per porta san Paolo per recarlo alle navi che solcavano il Tevere. Per mala sorte possediamo scarse notizie che descrivano il saccheggio, ma sono memorande abbastanza. I Vandali, prima d’ogni altro edifizio, depredarono [231] il palazzo imperiale (nelle cui stanze forse Eudossia piangeva fra i ceppi il suo errore) e lo spogliarono in modo che non ne lasciarono neppure un vase di rame. E nel vicino Campidoglio saccheggiarono il tempio di Giove che ancora conservavasi in piedi, e non solo ne strapparono le statue, che ancora rimanevano intatte e colle quali Genserico voleva ornare il suo palazzo d’Africa, ma scoprirono a metà anche il tetto per isvellerne le lamine di bronzo dorato ond’era coperto[169].
Un argomento che sveglia in sommo grado la nostra attenzione è la notizia che le spoglie portate di Gerusalemme dai Romani cadessero in mano dei Vandali. Oggidì ancora alta meraviglia commuove lo spettatore il quale osserva gl’incompiuti disegni dei vasi sacri del tempio di Gerusalemme, che miransi negli avanzi delle sculture dell’arco di Tito. Vi vede il disegno del grande candelabro dalle sette braccia, della mensa sacra sulla quale sono deposti due turiboli, di due lunghe trombe e di un’arca[170], e gli vien detto che quei disegni rappresentano le spoglie del santo tempio, che Tito dopo la presa di Gerusalemme trasse a Roma, come scrive l’ebreo [232] Giuseppe Flavio testimone oculare. Di quelle spoglie, Vespasiano aveva deposte nel palazzo dei Cesari le cortine ricamate del tempio ed i libri delle leggi ebraiche; e il candelabro d’oro ed i vasi preziosi aveva offerti in dono al tempio da lui consecrato alla Pace[171]. Sotto lo impero di Commodo un grande incendio aveva distrutto quel magnifico edificio, ma avevasi avuto agio di salvarne i tesori d’Israello che vennero deposti in altro luogo a noi sconosciuto, dove rimasero per il corso di qualche secolo. Quello che sappiamo si è che fra le ricchezze che Alarico aveva deposte in Carcassona trovavansi alcuni vasi di splendido lavoro adorni di gemme, che avevano appartenuto al tempio di Gerusalemme e ch’egli aveva rapiti in Roma[172]. Molti arredi preziosi di quelle antiche spoglie ebraiche erano sfuggiti alle depredazioni dei Goti, imperocchè si narri che Genserico, fra le ricchezze preziose strappate alle chiese di Roma, trasportasse a Cartagine alcuni vasi di pregevole lavoro che Tito aveva rapiti nel tempio di Gerusalemme[173].
Le strane vicende di fortuna che dovevano subire quei tesori dell’antico tempio d’Israello disperdendosi qua e colà, c’invitano a dirne qualche cosa, poichè già non avremo più opportunità di farne menzione. Ottanta [233] anni dopo il saccheggio di Roma, Belisario se ne impadroniva in Cartagine e, insieme al bottino fatto sui Vandali, trasportavali colla pompa del trionfatore a Costantinopoli. Alla vista di quei sacri vasi del loro tempio antico, gli Ebrei di Bisanzio furono commossi da dolore profondo, e sembra che spedissero con ardito consiglio loro legati all’Imperatore reclamando quegli arredi come loro proprietà. Così almeno narra Procopio[174], il quale pone in bocca ad un Israelita, che faceva parte della famiglia dell’imperatore Giustiniano, animose parole colle quali lo esortava a non permettere che quei mistici vasi fossero deposti nel palazzo di Bisanzio; imperocchè, sclamava egli, non possano trovar quiete se non nel luogo in cui re Salomone aveva deliberato che posassero: la loro assenza dal tempio antico essere stata causa che Genserico la città dei Cesari prendesse, e che più tardi l’esercito romano del palazzo dei Vandali, ove quei vasi erano conservati, s’impadronisse. E Procopio racconta, che Giustiniano, mosso da religioso terrore, comandasse che gli arredi del tempio antico fossero deposti in una delle chiese cristiane di Gerusalemme. Se anche questo aneddoto degno di nota, narrato da un contemporaneo di Belisario, non sia vero che in parte, esso dimostra tuttavia, che dopo un periodo di quasi cinque secoli dal trionfo di Tito s’era conservata fra gli uomini la ricordanza di quei sacri arredi; e noi dobbiamo credere che durante tutti quei secoli i figli d’Israello, di padre in figlio, non avessero mai tralasciato di seguire con occhio sollecito la sorte di quelle insegne di loro Religione [234] nazionale. Però dopo quel tempo ne sparve ogni traccia, e, dopo tante avventure, quelle reliquie del tempio di Salomone, se realmente giunsero di nuovo a Gerusalemme, cadute tra le ugne degli Arabi andarono perdute, simili al santo Graal, nel mistico Oriente. L’armeno Zacaria, quel Vescovo medesimo che compilò una descrizione dei monumenti publici di Roma, lasciava notizia che al tempo di Giustiniano vedevansi nella Città venticinque statue di bronzo rappresentanti Abramo, Sara ed i Re della stirpe di Davide, che Vespasiano aveva fatto trasportare a Roma colle porte e con altri monumenti di Gerusalemme. E una leggenda, che narravasi in Roma nel medio evo, pretendeva che nella basilica lateranense, insieme all’arca dell’alleanza, si conservassero le tavole della legge, il candelabro d’oro, il tabernacolo e le stesse vestimenta sacerdotali di Aronne[175].
Forse nella stessa squadra di navi sulle quali i [235] Vandali trasportavano il bottino in Africa, sopra vascelli naviganti di conserva, saranno stati il candelabro del tempio di Salomone e la statua del Giove capitolino, simboli delle due Religioni antichissime d’Oriente e d’Occidente. E Procopio con precisione fa cenno di una nave carica di statue preziose, la quale avesse la sorte di profondare nel mare, unica fra tutte le altre che salve entrarono nel porto di Cartagine.
Fra parecchie migliaia di prigionieri d’ogni ceto e d’ogni età che Genserico traeva dietro a sè in Libia, era anche Eudossia. Figlia ad un Imperatore bisantino, moglie a due Imperatori romani, la sventurata donna pagava la pena di suo tradimento contro di Roma, se pure ella veramente lo commise, non soltanto colla vista della Città disertata dal saccheggio e dei patimenti indicibili del popolo tratto in catene, ma lo scontava anche colla prigionia obbrobriosa di sè e delle sue due figlie. Di queste l’una, Eudocia, costretta a dare la mano di sposa ad Unnerico figlio di Genserico, dopo di essere vissuta sedici anni in Cartagine in quell’unione conjugale ch’ella aveva ad abborrimento, riuscì a fuggire, e dopo parecchie avventure si pose in salvo a Gerusalemme, dov’ella presto morì e dove ebbe sepoltura accanto [236] alla illustre avola sua di egual nome[176]. L’altra figlia Placidia, posta in libertà in tempi posteriori dopo la morte dell’imperatore Marciano, trovò lo sposo suo Olibrio che s’era ricoverato in Costantinopoli, dove ella aveva potuto accompagnare la madre Eudossia. Tali furono i destini di quelle donne infelici, ultime discendenti della stirpe del grande Teodosio.
La città di Roma, che al nome di Eudossia associa la ricordanza del saccheggio dei Vandali, conserva anche oggidì una chiesa che richiama la memoria di quella celebre donna. Sotto il pontificato di Leone I, poco tempo innanzi all’assedio di Genserico, ella aveva edificato una basilica ad onore di san Pietro. Questa chiesa, eretta in vicinanza delle terme di Tito, sulle Carine, ebbe da lei nome di Titulus Eudoxiae; e fu più tardi appellata san Pietro ad Vincula oppure in Vincoli. Imperocchè la fondazione di lei si accoppii ad una leggenda, che qui con breve discorso narreremo. Eudocia, madre dell’Imperatrice, avendo trovate in Gerusalemme le catene di san Pietro, una parte di quelle fè condurre in Costantinopoli, e il rimanente spedì in dono alla figlia in Roma. Qui conservavansi le catene delle quali era stato caricato l’Apostolo prima della sua morte; ed allorquando papa Leone depose presso di esse quelle venute di Gerusalemme, i due pezzi di catena si congiunsero indissolubilmente fra loro formandone una sola di trentotto anella. Commossa a sensi di pietà da questo portento, Eudossia, ch’era allora [237] moglie a Valentiniano, eresse una chiesa ove quelle catene furono deposte, e in quella esse ricevettero tributo di venerazione durante tutto il medio evo. Ed oggidì ancora ricevono onoranza, perocchè la festa pagana che celebravasi in Agosto (nel dì primo di Agosto) si trasformasse nella festività delle catene di san Pietro[177]. Vedremo appresso che la polvere di limatura di quelle catene, tramutata in amuleto, ebbe a sostenere una parte importante nel mondo.
Il saccheggio era stato esteso a tutti i quartieri anche remoti di Roma, di maniera che non fu alcun oggetto prezioso che nella Città si trovasse, il quale non cadesse tra le ugne degli Africani. Egli è difficile a credersi che Vandali e Mori rattenuti da venerazione agli Apostoli rispettassero le chiese, fossero anche soltanto le tre maggiori. Un tale fatto afferma il cardinal Baronio desumendolo da un passo del Libro Pontificale, dicendo che Genserico non ponesse mano ai tesori conservati nel san Pietro, nel san Paolo e nella basilica di Costantino, ma ch’egli desse saccheggio alle sole chiese titolari ossia alle chiese parrocchiali; imperocchè in quel frammento del Libro dei Papi si narri che Leone, dopo il saccheggio dei Vandali, facesse fondere sei grandi idrie d’argento, che Costantino aveva offerte in dono a quelle tre basiliche, e che coll’argento ricavatone restituisse tutti i vasi sacri derubati alle chiese parrocchiali[178]. Del rimanente, [238] se anche non avessimo notizie precise della estensione del saccheggio dei Vandali (ed è pur poco ciò che ne dicono gli scrittori dei tempi posteriori), l’espressione divenuta proverbiale di «vandalismo» varrebbe a persuaderci che l’idea terribile che ci siamo formati del saccheggio dei Vandali ha buon fondamento. Imperocchè i Visigoti, quantunque non lasciassero buona ricordanza di sè tra i Romani, non abbiano tuttavia accusa di avere posto a fuoco la Città, laddove invece la credenza popolare ne scagli la taccia contro i Vandali: e questa è dimostrazione, che la ricordanza di questo secondo avvenimento restò scritta con caratteri incancellabili nella memoria della Città. Ma la pacata e tranquilla investigazione dello Storico rigetta quella fola popolare che i Vandali abbiano distrutti i monumenti di Roma. Neppure uno Storico, che narri di quell’avvenimento, parla di un solo edificio che i Vandali abbiano atterrato. Procopio, che non dimenticò di parlare della rovina dei palazzi sallustiani incendiati dai Goti, dice soltanto che i Vandali saccheggiassero il Campidoglio ed il palazzo dei Cesari; ed i soli Storici bisantini, sôrti più tardi e che scrissero l’uno sulla fede dell’altro, con dizioni generali, ed eguali tutte, e simili a quelle di cui usarono all’occasione del saccheggio dei Goti, discorrono di un incendio della Città, e dei suoi splendidi monumenti inceneriti[179]. [239] Eppure questi stessi monumenti venivano descritti e celebrati più tardi da Cassiodoro: e vedremo in seguito che il goto Teodorico dava opera sollecita alla loro conservazione. Per la qual cosa noi porremo fine a questo argomento usando delle parole di un Romano: «Per quanto mi è dato conoscere, non so che Genserico distruggesse i monumenti e le statue di Roma»[180].
Ma i danneggiamenti, che i Vandali portarono a Roma, furono immensi. Dopo di essersi impadroniti dei latifondi dei patrizî Romani e dei patrimonî della Chiesa situati nelle ricche province dell’Africa, che alla Città fungevano le veci di arterie per le quali ad essa come a cuore fluiva la vita, avevano disertata col saccheggio Roma stessa, avevano cacciate nella mendicità quasi tutte le famiglie senatorie, e la Città avevano decimata di parecchie migliaia de’ suoi abitatori, in parte caduti per inopia, ed in parte vôlti a fuga o tratti in ceppi. E ben può affermarsi che nei quarantacinque anni che corsero dopo la conquista di Roma fatta da Alarico, la Città fu depauperata di più che centomila dei suoi abitatori. Molte antiche famiglie, potenti un tempo, s’erano estinte; molte traevano una vita infelice, cadenti in rovina come le superbe mura dei templi deserti di Roma. Parecchi [240] palazzi erano vuoti d’abitatori, ed i Romani muovevano, simili a spettri, per le vie della Città deserta, troppo vasta perchè fosse di nuovo animata dal lieto movimento dell’operosità cittadina. La mente è commossa a meraviglia allorchè mira la vasta estensione di Roma, la quale con suoi templi, con sue basiliche, con edificî destinati ai sollazzi publici, negli stessi splendidi tempi dell’Impero non era animata da una popolazione proporzionata alla ampiezza sua. E dopo la metà del secolo quinto la calma che aveva dato un aspetto solenne alla città di Trajano, nelle cui vie e nelle cui piazze maestose era cessato lo agitarsi romoroso del popolo, cominciava a tramutarsi nel silenzio desolato del sepolcro.
[241]
Neppure la conquista di Roma fatta da Genserico operò mutamenti politici di grave momento. Quella invasione, simigliante ad una razzia africana, come oggi suol dirsi, non fu che una impresa di arditi predoni di mare, coronata di buon successo, della stessa maniera di quelle spedizioni che, in secoli posteriori, Saraceni venuti di quelle regioni medesime tentarono parecchie fiate di ripetere.
Subito dopo la morte di Massimo, il trono d’Occidente fu occupato da un patrizio di Gallia ch’era uomo di squisita cultura e d’animo proclive ai piaceri. Appoggiato alla potenza del suo paese natale ed all’amicizia interessata di Teodorico II re dei Visigoti, Avito si fè [242] eleggere alla somma dignità d’imperatore in Tolosa; ed in Arles, nel dì 10 di Luglio del 455, vestì la porpora imperiale alla presenza dell’esercito e del popolo della provincia che innalzavano grida di plauso. Quantunque il Senato romano custodisse con gelosa sollecitudine il suo diritto alla elezione degl’Imperatori, pure esso fu costretto a sancire con rassegnazione quel fatto compiuto, e dovette anche con bel garbo invitare Avito affinchè di Arles si recasse a Roma. Il novello Imperatore fu ivi formalmente riconosciuto e confermato; e Apollinare Sidonio genero di lui, nel giorno primo dell’anno 456, recitò dinanzi ai Padri congregati un panegirico al novello Cesare, e ricevette a premio, non adeguato alla tenue fatica, una statua di bronzo elevata nel foro di Trajano. Il fortunato Poeta ci narra in alcuni suoi versi che i Quiriti vestiti di porpora, cioè a dire il Senato, con sentenza unanime gli tributarono quell’onore, il quale gli faceva accogliere la orgogliosa speranza che Trajano stesso vedesse che ad onoranza del suo ingegno poetico gli era innalzato un monumento imperituro fra quelli degli autori illustri nelle lettere greche e nelle latine[181]. Un [243] tale fatto ne insegna che allora, tosto dopo il saccheggio, i Romani proseguivano a imitare le gloriose consuetudini dei loro maggiori; e dalle espressioni di quel frammento del Poeta raccogliamo che i Vandali non avessero distrutta la biblioteca Ulpia, nè avessero atterrate le statue che continuavano ad ornarne le sale.
Ma il Senato romano, mosso da grave corruccio di aver prestato omaggio ad un Imperatore che coll’ajuto delle province e di Barbari aveva usurpato il trono, entrò in segreti accordi col conte Ricimero, ch’era di nascita svevo e che dal lato di madre scendeva da Vallia re dei Goti[182]. Ricimero era il più valente generale dell’Impero, e aveva ottenuto l’onore della corona per sue vittorie riportate nel mare di Corsica sui Vandali; laonde gli riuscì di balzare Avito del trono con facilità sorprendente. L’Imperatore atterrito evadeva di Roma tosto che il Senato lo dichiarava decaduto[183], e non trovandosi in sicurezza neppure in Piacenza, dove s’era recato per mutare la porpora dei Cesari nel sacro paludamento vescovile e donde era stato esiliato dal Senato, fuggiva verso Alvernia sua terra natale, ma trovava la morte per via.
L’estinzione della stirpe imperiale del grande Teodosio [244] e il disordine grave ed universale in cui era caduto lo Stato, avevano dunque infuso nel Senato una novella energia. Ed infatti noi vediamo quel corpo politico, pur sempre illustre, svegliarsi spesse fiate dal suo letargo, dando di tratto in tratto qualche indicio di vita. E vediamo la città di Roma, in cui dopo di Valentiniano III gl’Imperatori tengono loro sede per tempo più lungo, essere di nuovo animata dalla consapevolezza di essere la capitale dell’Impero. Egli è vero però che la potenza era in mano del solo Ricimero di nascita straniero. Ed infatti, nella primavera dell’anno 457, su quel trono, che era stato per un periodo di dieci mesi vacante, egli collocò Majoriano, da lui favorito, col plauso di tutti i Romani concordi.
In quest’uomo straordinario, che già sotto di Ezio aveva raccolto i suoi primi allori, si riunivano tutti quei pregi che lo rendevano bene amato al popolo, all’esercito, al Senato, e persino a Leone I imperatore di Oriente[184]. Illustre per peregrine doti e per virtù rara, fece rivivere le ricordanze dei migliori Imperatori di Roma, nei tempi dei quali egli sarebbe stato ben meritevole di tenere lo scettro; ed è con sensi d’ammirazione che la posterità [245] contempla in Majoriano il profilo dell’ultimo virtuoso Imperatore di Roma. Nel Rescritto del novello Augusto, dato da Ravenna subito dopo la sua elezione, sembra di udire la dolce voce di un Trajano in quel passo ove prega i Padri di prestare il loro favore al Principe ch’eglino stessi elessero. Le idee manifestate dall’Imperatore, per le quali si proponeva di reggere lo Stato seguendo le leggi e le tradizioni antiche, empirono Roma di gioia; e tutti gli Editti promulgati dipoi da Majoriano commuovevano il popolo ad ammirazione per la saggezza che gli ispirava, nel tempo stesso che ne comandavano gratitudine i sensi d’umanità.
Fra queste nuove leggi noi dobbiamo volgere la nostra attenzione ad una che riguarda la città di Roma. Il grande Imperatore nel tempo stesso che dava opera a rimettere in fiore lo Stato d’ogni lato crollante, a restituire le finanze decadute, a inspirare energia di novella vita nelle curie delle città divenute tristamente servili, volgeva sollecita cura alla città di Roma. La tristezza che ispirava lo squallore di lei, il decadimento sempre crescente dei suoi monumenti, alla conservazione dei quali nessuna sollecitudine più si volgeva, e finalmente il rovinio che ad antichi edificî recava l’avidità e la negligenza dei Romani stessi, accendevano il suo grande animo romano del desiderio di porre rimedio a quei mali. Laonde egli promulgava il seguente Editto:
«Noi reggitori dello Impero vogliamo porre un termine a quei disordini, i quali già da lungo tempo eccitano il malcontento nostro, perocchè bruttino la faccia veneranda della Città. Noi sappiamo che qua e colà si demoliscono edificî publici che sono ornamento [246] alla Città, e che i magistrati cittadini con negligenza degna di punizione non reprimono questi turpi fatti. Si adduce a motivo che v’ha necessità di materiali per la costruzione di opere publiche, e perciò si deturpa la splendida architettura di antichi edificî; e opere grandiose in un luogo si demoliscono per compiere altrove qualche sconciatura pigmea. Di qui deriva l’abuso che colui il quale vuole innalzare una casa privata, per favore degli officiali cittadini preposti, tragge i materiali occorrentigli da publici monumenti, laddove invece alla conservazione di quegli edificî che sono di tanto lustro alla città, dovrebbe l’amore patrio dei cittadini provvidamente attendere. Per la qual cosa colle presenti leggi universali ordiniamo, che a tutti quei monumenti che gli avi nostri a publica utilità o ad ornamento innalzarono, sieno templi oppure edificî di altro genere, niuno sia ardito di portare demolizione o di recarvi guasto per ricavarne vantaggio. Ogni magistrato che ne desse licenza sarà punito della multa di cinquanta libbre d’oro; ogni officiale subalterno ed ogni Numerario che gli prestasse obbedienza in opere di demolizione e non gli si opponesse, dopo di esser stato sottoposto alla fustigazione avrà mozze le mani, perchè, invece di vegliare alla conservazione dei monumenti degli Antichi, ajutò a profanarli. Quanto ai fabbricati publici, dei quali alcuni invalidamente si arrogarono proprietà, nulla potrà esser alienato di quanto contengono; ma comandiamo invece che tutto allo Stato sia restituito, vogliamo che sia restaurato nella condizione primitiva quanto venne distrutto, e aboliamo per lo avvenire la licentia competendi. Tuttavia, se talvolta sarà resa necessaria la costruzione di qualche [247] novello edificio publico, e se sarà impossibile la ristorazione di un antico, di tali casi dovrà darsi contezza allo illustre e venerabile Senato, affinchè questo, se dopo diligente studio ne comprenda la necessità, li sottoponga alla sovrana nostra deliberazione. Imperocchè ogni monumento, che non possa essere restituito alla condizione antica, sia utile almeno a fornire materiali che servano adornare qualche altro edificio publico»[185].
Dal tenore severo di questo Editto ci è dato di conoscere di quale origine fossero i barbari che ardivano di porre loro mani sui bei monumenti di Roma. I nepoti di Trajano caduti nell’estremo della miseria miravano con senso d’indifferenza i monumenti deserti; e quantunque alcuni cittadini animati da generosa carità del natio loco usassero grande zelo a conservare le opere dell’arte antica, le necessità materiali erano tuttavia più stringenti; e gli officiali preposti, molti dei quali dovevano adoperare fatica a cercare i propri avi tra gli abitatori del Don e del Danubio, restavano indifferenti a tutto fuorchè a ciò onde potessero cavare denaro. Splendidi archi, basiliche, templi e forse anche qua e colà un teatro ed un circo eccitavano desiderio a usare di materiali di bellissimo lavoro in essi contenuti; imperocchè sembrasse più ragionevole che gli splendidi marmi, sui quali serpeggiavano le lucerte a godere del calore del sole, fossero adoperati ad uso dei privati cittadini, piuttosto che fossero esposti al mal governo degli elementi. Non si [248] osava di porre mano sugli edificî maggiori, ma si depredavano i marmi dei minori situati in luoghi remoti: e parecchie persone private s’erano impadronite persino dei ruderi e della superficie di templi deserti. Il primo mal esempio di depredare gli edificî antichi era stato dato fin dai tempi di Costantino nell’edificazione di chiese cristiane, e così era venuto tempo in cui ai monumenti di Roma attingevasi come a grandi bacini di calce ed a grandi miniere di marmi: e ciò durava nella Città per ben mille anni, durante i quali sè stessa distruggendo, da quell’ammasso di ruderi costruiva novellamente sè stessa.
Quantunque Majoriano promulgasse quelle leggi sagge, tuttavolta egli non poteva impedire la rovina della Città e dello Impero; chè anzi la grave soma schiacciò lui stesso che a reggerla s’era sobbarcato. Gli armamenti che con grande ardore egli apparecchiava contro Genserico, sul quale egli s’era proposto di trarre vendetta del saccheggio di Roma, riconquistando le province d’Africa, non ebbero prospero successo; e breve tempo dopo che una parte della sua flotta era perita nel porto di Cartagena, egli stesso di repente cadeva. Il patrizio Ricimero in Tortona di Liguria costrinse il generoso ed energico Imperatore a deporre la porpora. Impossente a sostenersi di fronte ad una cospirazione irrefrenabile, Majoriano fè quanto gli era stato chiesto: discese del trono, e tosto dopo, addì 7 di Agosto dell’anno 461, perdette la vita, nè il modo si conosce. Se stiamo a Procopio sarebbe morto di dissenteria, ma il Muratori invece accoglie opinione ch’egli perisse di una morte più spedita. Fu uomo, dice lo Storico greco, giusto ai [249] soggetti, ai nemici terribile; fu di tutti i principi che regnarono prima di lui sui Romani ottimo, e, per eccellenza dell’animo e per ogni virtù, superiore[186].
In quello stesso anno 461 moriva, addì 4 di Novembre, papa Leone dopo un reggimento di ventun anni, di un mese e di tredici giorni, che quel grande Pontefice in mezzo a tanta tristezza di tempi sostenne mirabilmente. Fu il primo di tutti i Pontefici che ricevesse sepoltura nell’atrio del san Pietro: uomo generoso, anzi grande, la cui ricordanza è a buon diritto santa ai Romani. Salvò la Città dalla crudeltà di Attila, ne sollevò le miserie durante il saccheggio di Genserico feroce, ebbe energia di volontà, prudenza e fermezza d’animo, fu eloquente ed erudito, fu qual dev’essere un vero Vescovo. Egli combattè e vinse i Manichei, i Priscilliani ed i Pelagiani; e nel Sinodo di Calcedonia pugnò contro l’eresia di Eutichete abate bisantino. Egli costrinse i Vescovi dissidenti d’Illiria e di Gallia a riconoscere la primazia di Roma, che fu sancita da un Editto imperiale. Ed il suo senno politico gli valse, presso coloro che pregiano la preminenza del Pontificato, la lode ch’egli sia stato il [250] primo pontefice della Chiesa che incominciasse a far valere il primato di Roma ecclesiastica. Nelle sue opere (la collezione dei Sermoni e delle Lettere è voluminosa) s’ammira ancora lo splendore dell’eloquenza onde vanno chiari Gerolamo, Agostino, Paolino, e che nelle opere dei succeditori di lui più non ravvisiamo.
Appena di un solo monumento da lui eretto si conserva ricordanza in Roma. Dopo il saccheggio dei Vandali diede opera alla reintegrazione delle chiese danneggiate e depredate; ed il Libro Pontificale narra ch’egli restituisse o adornasse le tribune della basilica lateranense, del san Pietro e del san Paolo, e che in vicinanza al san Pietro fondasse un monastero dedicato ad onore dei santi Giovanni e Paolo, e che fu il primo dei quattro conventi eretti nella Regione vaticana. Ma quantunque sembri che il pio Vescovo ampliasse in Roma il monachismo, tuttavolta egli represse il celibato, dannoso tanto alla Città quasi spopolata, con una legge che vietava alle vergini di prendere il velo se non avessero vissuti quarant’anni di casta vita. Ad onore di Cornelio vescovo, innalzò nel cimitero di Calisto in Via Appia una basilica; e Demetria, pia donna sua amica, lo donò di un bel podere situato presso la Via Latina, a tre miglia di distanza dalla porta, perchè ivi edificasse una chiesa a santo Stefano. Questa basilica, di cui si fa menzione parecchie volte negli scritti di tempi posteriori, disparve durante il medio evo; e fu soltanto ai dì nostri, in sulla fine dell’anno 1857, che facendo alcuni scavi in un podere situato a tre miglia dalla porta della Città, presso l’antica Via Latina, si rinvennero vestigi d’una basilica. Ed in quella trovossi una iscrizione in marmo col nome [251] del protomartire Stefano, la quale ci fa certi che colà esistesse la basilica di Leone da tanto tempo scomparsa[187].
Addì 12 di Novembre del 461, Ilario, di nazione sardo, saliva la cattedra di san Pietro nel tempo stesso che al trono dei Cesari ascendeva Severo, di patria lucano, ch’era creatura di Ricimero. Il regno di quest’Imperatore, durante il quale nulla avvenne di grande che meriti nota, finiva nel dì 15 d’Agosto dell’anno 465, in cui egli passava di questa vita, non sappiamo se per forza di natura o per violenza del ministro. Quest’uomo avido d’impero, forte dell’esercito composto di uomini da lui stesso assoldati e perciò a lui ligi, potente per immense ricchezze, circondato da uno stuolo di creature a lui ossequienti, temuto ed odiato dagli altri, non osava peraltro di salire quel gradino cui l’ambizione eccitavalo, nè s’attentava a distruggere con un rivolgimento violento [252] l’Impero romano, mutando il suo titolo di Patrizio in quello più grande di Re. In mezzo a queste ultime lotte dell’Impero morente, ci rallegra il vedere che il Senato desse ancora saggi di coraggio e di amore patrio. In esso era l’unico sostegno dello Stato; esso era pur sempre chiaro per uomini ragguardevoli per virtù e per senno quali Gennadio Avieno e Cecina Basilio, i quali «nello illustre collegio dei Senatori dopo il Principe porporato, principi ben potevano essere appellati». così dice Sinodio, ma però tosto aggiunge: «se si tolga la potenza delle armi»[188]. Ricimero combattè un’aspra lotta contro il Senato, ma non potè vincerla, anche per ciò che i Senatori avevano ritrovato un valido ajuto in Leone I imperatore d’Oriente.
Dopo la morte di Severo, il trono rimaneva vacante per lo spazio di un anno, e Ricimero era costretto a tollerare che il Senato s’accordasse con Leone sull’elezione del novello Imperatore; nè ciò soltanto, ma era costretto ad accogliere un Principe di nascita greco. Ma era alleviamento al suo corruccio l’onorifica promessa che menerebbe in moglie la figlia del novello Augusto. Il Principe eletto fu Antemio, che era uno tra i primi Senatori dell’Impero orientale e che aveva in moglie Eufemia figlia di Marciano imperadore. Con tutta la magnificenza delle pompe imperiali, seguito da una corte sì numerosa che sembrava un esercito, il favorito di Leone venne di Costantinopoli a Roma. A tre miglia [253] fuori della Città, presso un luogo detto Brontotas, di cui ignoriamo la situazione, fu ricevuto dal Senato, dal popolo e dall’esercito festanti; e colà, addì 12 di Aprile dell’anno 467, ricevette le insegne della imperiale dignità[189]. Dopo di che, a mo’ di trionfatore, entrò in città, che accolse curiosa e superba un Principe di greca origine, già sperandone letizia di giuochi e di banchetti. Ricimero, poco tempo dopo che l’Imperatore era ingresso in città, celebrava i suoi sponsali colla principessa greca, ai quali fu presente anche il poeta Sidonio ch’era allora in Roma venuto ad orare per Gallia[190]. La Città nuotava in un mare di gioie, come direbbe un Poeta di corte dei giorni nostri; e nei teatri, nelle piazze dei mercati, nei pretorî, nei fori, nei templi, nei ginnasî declamavansi epitalamii fescenii. Non si trattava di negozî; i tribunali erano in ferie; di faccende importanti non era discorso in quella baldoria universale. Roma apparve al Poeta di Gallia nella sua grandezza di capitale del mondo; e ancora al suo secolo osò chiamarla sacrario delle leggi, [254] ginnasio della scienza, curia degli onori, sovrana dell’orbe, patria della libertà, città mondiale, entro la quale i soli Barbari e gli schiavi sono reputati stranieri[191]. Addì 1 di Gennaro, Sidonio recitò il suo panegirico alla presenza di Antemio. Adulatore scipito, continuò malamente nelle funzioni di Claudiano, ma più fortunato di lui, a premio dei gonfi suoi versi, fu creato prefetto di Roma. Tre anni dopo era eletto vescovo di Clermont.
Fra le feste celebrate in Roma dopo l’assunzione al trono di Antemio, gli Storici ricordano le feste pagane lupercali, e ne fanno le meraviglie perocchè venissero solennizzate, sotto gli occhi stessi dell’Imperatore e del Papa, dai Cristiani di Roma nel mese di Febbraro, com’era la costumanza antica. Noi però non vogliamo parlarne, chè già vent’anni più tardi ci occorrerà di vedere altre reliquie di Paganesimo alzare in modo mirabile il loro capo e poi appiattarsi sotto vestimento cristiano. Del resto il clero romano ebbe tosto occasione di dubitare della purità della fede cattolica del novello Imperatore: chè in Antemio stesso scoperse allignare alcune tendenze al Paganesimo ed all’eresia. E nella sua corte era un Filoteo eresiarca, il quale, insegnando dottrine ingiuriose allo Spirito Santo e diffondendole in Roma, fu da papa Ilario in chiesa di san Pietro denunciato all’Imperatore affinchè volesse torre lo scandalo.
Nel tempo stesso in cui Roma esauriva sue ricchezze negli approntamenti di guerra contro i Vandali, papa Ilario (il quale moriva già nel Febbraro dell’anno 468) spendeva grossa moneta ad abbellire le chiese della Città; [255] e, se dovessimo prestare piena fede a quanto ne narra il Libro Pontificale, la Chiesa arricchita dei doni degl’Imperatori e dei privati sarebbe ben presto ritornata al possedimento d’immensi tesori. Imperocchè, se stiamo a quel racconto, il Pontefice avrebbe adornato la basilica Lateranense e le chiese di san Pietro, di san Paolo e di san Lorenzo con isquisite opere d’arte, le quali avrebbero fatto ben dimenticare il disastro delle depredazioni vandaliche. E la nostra fantasia commossa a meraviglia alla descrizione di quei lavori splendidissimi, ammira il valore degli artisti di Roma cadente. Coll’estinzione del culto dei numi antichi era venuto anche il decadimento dell’arte scultoria, la quale nel secolo quinto aveva trovato rifugio nelle officine degli orefici, dei cesellatori e dei lavoratori di musaici. Gettavansi in metallo massiccio e con ricchezza di gusto barbarico vasi di parecchie fogge, lampade e doppieri, colombe d’oro e croci seminate di gemme scintillanti; e negli altari profondevansi gli ornamenti d’oro e d’argento; e i battisterî ornavansi con figure di cervi d’argento; e sopra le Confessioni alzavansi archi dorati, i quali, poggiando sopra colonne di onice, portavano sul vertice la figura di un agnello in oro.
Nel tempo stesso dunque in cui la città di Roma impoveriva e decadeva, nelle sue chiese s’ammassavano tesori; ed il popolo, impotente ad armare un esercito ed una flotta per muovere guerra contro i Vandali, offriva ricchi donativi alle basiliche degli Apostoli. E per fermo spunta sulle nostre labbra un sorriso di compassione allorchè leggiamo quelle descrizioni di arredi d’oro e di giojelli preziosi che porgevansi in dono alle chiese di Roma; ed in tempo di decadimento sì profondo della [256] Città dobbiamo tenere quelle narrazioni in conto di splendide novelle di fate.
Il reggimento di Antemio non fu illustre per isplendore di fortunate imprese o per energia d’impero, ma sotto di esso la Città fu spettatrice di un avvenimento che risveglia l’attenzione nostra, ed è la condanna di Arvando prefetto delle Gallie. Quest’uomo arrogante avendo con angherie oppressa nel suo governo quella grande provincia, n’ebbe accusa dai patrizî d’indomiti spiriti di quella contrada. Chiamato a Roma dal Senato, questo si costituì tosto in tribunale supremo, ed all’accusato indisse il Campidoglio a confino. L’ultimo giudizio di Stato tenuto in Roma secondo la processura della Republica romana eccita in alto grado la nostra curiosità: e di esso ci fu lasciata descrizione da Sidonio, il quale all’accusato prefetto ebbe amicizia sincera che nella disgrazia non venne manco. Arvando, affidato alla custodia di Flavio Asello conte del tesoro, e tenuto con quegli onorevoli modi che l’illustre condizione di lui richiedeva[192], aveva libertà di muovere nel Campidoglio. Vestita la bianca toga di candidato, stringeva la mano ai patrizî che lo visitavano, e volgendo amari sarcasmi contro il governo non rifuggiva dal biasimare [257] il Senato e l’Imperatore. Occultando le gravi cure del suo animo sotto una maschera di fredda alterezza, passeggiava nella piazza del Campidoglio ed entrava nelle botteghe a mirare le manifatture di seta e gli arredi e le gemme che i mercatanti ivi esponevano a mostra[193]. Allorchè il procedimento fu condotto al suo fine, comparvero quattro Galli a sostenere l’imputazione. Vestiti degli umili abiti di chi implora giustizia, si alzarono con nobile calma ad accusare il superbo patrizio, il quale con baldanza sprezzatrice riconobbe per sua una lettera in cui erano posti in aperto i suoi disegni di tradire l’Imperatore ed era svelata l’intenzione di lui di aprire le Gallie ai Visigoti ed ai Burgundi. Tornavano i tempi di Verre e di Catilina, ed i Senatori si elevavano ancora una volta nella dignitosa maestà di un tempo e concordi dichiaravano Arvando reo di alto tradimento. Il Prefetto di Gallia, espulso dal ceto patrizio fu ricacciato tra i plebei e condannato a morire per mano del carnefice. Egli stava attendendone l’esecuzione, durante i trenta giorni stabiliti dalla legge, in un carcere dell’Isola tiberina d’Esculapio[194], quando all’amico di lui Sidonio e ad altri uomini che godevano grande autorità, riuscì di far tramutare la pena di morte in quella dell’esilio. Il giudizio reso in questo argomento fu decoro agli ultimi giorni del decrepito Senato, ma alla Gallia non fu fecondo di utilità quantunque alto rumore se ne levasse; [258] imperocchè i governatori di quella contrada continuassero nelle vessazioni che l’avidità loro suggeriva, e nei loro disegni di aprirla ai Visigoti. E già l’immediato succeditore di Arvando, Seronato, cui Sidonio dà nome di Catilina novello, accusato di gravi delitti dagli oppressi abitatori della provincia, fu condannato dal Senato, e ne perdette la testa sul palco[195].
Gl’Imperi di Oriente e di Occidente con loro forze riunite s’accingevano alla guerra contro i Vandali, i quali, con loro piraterie infestando audacemente tutte le coste del Mediterraneo, minacciavano rovina alla contrada. Fu uno dei più potenti apparati d’armi che mai levasse l’Impero, ed esaurì le forze di Roma e di Bisanzio; eppure la guerra condotta in Africa da Basilisco e da Marcellino nell’anno 468 ebbe esito infausto alle armi imperiali. Roma aveva accolta speranza che Antemio, possedendo l’amicizia dell’Imperatore bisantino, la libererebbe da Genserico e riporrebbe Africa sotto la sua signoria. Laonde quei rovesci recarono una grave scossa all’autorità di Antemio, e nella stessa misura che la potenza dell’Imperatore s’indeboliva, cresceva l’oltracotanza di Ricimero. L’Imperatore d’Oriente aveva saputo liberarsi di Aspare, che era uomo potente nel regno alla stessa guisa di Ricimero, ma Antemio nol seppe imitare a scuotere il giogo del ministro onnipossente e genero suo. La dissensione sommessa scoppiò finalmente in aperta lotta, e Ricimero, abbandonata Roma, pose sede in Milano. Alla notizia che egli avesse stretto [259] accordo coi Barbari che abitavano al di là delle Alpi, di alto spavento fu commossa Roma. Il vescovo Epifanio di Ticinum, ossia di Pavia, si fè mediatore di pace tra lui e l’Imperatore. Ma la conciliazione fu soltanto apparente[196]; chè Ricimero coi suoi Barbari partì di Milano, giunse celeremente a Roma, e cinsela d’assedio, ponendo il suo campo presso il ponte dell’Anio innanzi a porta Salara[197]. Era l’anno 472.
Spingeva Ricimero con grande alacrità l’assedio, allorchè di Bisanzio venne al suo campo Olibrio con cui aveva già da lungo tempo stretto accordi. Questo Senatore che aveva condotta in isposa Placidia, figlia di Eudossia, e al quale perciò scendevano in retaggio i diritti della stirpe di Teodosio il grande, a lui sembrava essere uomo opportuno ad abbattere il greco Antemio e a destare la simpatia dei Romani. Egli si pare che Antemio durasse una lunga e animosa resistenza, quantunque deboli fossero sue forze e la Città minacciassero all’interno molti partigiani di Ricimero ed i molti Ariani che vi avevano dimora. Impedita di procacciarsi vettovaglie, stremata dalla fame, flagellata dalla peste, Roma fu ridotta alla estrema miseria[198]. Tuttavia uno straniero la trattenne ancora dallo abbassarsi alla resa: Bilimero, Goto o Vandalo di nascita, che comandava un esercito nelle Gallie, tostochè ebbe contezza degli avvenimenti d’Italia scese con rapida mossa e si gettò in Roma. Ma i quartieri della Regione transteverina della Città erano [260] già caduti in potere di Ricimero, e già questi, avanzando dalla Regione vaticana e oltrepassando il sepolcro di Adriano, il quale sembra che non fosse ancora tramutato in fortezza, tentava di impadronirsi del ponte e della porta Aureliana per cui s’entrava in città. Dopo una battaglia sanguinosa, nella quale il prode Bilimero perdette la vita, Ricimero conquistò la porta entro la quale le sue soldatesche, inasprite dalla lunga resistenza e composte di Germani d’ogni schiatta e ariani di religione, si scagliarono nell’infelice Città anelanti strage e ruba. Era l’undici di Luglio dell’anno 472 e Roma cadeva per la terza volta.
Anche di questo saccheggio mancano notizie determinate che ci facciano certi se la Città ne andasse devastata: gli Storici non dicono che vi si appiccasse incendio, nè fanno menzione di alcun edificio distrutto[199]. L’avidità di quei soldati eretici fu satollata colle depredazioni proseguite per parecchi giorni, finchè Ricimero ebbe imposto che cessassero. In tal modo i preziosi arredi di papa Ilario non dovettero attendere a lungo chi li strappasse alla quiete dei templi. Stando ad un’antica narrazione, sarebbero state risparmiate quelle due sole Regioni che prima erano cadute in balìa di Ricimero, cioè la Vaticana (dove già a quel tempo erano sôrti in gran numero conventi, chiese, ospitali) ed i quartieri del Gianicolo che formano l’odierno Transtevere e che con quelli del Vaticano componevano una sola Regione. Ne viene di conseguenza che il san Pietro fosse immune da [261] saccheggio, ma che la vera città di Roma fosse tutta abbandonata in balia della soldatesca[200].
Nella Città desolata dalla fame, dalla peste, dalla strage e dal sacco entrava Olibrio a strappare dal capo di Antemio, ch’era caduto trucidato, quel diadema cui da lunghi anni agognava. Già prima che Roma fosse presa, Olibrio era stato, coll’assentimento di Leone, acclamato Imperatore; ed ora entrava a porre stanza nel palazzo cesareo e si faceva confermare dal Senato nella sua dignità sovrana. Tosto dopo, il conquistatore di Roma, colui che era stato terribile tiranno di tanti Imperatori era preso dal contagio.
Ricimero moriva nella Città, addì 18 di Agosto del 472. Ricordanza di quest’uomo straordinario è conservata da una chiesa che egli edificò o restaurò in Roma sul pendio del monte Quirinale. È l’odierna chiesa diaconale che ha nome: S. Agatha super Suburram o in Suburra e che in origine apparteneva al culto dei Goti [262] ariani. Ricimero ne aveva adorna la tribuna di musaici, dei quali non ci rimase sciaguratamente che una brutta copia. In essa è rappresentato il Cristo sedente fra gli Apostoli sopra un globo: ha il mento coperto di barba; le chiome gli scendono in lunghe anella; la mano destra alza in dolce atteggiamento; nella sinistra tiene un volume. Al lato sinistro è san Pietro, il quale, cosa degna di nota, porta una sola chiave. In questa chiesa ebbe senza dubbio sepoltura Ricimero[201].
Alla dignità di generale degli eserciti, Olibrio elesse Gondebaldo, borgognone di nascita e nipote di Ricimero. Poco dopo, nel giorno 23 di Ottobre dello stesso anno, anche Olibrio moriva lasciando il trono in balìa dei Barbari.
La irreparabile caduta dell’Impero di Occidente attendevano in silenzio i popoli del mondo presi da quella stupidità che coglie chi si aspetta ad un avvenimento terribile. Nella deplorevole confusione di quegli ultimi anni si presentano ancora agli occhi dello Storico alcuni fantocci miserabili d’Imperatori. Gondebaldo aveva dato [263] lo scettro imperiale a Glicerio, che fu uomo giusto ma di cui non conosciamo l’origine[202]. Nell’anno 474 Glicerio era balzato del trono da Giulio Nepote, figlio di Nepoziano e dalmata di nascita, che l’imperatore Leone aveva a malincuore mandato di Bisanzio a Ravenna con un esercito. Il novello Augusto mosse contro Roma, e, sorpreso Glicerio nel porto del Tevere, lo costrinse a deporre la porpora e a ritirarsi in Dalmazia, a Salona di cui fu eletto vescovo[203]. Dopo di essere stato acclamato imperatore a Roma, addì 24 di Giugno, Nepote andò a Ravenna; e intanto che qui trattava con Enrico re dei Visigoti della cessione dell’Alvernia provincia di Gallia, Oreste, che di recente egli aveva eletto patrizio e generale degli eserciti di Gallia, mosse contro di lui le soldatesche: laonde Nepote dovè fuggirsi per mare di Ravenna che i ribelli stringevano d’assedio, e cercò asilo in quella stessa Salona dove poco prima aveva condannato a confino Glicerio.
Oreste, romano nato in Pannonia, era stato nei suoi primi anni scrivano di Attila: lui morto aveva trascorsa una vita avventurosa comandando milizie di Barbari sotto le bandiere degl’Imperatori di Roma. Egli presenta in sè l’indole dei condottieri di ventura che desolarono Italia nell’età di mezzo. Le sue soldatesche, genti raccogliticce di Sarmazia e di Germania che patria non avevano, in vece di muovere in Gallia, vollero dare al loro capitano la corona d’Italia. Ma Oreste preferendo che la porpora imperiale toccasse al suo giovane [264] figlio, addì 31 di Ottobre dell’anno 475 fece acclamare imperatore d’Occidente Romolo Mondilo Augustolo od Augusto. Quest’ultimo imperatore di Roma, bizzarro accidente e forse ischerno di fortuna, riuniva in sè i due nomi del fondatore di Roma e del suo primo Imperatore[204].
Ma poco durava. Narra Procopio che la caduta di lui e dell’Impero fosse cagionata dalle soldatesche barbariche[205]; imperocchè, dopo i tempi di Alarico e di Attila, i Romani avessero accolto nell’esercito quali confederati Scirri, Alani ed altre torme di stranieri, i quali, insaziabili nelle loro pretensioni, or chiedevano ad Oreste la terza parte delle terre d’Italia. Condottiero di quelle masnade fu Odoacre figlio di Edecone, il quale, di nascita Scirro, aveva combattuto con Attila, ed era uomo piuttosto temerario che coraggioso. A lui giovinetto era stato profetato che un dì sarebbe re d’Italia. «Va in Italia,» aveagli detto un giorno un santo Monaco, «vanne vestito in umili panni, che presto, allorquando vi ritornerai, tu avrai potenza di arricchire molte genti»[206]. Aveva combattuto da prode in cento battaglie e finalmente conduceva uno stuolo considerevole di soldati alle guerre di Gallia. A’ guerrieri senza patria, Rugi, Eruli, Scirri, Turcilingi e d’altre schiatte, aveva fatto comprendere che loro tornerebbe meglio sedere signori del bel paese, avere quello che possedeva il Romano degenere, piuttosto [265] che vivere erranti agli stipendî di miserabili condottieri. I soldati germani accorsero tosto d’ogni lato sotto le sue insegne, lo acclamarono Re e mossero impetuosi contro Pavia, dove Oreste s’era rinchiuso col giovane figliuol suo. La città fu espugnata, lo sciagurato Oreste decapitato, e Romolo Augustolo ultimo imperatore di Roma cadde in mano del primo Re d’Italia di schiatta tedesca.
Odoacre assunse arditamente il titolo di Re, senza far uso però di porpora e di diadema[207], e ciò accadde nel terzo anno di regno dell’imperatore d’Occidente Zenone l’Isaurico, nel nono anno di pontificato di Simplicio, sotto il secondo consolato di Basilisco e nel primo di Armato, nell’anno 476 dell’êra cristiana[208].
Dopochè il novello Re, addì 22 di Agosto, si ebbe reso padrone di fatto d’Italia, volle per prudenza ottenere il riconoscimento legale del suo dominio. Egli costrinse Augustolo a fare una rinunzia formale del suo potere innanzi al Senato, e a questo impose che dichiarasse estinto l’Impero occidentale, e che perciò Italia e Roma erano decadute alla condizione di province. La ultima opera politica del Senato romano costituito secondo la forma antica, risveglia un senso di tristezza profonda: esso spediva legati a Bisanzio all’imperatore Zenone, i quali deponendo nelle mani di lui la corona [266] d’Occidente, protestavano a nome del Senato e del popolo: Roma non aver più duopo di un Imperatore independente; bastare un monarca che solo reggesse Oriente ed Occidente; aver eglino eletto a proteggitore d’Italia Odoacre uomo nelle arti di pace e di guerra illustre; implorare che Zenone lo investisse della dignità di patrizio e al suo governo affidasse il regno d’Italia.
Nel tempo stesso in cui i legati si presentavano al barbaro isaurico Zenone, questi riceveva pressanti istanze del detronizzato Nepote affinchè volesse soccorrerlo. Al discorso dei Senatori rispondeva Zenone con collera che due Imperatori egli aveva dato a Roma, e che eglino uno avevano cacciato, l’altro ucciso: or dunque quello che ancor viveva, dover essi richiamare: il solo Nepote avere podestà di eleggere Odoacre al patriziato. Ma questa incomprensibile risposta non era che un pretesto a coprire per un momento l’onta di Roma. Chè tosto, mutato consiglio, Zenone riceveva il diadema e le insegne imperiali e custodivale nel suo palazzo. E con lettere indiritte a Odoacre concedeva a lui, come a suo governatore, il titolo di patrizio dei Romani, e, abbandonata la causa di Nepote, Roma e Italia, che ancora formalmente portavano nome d’Impero romano, lasciava in balia della fortuna[209].
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Così Italia per la prima volta diventava reame dominato dai Germani sotto l’autorità di nome dell’Impero romano orientale: così l’Imperio occidentale di Roma si spegneva. Il despotismo sotto cui lo avevano per lunghi anni tenuto Imperatori più barbarici dei Barbari, lo aveva trascinato ad una condizione di decadimento morale e di schiavitù infelicissima: il Cristianesimo non vi aveva infuso nessuna forza di vita, ed i Romani, incapaci di svegliare le forze dell’animo ad operosità, avevano dovuto cadere sotto l’energia dei Germani, non conservando che l’istituto della Chiesa, la quale frattanto nell’ombra cresceva più e più. Il nome politico di «Romano», la qualità di cittadino romano, erano divenuti, come scrive un Vescovo di quel tempo cui prestar dobbiamo piena fede, cagione di disprezzo profondo[210]. L’Impero romano soggiacque alle leggi di natura. Dopo di avere per lunghi secoli ridotto in ischiavitù i popoli, impedendo lo svolgimento independente dell’indole di nazione, crollante sempre più per opera del Cristianesimo, scosso dagli assalti dei Germani, finalmente cadeva distrutto. La rovina sua potè forse presentarsi alla mente degli uomini di quell’età come un male tremendo, eppure in realità fu invece uno dei più grandi beneficî di [268] cui godesse l’umanità, imperocchè soltanto da quel momento cominci la illustre di tutte le regioni del mondo, Europa, a commuoversi a vita, e ad elaborare quel lungo svolgimento della sua civiltà svariata, ricca, altissima. La fine del romano Impero, che già da lungo tempo prevedevasi, non iscosse il mondo assopito in letargo profondo; la caduta di un governo despotico non eccita compianto. Ma ora la veneranda Città risveglia in noi sollecitudine ancor più grave, perocchè essa, vedovata di quello splendore che ancora le aveva conservato la apparenza di maestà dello Impero, dovesse decadere coi suoi monumenti a ruina sempre più profonda.
[269]
[271]
Italia era dominata da Odoacre. Non di animo rozzo alla foggia dei Barbari, ma capace di accogliere le costumanze romane, il novello Re scelse a sua sede non Roma ma Ravenna. Sotto il suo energico reggimento rimasero immutate le forme politiche. La Città, governata da un prefetto come nei tempi anteriori, non s’avvide della caduta dello Impero, perocchè sussistessero gli antichi suoi ordinamenti. Odoacre, a cominciare dall’anno 480, elesse i consoli d’Occidente, che, seguendo l’uso tradizionale, rinnovellavansi ad ogni anno, e che entrando nel loro officio continuavano a spargere allegrezza tra la plebaglia, scemata di numero, con distribuzioni di [272] denaro e con giuochi nel circo[211]. La Curia dei Senatori, che vi erano chiamati per eredità, era tenuta ancor sempre nell’alta onoranza che le procacciava la tradizione di venerazione antica: in quel Consiglio di Stato che rappresentava Roma, raccoglievansi i discendenti di famiglie antichissime, e tra quelli hanno rinomanza i nomi di un Basilio, di un Simmaco, di un Boezio, di un Fausto, di un Venanzio, di un Severino, di un Probino e di altri uomini consolari. Non ci fu conservata però alcuna notizia nè sul numero, nè sulla costituzione di quel corpo a questi tempi.
Duranti i tredici anni della benefica dominazione di Odoacre ammutisce la storia interna della Città. Anche nel Libro Pontificale non isplendono più, come nei tempi antichi, nomi di Vescovi di Roma illustri per donativi magnifici largiti alle chiese. Tuttavolta Simplicio di Tivoli, sotto il cui pontificato che si estese dall’anno 468 al 483 si estinse l’Impero occidentale, eresse parecchie novelle basiliche. Ci è lecito però di dubitare di un tal fatto, allorchè consideriamo che la costruzione di chiese novelle sarebbe avvenuta nel tempo in cui Roma decadeva in condizioni tristissime e in cui diminuiva il numero dei suoi abitatori. Ma occorre d’altronde por mente che i Pontefici non volevano partire della scena del [273] mondo senza lasciare a loro ricordanza qualche chiesa da essi eretta, tanto più che ogni novella basilica che in Roma sorgesse era quasi un novello propugnacolo della Chiesa apostolica e nuova radice di sua autorità. Il regno dei Santi si ampliava sempre più, e lo stuolo degli Apostoli e dei Martiri esigeva dai fedeli culto ognor più esteso. La spenta Religione mitologica dei Pagani otteneva vendetta del Cristianesimo mediante un novello politeismo, il quale trovava suo fondamento nelle idee che avevano posto radici profonde nelle menti degli uomini. Nè i popoli ond’era composto l’Impero romano avevano potuto cancellarle del tutto. Discesa da quei Pagani che erano avvezzi a sacrificare in mille templi ai loro mille Numi, la novella generazione che in nome del Cristo aveva ricevuto il battesimo, chiedeva che in luogo dei delubri e degli Dei antichi, mille chiese s’ergessero ove mille Santi avessero altari; ed in tal modo la Religione purissima, spirituale, nemica di ogni forma materiale, era tramutata nuovamente nel culto di alcuni patroni nazionali, speciali ad ogni provincia, ad ogni città, e nel quale il nome inconcepito di un Dio sommo ed uno, appena otteneva menzione.
Simplicio dedicò al protomartire Stefano, ch’era il Santo a cui in quell’epoca tributavasi venerazione massima, una basilica edificata sul monte Celio, che è la odierna chiesa di santo Stefano Rotondo, e che gli Archeologi reputarono essere stato un tempio che l’antichità aveva sacrato al dio Fauno oppure al deificato imperatore Claudio. Se ciò sia, questa chiesa illustre ed antica sarebbe la prima di Roma che di tempio pagano fosse stata tramutata in tempio cristiano. Ad [274] accogliere quest’opinione induce la bella forma rotonda che il santo Stefano ha comune con poche altre chiese di Roma di origine pagana. Ed infatti erano rarissime le chiese di forma circolare in quel tempo in cui il gusto dell’architettura preferiva di erigere templi dalle lunghe navate. Tuttavia siccome nella muratura l’edificio è di lavoro difettoso, questa basilica di belle proporzioni e di dimensioni maestose, ben può essere stata opera di architetti e di muratori cristiani, i quali però non riuscirono ad eguagliare nel lavoro tecnico gli edificî della antichità ch’eglino avevano preso ad imitare nella forma[212].
Un’altra chiesa consecrò Simplicio ad onoranza dello stesso Protomartire in vicinanza della basilica di san Lorenzo fuor delle porte; e ciò dimostra quanta venerazione tributasse Roma a quel Santo. In vicinanza di santa Maria (Maggiore) egli edificò una basilica ad onore dell’apostolo Andrea; e finalmente a santa Bibiana dedicò una chiesa, innalzata presso al palazzo Liciniano. Il luogo, ossia il vicus, ove fu eretta la piccola chiesa di questa Martire romana, non molto lunge della porta di san Lorenzo sull’Esquilino, era detto Ursus pileatus, [275] probabilmente da qualche imagine rappresentante un orso colla testa coperta di cappello; e il palazzo può essere stato appellato dall’imperatore Licinio o da qualche altro Romano di quel nome[213].
Moriva Simplicio addì 2 di Marzo del 483, e Odoacre, quale Re dei Romani, moveva pretesa al diritto di confermare il novello Papa. A tal fine egli spediva a Roma Basilio primo officiale del regno, il quale con titolo di Sublimis e di Eminentissimus teneva la carica di prefetto del pretorio e di patrizio, ed era ora deputato a rappresentare in quel negozio Odoacre. Si convenne nell’elezione di Felice III romano, dovendo il clero acconciarsi alla volontà del Re ariano cui Roma obbediva, e il cui animo era mosso da sensi di giustizia e di umanità verso gli Ariani similmente che verso i Cattolici. Del resto, se o quali altre relazioni si stringessero tra Odoacre e la città di Roma e gli abitatori di lei, non ci è dato conoscere.
Ma la sorte non concedeva al valoroso Erulo di raffermare su valide fondamenta il suo reame d’Italia e di tramandarlo ai suoi nepoti. A tale opera erano trascelti un uomo di genio assai più elevato, ed un popolo eroico, che venendo delle selvagge regioni dell’Emo, doveva impadronirsi d’Italia, e che colla sua robustezza doveva per più che mezzo secolo farsi sostegno all’edificio crollante della civiltà romana. Teodorico, re degli Ostrogoti, console e patrizio dei Romani, era alla testa d’un popolo [276] di animo ardito e amante di libertà, il quale aveva posto stanza nelle regioni cui nel suo corso inferiore Danubio bagna. L’imperatore Zenone atterrito dagli assalimenti che spesse fiate avevano mossi gli Ostrogoti contro le sue province di Grecia, strinse con Teodorico un trattato di pace, istigandolo a muovere col suo popolo irrequieto contro le regioni d’Occidente assai più ricche delle orientali, ed a cacciare il tiranno Odoacre dalla terra d’Italia, del cui dominio egli tosto lo investirebbe a guiderdone del suo servigio. Teodorico, nell’anno 488, guidava verso Italia tutta la moltitudine del suo popolo; e traendo con cavalli, con carri e con un numero infinito di pedoni, si apriva colla spada un varco attraverso le orde selvagge dei Gepidi e dei Sarmati, e giungeva nei piani d’Italia superiore.
Il grande e bello spettacolo di due eroi germani pugnanti per l’impero d’Italia, non possiamo descrivere noi che trattiamo della storia della Città. Battuto sulle rive dell’Isonzo, indi a poco presso a Ravenna, nell’anno 489, Odoacre si gettò entro le mura di Ravenna: imperocchè la narrazione di un solo Cronista, cui non sussidia alcun’altra testimonianza, che dopo la perdita di Ravenna Odoacre corresse subito a Roma per munirvisi, che ne trovasse chiuse le porte e che per trarre vendetta dei Romani ponesse il guasto alla Campagna, riesca troppo inverosimile perchè possiamo prestarvi fede: la condotta di lui sarebbe stata infatti priva di ragionevole scopo di utilità[214]. Ma ella è però cosa più che probabile, che il Senato romano, cui l’Imperatore [277] bisantino avrà spacciati secretamente messaggi, abbia stretto con Teodorico accordi dapprima secreti, e che dipoi, allorquando la potenza di Odoacre fu fiaccata e ristretta nell’angusta cerchia delle mura di Ravenna, si sia dichiarato apertamente in favore di lui. Ed infatti Teodorico nell’anno 490 inviò il patrizio Festo, presidente del Senato, all’imperatore Zenone a chiedere il manto regale[215].
Odoacre, dopo di essersi difeso in Ravenna con eroica bravura per tre lunghi anni, dovette finalmente cedere alla necessità stringente, e, conchiuso un trattato, addì 5 di Marzo del 493, aprì a Teodorico le porte della città, che questi non poteva vantarsi di aver conquistata col valore del suo braccio. Ma, pochi giorni dopo, con doppiezza appresa alla scuola dei Bisantini, il vincitore violò il trattato, e fè trucidare il suo nobile competitore ed i soldati e i partigiani di lui. Senza pretendere al titolo di Imperatore romano, egli assunse il nome e le insegne di Re d’Italia, nè si curò di ottenerne conferma dallo imperatore greco Anastasio, che, nell’anno 491, era succeduto a Zenone sul trono di Bisanzio. Alcuni anni dopo però, a mezzo del senatore Festo, egli ne ricevette il riconoscimento; e l’Imperatore anzi fè rimettere al novello Re d’Italia tutti gli arredi preziosi del Palazzo imperiale di Roma, che Odoacre, alla caduta dell’Impero occidentale, aveva spedito a Costantinopoli[216]. La corte [278] di Bisanzio che gli aveva commesso di strappare alla dominazione di colui ch’essa appellava tiranno, questa prefettura o provincia d’Italia, lo considerava secondo sue idee suo patrizio o governatore: ma il felice conquistatore poteva ben ridersi di ogni apparenza di dependenza or ch’egli s’ergeva dominatore di tutta la contrada, del cui territorio aveva data una terza parte in proprietà ai suoi terribili guerrieri. Egli pose, come aveva fatto Odoacre, suo seggio in Ravenna: e nel suo animo deliberò di reggere da Ravenna Roma e l’Italia colla possanza della sua signoria, simile nella forza e nella pompa esterna a quella di un Imperatore occidentale, col suo genio emulatore di quello dei grandi Romani.
Nel tempo stesso in cui nel settentrione d’Italia si decidevano le sorti della penisola, nel tempo medesimo in cui Toscana, Emilia ed altre province agitate dal flagello della guerra terribile rimanevano quasi deserte d’abitatori[217], Roma quantunque fosse caduta nello estremo della miseria, stremata dagli orrori della fame, della peste e dell’inopia massima, era almeno illesa [279] dagli orrori della guerra. Inoperoso e incurante della grande pugna che si stava combattendo, il popolo occupavasi di negozi teologici, di condanne di Manichei e di altri eretici, attendeva alla celebrazione di sinodi, e si abituava a trovare compenso dell’estinta vita politica nell’operosità delle bisogne religiose. In questo tempo accadde che Roma fosse commossa da una strana contesa eccitata dalle ultime reliquie delle costumanze della Religione pagana che ancora fossero publicamente tollerate. E fu la lotta che si agitò tra i Cristiani e papa Gelasio dall’un lato, ed il senatore Andromaco dall’altro, a cagione delle feste lupercali.
Il Lupercale, ossia santuario di Pane vincitore del lupo, era una oscura caverna situata appiedi del monte Palatino. Secondo la leggenda, l’arcade Evandro la aveva consecrata al Nume delle campagne, e la lupa del mito anticamente aveva colà prestato il nutrimento a Romolo ed a Remo. I Romani, a magnificare la ricordanza dei fondatori della Città, avevano eretto ivi un gruppo in bronzo che rappresentava la lupa in atto di prestare le mamme ai due bambini, e che è forse lo stesso capolavoro della antichità che oggidì si mira nel palazzo dei Conservatori posto nel Campidoglio[218]. Delle antichissime feste lupercali era centro tradizionale quel santuario: si celebravano ogni anno nel giorno 15 di Febbraio, e vi seguiva nel giorno 18 di quel mese la Februatio, ossia la ceremonia con cui si purificava la Città dai mali influssi dei [280] rei demonî. In quel giorno i sacerdoti ed i più nobili giovani di Roma, senza che rossore li rattenesse, si spogliavano, dinanzi gli occhi del popolo, di loro vestimenta, e coperti soltanto di perizonî di pelli tolte agli animali offerti in sacrificio, partivano dal Lupercale, e nudi correvano lungo le vie della Città, agitando in mano coregge di cuojo colle quali percotevano lievemente sulla destra mano le donne che incontravano, affine di prodigare loro la benedizione della fecondità. Il celebre Marco Antonio stesso era stato veduto anticamente a prender parte fra gli attori della festa. Tutte le festività antiche (molte erano la cosa più scipita che dar si potesse) avevano soggiaciuto all’influenza del Cristianesimo: le feste lupercali invece avevano durato in vigore, e già abbiamo osservato che si celebravano ancora dopo l’avvenimento di Antemio al trono; chè era sì grande la venerazione che i Romani tributavano a questa antichissima costumanza nazionale, che, quantunque convertiti al Cristianesimo, non aveano voluto smetterne l’osservanza. Ed ogni anno commuovevano il Vescovo ad orrore del loro contegno con quelle feste: ed ora che il mutato costume e il sentimento dell’onestà impediva ai cittadini ragguardevoli di prendervi parte, quella festività scipita e simile ad un bagordo carnascialesco, era celebrata da schiavi e dalla plebaglia vile.
Ed ai Vescovi, che avevano fatto prova di sopprimere quell’avanzo del culto antico, rispondevano questi Cristiani, che la peste e la sterilità gli avevano colpiti coi loro flagelli, che Roma era stata devastata dai Barbari e che l’Impero romano era caduto, perchè al dio Februo non s’era più reso onore di sacrificî. E poichè le loro opinioni [281] trovavano appoggio fra i Senatori, davano motivo a papa Gelasio di scrivere un Trattato formale contro le festività lupercali. Questo scritto, che non può non eccitare grave meraviglia, e che il Baronio diede alla luce traendolo da un codice che si conserva nella Biblioteca Vaticana, fu dal Pontefice indiritto ad Andromaco, il quale era probabilmente presidente del Senato e sarà stato apologista della festa pagana: e forse al Senato principalmente appartenevano ancor sempre, alla fine del secolo quinto, aderenti secreti del Paganesimo. Imperocchè l’aristocrazia di Roma fosse ancora attaccata con tanta caparbietà alle tradizioni dell’antichità, che si rimproverasse ai Consoli, in quel tempo ancora, di nutrire polli sacri a fantastica ricordanza dei tempi scorsi, ed oltre agli auspicî, di osservare altre costumanze che la Religione pagana aveva anticamente congiunte al loro officio[219]. Nel suo Trattato papa Gelasio diceva ai Romani con ira, che non si può nel tempo stesso assidersi al banchetto del Signore e mangiare alla mensa dei demonî; nè bere all’istessa volta nel calice di Dio e nella coppa del diavolo: non già l’inosservanza delle feste lupercali, sclamava, fu causa che Roma nell’estremo cadesse, sibbene ne furono cagione i vizî, lo spergiuro, la superbia, la crapula e il culto di magici riti. Ed egli ritorceva contro Andromaco l’accusa, affermando, che alla durata delle costumanze del Paganesimo era da [282] imputare la colpa che l’Impero romano fosse caduto, e che il nome romano si fosse quasi estinto. E a quest’idea il cardinal Baronio con fervore s’associa[220], e narra che al Pontefice riuscisse d’indurre il Senato all’abolizione dei Lupercali. Quantunque nessuna notizia di Storici antichi confermi questo fatto, tuttavia lo accogliamo, osservando sovra ogni cosa che l’influenza del Senato sulla vita publica di Roma era ancora ben grande, quantunque anche il Pontefice attendesse alla censura del costume. Nei tempi posteriori a papa Gelasio la Chiesa, acconciandosi con prudente accorgimento alle tradizioni ostinate del Paganesimo, trasformava l’antica festa di purificazione dei Lupercali nella festività ecclesiastica della Purificazione della Vergine, nella quale la processione che si fa con torce accese (Candelora) trae [283] alla ricordanza dell’antica costumanza pagana. E la festa celebravasi nel dì 2 di Febbraio, come celebrasi anche al dì d’oggi pochi giorni prima che incominci il carnevale[221]. Del resto egli è facile, da quanto narrammo fin qui, dedurre quale forma vestisse in Roma il Cristianesimo in sulla fine del secolo quinto.
Pochi anni dipoi, una lotta ben più violenta e pericolosa agitava la Città. Morto papa Anastasio, succeditore di Gelasio, la maggior parte del clero romano conveniva nel giorno 22 Novembre del 498 nell’elezione di Simmaco, sardo di nascita. Ma il senatore Festo che in quello ritornava da Costantinopoli, ove s’era recato ambasciadore in occasione dell’Enotico (ch’era un Editto dell’anno 482) promulgato dall’imperatore Zenone, potè subornare a forza di denaro alcuni chierici ed indurli ad eleggere il romano Lorenzo, il quale, in gratitudine della sua erezione al soglio pontificale, prometteva di accettare ciò che l’Editto imponeva. Imperocchè Zenone avesse dato quell’Editto nella speranza di acchetare le dispute acerrime agitantisi intorno l’incarnazione e la natura di Cristo: e la credenza ch’era diffusa in Oriente i Vescovi ortodossi di Roma avevano sempre riprovata. Simmaco fu consecrato da un partito numeroso in san Pietro nel giorno stesso in cui l’altro partito meno numeroso ordinava Lorenzo nella basilica di santa Maria. Così il clero, il popolo, il Senato, come già ai tempi di Bonifacio, era diviso in due fazioni nemiche. Il partito di Lorenzo [284] guidato da Festo e da Probino, uomini consolari e capi del Senato, destreggiava manifestamente per ripristinare in Roma l’influenza degl’Imperatori greci, laddove il partito men forte dei Senatori guidato da Fausto, uomo consolare, cercava sostegno nella dominazione dei Goti.
Affine di porre un termine al dissidio, Teodorico, come anticamente aveva operato Onorio in un caso simile, citò dinanzi a sè a Ravenna i capi delle due fazioni. Il Re ariano nella pienezza del suo potere sentenziò, che colui il quale era stato eletto il primo con maggior numero di voti dovesse essere riverito quale legittimo Pontefice. Simmaco salì alla cattedra di san Pietro, e tosto che fu ristabilita in Roma la quiete, egli celebrò nel san Pietro il primo sinodo romano addì 1 di Marzo dell’anno 499. Quel Concilio attese principalmente a dare ordinamenti intorno al modo di elezione del Pontefice: ma esso ha speciale importanza per la storia ecclesiastica della città di Roma, perocchè dalle sottoscrizioni dei cherici, preposti ai presbiteri romani, che leggonsi negli atti del Sinodo, si ricavi notizia delle basiliche titolari che allora esistevano in Roma[222].
[285]
Erano le seguenti chiese:
1. Titulus Praxidae. — Basilica d’origine antica, edificata sul Clivus Suburanus nelle Esquilie, e dedicata alla sorella di santa Pudenziana.
2. Titulus Vestinae. — Questa chiesa oggidì ha nome di san Vitale. Innalzata nella vallata del Quirinale, per incarico che la pia Vestina ne aveva lasciato nel suo testamento, Innocenzo I la ebbe dedicata, fra l’anno 401 ed il 417, a san Vitale ed a Gervasio e a Protasio figli del Santo.
3. Titulus sanctae Caeciliae. — Questa bella chiesa situata nel Transtevere sarebbe stata eretta, secondo la leggenda, nel terzo secolo dal vescovo Urbano là dove sorgeva la casa della Santa. Nel secolo nono fu riedificata da papa Pasquale.
4. Titulus Pammachii. — È una basilica dei santi Giovanni e Paolo situata nel Clivus Scauri sul monte Celio, dietro al Colosseo, edificata sopra un antico Vivarium. Essa compare nel Concilio di Simmaco per la prima volta appellata dal nome di Pammachio che la costruiva e che era probabilmente Senatore romano, marito a quella Paolina che fu sorella di Eustochia, ed al quale Gerolamo scriveva un’epistola a consolarlo della morte della moglie[223]. Egli diede sue ricchezze ai poverelli, e, fattosi monaco, fondò questa chiesa, la quale, ai [286] tempi di Gregorio Magno, ebbe appellazione dai santi Giovanni e Paolo che furono due fratelli romani e dei quali narra la leggenda che trovassero morte fra i martori cui condannavali l’apostata Giuliano.
5. Titulus sancti Clementis. — È la chiesa d’origine antica che si alza tra il Colosseo ed il Laterano e che già conosciamo.
6. Titulus Julii. — È la chiesa odierna di santa Maria in Transtevere che portava anche il titolo di san Calisto.
7. Titulus Chrysogoni. — Anche questa basilica si alza nel Transtevere fra le chiese di santa Maria e di santa Cecilia, ed è dedicata ad un Martire romano del tempo di Diocleziano. Chi la edificasse ignoriamo, perocchè se ne faccia cenno per la prima volta nel Concilio di Simmaco.
8. Titulus Pudentis. — Era la basilica di santa Pudenziana eretta sul monte Esquilino, di cui abbiamo già parlato. Fu l’antichissima delle basiliche titolari di Roma, e fu anche appellata di santo Pastore.
9. Titulus sanctae Sabinae. — Le belle ed ampie dimensioni fanno sì che questa sia la maggiore delle chiese erette sul monte Aventino. Eretta nella prima metà del secolo quinto, fu dedicata a Sabina santa romana che fu martoriata ai tempi di Adriano imperatore. Non sappiamo se fosse consecrata da Celestino I oppure da Sisto III. La edificò il prete Pietro d’Illiria, come narra la iscrizione che leggesi nel musaico che sta sopra la porta maggiore[224].
[287]
10. Titulus Equitii. — È la chiesa mirabile detta sancti Martini in Montibus che sorge sulle antiche Carine in vicinanza delle terme di Trajano. Fu edificata da papa Silvestro sopra un terreno posseduto da un prete Equizio, e fu detto perciò dapprima Titulus Silvestri coll’addiettivo ad Orphea, probabilmente a cagione di qualche monumento antico onde avrà avuto nome quel luogo. Narra il Libro Pontificale che fosse riedificata da papa Simmaco nell’anno 500 e che fosse dedicata a san Silvestro ed a san Martino vescovo di Tours, ond’è che nel Concilio dell’anno 499 apparisce ancora sotto titolo di Equizio. Anche oggidì vedonsi alcuni ruderi della chiesa antica là dove sorge la novella[225].
11. Titulus Damasi. — Questa basilica dedicata a san Lorenzo ed edificata presso il teatro di Pompeo ci è già nota.
12. Titulus Matthaei. — Era una chiesa situata tra santa Maria Maggiore ed il Laterano, ed aveva [288] nome da un palazzo detto Merulana. Oggidì non esiste più[226].
13. Titulus Aemilianae oppure Sanctae Aemilianae, come è appellata questa chiesa nella biografia di papa Leone III. — Non abbiamo argomento che valga a determinare ove fosse situata.
14. Titulus Eusebii. — La piccola chiesa di santo Eusebio s’innalza in prossimità dei così detti Trofei di Mario sul monte Esquilino. Fu dedicata ad onore di un prete romano, il quale, al tempo di Costanzio figlio di Costantino, sofferse il martirio per confessare il simbolo di fede di Atanasio. S’ignora il nome di chi la edificasse.
15. Titulus Tigridae o Tigridis. — È la chiesa di santo Sisto situata in via Appia nello interno della Città, là dove si crede che fosse l’antica Piscina publica. Non si possiede alcun argomento che valga a determinare il tempo in cui fosse edificata, e l’avvenimento che desse origine a quel Titolo. Fu dedicata ad onoranza del vescovo Sisto II, il quale, sotto Decio o sotto Valeriano, fu decollato nella via Appia: suo arcidiacono fu l’illustre san Lorenzo[227].
16. Titulus Crescentianae. — Questa basilica dedicata ad una Santa ignota, non esiste più. Il Libro [289] Pontificale, alla biografia di Anastasio I (396-401), parla di una basilica Crescenziana che sorgeva nella seconda Regione, in via Mamertina situata ov’è la odierna Salita di Marforio[228].
17. Titulus Nicomedis. — È conservata ricordanza di una chiesa dedicata a santo Nicomede che esisteva in via Nomentana: ma siccome fra le basiliche che ora descriviamo non havvene alcuna situata fuor delle mura di Roma, questo Titolo deve avere appartenuto ad una chiesa situata in qualche altra parte della Città. Estintosi ben presto, fu da Gregorio Magno attribuito alla chiesa sanctae Crucis in Hierusalem[229].
18. Titulus Cyriaci. — Era la chiesa sancti Cyriaci in Thermis Diocletiani, il cui Titolo, quando cadde distrutta, fu da Sisto IV attribuito alla chiesa dei santi Quirico e Giulitta situata presso l’odierno Arco dei Pantani. Dalla dizione aggiunta, in Thermis, si pare che l’antica chiesa, la quale era dedicata a san Ciriaco che fu un Romano morto tra i martori al tempo dell’imperatore Diocleziano, fosse costruita presso gli edificî che quell’Imperatore aveva eretti ad uso di bagno. Siccome però nell’anno 466, ai tempi di Sidonio Apollinare, queste terme erano ancora adoperate quali bagni publici, così ci è duopo ammettere che quella chiesa fosse stata costruita sopra una ristretta superficie di terreno tolta alle terme, oppure [290] che fosse edificata in vicinanza di quelle[230]. E poco lontano era un convento di monache[231].
19. Titulus sanctae Susannae. — La chiesa di santa Susanna denotavasi col nome addiettivo ad duas domos, ch’erano le case di Gabino padre della Santa e del vescovo Caio zio di lei. La chiesa era stata edificata sul monte Quirinale tra le terme di Diocleziano ed i giardini di Sallustio; ed in quel luogo essa s’erge oggidì ancora, quantunque mutata nella sua forma: ne faceva già menzione santo Ambrogio nell’anno 370. A santa Susanna i Romani tributavano onoranza come ad illustre Martire di loro nazione. Narra la leggenda, ch’ella scendesse della stirpe di Diocleziano: la beltà, la giovinezza, la squisita cultura di lei avevano acceso d’amore [291] il brutale animo di Massimiano. Ma tutti quelli che costui aveva spedito a chiedere la mano di lei, erano stati commossi all’incanto della sua voce, che gli aveva conversi al Cristianesimo. Un angelo del cielo la aveva difesa da tutte le insidie che l’Imperatore aveva teso alla sua onestà; e la statua d’oro del Giove, dinanzi a cui voleva costringerla a sacrificare, fu atterrata al lieve fiato della bocca della bella Susanna. Diocleziano finalmente facevala decapitare, e Serena, moglie di lui, la quale secretamente era adoratrice di Cristo, ne compose la salma in un sarcofago d’argento che fu deposto nelle catacombe di san Calisto.
In vicinanza della santa Susanna era il Titulus Gaii o Caii, che sorgeva nelle case del vescovo Cajo: egli sembra però che i due Titoli fossero insieme congiunti[232].
20. Titulus Romani. — Non è facile cosa determinare ove sorgesse questa chiesa ch’era dedicata ad un Martire romano, e che, a cagione anche del nome di lui, essere doveva illustre. Credesi che una basilica dedicata a questo Santo sorgesse fuor di porta Salara, nell’agro Verano, nelle vicinanze di san Lorenzo[233].
[292]
21. Titulus Vizantii o Byzantis. — Siamo nella stessa ignoranza anche circa questo Titolo[234].
22. Titulus Anastasiae. — Alla basilica antica ed illustre di santa Anastasia era aggiunta la dizione sub Palatio, perocchè essa fosse edificata sotto il monte Palatino in direzione del Circo massimo. Ignoriamo il nome di chi la erigesse. Anche Anastasia è Santa nazionale dei Romani che aveva grande venerazione nella Città. La leggenda narra ch’ella fosse figlia di santo Crisogono. Ella seguiva il padre ad Aquileia; e, dopo ch’egli fu, ai tempi di Diocleziano, decollato, era cacciata in esilio nell’isola Palmaria, e finalmente moriva in Roma sul rogo[235].
23. Titulus Sanctorum Apostolorum. — Siccome la chiesa odierna dedicata agli Apostoli fu edificata nelle terme di Costantino, nell’antica Regione Via Lata, soltanto da papa Pelagio I verso l’anno 560, così egli è dubbio se il Titolo di cui è fatto cenno nel Concilio di Simmaco sia da cercarsi là dove esiste oggidì la chiesa degli Apostoli oppure in qualche altro luogo. La narrazione [293] che Costantino edificasse in Roma una chiesa ad onoranza degli Apostoli, è una fola[236].
24. Titulus Fasciolae. — È una chiesa d’origine antica, situata nella via Appia presso il santo Sisto. Dedicata oggidì a due santi eunuchi, a Nereo e ad Achilleo, i quali furono, credesi, discepoli di san Pietro, richiama col suo nome la ricordanza dell’estinta mitologia antica. Non ci è dato di conoscere quale sia il significato del nome Fasciola che era imposto a questo Titolo[237].
25. Titulus sanctae Priscae. — Questa chiesa esiste, mutata nella forma dall’antica, sul monte Aventino. Essa era dedicata a santa Priscilla ed a santo Aquila sposo di lei. Se si stia alla leggenda, sarebbe stata edificata nel luogo ove aveva posto stanza san Pietro, e dove l’Apostolo amministrava il battesimo nella fonte del Fauno. Ignoriamo in qual tempo sia stata eretta. I due Santi erano israeliti conversi al Cristianesimo, e, se si stia alla narrazione della leggenda, amici del Principe degli Apostoli il quale gli aveva accolti nella sua casa che fu poi tramutata in chiesa. Eglino apparterrebbero perciò alla schiera dei Santi antichissimi di Roma; nè [294] sarebbero stati martoriati. Posteriormente, l’antico Titolo di santo Aquila e di santa Priscilla fu trasformato in quello di santa Prisca, vergine romana che morì fra i tormenti al tempo di Claudio imperatore.
26. Titulus sancti Marcelli. — Vuole tradizione che il vescovo Marcello consecrasse questa chiesa situata in via Lata nelle case di una pia donna romana di nome Lucina ai tempi di Massenzio, sotto il quale Imperatore egli stesso morì sotto gli artigli degli animali feroci. Egli è quello stesso Vescovo, a cui è attribuita la erezione di venticinque Titoli in Roma.
27. Titulus Lucinae. — La chiesa illustre di santo Lorenzo in Lucina edificata presso l’orologio solare di Augusto ci è già nota. Oltre di lei troviamo nel Concilio di Simmaco ricordanza del Titolo di san Lorenzo in Damaso. Una terza chiesa dedicata a santo Lorenzo era appellata in Panisperna ed anche ad Formosam o in Formoso. Oggidì ancora essa s’alza sul monte Viminale. Sembra che questa chiesa sia stata edificata nelle terme di Olimpia, ma s’ignora in qual tempo. Leone X pel primo la eresse a Titolo cardinalizio[238].
[295]
28. Titulus Marci. — La chiesa dedicata all’evangelista san Marco, situata in via Lata, al di sotto del Campidoglio e in prossimità del circo Flaminio, dev’essere stata edificata dal pontefice Marco intorno l’anno 366. Ne abbiamo già fatto menzione più sopra.
Queste erano dunque le ventotto chiese parrocchiali antiche di Roma, verso la fine del secolo quinto. Egli è prezzo dell’opera, affine di formarsi un’idea giusta della estensione del culto religioso di Roma in quel tempo, indugiare alquanto a considerare quali Santi in quelle chiese ricevessero onoranza. E troviamo che dominava l’amore di nazione, imperocchè, se si tolgano alcuni Apostoli, tutti quei Santi fossero uomini e donne nati in Roma, oppure, in alcuni casi, membri della Chiesa romana che di lei bene avevano meritato morendo in Roma della morte dei Martiri. Nè un solo Santo greco in Roma aveva altari. A ciascun Apostolo era dedicata una chiesa parrocchiale: degli Evangelisti i soli Matteo e Marco avevano avuto l’onore di un tempio. Dei Pontefici, il primo cui fosse eretta una chiesa fu Clemente, ed accanto a lui probabilmente ne saranno state erette anche a omaggio di Silvestro e di Marcello: laddove invece le basiliche di Giulio, di Calisto e di Cajo ne portavano i Titoli unicamente perchè da loro erano state edificate. [296] Fra i Preti e i Diaconi, alcuni avevano onoranza speciale, e sopra tutti Lorenzo, Crisogono, Eusebio, Nicomede. Riguardo ai Senatori antichi, primeggia il Titolo di Pudente e di quel Pammachio che fu il primo monaco romano di illustre progenie. Più numerosa era la schiera dei Martiri dei quali più sopra abbiamo conosciuto i nomi ed ai quali, senza che appartenessero ad ordine sacerdotale, erano dedicati Titoli. E grande era il numero delle sante donne di Roma, fra le quali vanno illustri Agnese, Prassede, Sabina, Cecilia, Susanna, Anastasia, Prisca: e dai nomi delle pie matrone Lucina e Vestina s’intitolavano due chiese, quantunque elleno non avessero onore d’altari. Il grande numero di queste sante femmine ci fa accorti dell’amore che le donne di Roma nutrivano all’esaltazione della Chiesa: ed erano esse infatti che, come si ricava da una fugace osservazione di Ammiano, porgevano alle chiese la maggior copia dei donativi.
Quanto poi alla ripartizione territoriale delle chiese, troviamo che il maggior numero di parrocchie, cioè quattro, comprendevansi nel territorio Esquilino ch’era assai esteso e dove aveva stanza il popolo minuto. Ed erano: santa Prassede, santa Pudenziana, san Matteo e sant’Eusebio. Sul monte Viminale, là dove esso si congiunge al Quirinale, erano tre parrocchie: san Ciriaco, santa Susanna e san Vitale. Sulle Carine era il Titolo di sant’Equizio (e già sappiamo che ivi esisteva anche il san Pietro in Vincoli). Sul monte Celio erano san Clemente e san Pammachio. In via Lata: san Marcello e san Marco; al di sotto del Palatino: santa Anastasia; nel campo di Marte: le due chiese di san Lorenzo; in [297] via Appia: il Titulus Tigridae ed il Titulus Fasciolae; sul monte Aventino: le due chiese parrocchiali di san Sabino e di santa Prisca; e finalmente nella Regione del Transtevere erano le tre chiese parrocchiali di santa Maria conosciuta ancora quale Titulus Julii, di san Crisogono e di santa Cecilia.
Uno Scrittore ecclesiastico dei tempi posteriori volle, come dice egli stesso, restituire quei ventotto Titoli nell’ordine seguito nella serie del Sinodo di Simmaco e nel Libro Pontificale[239]. Ma egli ommise di citare il Titulus sancti Romani ed il Titulus Byzantis, ed accolse, a vece di quelli, il Titolo di Cajo e quello di Eudossia Augusta, ossia di san Pietro in Vincoli, quantunque di queste chiese, quali Titoli, non sia fatta menzione nè tra gli Atti del Concilio di Simmaco, nè in quelli di Gregorio Magno[240]. Nel Sinodo romano, che fu celebrato da Gregorio nell’anno 594, decimoterzo di regno dell’imperatore Maurizio, sono sottoscritti i parrochi delle chiese titolari che seguono:
1. San Silvestro, 2. san Vitale, 3. santi Giovanni e Paolo, 4. san Lorenzo, 5. santa Susanna, 6. san Marcello, 7. santi Giulio e Callisto, 8. san Marco, 9. santo Sisto, 10. santa Balbina, 11. santi Nereo ed Achilleo, 12. san Damaso, 13. santa Prisca, 14. santa Cecilia, 15. san Crisogono, [298] 16. santa Prassede, 17. santi Apostoli, 18. santa Sabina, 19. sant’Eusebio, 20. san Pudente, 21. santi Marcellino e Pietro, 22. san Quiriaco, 23. santi quattro Coronati[241].
Agli Atti del terzo Concilio romano celebrato dallo stesso Pontefice apposero la loro sottoscrizione soltanto i Parrochi di san Silvestro, di san Vitale, di san Clemente, di santa Prassede, dei santi Apostoli, di san Lorenzo, dei santi Giovanni e Paolo, di santa Susanna, di santo Marcello, dei santi Giulio e Calisto, di san Marco, di santo Sisto, di santa Balbina, dei santi Nereo ed Achilleo e di san Damaso.
E da questa serie di chiese si pare che ai tempi di Gregorio Magno non è fatta menzione di cinque delle chiese titolari che ai tempi di Simmaco pure esistevano, e sono: la basilica Aemiliana, la Crescentiana, le chiese di san Nicomede, di san Matteo e di santo Caio[242]. All’invece troviamo che ai tempi di Gregorio erano stati eretti i seguenti Titoli novelli: la chiesa di santa Balbina sul monte Aventino, la chiesa dei santi Marcellino e Pietro, [299] e il Titulus sanctorum Quatuor Coronatorum sul monte Celio[243].
I Titoli erano chiese privilegiate, edificate ad onoranza di Santi o di Martiri, che traevano loro nome da coloro ai quali erano dedicate oppure dai loro fondatori. Sembra che, primo, il vescovo Marcello, nell’anno 304, ne costituisse venticinque, allo scopo che in esse trovassero battesimo e asilo di penitenza i novelli convertiti al Cristianesimo ed affinchè in esse si tributasse culto e venerazione ai Martiri[244]. Esse corrispondevano alle Diocesi ossia alle Parrocchie, ed erano veramente chiese parrocchiali di Roma, quantunque i Cardinali stessi che vi avevano giurisdizione spirituale non possano considerarsi quali loro parrochi. Differenti dalle dieciotto Diaconie sorte più tardi, le quali provvedevano al sostentamento delle vedove, degli orfani e dei poverelli, e distinte dalle molte chiese minori (Oratoria, oracula), le chiese titolari soltanto avevano il diritto di amministrare i Sacramenti. Ristretto dapprima ad un solo prete, il numero dei presbiteri o parrochi andò successivamente aumentando, a due, a tre, a parecchi, [300] senza contare il clero di grado inferiore; ma il primo prete e tra tutti ragguardevole, era designato col Titolo di Cardinalis ossia di Prete-cardinale[245].
Secondo l’opinione degli scrittori ecclesiastici, il numero dei Cardinali preti della Chiesa romana, dopo di Giulio I, nell’anno 336, venne determinato a ventotto, nè per lungo ordine d’anni si oltrepassò[246]; ma [301] i loro Titoli subirono parecchie trasformazioni. Il numero di essi, così almeno si dice, doveva essere ripartito esattamente tra le quattro chiese patriarcali di san Pietro, di san Paolo, di san Lorenzo fuor delle mura e di santa Maria (Maggiore); ed in ognuna di queste chiese principali sette Cardinali preti dovevano celebrare la messa un giorno almeno d’ogni settimana; laddove alla chiesa madre della Cristianità, al san Giovanni in Laterano venivano in tempi posteriori aggregati sette Vescovi delle vicinanze di Roma (suburbicarii) quali Cardinali vescovi, ed erano i Vescovi di Ostia, di Porto, di Silva Candida o di santa Rufina, di Sabina, di Preneste, di Tusculo (Frascati) e di Albano[247]. Ma dopo il tempo di Onorio II, dopo l’anno 1125, quegli antichi Titoli decaddero, e si eressero altre chiese a Titoli novelli in numero di ventuno. Egli sembra tuttavia che non devasi rigettare l’opinione di coloro che affermano, che fino [302] dall’antichità, oltre ai Titoli maggiori, alcuni minori alle tombe dei Martiri si ergessero; e questo fatto può spiegare qual sia la causa della confusione che domina nella storia degli antichi Titoli cardinalizî[248].
Distinte da queste chiese parrocchiali, cinque basiliche, ch’erano entro e fuori della Città, godevano già fin da quel tempo dei primi onori quali chiese patriarcali; ed erano il san Giovanni in Laterano, il san Pietro, il san Paolo, il san Lorenzo fuor delle mura e la santa Maria (Maggiore). Esse non erano costituite a Titolo ossia non avevano un Cardinale a preposto; ma, senza avere una delimitazione particolare di diocesi, avevano a primicerio il Pontefice, ed a popolo soggetto la comunanza di tutti i fedeli. Ad esse nel secolo quarto s’aggiungeva la basilica di san Sebastiano, la quale, elevandosi in via Appia sopra le più illustri catacombe di Roma, ne godeva massima venerazione, e più tardi s’aggiungeva l’altra basilica di santa Croce in Gerusalemme. Sono queste le così dette «sette chiese di Roma», che durante tutto il medio evo ebbero venerazione dai pellegrini di tutto Occidente che vi si recavano a sciogliere loro voti[249].
[303]
I torbidi suscitatisi per la successione alla cattedra di san Pietro si erano già acchetati, e Simmaco era riverito quale pontefice, allorchè Teodorico veniva per la prima volta a Roma, affine di restituire a piena quiete la Città dopo tanta agitazione di lotta. Egli veniva, e già possedeva l’estimazione universale e la simpatia dei Romani, imperocchè la sua giustizia, la energia del suo animo, la sua pieghevolezza ad accogliere nel reggimento dello Stato le forme romane antiche di governo, gli avevano guadagnato l’affetto del popolo.
Il Re dei Goti e dei Romani non volse l’animo a distruggere alcuno degli ordinamenti esistenti nella così detta Republica romana; ma anzi volle allettare l’amor di nazione dei Romani col darvi un riconoscimento pomposo. Egli rese onore al Senato come a corpo politico [304] del regno, quantunque però nessuna influenza più esercitassero di fatto gl’illustri Padri nell’amministrazione politica. Il Senato era una università di cui formavano parte tutti gli alti officiali del regno; imperocchè quegli che occupasse le cariche somme dello Stato, avesse perciò tosto seggio in Senato. Nei negozî politici i Senatori fungevano l’officio di legati presso la corte di Costantinopoli; entro la Città avevano una certa giurisdizione negli affari criminali, avevano a sopravvedere a tutte le bisogne che si riferissero alla utilità publica, e finalmente esercitavano una parte importante nell’elezione del Papa. Fra le Epistole raccolte da Cassiodoro, leggonsi diecisette lettere di Teodorico indiritte ai Padri Coscritti con stile pomposo simile a quello degli Imperatori antichi: in quelle il Re esprime l’alta estimazione in che tiene la maestà del Senato e protesta essere suo intendimento di conservarne e di accrescerne l’onoranza[250]. L’assemblea dei Padri di Roma vi appare come la rovina più veneranda della Città, che la pietà di coloro che sono appellati Barbari s’industria di mantenere in vita colla stessa sollecitudine con cui dà opera alla conservazione del teatro di Pompeo oppure del Circo [305] massimo. Allorquando il Re voleva innalzare al consolato, al patriziato o ad altre cariche elevate, alle quali erano aggiunti larghi stipendi, uomini valenti suoi famigliari, oppure oriundi delle province, egli raccomandava quei candidati al Senato con somma urbanità, pregandolo di volere accoglierli quali colleghi nel suo seno. Gli officiali da lui eletti avevano nome di Magister Officiorum (direttore delle cancellerie regie), di conte della guardia del palazzo, di prefetto della Città, di questore, di conte del patrimonio (ossia dei beni privati della corona), di Magister Scrinii (direttore della cancelleria di Stato), di Comes Sacrarum Largitionum (ministro del tesoro). E dai titoli attribuiti a queste dignità e principalmente da quei due libri che ci tramandò Cassiodoro intorno alle forme usate nel dare l’investitura di quegli officî, si pare che Teodorico conservasse tutte le cariche e tutti i titoli, i quali, creati da Costantino, erano stati mantenuti in vigore dai succeditori di lui, ed anzi cercasse di rialzarli a lustro maggiore. Reputava Teodorico che la stabilità della dominazione di sè, straniero in Italia, fosse riposta nell’arte difficile di mascherare l’impero militare dei Goti sotto i titoli e sotto le vesti della Republica romana, e nella conservazione delle leggi antiche di Roma a beneficio dei Romani. Ma la condizione di quel popolo germanico ch’era condannato ad isolamento in mezzo al popolo d’Italia ed agl’istituti di Roma, doveva trascinarlo a rovina inevitabile, imperocchè affine di porre la costituzione dello Stato sopra salde fondamenta fosse impossibile ogni separazione: e nel tempo stesso l’inanità di quelle larve politiche, le quali, sorrette collo sforzo dell’arte, erano simili ai ruderi [306] dei monumenti dell’antichità, era esiziale anche al popolo di Roma, perchè rendeva impossibile ogni restaurazione del suo organamento civile e non giovava che alla potenza sempre crescente della Chiesa, la quale guadagnava del campo via via che lo Stato decadeva.
Teodorico veniva a Roma nell’anno 500. Il suo ingresso nella Città era simile al trionfo d’un Imperatore antico: ed ai Romani stessi sembrava che non uno straniero venisse tra loro, ma che un Trajano od un Valentiniano rivivesse. Fuor della Città (è incerto se presso il ponte dell’Anio, oppure appiè di monte Mario) usciva ad incontrarlo il Senato, il popolo ed il clero guidato dal Pontefice. Il Re, ariano di religione, entrava nella basilica di san Pietro, ed ivi «con divoto fervore e simile ad uno che professasse il Cattolicesimo» orava sulla tomba dell’Apostolo: indi con grande pompa entrava dal ponte di Adriano in città. A somma letizia erano commossi i Romani allo spettacolo di cui s’era da gran tempo perduta la ricordanza, di vedere cioè il loro Principe che entrava nella Curia ad arringarvi. Imperocchè Teodorico muovesse al novello palazzo del Senato, che era stato edificato dall’imperatore Domiziano a dritta dell’arco di Severo presso il tempio di Giano Gemino, ed ivi volgesse discorso al popolo. Il luogo donde egli pronunciò la sua orazione era conosciuto sotto il nome di Palma aurea oppure ad Palmam, e colà essere doveva una tribuna oppure un portico in prossimità del palazzo del Senato[251]. Quantunque Teodorico non [307] possedesse l’eloquenza di Cicerone, tuttavia egli parlò con breve ma energico discorso: disse che coll’aiuto di Dio egli manterrebbe in vigore ed in onoranza tutti gli ordinamenti ch’erano stati dati dai Principi che lo avevano preceduto, e che in fede di questa sua promessa egli farebbe scolpire in tavole di bronzo le sue parole.
In mezzo alla moltitudine plaudente di Romani degeneri, i quali appiedi del Campidoglio antico presso le statue dei loro grandi antenati prestavano orecchio ad un uomo di Gezia che dall’alto dei rostri pronunciava un’arringa politica, in mezzo a quella moltitudine dove andavano mescolate le toghe superbe dei cittadini ai capucci di molti monaci e di molti preti, trovavasi un cherico africano, Fulgenzio, il quale, fuggendo alle persecuzioni dei Vandali d’Africa, giungeva in quel momento di Sicilia a Roma. Lo antico Biografo di lui ci narra che nella Città tutta, e nel Senato congregato, e nel popolo s’era sparsa altissima gioja per la venuta dell’Imperatore. [308] Lo stesso animo dell’abate Fulgenzio, quantunque chiuso alle passioni terrene, ne era stato grandemente commosso: dopo di aver venerato con religioso fervore i sepolcri dei Martiri, e di aver prestato omaggio ai principi della Chiesa di Roma, aveva udito il discorso del gran Teodorico. Come poi (sono parole del Biografo) ebbe veduto i nobili sembianti e lo splendore altissimo ond’erano adorni i Padri della Curia romana, quando colle sue orecchie, cui nessun rumore profano aveva mai ferite, ebbe udite le grida di plauso d’un popolo libero, allora comprese chiaramente ciò che la pompa di questo mondo avesse di splendido. Il povero fuggiasco però sollevava tosto i suoi sguardi al cielo lungi dalla magnificenza della Città, e volgendo ansiosamente il pensiero alla bellezza degli eterni regni, di repente esclamava a meraviglia di alcuni cittadini che gli erano vicini: «Quanto bella deve essere la Gerusalemme celeste se questa Roma terrena di tanto splendore sia adorna!»[252] E questa ingenua espressione del commovimento d’animo d’un fraticello, il quale dall’Africa sua sventurata si trovava di repente balzato in mezzo a Roma festante, deve pur sempre dimostrarci quale sentimento invincibile di meraviglia altissima Roma ancora a quei tempi eccitar dovesse nell’animo di chi la mirava.
La collezione pregevolissima dei Rescritti di Teodorico, e dei quali fu Cassiodoro autore, ci fa conoscere le condizioni in cui Roma in quel tempo si trovava, e la sollecita cura che il Re prestava alla preservazione [309] dei monumenti della Città, a reggere la quale egli era ben più degno che non fossero stati molti Imperatori che lo avevano preceduto. Quegli Editti, con loro stile ampolloso, sono una mescolanza di gonfie locuzioni di stile officioso e di vuote leziosaggini pedantesche: e la ammirazione che in essi si esprime pei monumenti di Roma, la smania d’introdurvi dissertazioni erudite sull’origine, sullo scopo e sul modo con cui ognuno di quegli edificî era stato costruito, quasi a velare l’avvenimento della dominazione straniera che pesava su Roma, la ricordanza «dell’antichità» che spesse fiate si richiama, dimostrano che il tempo della barbarie era giunto[253].
Dopo di avere indagato con animo scevro da errori popolari la storia dei saccheggi onde Roma fino a questi [310] tempi fu desolata, non deve prenderci meraviglia, se troviamo che nell’anno 500 s’ergevano ancora in piedi quegli illustri edificî della Città antica, che alta ammirazione avevano già destata in Onorio nell’anno 403. Le statue di marmo e di bronzo erano ancora in copia sì grande ad ornamento delle piazze publiche, che ne siamo indotti a grave stupore. Ed infatti Cassiodoro parla di una popolazione numerosissima di statue e di greggi copiose di cavalli, ossia di statue equestri di bronzo[254], e descrive con ammirazione quasi infantile la bellezza espressiva e la vita ond’erano animate quelle figure umane, e l’atteggiamento dei cavalli di bronzo che sembravano agitarsi di loro natura focosa e di loro forza[255]. Nè l’odio dei Cristiani, nè le depredazioni di Costantino il Grande, nè i saccheggi dei Visigoti, dei Vandali e delle soldatesche di Ricimero, avevano avuto potenza di esaurire l’immenso tesoro di capolavori dell’arte romana. Se anche il numero delle statue non sia più stato allora in Roma sì grande da eguagliare quello degli uomini che vi avevano stanza[256], tuttavia ne esistevano ancora in copia sì grande, da potersi dir quasi innumerevoli. A guardia dei monumenti, era costituita una magistratura appellata Comitiva Romana o carica di conte romano, che stava sotto il governo del prefetto della Città. Imperocchè Teodorico e il suo ministro trovassero necessario, [311] che alla conservazione dello splendore artistico di Roma, poichè non vi provvedeva più in quel tempo degenere il sentimento del bello, desse opera una coorte di guardia cittadina. Era suo cómpito di scorrere di notte tempo le vie per impedire i ladronecci di opere artistiche e per coglierne i predoni, i quali, non più come ai tempi di Verre, davano caccia ai monumenti allettati al pregio del lavoro, ma bensì al valore del metallo. E si aveva fidanza che le statue di bronzo tradissero la mala opera del ladro, risuonando sotto l’istromento con cui cercavasi di svellerle. «Imperocchè le statue non sieno affatto mute, chiamando a soccorso la guardia con loro sonito sonoro allorchè sieno percosse dalla mano del predone»[257].
Teodorico imprese a proteggere il popolo di bronzo e di marmo, che senza difesa era esposto agl’insulti del volgo: nè soltanto a Roma ma altresì estendeva la sua cura alle province, come dimostra il suo Editto promulgato in occasione del ladroneccio di una statua di bronzo ch’era stato commesso in Como e per il quale prometteva un premio di cento monete d’oro all’inventore della statua ed al delatore del colpevole[258]. Ma l’indole dei [312] Romani era sì imbarbarita, che gli Editti del Re goto non furono potenti a raffrenarne l’avidità. Egli si duole continuamente dell’oltraggio ch’eglino recavano alla memoria dei loro avi, distruggendone le sublimi creazioni: ed i Romani erano immersi in tanta miseria ed in corruttela sì grande, che se non era dato loro di poter rapire intere le statue di bronzo, le mettevano in pezzi per rapirne frammenti, e dalle commettiture dei quadri di marmo dei teatri e delle terme svellevano gli arpioni di metallo. Ed i tardi nepoti di quei predoni, osservando verso la fine del medio evo con isdegnosa meraviglia i vacui che ne apparivano nelle rovine, con ignoranza temeraria ne mossero accusa contro quei Goti medesimi, che con tanto amore avevano dato opera a conservare lo splendore di loro Città.
Da più che cento passi dei Rescritti del Re goto si pare l’ardenza dell’amore suo per Roma, e la onoranza ch’ei tributava alla Città «verso la quale niuno può nutrire mai nell’animo sensi d’indifferenza, imperocchè a null’uomo essa sia straniera; essa, madre di eloquenza, tempio immenso in cui tutte le virtù s’accolgono[259], in cui i miracoli illustri dell’orbe si comprendono, di maniera che con verità possa dirsi, tutta Roma essere un miracolo»[260]. A conservare le opere sontuose dei Romani e ad accrescervi splendore con edificî novelli degni di aggiungersi agli antichi, Teodorico volgeva il suo animo, quantunque egli non deliberasse di porre stabile sede nella Città. Egli eleggeva un architetto della [313] Città[261], il quale, sotto il governo del Praefectus Urbis, doveva dare opera alla preservazione dei monumenti antichi: e dava comando severo che nella costruzione di novelli edificî con attento studio si imitasse lo stile dell’antichità e che dagli antichi esemplari barbaramente non si deviasse. E, ad esempio degli antichi Imperatori, egli costituì sopra il suo patrimonio privato un reddito annuo per la restaurazione dei monumenti: per i lavori della ricostruzione delle mura della Città, statuì che le fabbriche erariali fornissero 25000 mattoni ad ogni anno, e per sopperire alle spese di quest’opera vi assegnò le rendite ricavate dalle dogane dei porti di Lucrinia: e con somma severità invigilò che la moneta destinata fosse effettivamente spesa secondo lo scopo prescritto. Un offiziale aveva carico speciale di fare le provvisioni di calce necessarie ai lavori di muratura; e nel tempo medesimo in cui era punito colui che spezzasse i marmi dei monumenti per trarne calce per lavori di utilità privata, si permetteva che nei lavori publici si usasse a tal uopo di quei massi di marmo, che giacevano infranti ed erano rovine senza pregio[262].
[314]
Non minore sollecitudine volse Teodorico alla conservazione delle cloache di Roma, di quegli antichi canali sotterranei di mirabile costruzione, i quali «quasi fossero racchiusi entro caverne montane, scorrono attraverso di stagni smisurati: per essi», sclama il ministro di Teodorico, «soltanto per essi, o Roma, cui nessun’altra città può eguagliare, è facile conoscere quale sia la grandezza tua. Imperocchè, quale città può mai giungere alla tua altezza, se neppure la profondità dei tuoi sotterranei abbia l’eguale?»[263]
Agli acquedotti giganteschi faceva d’uopo di cure per la loro conservazione futura, piuttosto che di sterile ammirazione per la loro grandezza antica. L’età e l’incuria avevano fatto sì che lungo queste vie murate, per le quali scorrevano le chiare e fresche acque, germogliassero cespugli e fratte, e qua e colà sopra le arcate s’alzassero adulte piante di corbezzole, di lauri, di pini, e che fra i crepacci delle muraglie serpeggiasse l’edera a portarvi rovina sempre maggiore. Ma i quattordici acquedotti scorrendo lungo la deserta Campania fornivano [315] ancora di acque le terme e le fontane della Città. E Cassiodoro colla sua magniloquenza ne dà la descrizione seguente:
«Gli acquedotti di Roma», dic’egli, «c’inducono ad alta ammirazione sì per la costruzione grandiosa che per la bontà delle acque che scorrono in essi. Sembra che sieno fiumi che si riversino fra montagne alzate dall’arte, e saremmo indotti a credere che quei canali di pietra fossero alvei naturali di fiume, tant’è la validità loro a sostenere la violenza del corso delle acque dopo il corso di tanti secoli. Le petraje delle montagne precipitano, gli alvei dei fiumi col tempo si logorano; eppure queste opere degli antichi stanno inconcusse per poca cura che vi si presti. Si pensi allo splendore che reca alla città di Roma la copia delle acque: ed infatti di quale bellezza sarebbero adorne le terme senza la benedizione delle acque? In grazia degli acquedotti ci deliziamo delle linfe purissime dell’Aqua Virgo, la cui mondezza le merita bene un tal nome. Imperocchè, laddove gli altri acquedotti per violenza di pioggia sieno intorbidati da arene che traggono nel loro corso, sembri che essa colla tersa sua onda mentisca, facendoci credere a continua serenità di cielo non turbata mai da nembi. E chi può dare una sufficiente esplicazione del modo con cui l’Aqua Claudia per mezzo del suo immenso acquedotto sia tratta alla cima del monte Aventino, in maniera che precipitando dall’alto, ne irrighi il vertice elevato quasi fosse valle profonda?»[264] E Cassiodoro ne tragge ardita conclusione che l’acquedotto claudiano [316] di Roma superi le meraviglie del Nilo d’Egitto. Ancora ai tempi di Teodorico la sopraintendenza degli acquedotti era affidata ad un officiale che aveva titolo di Comes Formarum urbis, ossia di conte degli acquedotti della Città, il quale teneva un corpo numeroso d’ispettori e di guardiani sotto il suo reggimento[265].
Ma or parecchi edifizî cominciavano a crollare, soggiacendo alla pressione della loro stessa pesantezza. E fra essi è fatta espressa menzione del teatro di Pompeo, di quell’edifizio illustre e bello che a cagione della sua grandezza era stato da gran tempo appellato semplicemente Theatrum oppure Theatrum Romanum. Teodorico diè incarico della restaurazione di quell’edificio al patrizio Simmaco, il quale era uno dei più illustri Senatori ed aveva eretto nei sobborghi alcuni edificî novelli splendidissimi che gli avevano meritato la buona grazia del Re. E ad occasione della rovina di quel teatro, Cassiodoro sclama: «Qual cosa v’ha mai che tu non valga a distruggere, o vecchiezza, se tu abbia potuto rendere crollante un edificio sì saldo!»[266] Egli sembrava, dice egli fra’ sospiri, che fosse stato più facile che montagne precipitassero, prima che cadesse questo ammasso di marmi; imperocchè quel colosso fosse di marmi sì carico, che, senza badare all’opera dell’arte, avesse sembianza di una catena di rocce naturali. Cassiodoro celebra le arcuate gallerie, che riuscendo le une nelle altre per mezzo di aperture quasi invisibili, avevano aspetto di [317] grotte di montagne: egli parla dell’origine del teatro, e prende argomento a discorrere degli spettacoli drammatici come farebbe un Archeologo odierno: e dopo di avere nel fervore del suo amore per l’antichità esclamato, che la costruzione di quel teatro a maggior ragione che le geste valorose abbiano meritato a Pompeo il nome di grande, egli, per volere di Teodorico, dà carico al nobile Simmaco di sostenere con impalcature le vôlte crollanti del teatro, e di operarvi ogni restauro necessario, ammonendolo che la moneta occorrente ai lavori gli sarebbe pôrta dal Cubiculum regale.
Poche notizie ci offre Cassiodoro intorno alla condizione in cui si trovavano al suo tempo altri monumenti di Roma antica: solo di alcuni pochi ci viene fatto di trovare menzione nei Rescritti, e così una volta del palazzo dei Pinci, il quale dev’essere stato in preda di gravi danneggiamenti, perocchè Teodorico comandasse che si traessero a Ravenna marmi e colonne tolti da esso[267]. Tuttavia vedremo più tardi che Belisario ivi poneva sua dimora. Nel palazzo dei Cesari, già saccheggiato dai Vandali, aveva invece posto residenza Teodorico; ma pure dobbiamo riconoscere che la magione dei Cesari di ampiezza smisurata, e già da molto tempo deserta in gran parte, cominciasse a volgere a grave decadimento per effetto della sua stessa grandezza. Per le spese necessarie alla restaurazione del palazzo ed alla ricostruzione delle mura, Teodorico tribuiva un annuo reddito di duecento libbre d’oro che si ricavava dalla [318] imposta di dazio del vino. In quel tempo ancora il foro di Trajano s’ergeva magnifico fra tutti i monumenti di Roma, e laddove gli altri edificî poco a poco andavano decadendo, esso s’alzava ancora nel medio evo nel suo splendore antico. «Nel foro di Trajano», esclama Cassiodoro, «si mira il miracolo dell’arte per quanto tempo uomo s’arresti a contemplarlo, e chi salga all’elevato Campidoglio, vede un’opera che trascende la potenza del genio umano»[268]. Egli tace però del tempio deserto di Giove capitolino, il cui tetto avevano distrutto i Vandali per desio di rapina, e in cui attraverso le travi scoperchiate penetravano i raggi del sole a illuminarne le squallide mura.
Alta ammirazione destavano in Cassiodoro l’anfiteatro di Tito ed il Circo massimo e gli porgevano tema fecondo alle sue dissertazioni erudite. In questi splendidi edificî destinati ai giuochi tanto cari ai Romani, il popolo continuava a raccogliersi, ancora ai tempi della dominazione dei Goti, per godervi dello spettacolo della lotta, delle cacce di belve, delle corse di carri. L’arte drammatica dei Romani, la quale anche nel tempo splendido di loro vita politica era stata impotente ad elevarsi alla [319] nobiltà sublime dell’arte greca, in questo tempo di decadimento non offriva che componimenti triviali misti di oscenità e di pasquinate scipite. Gl’istrioni o comici, tra i quali contavansi anche cocchieri del circo[269], allettavano i gusti brutali del popolo con loro scherzi scurrili. Nell’Odeum di Domiziano, che conteneva più che diecimila seggi, e, forse ancora, nei teatri di Balbo, di Marcello e di Pompeo, offrivano pascolo al senso corrotto dei Romani le note dei cantori e dei suonatori d’organo e lo spettacolo delle danzatrici: i turpi lazzi della comedia allettavano le passioni prave del popolo; ed i balli pantomimi accompagnati da canzoni libertine e da gesti inverecondi rappresentavano argomenti nei quali erano messe in mostra le turpitudini più sconce. I lamenti e le accuse che Salviano scaglia contro simiglianti spettacoli che erano in voga in ogni città, non sono punto esagerate. «Nei teatri», dic’egli, «si rappresentano spettacoli sì abbominevoli, che il pudore non permette di citarne nemmeno il nome: e, tacendone, diciamo soltanto che l’anima è bruttata dalle attrattive della voluttà, e che l’occhio dalle turpitudini che vede, l’orecchio dalle oscenità che ode nel tempo istesso ricevono macchia; nè basta la parola a esprimere l’infamia di quegli spettacoli, i vergognosi atteggiamenti ed i laidi gesti»[270]. [320] Dobbiamo credere che fossero scene somiglianti a quelle che presentava il vituperevole giuoco che aveva nome Majuma. Lunga lotta avevano dovuto sostenere i Vescovi di Roma per ottenere l’abolizione delle feste lupercali meritevoli di riso; eppure la loro influenza, ch’era ancor grande sul publico costume dei Romani, era impotente a cacciare in bando questi giuochi abbominevoli, contro i quali, i Padri della Chiesa, già da trecent’anni, ivano alzando la voce, affermando ch’essi fossero un trovato del demonio. E Teodorico stesso deplorava che gli spettacoli mimici fossero decaduti in modo che la eleganza squisita, onde gli antichi avevano adorni i loro sollazzi, fosse dai depravati nepoti tramutata in sozzo compiacimento del vizio, e che il sollievo dell’animo stanco fosse stato trasformato in eccitamento a voluttà sensuali[271]. Ma il popolo di Roma non poteva vivere senza giuochi; l’ultima sua passione erano i piaceri; voleva morire col riso sulle labbra: e in Cassiodoro, fra le forme d’investitura dei magistrati, ne troviamo anche una destinata al Tribunus Voluptatum, che era ispettore dei sollazzi publici di Roma e che doveva invigilare [321] ai giuochi, sedere giudice degl’istrioni e vegliare alla polizia del costume di quella gente[272].
Quantunque Teodorico fosse mosso a sdegno contro le turpitudini di quei sollazzi, era pur costretto a tollerarli, imperocchè i Romani avrebbero rinunciato all’ultimo avanzo di loro independenza nazionale piuttosto che al piacere. In ogni avvenimento di solennità, allo ingredire in carica del Console e di altri officiali ragguardevoli dello Stato, tenevansi sempre giuochi publici; ed i pochi Istorici vissuti in quell’età non ommettono mai di celebrare, quali avvenimenti importanti, gli spettacoli che Teodorico, nel tempo in cui trovavasi a Roma, dava al popolo nell’anfiteatro e nel circo. Imperocchè in questo tempo si faccia menzione di questi due soli recinti che fossero ancora in uso, laddove invece si taccia affatto del circo Flaminio e di quello di Massenzio.
L’anfiteatro di Tito in quel tempo sorgeva ancora splendidissimo; ma l’impoverimento dell’erario regio, il decadimento della ricchezza dei Grandi e finalmente il sentimento morale che s’era diffuso in quel tempo per opera del Cristianesimo, impedivano che si rimettessero [322] in voga i giuochi di Roma antica nella loro grandezza imponenti, ma per loro cruento spettacolo ributtanti. Le pugne di gladiatori non insanguinavano più l’arena, chè altrimenti Cassiodoro senza dubbio ne avrebbe fatto menzione in quel suo Rescritto memorando, in cui parla diffusamente degli spettacoli che celebravansi nell’anfiteatro[273]. Sennonchè, il desiderio pravo di spettacoli di sangue, che agitava i Romani, era reso pago alla grata visione di uomini che si vendevano turpemente per lasciarsi dilaniare le membra innanzi agli occhi del popolo. Erano costoro i Venatores o cacciatori di belve, che, succedendo ai lottatori, combattevano nell’arena. Talvolta quei giuochi di belve erano tenuti con tali apparati di pompa da gareggiare con quelli dei tempi antichi. Così nell’anno 519, Eutarico, genero di Teodorico, entrato con grande festa in Roma, vi celebrò la sua elezione al consolato con ricche largizioni di denaro e con giuochi dati nell’anfiteatro, pei quali s’erano fatti venire dall’Africa animali feroci, le cui forme strane, dice Cassiodoro nella sua Cronica, svegliavano somma meraviglia negli spettatori. E Cassiodoro descrive le svariate arti dei cacciatori che mostrarono tale prodezza quale da antichi tempi non s’era veduta: e narra dell’Arenarius, il quale con una picca di legno si slancia contro orsi e contro leoni che inferociscono entro l’arena, e lo mostra in atto di muovere contro le belve [323] strisciando sulle ginocchia e sul ventre, oppure librantesi contro di esse da una macchina rotonda di legno, oppure finalmente allorchè, chiuso entro una specie di sottile e flessibile corazza di giunco, si presenta contro di esse simile ad istrice. A quelle descrizioni Cassiodoro fa seguire alcune parole di lamento umanissimo sul destino di quegli uomini, parole che in bocca di un ministro antico dell’Impero romano sarebbero riuscite ridicole e incomprese. «Se i lottatori dal corpo sparso di olio», dic’egli, «se i suonatori d’organo oppure le cantatrici, hanno qualche diritto alla liberalità dei Consoli, a quanto maggior merito non deve pretendervi il cacciatore che mette a triste giuoco la sua vita per ottenere applauso dagli spettatori! Egli alimenta il sollazzo popolare col suo sangue e tende a spassare col suo miserando destino gli spettatori, i quali desiderano ch’egli non isfugga a morte. È pure orribile quello spettacolo, e abbominevole quella pugna, in cui egli lotta contro animali feroci, che colla sua forza indarno egli spera di soggiogare!» E verso la fine Cassiodoro esclama: «Ahi deplorevole errore degli uomini! se un lieve lume splendesse di ciò che comandi giustizia, di tanta ricchezza si userebbe nel rendere migliore la vita degli uomini, piuttosto che gettarla a comprarne la morte!» Generosi pensamenti, i quali oggidì ancora, come altra fiata a Cassiodoro, devono occorrere alla mente di ogni ministro di quegli Imperî che hanno fondamento nella forza dell’arme[274].
[324]
Meno odiosi all’animo mite di Teodorico erano i belli e splendidi giuochi circensi d’antichissima origine, i quali però davano occasione a lotte sanguinose che combattevansi con acerbità forsennata tra le fazioni in cui dividevasi il popolo. Il Circo romano era opera di parecchi secoli: Trajano, dopo l’incendio avvenuto ai tempi di Nerone, lo aveva compiuto; Costantino lo aveva reso splendido del suo ultimo adornamento, di quel grande obelisco egiziano il quale superava di quaranta palmi l’altezza di quello che Augusto aveva eretto in vicinanza. Il viaggiatore che mira quei due miracoli d’arte, ammutisce per lo stupore: ma sorte volle che i due obelischi, i quali ergevansi un tempo l’uno accosto dell’altro sulla spina del Circo, sieno stati poi divisi di grande spazio; imperocchè l’uno si elevi oggidì in piazza del Laterano e l’altro nella piazza del popolo. Viva sollecitudine commuove l’animo nostro, allorchè udiamo per l’ultima volta celebrare da Cassiodoro con adorno eloquio e con discorso allegorico[275] lo splendore e la magnificenza di quel monumento della grandezza romana. Il popolo stremato di Roma non bastava più a riempiere tutti gli stalli che in quegli immensi ripiani elittici salivano al numero di 150,000 od anche di 200,000, di maniera che gli spettatori avranno avuto agio di sdrajarsi con comodità. Forse anche parecchi seggi di marmo saranno caduti in rovina, alcune parti del Portico saranno state [325] malconce, le botteghe e le vôlte esterne al Circo, nelle quali tenevasi mercato, saranno state già abbandonate, molte di quelle statue che Settimio Severo vi aveva collocate saranno state forse rubate dai Vandali, altre, rimaste nelle loro nicchie, saranno state deformi per mutilazioni. Il tempo già cominciava sua opera di disfacimento nel Circo; e su questo edificio gigantesco, che aveva prestato il suo officio per lo spazio di parecchi secoli, in quel tempo saranno stati impressi nel colore e nell’aspetto esterno gl’indicî della vecchiezza, a somiglianza del vicino palazzo imperiale che ne era diviso per mezzo d’una sola via. Tuttavia il Circo era ancora adoperato nei giuochi: vi s’ingrediva ancora per le sue dodici porte; esisteva ancora la sua spina adorna dei due obelischi; ancora s’alzavano le sette piramidi, sulle quali, finita la corsa, si mettevano le uova; erano ancora l’Euripus o canale che scorreva tutto intorno dell’arena, e la Mappa ossia bandiera, al cui segnale i cavallerizzi detti desultores o equi desultatorii si scagliavano rapidi ad annunciare l’incominciamento delle corse. Cassiodoro parla di tutto ciò che facesse duopo alla perfezione del Circo ed ai giuochi. Quella pompa solenne, con cui anticamente muovevasi dal Campidoglio al Circo traendo processionalmente i simulacri degli Dei e le vittime destinate al sacrificio, era scomparsa; ed il popolo rendevasi pago a sollazzi ornati di splendore assai minore. Ma i Consoli continuavano ad assistere ai giuochi ed a tenerli sotto il loro reggimento, ed infatti ci sono conservati alcuni distici di un Console nei quali egli celebra i giuochi da lui diretti[276].
[326]
Sembra che alcuna volta venissero di Costantinopoli alcuni dei più valorosi cocchieri di quell’ippodromo per dare alcune corse nel Circo, oppure che fuggissero a Roma cacciati dalla rabbia delle fazioni. Infatti in un Rescritto di Cassiodoro che tratta dei giuochi circensi, è fatto cenno del cocchiere Tomaso, cui era assegnata una moneta mensile, imperocchè, dice gravemente il Ministro, egli nell’arte sua sia facilmente principe, ed abbia abbandonata la patria per ornare di sè la capitale dello Impero occidentale[277]. Anche in Roma, a somiglianza di Bisanzio, i giuochi del Circo davano occasione alla esistenza di partiti che si combattevano acremente, ed erano le fazioni dei Prasini ossia Verdi e dei Veneti ossia Azzurri. Al segno del colore distinguevansi le fazioni, quantunque i colori usati nel Circo fossero in origine quattro, che Cassiodoro afferma avere simboleggiato le stagioni dell’anno: i Prasini rappresentavano la primavera ridente di verzura, i Veneti l’inverno dal cielo triste di nubi, i Rossi l’estate dal sole infocato, i Bianchi [327] l’autunno beato della vendemmia. Dopochè alcuni Imperatori di Roma s’ebbero degradato a scendere nella arena guidando un cocchio, ed a prendere parte pei Verdi o per gli Azzurri, il Circo fu cagione di una costante divisione di partiti. Ed il popolo, perduta ogni partecipazione alla vita publica, ne cercava un compenso in quelle fazioni, fra il tumulto delle quali esso trovava occasione talvolta di porre in aperto le sue idee politiche. Quantunque in Roma non si combattessero i partiti del Circo con rabbia sì grande quale agitava le fazioni di Bisanzio, dove, nell’anno 501, in una mischia avvenuta nell’ippodromo tra Azzurri e Verdi caddero morti sulla arena più che tremila uomini, tuttavia anche Roma non mancava di essere funestata da avvenimenti sanguinosi. «Ella è pur cosa che eccita stupore», esclama Cassiodoro, «vedere il furore e la rabbia onde sono agitati gli animi per questi giuochi più che per qualunque altro spettacolo. Vince uno dei Verdi e una parte del popolo ne geme; ottiene il premio un Azzurro e tosto ne mette lutto la maggior parte della Città: se nulla guadagnano, crescono nei loro insulti, se nulla perdono ne sentono profonda umiliazione; e di tal maniera quelle lotte agitantisi sopra oggetti sì frivoli gli occupano in guisa come ne dipendesse la salvezza della patria in periglio».
Nell’anno 509 le fazioni vennero a mischia nel Circo: due senatori, Importuno e Teodorico, partigiani degli Azzurri, passarono tra le file dei Verdi, e ne nacque grave tumulto in cui un uomo fu ucciso. «In Bisanzio, il popolo dei Prasini» (così dice con energica espressione il Rescritto) «mosso dall’impeto proprio alla nazione, avrebbe tosto appiccato fuoco alla città, e ne avrebbe insanguinate [328] le vie; ma nella mite Roma invece, appellando ad ajuto la calma della ragione, ricorse al magistrato». Teodorico ordinò che i due patrizî si presentassero innanzi al tribunale ordinario, promulgò una legge severa che prevenisse ogni lesione che i Senatori potessero recare a danno di un uomo libero e che uomini di ceto inferiore potessero esercitare contro di un Senatore, e cercò finalmente di guarentire in qualche modo la sicurezza dei cocchieri che appartenevano al partito men forte[278]. E nel tempo stesso ammonì i Senatori, che con orgoglio aristocratico s’erano offesi delle beffe del popolo, a non voler dimenticare in quale luogo eglino si fossero, «imperocchè nel Circo non possano trovarsi Catoni»[279]. E protestava Teodorico che nel fondo del cuor suo sprezzava uno spettacolo che, ponendo in bando ogni sentimento grave dell’animo, eccitava stupide dispute, bruttava il decoro cittadino, tramutava una costumanza veneranda della antichità in uno spettacolo grottesco; e affermava che manteneva l’usanza dei giuochi circensi soltanto perchè non poteva resistere alla tendenza puerile del popolo e perchè soventi volte la prudenza insegna a farla da pazzi[280].
Di tal maniera quel Re generoso dava opera alla conservazione dei monumenti di Roma e delle costumanze popolari: di tal guisa erano le idee che informavano [329] il reggimento di lui, e che, degne dei secoli più civili e precorrenti il tempo in cui viveva, onorano altamente e di pari maniera il Re che poneva sua fede nel Ministro, ed il Ministro che giovava al Principe, colla mente consigliandone l’opera e coll’ingegno provvedendone all’adempimento.
Con sollecitudine non minore Teodorico provvide anche alla prosperità del popolo per quanto il permettevano i redditi esigui. Imperocchè noi vogliamo guardarci dal concorrere nell’opinione di coloro i quali con lode esagerata affermano che durante il regno di Teodorico tornasse assolutamente l’età dell’oro. La Città era sfinita di forze e le piaghe erano molte. Le largizioni di olio e di grasce furono ripristinate, e gli officiali publici distribuivano ogni anno alla plebe affamata della Città 120,000 moggia di grano (eppure erano insufficienti al bisogno), che raccoglievasi dalle campagne delle Calabrie e delle Puglie[281]. I poveri (se si creda a Procopio che ne parla espressamente) ricevevano dagli ospitali di san Pietro un’annua largizione particolare di 3000 medimni di grano[282]. L’officio di prefetto dell’annona, che provvedere [330] doveva alle publiche necessità, era rialzato ad onore; ed almeno il ministro di Teodorico allettava l’orgoglio di coloro ch’erano deputati a quell’officio, volgendo la loro ricordanza al grande Pompeo che era stato loro predecessore in quella carica, e magnificando l’onore che loro competeva di usare del cocchio del prefetto della Città, e di sedere nel Circo presso al seggio di lui alla vista del popolo tutto. Ma a quelle formule usate nelle investiture deesi prestare poca fede, imperocchè Boezio dica: «il carico di colui che anticamente provvedeva alla necessità del popolo era altamente riverito; ma oggidì che havvi mai di più disprezzabile che quest’officio di prefetto dell’annona?» E poco prima aveva osservato: «Il prefetto della Città era anticamente assai potente, ma al dì d’oggi quella magistratura non è che nome vuoto ed un carico pesante del censo senatorio»[283]. Si volgevano grandi cure acciocchè fossero sempre forniti i granai del monte Aventino ed i mercati di majali (forum suarium) posti nella Regione detta Via Lata, e vi era preposto fin dai tempi antichi un Tribuno. Il pane era di ottima qualità e di buon peso, ed il prezzo era assai mite, perocchè al tempo di Teodorico sessanta moggia di frumento costassero un solidus e con altrettanta moneta si comperassero trenta anfore di vino[284]. [331] «Crescono», dice Ermodio nel suo Panegirico indiritto al Re, «crescono le ricchezze publiche fra i guadagni delle persone private; e, poichè la corte regale non è mossa da avidità, le sorgenti di prosperità si diffondono dappertutto». Quantunque questa lode contenga grandi esagerazioni, a meno che gli officiali della corte non fossero dotati della eccellenza degli angeli o che i Goti sieno stati affatto scevri di avidità di lucro, Roma tuttavia rialzandosi dalle gravi sventure in cui era caduta rivedeva un’età di floridezza e di quiete. I Senatori si deliziavano novellamente, come già ai tempi di Augusto e di Tito, nelle loro ville situate sul golfo di Baja, o sui monti Sabini, o nelle terre di Lucania, o sulle coste del mare Adriatico[285]: ed il popolo stremato di numero ma non più angosciato di paura di devastazioni barbariche, nutrito a spese publiche, sollazzato coi giuochi, protetto dalle leggi romane, godente di una certa independenza nazionale, poteva tollerare che l’antica e sventurata Roma ricevesse per l’ultima volta il titolo di Felix[286].
[332]
Se questa condizione di pacifica prosperità (nè v’ha scrittore antico latino o greco, d’animo favorevole oppure ostile, che non l’abbia celebrata come opera mirabile di Teodorico), se questa pace della Città fu turbata, non ne fu già causa il governo del Principe illustre, ma sì il fanatismo ecclesiastico. La Chiesa di Roma, alla stessa guisa del Circo massimo, era scissa in fazioni. Teodorico, quantunque fosse ariano di religione, fino agli ultimi tempi del suo reggimento si mostrò benevolo verso la Chiesa e la tenne in onoranza: e neppure l’odio dei partiti osò di accusarlo di aver costretto un solo Cattolico all’apostasia o di aver mosso persecuzione ad un solo Vescovo. Allorchè entrò in Roma, orò presso la tomba dell’Apostolo «come avesse professato il Cattolicesimo»: e, fra i Principi di quel tempo che fecero donativi al san Pietro, troviamo ch’egli vi offerse due candelabri d’argento del peso di settanta libbre. Essendo state trovate nella chiesa di santa Martina posta sul foro ed anche sui tetti degli edificî annessi al san Pietro alcune pietre che recavano l’iscrizione: «Regnante Theodorico Domino Nostro. Felix Roma» si accolse l’opinione che il Re abbia dato opera alla costruzione del tetto di quelle chiese: ma ella è un errore, e noi riputiamo a più [333] forte ragione, che quelle pietre vi sieno state usate in tempi posteriori, tolte a qualche altro edificio, oppure che quei mattoni sieno usciti da qualche fabbrica di proprietà publica. Ed infatti la chiesa di santa Martina ai tempi di Teodorico non era ancora edificata[287]. La tolleranza del Re di vero precorreva al suo secolo, e nel suo consigliere Cassiodoro si ammirano idee pressochè eguali a quelle che animerebbero un ministro di tempi assai più tardi nei quali domini la dottrina dell’umanismo filosofico. Ed egli provvide a scemare quel disprezzo ereditato dagli avi, che i Romani, fossero pagani oppure cristiani, nutrivano contro gl’Israeliti; e nei suoi Editti, benchè non vada immune da qualche pregiudizio, che è però racchiuso sempre entro confini di moderazione, il Re parla con una specie di compassione della Religione di Mosè[288].
Gl’Israeliti che avevano posto stanza in Italia fino dai tempi del gran Pompeo, vi avevano sinagoghe in Genova, in Napoli, in Milano, in Ravenna, e, anteriormente [334] ad ogni altra città ebbero sinagoga in Roma. L’avidità di lucro che gli spingeva ad esercitare basse usure, e che ne acuiva l’ingegno a destrezza nei traffichi, procacciava loro immense ricchezze ed insieme odio ardente: e l’abborrimento dei Romani contro questo popolo singolare, il quale sopravviveva alle ruine di tutti gl’Imperi della terra quasi che fosse fornito di vitalità indestruttibile, era antico; chè già ne troviamo vestigi nei poeti e nei prosatori che vissero dopo di Augusto. E Rutilio, in quell’inno ch’egli poetava partendo di Roma, mosso da idea tutto pagana (ed è l’ultima volta che comparisce) volgeva amare parole contro di loro, lamentando che Pompeo avesse soggiogato la Giudea e che Tito avesse distrutto Gerusalemme, imperocchè da quel tempo in poi si sia diffusa nel mondo la peste del popolo ebreo, che dopo di essere stato soggiogato vinse i suoi vincitori[289].
[335]
La sinagoga antichissima di Roma era situata nel quartiere degl’Israeliti ch’era divenuto assai popoloso posteriormente al tempo di Augusto, nel misero Transtevere, dove gli Israeliti all’età di Marziale e di Stazio correvano le vie con loro botteghe ambulanti di zolfanelli e strillando annunciavano la vendita delle loro bagatelle, come oggidì vanno gridando stracci ferracci! Durante tutto il Medio Evo dimorarono colà, ed i Transteverini seppero mostrare a chi scrive questa Cronica, nel piccolo Vicolo delle palme, il luogo ove la sinagoga antichissima dev’essersi alzata. Non è probabile che il quartiere ove eglino abitavano si stendesse di qui fino alla Regione Vaticana, quantunque il nome che il ponte di Adriano portava durante il Medio Evo sembri confermarlo; imperocchè il Pons Aelius nel secolo decimoterzo sia dai Mirabilia appellato Pons Judaeorum. Noi reputiamo piuttosto che quel ponte ne ricevesse nome perchè gli Ebrei di Roma solevano uscire col Pentateuco ed attendere ivi il Papa novellamente eletto affine di rendergli omaggio, allorchè, passando dal ponte di Adriano, egli si recava in processione solenne a prender possesso della basilica Lateranense[290]. Nella loro sinagoga, che fu edificata ad [336] opera di schiavi ebrei resi liberi dopo il tempo di Pompeo e che avevano nome di libertini, i figli d’Israello, a triste monumento di loro venerazione antica, avevano voluto restaurare l’imagine del tempio di Salomone che Tito aveva distrutto: e qui si radunavano nei giorni di sabbato e nelle loro festività al lume di un doppiere dalle sette braccia foggiato ad imitazione dell’antico grande candelabro, nel tempo stesso che questo, insieme agli arredi sacri d’Israello, era custodito nel tempio della Pace, e verso del quale, come a reliquia sacra onde erano stati rapiti, volgevano con cordoglio il loro pensiero. Quel loro oratorio era di trecent’anni più antico del san Pietro e della basilica Lateranense; e già Romani pagani, al tempo di Orazio e dell’amico suo Fusco Aristio ed al tempo di Giovenale, s’introducevano a render paga la loro curiosità della vista dei misteri della Religione di Mosè, alla stessa guisa che talvolta alle festività pasquali assistono oggidì ancora alcuni Romani con sorriso ischernevole sulle labbra. Egli è certo che l’antico tempio giudaico situato nel Transtevere era più bello assai della sinagoga del Ghetto odierno. Era un tempio che poggiava sopra colonne, splendido di tappeti preziosi e di begli ornati d’oreficeria nei quali brillavano fiori di melagrano. Ma parecchie fiate il popolo di Roma irrompendo nella sinagoga la aveva devastata, e negli ultimi tempi, sotto Teodosio, la aveva messa in fiamme, e finalmente Goti e Vandali la avevano nei loro saccheggi rapita di tutti i suoi arredi preziosi. [337] Sotto la mite dominazione di Teodorico gli Ebrei ebbero agio di rialzarsi dai mali sofferti, finchè il fanatismo che di tratto in tratto trascinava i Cristiani ad opere di violenza fu cagione che nell’anno 521 ricominciassero le persecuzioni contro di essi. Un giorno il popolo commosso a furore appiccò il fuoco alla sinagoga; e da una supplica che gli Ebrei presentarono ad Aligero, ch’era legato di Teodorico in Roma, si pare che alcuni Cristiani che appartenevano alla famiglia di ricchi Israeliti avessero ucciso i loro padroni, e che avendo i rei scontata la pena del loro delitto, il popolo ne togliesse vendetta abbruciando la sinagoga. In occasione di quel tumulto, Teodorico indirizzò un Rescritto severo al Senato, a cui imponeva che con ogni sollecitudine desse provvedimenti che valessero a impedire quegli eccessi[291].
Alcuni avvenimenti assai più deplorevoli delle brevi sollevazioni popolari e delle lotte tra le fazioni dei Verdi [338] e degli Azzurri, ebbero a turbare Roma per parecchi anni. Abbiamo veduto che Roma era stata già agitata da un primo scisma avvenuto in occasione della elezione di papa Simmaco. Dopochè Teodorico ebbe confermata l’elezione di quest’uomo di energica mente, egli riuscì a restituire la calma e a metter freno ai partiti durante quei sei mesi nei quali dimorò in Roma. Ma nell’anno 503 la lotta scoppiò di nuovo e con maggiore acerbezza[292]. Simmaco dopo di aver ottenuto il riconoscimento della validità della sua elezione, allontanato l’antipapa Lorenzo, gl’indisse a confino il vescovato di Nocera di cui era stato investito: ma, quattro anni dopo, sacerdoti e senatori ch’erano alla testa della fazione favorevole a costui (e fra essi erano Festo e Probino), introdussero Lorenzo secretamente in Roma, e, dando origine ad un secondo scisma assai più terribile del primo, accusarono il Papa con un libello e con rimostranze indiritte a Teodorico, e operarono di guisa che il Re spediva Pietro vescovo di Altino a Roma quale visitatore. Il Pontefice premuto da tante difficoltà, si oppose con resistenza al sindacato che contro la legge canonica voleva operare il legato regale, imperocchè un anno prima nel suo terzo sinodo egli avesse dichiarata invalida la legge di Odoacre, il quale per mezzo del suo prefetto Basilio aveva comandato che l’elezione del [339] Pontefice dovesse essere confermata dal Re d’Italia[293]. I Vescovi di Roma si giovarono destramente del fatto che i Re d’Italia di origine germanica, professando la credenza ariana, erano fuori della Chiesa, per acquistare la propria independenza dallo Stato: ma ci occorrà in seguito di vedere che ciò non riuscì loro pienamente neppure nel corso di parecchi secoli, ma che anzi eglino, ad onta dell’alta onoranza che loro tributava il capo dello Stato, dovettero continuare a ricevere da lui, quali sudditi suoi, l’investitura, ed ebbero a tollerare l’intervento suo nei negozî ecclesiastici generali ed importanti.
Teodorico non poteva immischiarsi di troppo negli affari ecclesiastici, se non voleva rendere ancora più difficile la condizione sua già di per sè circondata da gravi difficoltà. Egli comandò che si raccogliesse in Roma un Concilio, raccomandando ai Vescovi congregati di restituire la pace alla Città ed alla Cristianità cattolica[294]. Questo Sinodo composto di centoquindici Vescovi, dal nome del portico del san Pietro ove tenne le sue prime tornate, fu appellato Palmare. I Padri si raccolsero dipoi nella basilica di Giulio; ma un tumulto scoppiato di repente li costrinse a partirsene e a scegliere per le loro adunate la basilica sessoriana di santa Croce in Gerusalemme. Ma il clero, mentre era in cammino per recarvisi, fu assalito dalla fazione di Lorenzo che furibonda aveva dato piglio alle armi: parecchi degli aderenti del Pontefice [340] furono trucidati, ed egli potè a stento sottrarsi a morte fuggendo sotto una grandine di pietre. Il Concilio però riusciva a dichiarare Simmaco innocente delle accuse scagliate contro di lui; e per solennizzare la condanna di Lorenzo, che veniva cacciato in bando, il Pontefice colla ceremonia consueta fu condotto nuovamente in san Pietro e vi fu con pompa insediato. Ma non per questo era restituita la pace, chè la divisione e la lotta non cessarono; e per lo spazio di tre o quattro anni le vie di Roma furono bruttate giorno e notte del sangue delle genti uccise. I Senatori che appartenevano ai partiti nemici combattevano per le strade, e probabilmente gli Storici dimenticarono di far menzione che i Verdi e gli Azzurri venissero fra loro a zuffa a cagione di queste miserande discordie. Gli aderenti di Simmaco erano tagliati a pezzi, parecchi preti e diaconi erano uccisi a colpi di mazza davanti alle chiese, e persino le monache assalite nei loro chiostri erano denudate e flagellate con verghe, e nel tempo stesso alle crudeltà associavansi la depredazione ed il saccheggio[295]. La Città cominciò a riacquistare piena ed intiera quiete nell’anno 514, sotto il consolato del Senatore (con questo titolo d’onore era designato Aurelio Cassiodoro). Ed infatti l’illustre Ministro scrive con [341] aperta gioia nella sua Cronica: «Allorquando io fui console (egli scriveva a Teodorico), dopo che furono congregati insieme il clero ed il popolo, la Chiesa romana, a gloria della vostra epoca, riebbe la pace da molti anni lacrimata».
Negl’intervalli di queste aspre lotte e ad onta della discordia che s’agitava fra lui e l’Imperatore greco Anastasio, nel quale noi crediamo a ragione di vedere l’anima della fazione di Lorenzo, papa Simmaco trovò agio di abbellire Roma con alcune opere artistiche. Egli diede ai Romani il consueto spettacolo delle pire erette innanzi alle porte del Laterano, sulle quali abbruciavansi volumi di opere scritte in favore del Manicheismo; ma ancor più lieta egli rese Roma collo splendore di parecchi monumenti e di chiese edificate. Le agitazioni ond’era stato commosso il suo Pontificato, i pericoli che avevano minacciata la sua vita, inspirarono a quel prete d’animo energico, e che d’altronde non era forse affatto incolpevole, uno zelo ardente d’operosità; laonde, a dimostrare la gratitudine del suo animo ai Santi suoi proteggitori, ne abbellì le chiese, di novelle anche edificando. Il numero degli edificî da lui eretti e la copia dei suoi doni votivi non sono scarsi.
Sopra d’ogni altra cosa diede provvedimenti ad abbellire la basilica di san Pietro. Egli fè lastricare l’atrio con lamine di marmo, ed ornò il Cantharus e le pareti del portico quadrangolare di musaici che rappresentavano imagini di agnelli, di croci e di palme. Fornì la piazza publica, che s’apre dinanzi alla basilica, di un pozzo che servisse alle necessità del popolo: e quello fu il primo e modesto precursore delle due magnifiche [342] fontane, le quali sorgono oggidì a rendere vieppiù splendida quella piazza che è bellissima del mondo, animandone i silenzi col mormorio delle acque, i cui gettiti percossi dai raggi del sole sfavillano dei colori dell’iride. Papa Simmaco ampliò le scalee del primo cortile della basilica, e a quello aggiunse due portici laterali a destra ed a sinistra. Sarebbe cosa importante conoscere se i primi edificî aggiunti al palazzo Vaticano sieno stati innalzati da quel Pontefice: si potrebbe crederlo, imperocchè il Libro Pontificale dica ch’egli costruisse, a destra ed a sinistra delle gradinate, edificî detti Episcopia ossia case destinate a dimora del Vescovo[296]. Finalmente egli eresse parecchi oratorî e parecchie cappelle nel san Pietro: accanto alla cappella del battistero una ne dedicò alla santa Croce deponendovi una croce d’oro sparsa di gemme, e due oratorî consecrò a san Giovanni evangelista ed al Battista. In prossimità del san Pietro fondò una basilica ad onoranza dell’apostolo Andrea, fratello di san Pietro, al quale i Greci davano nome di Protocletos, che significa primo appellato, e che era tenuto in tutto il mondo cristiano in somma onoranza, prima ancora che in Roma sotto il pontificato di papa Simplicio gli fosse eretto un tempio. Simmaco consecrò [343] dunque in venerazione di lui una seconda chiesa, di forma rotonda e adorna di un cortile d’ingresso, donde ascendevasi alla chiesa per una scalea e dentro il quale era il pozzo. Questo tempio era allora il più grande edificio di Roma dopo il san Pietro, e lo rimase fino al secolo ottavo in cui Stefano II e Paolo I innalzarono ad onore di santa Petronilla figlia di san Pietro una cappella rotonda di forma simigliante, ma più magnifica di gran lunga e da cui quel tempio fu gettato nell’ombra. La cappella di santo Andrea si ergeva in vicinanza dell’obelisco. La sua forma rotonda indusse alcuni nell’erronea opinione che fosse anticamente il Vestiarium di Nerone, ossia l’edificio ove questo Imperatore tenesse il tesoro e la guardaroba. In tempi posteriori ricevette da un’imagine della Vergine il nome di santa Maria Febrifuga, e finalmente nel secolo sestodecimo fu convertita ad uso di sacristia del san Pietro[297].
Verso la fine del secolo sesto dunque intorno alla basilica Vaticana sorgevano parecchi edificî accessorî, parecchie cappelle, alcuni mausolei, ed uno o due conventi, imperocchè non conosciamo con precisione se non che esisteva in quel tempo il chiostro dei santi Giovanni e Paolo, già eretto da papa Leone I. Simmaco fondava ospitali per poverelli e per pellegrini in vicinanza del san Pietro, del san Paolo, ed in prossimità della chiesa di san Lorenzo fuor delle mura. E nella città di Porto erigeva un Xenodochio, ossia casa di ricovero per [344] pellegrini, locchè dimostra che la frequenza di viaggiatori che venivano dalla via di mare era già grande.
Non c’indugiamo a parlare delle ristorazioni del san Paolo alle quali lo stesso Pontefice diede opera: diciamo soltanto ch’egli edificò due novelle chiese, una basilica dedicata ad onore di san Martino di Tours, di cui abbiamo già fatto menzione, situata entro la città in prossimità delle terme di Trajano, e la chiesa bellissima di san Pancrazio eretta fuor delle mura, sul Gianicolo presso la Via Aurelia. Benchè mutata nella forma dall’antica, essa sta oggidì ancora sopra le catacombe di Callepodio martire romano.
Dopochè Simmaco ebbe innalzato questi edificî, monumenti del suo pontificato turbato da agitazioni sì grandi, morte il colse addì 19 di Luglio dell’anno 514: e alla cattedra di san Pietro salì senza contrasto Ormisda, ch’era nativo di Frusino nella Campania. Nessun torbido funestò il reggimento di questo Pontefice; ed anzi, morto repentinamente nell’anno 518 l’imperatore Anastasio, gli fu concessa la gioia di poter comporre col succeditore di quello le discordie e la lotta che s’agitava a cagione dell’eresia di Acacio vescovo di Costantinopoli che aveva sposata la causa degli Eutichiani.
Ma sotto il succeditore di lui, Giovanni I (che resse il pontificato dall’anno 523 al 526), mutarono le relazioni di Teodorico verso la Chiesa cattolica, chè anzi il buon accordo il quale s’era fin qui conservato si turbò in modo che si giunse ad una rottura completa. E fu nell’anno 523, allorquando l’imperatore Giustino con fanatico intendimento promulgò un Editto contro gli Ariani nel quale comandava che tutte le loro chiese [345] fossero restituite al culto cattolico. Egli sembra che questo provvedimento improvviso avesse sua ragione nel disegno politico di avvincere Teodorico in gravi difficoltà prodotte dall’antagonismo delle credenze religiose: e forse Giustiniano nipote al rustico Imperatore, e ch’era eletto succeditore al trono, e già onnipossente, Giustiniano forse allora meditava la cacciata degli stranieri Goti dell’Italia, ed intendeva alla restaurazione della signoria greca in Occidente[298]. Nel Senato e tra il Clero di Roma si agitava manifestamente un partito devoto ai Greci; e Teodorico incominciò a sospettare che la Città ricambiasse ai beneficî suoi con ingratitudine e con fellonia. Il dispetto che eccitò in lui l’Editto di Giustino, fè che egli dimenticasse i sentimenti dell’umanità e dell’ampia tolleranza ch’egli aveva usata verso i Cattolici. Nel furore e nel duolo ond’era commosso l’animo suo, egli protestò ch’egli avrebbe tratta vendetta delle persecuzioni ond’erano fatti segno in Oriente gli Ariani, colla rappresaglia dell’interdizione del culto cattolico in Italia. A dimostrazione della sua collera, o ad esempio della severità che userebbe, oppure a pena meritata di qualche fatto avvenuto ad opera del fanatismo di Roma, egli fè atterrare in Verona un oratorio dedicato a santo Stefano: e nel tempo stesso tolse l’arme a tutti gl’Italiani, non concedendo loro che l’uso del coltello[299]. Lo sventurato Re fu costretto a ricorrere ai gretti provvedimenti che [346] suggerisce paura, e che in tutti i tempi sono inseparabili dall’odiata signoria degli estrani. Dopo un reggimento di quasi trentatre anni, durante i quali egli aveva ricolme di beneficî Italia e Roma ch’egli aveva sollevate dal decadimento, egli di repente trovavasi novellamente balzato in condizione di straniero in mezzo a stranieri.
Egli è con grave dolore che or dobbiamo tenere discorso della triste fine di due illustri Senatori romani, di Boezio e di Simmaco, i cui spettri sanguinosi si erigono innanzi al tribunale della Storia ad accusare il Re goto e ad oscurarne la splendida gloria. Nè ci basta l’animo di tentar di mitigare la bruttura di quell’avvenimento, a discolpa adducendo di quegli argomenti ai quali si dà nome di ragione di Stato, come ha fatto un celebre Istorico di Napoli[300]. Un uomo quale Boezio che si presenta tenendo in mano l’aureo libro «della Consolazione della Filosofia» è un accusatore tremendo troppo; e il modo in cui ebbe morte riesce ad obbrobrio dell’età sua, fosse pure stata immersa nella caligine più oscura della barbarie[301].
[347]
Ambedue quegli uomini (Boezio fu giustiziato nell’anno 524, Simmaco nell’anno posteriore) caddero vittime della diffidenza e del rancore, che Teodorico con ragionevole fondamento nutriva contro il Senato. Nè eglino erano per fermo incolpevoli innanzi gli occhi del loro Principe, ma ben di sovente ciò che il tribunale dei Re punisce come delitto, è dal giudizio dei Popoli celebrato quale virtù. Lieve gloria tribuiremmo a Boezio senatore, nulla aggiungeremmo alla gloria di Boezio filosofo ove anche potessimo dimostrare con evidenza storica ch’egli fosse veramente autore di quella sconsigliata sedizione politica. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio riuniva in sè i nomi delle schiatte più illustri di Roma. Quantunque non s’elevasse alla potenza del genio, era fornito d’ingegno sì eletto e di cultura sì estesa, che gli riusciva di far risplendere su Roma un crepuscolo di filosofia fra la densa tenebra di quell’età in cui la Diva celeste (che allo sguardo di un Romano si presentava per l’ultima volta sotto maestoso ammanto di foggia greca) aveva spiccato suo volo dalla terra, mossa a fastidio delle aride dispute che s’agitavano a ricercare se fosse eguaglianza di essenza o somiglianza fra il Padre ed il Figlio, e se fosse avvenuta confusione delle nature[302]. La lunga dimora che Boezio, dando opera ai [348] suoi studî, aveva fatta in Atene, in quella città che si elevava allora tra Roma e Bisanzio splendida della tradizione della filosofia antica, gl’insegnamenti ricavati dalle opere di Platone e di Aristotele le cui dottrine avevano temprate a moderanza le sue idee religiose, avevano elevato il suo animo congiungendolo alla cultura dei tempi antichi, all’istessa guisa che l’origine di sua famiglia all’antichità annodava il suo nome. Gli onori ch’egli aveva ottenuto nella vita publica, la sua elezione a console nell’anno 510, il consolato che avevano tenuto nel 522 i figli di lui Simmaco e Boezio ancora in giovinetta età, erano cagione che l’animo suo ardente si riempiesse di dispetto dell’età sua e si accendesse di fervidissimo desiderio della grandezza antica. Ed egli stesso fa che la sua consolatrice Diva gli porga lo specchio delle ricordanze, ed in quello egli gode di contemplare l’imagine degli onori onde un tempo era stato ricolmo: ei vi mira il solenne incedere dei Senatori e del popolo che accompagnano i suoi due figli dal palazzo degli Anicî alla Curia dove eglino sono addotti alla sedia curule, nel tempo stesso in cui egli volge al Re, com’era costumanza, discorso di lode, cui interrompono voci di plauso. E lo allieta la rimembranza del giorno più bello di sua vita in cui egli sedeva nel Circo in mezzo ai due consoli suoi figli, e distribuiva al popolo i doni trionfali[303]. Amor di patria vivissimo si accoglieva nel petto del Senatore come in tutta la parte della nazione che l’invasione dei Goti reputava obbrobrio di Roma, e che abborriva il giogo straniero. Ma [349] Boezio filosofo non possedeva energia che valesse a porlo alla testa dei cittadini di nobili spiriti e a condurre l’impresa del risorgimento. Non è dubbio ch’egli in cuor suo non avesse ad odio gli stranieri dominatori, anche s’egli ammirasse la energia e la sapienza del Re. Egli usa a disprezzo del nome di «Barbaro», là dove narra alla Filosofia ciò che egli fece in servigio della patria, e dove ricorda i nomi di quei Romani che egli liberò dalla violenza dei «cani di Palazzo» e dall’impunita avidità dei «Barbari»[304]. Il suo orgoglio lo indusse a disconoscere i grandi benefizî di Teodorico il quale nella sua saggezza levava Roma in onoranza; e lo sprezzo ch’egli nutriva contro calunniatori codardi lo trasse ad opere sconsigliate.
Allorchè il Re generoso nutrì sospetto che il Senato stesso, il quale era stato da lui riposto in onore, tenesse colla corte di Bisanzio accordi secreti per tradirlo, accolse desiderio che il sospetto divenisse certezza per avere diritto a infliggere punizione. Non mancarono delatori vituperevoli quali un Opilio, un Gaudenzio, un Basilio, uomini, che il patrimonio distrutto induceva a bassezza d’animo. Il Re udiva con amaro compiacimento che il Senato congiurasse, e per lo meno egli voleva tenere colpevole di alto tradimento tutta intiera la Curia perchè Albino, uomo consolare che in essa sedeva, era stato accusato di avere indiritte certe lettere a Giustino imperatore. Boezio, presidente del Senato, andava, senza che timore lo rattenesse, a Verona, e quivi nel tempo stesso in cui difendeva dinanzi al Re la causa di Albino [350] ed in cui sosteneva l’innocenza del Senato, ebbe accusa egli stesso di avere scritto lettere in cui parlava della «speranza» che Roma risorgesse a libertà[305]. Nello sdegno ond’era commosso, parlò con sensi animosi al Re, dicendo: «l’accusa di Cipriano è una menzogna: se Albino operò quello di cui è accusato, io pure lo feci e tutto il Senato con lui di animo concorde». Queste parole suonarono aspramente all’orecchio del Re già inacerbito. Accusato di alto tradimento, Boezio, la cui religione ortodossa lo rendeva già odioso al Re ariano, fu cacciato in un carcere di Pavia, dov’egli non deplorava se non che d’essere lontano della stanza del suo palazzo, ornata di avorio e di variopinti cristalli dove sedeva fra i libri, cari maestri dei suoi studî diletti. In quel carcere egli scrisse la sua apologia, che andò perduta, e l’opera sua illustre «della Consolazione della Filosofia». L’inquisizione dev’essere stata accompagnata da tumulto oppure dev’essere stata condotta senza l’osservanza delle forme legali, imperocchè all’accusato non si concedesse facoltà di difendersi, ma venisse tosto giudicato dal Re e dall’atterrito Senato e condannato a barbara morte. Quest’azione despotica impresse una macchia sanguinosa su Teodorico, cui nulla vale a [351] cancellare[306]. Poco tempo dopo, il vecchio Simmaco, l’uomo più illustre fra tutti i Senatori, divideva la sorte del genero suo, e periva per mano del carnefice nel palazzo di Ravenna non gemendo tanto sul proprio fato quanto sulla sorte di Boezio. La sentenza di tutti gli scrittori antichi è concorde nell’affermare che le incolpazioni e le testimonianze che s’aggravarono contro Boezio fossero false, e che Teodorico coprisse sè stesso dell’obbrobrio di una violenza infame. Mancano gli atti dei procedimento, ed intorno a questo argomento non ci è dato di trovare in Cassiodoro neppure un Rescritto. Ma i sentimenti ond’era animato il Senato contro di Teodorico si pajono nello scritto di Boezio, il quale pone in aperto che tra i Senatori del partito romano antico s’agitava ardente desio di scuotere il giogo della dominazione straniera. Nè la natura delle cose contraddice alla supposizione che già da quel tempo si stringessero realmente accordi secreti colla corte di Bisanzio.
Con quei due uomini scomparve per sempre di Roma cristiana la Filosofia, la quale, giunta a sua ultima sera, aveva per loro fatto ricordare i tempi di Cicerone e di Seneca. Essa si congedava con gloria dai Romani, congiunta alla visione di un illustre Senatore, cui il destino non umiliava certamente condannandolo a morire sacrificato al fantasima del Senato, al quale era apparso per l’ultima fiata e da lungi il miraggio della virtù antica di Roma.
[352]
Anche il Pontefice romano or doveva essere abbattuto dallo spiro della collera regale. Giovanni era appellato di Roma a Ravenna, affinchè in compagnia di alcuni Vescovi e di quattro Senatori, di Teodoro, di Importunato e di due Agapiti s’imbarcasse per Bisanzio ed ivi chiedesse all’Imperatore che cessasse dalla persecuzione degli Ariani di Oriente. Quantunque a malincuore, dovette il Vescovo cattolico sobbarcarsi alla difficile ambasceria: ma il popolo di Bisanzio e l’imperatore Giustiniano usciti fuor delle mura, accolsero il primo Pontefice che ponesse piede entro la capitale del greco Impero, non già quale legato del Re goto, ma sì quale capo della Cristianità ortodossa, e con solennità di pompa lo condussero trionfalmente alla chiesa di santa Sofia dov’egli celebrò la pasqua dell’anno 525. Sembra che quanto allo scopo della sua legazione egli ottenesse da Giustino alcune concessioni di mera apparenza e che, quanto agli argomenti essenziali dei quali dovesse trattare, non ricavasse alcun utile risultamento; imperocchè altrimenti non sapremmo spiegare il motivo dell’ira con cui il Re accolse i legati reduci di Grecia. Come eglino furono ritornati a Ravenna, Teodorico furibondo fè cacciare i Senatori ed il Pontefice in un carcere. Ed ivi Giovanni I, preso da grave angoscia del suo destino, moriva addì 18 di Maggio dell’anno 526. La Chiesa con grato animo gli tributava onoranza come a martire[307].
Dopo la morte di lui, Teodorico, avendo deliberato fermamente di non concedere più alla Chiesa cattolica la libertà e l’onoranza che nei tempi anteriori le aveva [353] tributato, volle far valere l’influenza della regale sua autorità nell’elezione del Pontefice. Per la qual cosa egli designò al Senato, al clero ed al popolo di Roma, quale candidato, Felice, figlio di Castorio e sannita di nascita. I Romani tremarono, obbedirono ed elessero Felice IV che tosto fu consecrato. Questo atto di potestà regia, che il Libro Pontificale oltrepassa in silenzio assoluto e contro il quale il cardinale Baronio scaglia parole di esecrazione chiamandolo opera di violenza iniqua, fu fecondo di conseguenze gravissime; imperocchè da quel tempo in poi i succeditori di Teodorico vantassero diritto a confermare con loro autorità l’elezione di ogni Pontefice, e indi quel diritto stesso, allo spegnersi della signoria dei Goti, trapassasse agli Imperatori di Grecia[308].
Ma Teodorico non sopravviveva alla consecrazione del suo candidato Simmaco: preso da un flusso micidiale di ventre egli moriva dopo breve malattia in Ravenna, addì 30 di Agosto dell’anno 526. Il Libro Pontificale afferma che il cielo lo abbia colpito di morte a punizione di quella ch’egli aveva recato a papa Giovanni: ed un altro Storico narra ch’egli spirasse in quel dì stesso in [354] cui doveva eseguirsi il Decreto scritto dall’ebreo Simmaco (ch’era un giureconsulto ai servigi del Re), il quale comandava che i Cattolici fossero espulsi dalle loro chiese che dovevano essere date agli Ariani[309]. In Procopio è registrata una celebre leggenda, la quale narra che mentre un giorno il Re sedeva a banchetto nel suo palazzo di Ravenna, essendogli servita in sulla mensa una testa di pesce di grandezza smisurata e dalle fauci spalancate, lo prendesse alto spavento, sembrandogli che quella si tramutasse nel capo orribile di Simmaco che di recente era stato giustiziato: e aggiunge che colto tutt’a un tratto da febbre, pochi giorni dopo morisse lacerato dai rimorsi della uccisione dei due illustri Senatori[310]. Egli è certo che dolorosi pensieri ed acri rimordimenti dovevano rendere tormentosa la morte del grande e sciagurato Principe: il goto Giornandes ne tace, e ci presenta soltanto il maestoso quadro e bello del saggio Teodorico che muore. Allorquando, dic’egli, il Re fu giunto a sua età senile e conobbe che in breve dovrebbe partirsi del mondo, chiamò innanzi a sè i conti goti e i principi del suo popolo; ed eleggendo a loro re Atalarico, fanciullo decenne ch’era nato di Amalasunta figlia sua ed era orfano di Eutarico, loro comandò, quasi li chiamasse ad udire il suo testamento, che prestassero onore al Re, che amassero il Senato ed il popolo di Roma e che conservassero accordo di pace cogli Imperatori di Grecia[311]. Così scrivono gli Storici, ma i Santi invece narrano che l’anima di Teodorico, nuda e scalza e colle mani cariche [355] di catene, fosse trascinata per l’etere dalle ombre irate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco che la scagliavano entro il cratere del vulcano di Lipari: e dicono che ciò avesse veduto coi suoi propri occhi un anacoreta che aveva stanza in quell’isola. Ed il grande Gregorio non ebbe rossore di introdurre nei suoi dialoghi il racconto di quest’atto di giustizia infernale[312].
Oggidì ancora si conserva in parecchie città ricordanza del Re goto, dello straniero magnanimo che un dì tenne in sua signoria Roma e Italia. In Ravenna si mira tuttora la sua tomba di figura rotonda e dalla cupola formata di una sola pietra di smisurata grandezza: in Pavia ed in Verona i Lombardi mostrano ancora le merlate mura delle castella di Teodorico; nella meridionale Terracina le ruine di una borgata recano il nome di lui, ed un’antica iscrizione che ivi si legge ricorda ch’egli abbia restituita in buono stato la Via Appia e ch’egli abbia asciugate le paludi Pontine. E per fermo un Principe goto nei tempi del decadimento seppe acquistarsi una gloria che Cesare, impedito da morte, non ebbe potenza di ottenere[313]. Soltanto in Roma, dove [356] gli erano state erette parecchie statue, non rimase alcun monumento che ci parli di lui, non musaico, non statua, non parola; ma la ricordanza sua è congiunta indissolubilmente alla storia della Città. E quei Romani che dimenticano gl’insulti dei quali i loro antenati nella ferrea età delle guerre civili del medio evo si resero rei contro i monumenti di Roma, ben devono ricordare al nome dei Goti, che a colui il quale per lo spazio di trentasette anni fu benefattore d’Italia li lega debito di gratitudine per le cure ch’egli prestò ai monumenti di Roma, che mercè di lui ebbero lunga vita. Il Tedesco ha argomento di orgoglio e di gioia allorchè volga il suo pensiero ad uno degli eroi più illustri della sua schiatta (imperocchè i Goti abbiano formato il midollo della nazione germanica ed abbiano posto il germe della lingua), allorchè pensi ad uno degli episodî più belli della sua storia patria svoltosi in quella Città che destino volle avvinta per molti secoli a Germania. E gli Storici italiani lasciarono agio ai Tedeschi di aggiungere ancora qualche lode alle virtù del grande Goto[314].
[357]
La prospera condizione dei Romani durò alcuni anni ancora dopo la morte di Teodorico: e precisamente finchè Amalasunta, figlia di lui, tenne la tutela del suo giovane figlio Atalarico. Procopio e Cassiodoro hanno celebrato le peregrine virtù di questa donna d’intendimenti virili, lodandone l’indole dell’animo, la saggezza della mente, la eccellenza della cultura[315]. Laddove i Romani s’erano beffati di Teodorico, il quale, imperito nell’arte della scrittura, segnava le quattro prime lettere del suo nome scorrendo collo stilo intorno al disegno tracciato sopra una lamina di metallo, or li commoveva invece [358] a meraviglia il genio d’una femmina la quale ai Greci volgeva discorso in greca favella, coi Latini parlava nella lingua del Lazio e cogli eruditi ragionava dottamente intorno ai filosofi ed ai poeti dell’antichità. E dovevano pur confessare che i Goti meritavano lode di aver conservata la civiltà[316].
Sotto il reggimento di Amalasunta coltivavansi nella città di Roma le scienze con maggiore ardore di quello onde lo erano ai tempi di Teodorico: i professori di arti liberali, di grammatica (che onoravasi quale «maestra della lingua che è splendido ornamento all’umanità»), i maestri di eloquenza e di diritto erano remunerati con generoso onorario[317]. Roma tornava ad essere sede nobilissima degli studî e dell’eloquenza, per la qual cosa Cassiodoro poteva dire a ragione: «Altri paesi sono fecondi di vino, di aromi, di balsami, ma Roma produce il grato profumo dell’eloquenza, che scende con somma dolcezza al core»[318]. Ai Romani con saggio intendimento lasciavasi il godimento dei miti studî di pace, laddove invece i Goti nutrivano il sentimento orgoglioso della loro potenza virile nelle belliche arti. Gl’Italiani erano esclusi dall’onore della milizia, poichè già da tempo lunghissimo avevano perduto l’amore alle armi e avevano dimenticato il modo di maneggiarle: di Goti era composto il presidio delle città, all’infuori di Roma; e la loro signoria sull’Italia era quella di un imperio guerriero che si ergeva isolato e senza appoggio conservando le leggi e gl’istituti di Roma e mantenendo [359] ancora in vita i municipî antichi per i Latini. Ma molti anche fra i Goti ivano prendendo vaghezza dei costumi romani, e l’amore degli studî rendeva loro desiderate le arti di pace, laddove per converso parecchi Romani, fosse per adulare ai loro signori stranieri, fosse per desio di novità, accoglievano fogge di Gezia; e sulle sponde del Po e su quelle del Tevere in bocca a Romani erano uditi i suoni energici della lingua di Ulfila[319].
La prima opera del governo di Amalasunta fu di conciliarsi l’animo del Senato e del popolo di Roma che dal padre di lei erano stati gravemente offesi. Alcune lettere scritte da Cassiodoro, il quale continuò nelle sue funzioni di ministro anche sotto il nepote di Teodorico, annunciavano con forma reverente il mutamento avvenuto nel soglio: ed il giovine Re, a mezzo di un suo legato, prestava al popolo ed al Senato solenne giuramento che non sarebbe mai per ledere ai diritti ed alle leggi di Roma. E per porgere coll’opera dimostrazione della ferma volontà di pace ond’era mosso l’animo suo, Amalasunta restituì tosto ai figli di Boezio e di Simmaco il retaggio paterno, del quale erano stati spogliati. Deplorando gli ultimi fatti crudeli del padre suo, volle cancellarne la ricordanza col suo reggimento, durante il quale non tolse la vita e gli averi ad alcun Romano. Come già ai tempi di Teodorico, l’assemblea dei Padri [360] era reverita quale ornamento sacro della Città e riceveva dimostrazioni di onoranza: parecchi uomini illustri dei Goti vi erano ascritti, ed i nepoti degeneri di Mario non sentivano onta quando lor si diceva, star bene che ai discendenti di Romolo s’associassero i figli di Marte[320]. E da quelli il partito goto riceveva fortezza in Senato.
Se gli onori resi alla Curia romana erano di mera apparenza pomposa, la cosa era affatto differente per i diritti che lo Stato andava via via concedendo al romano Pontefice. La potenza di questo Vescovo (che allora era riverito anche in Oriente quale primate della Cristianità) cresceva più e più. Era un evento fortunato per lui che i Principi goti continuassero a sedere in Ravenna, e più ancora che, seguaci di Ario, eglino fossero fuori della Chiesa cattolica. Il Papa, quale capo della Religione cristiana cattolica, si elevava sopra i Re d’Italia eretici: e stando tra loro e l’Imperatore d’Oriente di fede ortodossa (il quale, per la potenza delle sue armi, era onorato dai Re goti con ossequio tradizionale quale signore supremo[321]) egli era soggetto di diffidenza ai Re: ma egli ne guadagnava influenza sempre maggiore negli affari interni della Città, i quali in varia maniera s’intrecciavano [361] alla vita della Chiesa. Fra i Rescritti del tempo di Atalarico che leggonsi in Cassiodoro, havvene uno il quale dimostra l’altezza cui era giunto il Pontefice romano: imperocchè in quello sia dato formale riconoscimento al suo diritto di giudicare nelle controversie di diritto civile dei chierici[322]. Chi avesse una lite con un prete di Roma, doveva anzi tutto assoggettarsi alla sentenza del «beatissimo» Pontefice, e soltanto nel caso in cui il Papa non volesse udirne, il negozio poteva essere trattato innanzi al tribunale laicale: e colui che al responso del Pontefice non obbedisse, era punito con una multa di dieci libbre d’oro. Sembra essere stato Felice IV quegli che otteneva un privilegio sì utile all’accrescimento dell’influenza del Vescovo.
La Cronica della Città non può far menzione del breve reggimento di questo Pontefice (dall’anno 526 al 530) senza che s’indugi a parlare di una chiesa illustre, che fu la prima la quale si edificasse ai confini del Foro romano in vicinanza della Via Sacra. Vogliamo dire della chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, che [362] furono due fratelli gemelli nativi dell’Arabia e dotti nelle mediche discipline, i quali morirono fra i tormenti ai tempi dell’imperatore Diocleziano. Narra il Libro Pontificale che Felice IV ergesse a loro onoranza una basilica nella Via Sacra in prossimità del tempio sacrato alla città di Roma[323]: e poichè a questa chiesa, come è dato di vedere oggidì ancora, è annesso un edificio antico di forma rotonda, quasi a vestibolo, per il quale si penetra nella basilica formata ad una sola navata, così parecchi Archeologi affermano, che questo monumento rotondo sia quello cui il Libro dei Papi dà nome di tempio sacro alla città di Roma, oppure che fosse un delubro dedicato agli Dei penati, o a Romolo, o, con opinione più simile al vero, ai due fratelli gemelli Romolo e Remo, il quale poi sia stato dal Papa consecrato similmente a due gemelli, Cosma e Damiano. Questa loro opinione tentano di convalidare colla testimonianza tratta da alcuni versi del poeta Prudenzio, ma egli è un errore, avvegnachè quel passo si riferisca manifestamente al celebre tempio dedicato da Adriano al duplice culto di Venere e di Roma[324]. Non è possibile [363] di determinare a quale scopo sia stato eretto quel piccolo edificio antico di figura rotonda la cui costruzione di muratura non è assai bella: egli è probabile che fosse una cappella pagana sacra ai fratelli Romolo e Remo, e di cui Felice si giovasse innalzandovi accanto la sua basilica. Ad ogni modo noi vediamo verosimilmente in questa basilica la prima chiesa di Roma la quale adoperasse un antico edificio, che era ancora in condizione perfetta, a formarsene il vestibolo, nel tempo stesso in cui nella sua parte posteriore si appoggiava ad un altro edificio antico di grandi dimensioni[325]. Oggidì pure si eccita in noi curiosità non lieve allorchè s’investighi la origine, ancora avvolta in qualche oscurità, di questa chiesa che s’alzava in vicinanza alla Via Sacra, in mezzo alle ruine del Foro, fra ruderi di cui ignoriamo la storia, e nella quale due medici d’Arabia, insigni per portenti, hanno posto sede alla loro operosità spirituale. Le colonne di porfido dell’atrio, vicino al quale s’innalzavano altre di cipollino, e le [364] antiche porte di bronzo sono monumenti splendidissimi dell’antichità.
Felice rese adorna questa sua chiesa di musaici, i quali, quantunque sieno stati sottoposti parecchie fiate a restauro, sono annoverati, in grazia del loro stile e della loro antichità, fra i più illustri di Roma; per la qual cosa meritano che se ne dia una breve descrizione. L’arco di trionfo è ornato di disegni di bello stile antico i quali rappresentano imagini allegoriche tratte dal libro dell’Apocalisse, che diede temi fecondi ai concepimenti della pittura. Cristo in figura di agnello posa sopra uno splendido soglio, innanzi al quale sta aperto il volume coi sette suggelli. Ai lati sono i sette doppieri, dalle svelte forme, simili a quelle degli antichi candelabri, quantunque il disegno non sia il più corretto. Presso ad essi sono due Angeli alati dalla figura soave, e finalmente ad ognuna delle due estremità dell’arco sono rappresentati due Evangelisti coi loro simboli. Inferiormente a questi musaici papa Felice aveva fatto collocare le imagini dei ventiquattro Seniori in atto di porgere corone al Cristo[326].
In maniera differente sono trattati i disegni che adornano la tribuna. Le figure che poggiano sopra campo d’oro con dimensioni maggiori del vero, sono disegnate in parte con istile robusto e con bei concepimenti, e vi si pare manifestamente la tendenza al misticismo. La grande figura del Redentore, che si erge nel mezzo, è [365] una delle più belle tra tutte le imagini del Cristo che si mirino in Roma: egli sta in atteggiamento energico e con posa da re; la testa adorna di barba e ricca di chioma che scende in lunghe anella è circondata di aureola; il suo paludamento del colore dell’oro, con bei panneggiamenti s’avvolge sul braccio; la mano sinistra tiene il ruotolo di papiri; la destra s’alza a benedire. Anticamente disegnavasi una mano che, tenendo un serto d’alloro, si protendeva sul capo del Salvatore ad esprimere la forza operosa del divin padre, il quale, anche nel tempo di cui parliamo, rappresentavasi sotto questo simbolo e non ancora nella figura visibile di uomo antico d’anni[327]. Alla destra ed alla sinistra del Redentore sono i santi Cosma e Damiano, i quali adducono alla presenza di lui san Pietro da un lato e dall’altro san Paolo che s’alzano con dimensioni maggiori ed imponenti. I due Santi, e più vivamente quello che sta a destra del Cristo, hanno lineamenti senili, i cui tratti energici e severi danno loro sembianza quasi di maghi con loro grandi occhi che splendono di uno sguardo fiero: hanno impressi nel volto segni di terrore reverente della presenza del Cristo, e nel tempo stesso vi hanno scolpito l’ardore dello amore di religione: per la qual cosa si può ben mirare in essi un simbolo dell’antica signoria della Chiesa sull’orbe. La loro posa, mentre s’appressano con passo incerto, è mirabile per la vita che ne spira; e nell’insieme bene rappresentano due indomiti campioni della Religione cristiana, imperocchè non isplendano [366] in loro tratti che esprimano mitezza d’animo. La robustezza della loro figura è modellata sull’esemplare energico dei tempi barbarici, ond’è che rassomiglino a maghi o ad uomini di tempi epici, e che ben s’addicano all’età eroica e sanguinosa di Odoacre, di Teodorico e del bisantino Belisario. Roma non possiede alcun altro musaico condotto in istile sì energico secondo la verità storica; e quest’opera sola d’arte basta a far conoscere l’indole robusta del secolo sesto.
Presso a quelle due coppie di Santi, vedesi da un lato il canuto pontefice Felice IV, la cui figura fu quasi per intiero rinnovellata nei ritocchi, e dall’altro Teodoro il santo guerriero: ambidue tengono in mano corone. Il Papa avvolto in un paludamento del colore dell’oro che si stende sopra una tonaca azzurra è adorno di stola e solleva verso il Redentore il modello della sua chiesa, che è un edificio fornito di atrio e senza torre[328]. Nessuna di queste figure, eccetto quella del Cristo, è cinta dell’aureola, locchè dimostra che in sull’incominciamento del secolo sesto non era ancor costume di circondare la testa dei Santi dell’emblema della gloria[329].
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Due palme s’innalzano dall’un lato e dall’altro dei Santi, e fanno, con mistico senso, bel contorno al quadro, chinando le loro fronde sul capo delle figure, nel tempo stesso in cui alla destra del Cristo posa sopra un ramo il favoloso uccello d’Arabia, la fenice, sulla cui testa splende una stella: gentile e mirabile emblema della vita eterna che sempre ringiovanisce, bellissimo tra i simboli che l’arte cristiana tolse a prestanza dai Pagani; imperocchè la fenice stellata si miri già sulle monete imperiali coniate al tempo di Costantino[330]. Nella parte inferiore, il contorno è formato dalla dipintura del fiume Giordano. Più in giù nell’ultimo scompartimento del quadro sono rappresentati dodici agnelli che simboleggiano gli Apostoli, i quali, uscendo di Gerusalemme da un lato e di Betelemme dall’altro, traggono al Salvatore, che, sotto forma di agnello, posa sopra uno splendido seggio colla testa cinta di aureola. Una iscrizione a grandi caratteri, e adorna di arabeschi [368] in musaico d’oro, gira tutto intorno del quadro racchiudendolo quasi a mo’ di cornice[331].
In quella chiesa situata presso la Via Sacra avevano altari due Arabi del remoto Oriente: ed eglino avevano ottenuta un’onoranza che fino a quel tempo Roma aveva tributata a Martiri romani oppure a Santi nati nelle contrade d’Occidente. Conciossiachè il culto dei Santi nella Città fosse, come abbiamo già veduto, primamente nazionale: tuttavia ai Martiri romani altri s’aggiungevano delle province dell’Impero occidentale, finchè l’idea di universalità, che la Chiesa di Roma sosteneva, operava sì che in seguito nella Città si estendesse il culto anche a Santi orientali. Soltanto più tardi l’inimicizia e finalmente la separazione di Roma da Bisanzio valse a rendere minore la venerazione ai Santi greci. Egli è prezzo dell’opera che si dia un breve pensiero al motivo che indusse Felice IV a tributare reverenza ai due Orientali. Può essere che il Pontefice volesse avvincersi più strettamente la corte di Bisanzio per timore dei Goti: ma anche fuor di questo è mestieri considerare che i due fratelli gemelli erano allora famosi per sopranaturali portenti, e che forse Roma sarà stata desolata da qualche contagio; imperocchè l’iscrizione che leggesi nel musaico tributi onore ai due Martiri come a «medici nei quali il popolo ripone [369] speme di salute». Si eleggeva poi di innalzare loro una chiesa in quel luogo, perchè ivi già in tempi antichi riunivansi medici, e si affermava che ivi il celebre Galeno dimorasse. Ed ai tempi di Giustiniano i due fratelli erano venerati quali Esculapii novelli in Ciro sull’Eufrate ov’erano seppelliti, ed avevano onore di chiese che loro si dedicavano in Pamfilia ed in Bisanzio. In Oriente tributavasi culto a molti Santi medici; e Ciro, Giovanni, Pantaleone, Ermolao, Sansone, Diomede, Fozio ed altri, dopo di avere ridonata la sanità a vivi ed a morti, dopo di avere prestate cure a uomini e ad animali, erano, a somiglianza di Empedocle, posti in cielo.
Papa Felice moriva nell’autunno dell’anno 530, e, dopo breve scisma, gli succedeva Bonifacio II, figlio di Sigismondo, che, nato in Roma, era d’origine goto. A impedire le lotte che s’agitavano in occasione delle elezioni dei Pontefici, o piuttosto per desiderio di togliere ai Re ogni influenza nelle elezioni, il novello Papa fu indotto ad un ardito tentativo. Nel primo Sinodo ch’egli congregò in Roma, designò a suo succeditore Vigilio diacono, e ne eresse un suo chirografo, il quale, munito della sottoscrizione di alcuni cherici imprevidenti, fu deposto da lui in san Pietro innanzi alla Confessione. Ma [370] nè Amalasunta, nè il clero approvarono quest’opera sua ch’era contraria ai dettami dei Canoni; laonde Bonifacio dovè nel Sinodo seguente cassare solennemente il suo decreto. Poco dopo, nell’anno 532, gli succedeva Giovanni II Mercurio, figlio di Projetto, romano del monte Celio: il suo pontificato è memorabile principalmente per un Editto che fu emanato affine di dare ordinamento all’elezione dei Papi. Erasi introdotto il gravissimo abuso, che, alla vacanza della cattedra di san Pietro, quei cherici che agognavano a vestire il gran manto, cercassero di ottenerlo con arti simoniache e con turpe corruzione: eglino tentavano con donativi di ottenere il favore dei più potenti Senatori e dei maggiorenti della corte; e la moneta necessaria traevano vendendo patrimonî delle loro chiese e persino arredi sacri degli altari. A mettere impedimento a quel sozzo costume, il Senato romano, ai tempi ancora di Felice IV, aveva promulgato un senatoconsulto che severamente vietava che la dignità pontificia si mercanteggiasse; e quel Decreto senatorio, che è l’ultimo di cui abbiamo contezza, era stato confermato, dopo l’avvenimento al soglio di Giovanni II, da re Atalarico, il quale comandava che lo si incidesse sopra una tavola di marmo, e che alla vista di tutti nell’atrio del san Pietro si collocasse[332]. E da quel Decreto si pare quale parte importante il Senato esercitasse nell’elezione dei Pontefici: e in quei negozî quel corpo anticamente tanto glorioso e da cui pendeva il reggimento del mondo, continuava ad operare con un’ultima e meschina sembianza di vita politica, prima che si spegnesse del tutto.
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Lo stesso popolo di Roma era immerso in letargo profondo. Lontano dallo sguardo del Principe, continuava a ricevere alimento dalle province, ma più scarsamente di un tempo; per la qual cosa parecchie fiate lo scoteva dal suo torpore il rincarimento delle vettovaglie, e lo eccitava a tumulti, i quali erano causa a sospetto che allignassero in esso sentimenti di ribellione. Sembra che tali ne fossero le condizioni durante il reggimento di Atalarico; e già papa Giovanni deplorava che Romani per semplice sospetto fossero sostenuti a lungo in carcere[333]. Ma in breve tempo la Città da uno stato di felicità tranquilla sì ma scevra di gloria, ch’essa godeva sotto la signoria dei Goti, era balzata fra gli orrori più terribili della guerra; ed un avvenimento fecondo di gravi torbidi doveva colpirla per cacciarla in una tenebra lunga e profonda. Ma per narrarne, fa duopo descrivere con breve discorso le sorti della casa di Teodorico alle quali anche i destini di Roma erano annodati.
La stirpe di Teodorico soggiacque all’abborrimento onde la tempra nazionale dei Goti era animata contro la civiltà dell’antichità, malgrado degli sforzi per indurre ad una conciliazione pacifica tra i due elementi avversi, che Amalasunta aveva presa a suo cómpito. Ella educava il giovane figliuol suo Atalarico nelle arti liberali dei Romani: per la qual cosa eccitava contro di sè lo sprezzo dei rozzi guerrieri goti che odiavano, non forse a torto, la civiltà romana quale nemica dell’energia virile e della loro propria schiatta dominatrice. Non v’ha forse problema che abbia sciolto la Storia intorno alla [372] educazione dell’uomo, importante al pari di quello che ebbe occasione dall’educazione di Atalarico fanciullo straniero; e pochi avvenimenti furono come quello fecondi di gravi risultamenti. I Goti strapparonlo alle mani vilissime, com’eglino dicevano, dei pedagoghi, ed affidaronlo alla istruzione della libera ed energica natura. Non volevano già a re un uomo dotto nelle grammatiche, ma un eroe simile ai suoi antenati scesi dalla gloriosa razza degli Amalî. Cedette la madre con dolore; e vide con grave cordoglio il giovinetto, dall’indole ardente sortita dal clima meridionale sotto il quale era nato, gettarsi in piena balia dei piaceri che traevanlo a fine precoce. Ma i maggiorenti goti sprezzavano i miseri Romani, ed odiavano il reggimento di una femmina la quale s’opponeva ai loro disegni: e già avevano deliberato di infrangere il suo giogo, per la qual cosa Amalasunta dotata di energia virile era costretta a chiedere secretamente alla corte di Bisanzio che le si concedesse ricovero, ove necessità la spingesse a fuga. Ma intanto la uccisione di tre fra i più pericolosi Goti, avvenuta per comandamento di lei, ispirava novello coraggio al suo animo, laonde ella continuava a tenere con salda mano l’imperio dal suo palazzo di Ravenna. La saggezza di lei già divinava che il regno dei Goti sarebbe inevitabilmente crollato, e che il popolo guerriero del settentrione non avrebbe mai posto ferme radici in Italia. Allorchè ella conobbe che il figliuol suo intristiva ogni dì più, si volse di nuovo all’imperatore Giustiniano, trattando, se si voglia prestar fede a Procopio, della cessione d’Italia, oppure, ed è più probabile, affinchè le venisse in caso di bisogno dato ricetto nell’Impero [373] greco. Atalarico moriva in Ravenna nell’anno 534, diciottesimo dell’età sua ed ottavo di suo regno, lasciando il trono di Teodorico senza succeditori. In quelle difficoltà non cadeva d’animo l’accorta donna, ma sceglieva a compagno nel governo il cugino suo, dandogli titolo di Re, ma a sè serbando il potere. Teodato, figlio di Amalafrida sorella di Teodorico, era acerrimo nemico di Amalasunta; ma questa accoglieva speranza di formarsene di tal guisa un amico, in maniera da render sicuri a sè stessa trono e vita, e da acchetare i Goti malcontenti.
L’influenza d’Italia, da cui già parecchi Goti erano resi domi, aveva operato potentemente sull’animo di quest’uomo. Egli rifuggiva dalle arti di guerra, era irresoluto e avaro, ma, cultore delle buone lettere, nello studio di Platone era profondamente versato. Abbandonata la corte per la quiete dolcissima della villa, ei viveva nei suoi ricchi possedimenti di Toscana; e là sotto le ombre amene dei toschi oliveti ei sarebbe stato degno d’invidia, ove non lo avesse travagliato insaziata smania di ricchezza sempre maggiore. Tutta Toscana malediceva alla sua avidità; ed Amalasunta aveva già dovuto costringere il cugino a restituire beni usurpati, onde egli ne mantenne sempre rancore contro di lei. Or veniva egli a Ravenna e cingeva la corona che poi doveva sì vilmente bruttare[334]. E appena ne era in possedimento, egli faceva sazia sua vendetta contro quella donna che lo aveva elevato al potere e la dava in balia ai nemici di lei. Esigliatala in un’isola solitaria del lago di Bolsena, [374] Teodato la costringeva di qui a scrivere lettere all’imperatore Giustiniano amico di lei, nelle quali ella protestava di essere contenta alla propria sorte: e nel tempo medesimo spacciava alla corte di Bisanzio due Senatori, Liberio ed Opilio, affinchè placassero la collera dell’Imperatore. Ma prima che i due redissero in patria, la figlia sventurata di Teodorico era morta. Alcuni congiunti di quei tre principali Goti che ella aveva nei tempi antecedenti fatto uccidere, indotti da desio di torne vendetta, entrarono un giorno nella carcere di lei, e, non senza saputa di Teodato, la trucidarono[335]. Ciò avveniva nell’anno 535: e nel tempo stesso Belisario distruggeva il regno dei Vandali in Africa e traeva in trionfo a Costantinopoli Gelimero loro re, laonde era adesso agevole cosa muovere alla conquista d’Italia cui da lungo tempo si agognava.
Alla notizia dell’assassinio di Amalasunta, Giustiniano fingeva di commuoversi a nobile sdegno, ma nell’intimo animo gioiva dell’accordo propizio di parecchi avvenimenti che gli aprivano la via alla signoria d’Italia. Intanto che il suo legato Pietro trattava con Teodato della cessione del Lilibeo di Sicilia, che un tempo aveva appartenuto ai Vandali, e di altri negozî, Giustiniano affidava al suo generale Mundo il governo supremo di Dalmazia, donde egli doveva muovere contro i Goti, ed a Belisario dava la capitananza della flotta perchè conquistasse Sicilia. Quest’isola cadde in potere dei Greci alla fine dell’anno 535, in cui il solo Belisario tenne [375] il consolato. E quello è anno memorando anche per Roma, imperocchè da quel momento fino alla estinzione suprema del consolato di uomini privati, avvenuta nell’anno 541, non si faccia più menzione nei fasti della Città di alcun Console d’Occidente. L’ultimo Console di Roma, nell’anno 534, fu Decio Teodoro Paolino il giovane, figlio di Venanzio, della stirpe dei Decii, il quale ebbe per tal modo l’onore di essere l’estremo nella lunga serie dei Consoli romani. Dopo di Costantino era stato costume che uno dei due Consoli annui fosse eletto per l’antica Roma, e l’altro per la novella ossia per Costantinopoli. E finchè i Re goti tennero Roma sotto la loro dominazione, eglino elessero il Console d’Occidente, il quale sembra che poi venisse dall’Imperatore confermato. Posteriormente al 534 fu in Oriente un solo Console, fino all’anno 541, in cui, dopo il consolato di Flavio Basilio il giovane, Giustiniano abolì quella magistratura, perchè, narra Procopio, l’Imperatore non volle più fornire la moneta necessaria alle consuete largizioni. Imperocchè, allorquando il Console ingrediva nella sua carica, si spendessero più che duemila libbre d’oro in largizioni ai poverelli ed in giuochi, e di questa somma di denaro la massima parte pagasse il tesoro imperiale. Di tal maniera estinguevasi quell’illustre istituto; e poichè l’imperatore Giustino nell’anno 566 assunse di bel nuovo il titolo di Console, da quel tempo in poi caddero sempre insieme l’incominciamento del regno degl’Imperatori e la designazione del consolato[336].
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Appena all’atterrito Teodato giungeva notizia che Sicilia era caduta sotto la signoria greca, cadeva di animo e ne smarriva la mente per paura. Egli accoglieva tosto le condizioni vergognose che Pietro gl’indiceva a nome dell’Imperatore: e per quelle doveva rinunciare a Sicilia, pagare un annuo tributo di 300 libbre d’oro, e, ove gli fosse chiesto, fornire un esercito ausiliario di 3000 Goti. Oltracciò il Re d’Italia prometteva di non eleggere senatori nè patrizî, e di non punire nella vita o colla confisca chierici e senatori senza l’assenso dell’Imperatore: acconsentiva che nei giuochi del Circo dovesse acclamarsi prima al nome di Giustiniano, indi a quello di Teodato; e che se a lui una statua si alzasse, a destra di quella una ad onore di Giustiniano si dovesse erigere. Il Bisantino, conchiuso il trattato, partiva; ma corrieri spacciatigli dietro di gran furia, lo raggiungevano in Albano[337], e facevano ch’egli ritornasse al Re. «Se [377] mai l’Imperatore», chiedeva questi angosciato, «se mai l’Imperatore ricusasse pace, che ne avverrebbe?» «Preclarissimo signore», rispondevagli l’astuto avvocato, «ei ti converrà muovere guerra». E gli dimostrava che ad un discepolo di Platone non era lecito di spargere il sangue del suo popolo, ma che all’Imperatore nulla divietava di far valere i suoi dritti su Italia[338]. Teodato, preso da paura maggiore, scendeva ad una novella proposta ancor più vigliacca, protestando di starsi contento ad una pensione annua di 1200 libbre d’oro, per la quale egli prometteva di cedere i suoi diritti al trono dei Goti e dei Romani. Il terrore gli toglieva il senno, in maniera che chiedeva scioccamente da Pietro giuramento ch’egli non avrebbe proposta la seconda convenzione all’Imperatore, se non se nel caso in cui questi avesse rifiutata la prima.
Insieme con Pietro partiva alla volta di Bisanzio anche Rustico, prete romano, quale ambasciatore di Teodato: e il Senato nel tempo medesimo, oppure poco tempo prima, spediva lettere a Giustiniano pregandolo di pace. In quell’epistola compilata da Cassiodoro[339], che è altamente preziosa come una delle ultime opere del Senato romano, i Padri con forma oratoria fanno che [378] l’eterna Città parli con linguaggio di cordoglio: «Ove le preghiere nostre non valgano a commuoverti», eglino dicono, «or porgi orecchio alla patria nostra che si raccomanda con questo pietoso discorso: Se mai ti calga dell’affetto ond’io ti fui cara un giorno, deh! ama, o piissimo tra i Principi, i miei difensori. Quelli che mi tengono in loro signoria devono vivere teco in buona pace, affinchè non operino verso di me in maniera che dia cruccio al tuo animo. Or tu non puoi esser causa di crudele fine a mia vita, cui tu sempre facesti lieta di beni. Vedi! sotto l’usbergo della tua pace si raddoppiò il numero dei miei figli, ed io brillo nello splendore dei miei cittadini. Se tu soffra che mi colga malanno, meriti forse nome di pio? E che ti rimane a fare di più per me, se fiorente è la mia Religione ch’è pure la tua? Il mio Senato continua a crescere in onore ed in ricchezza, per la qual cosa tu non dèi disperdere con discordia ciò che anzi dovresti coll’arme proteggere. Parecchi Principi io ebbi, ma nessuno fu mai nella scienza come questi preclaro[340]; molti uomini saggi, ma niuno che fosse più erudito e più pio. Io amo quest’uomo sceso della stirpe Amalia; io lo nutrii al mio seno. Egli è valoroso, educato alla mia civiltà, ai Romani diletto per la prudenza dell’animo, dai Barbari per virtù chiara venerato. Deh! unisci i tuoi desiderî ai suoi, il tuo consiglio al suo, affinchè, crescendo la mia felicità, la tua gloria istessa ne cresca. No, non iscendere in cerca di me, chè forse non mi troveresti più. E poichè nondimeno son tua nell’amore, non [379] voler deh! che alcuno faccia oltraggio a mie membra misere. Se Libia ottenne che tu le ridonassi libertà, oh ben sarebbe crudele il tuo animo, se io perdessi ciò che sempre possedetti. Illustre trionfatore, non lasciarti muovere da ira: la voce universale che ti supplica è più potente che il sentimento di collera onde il tuo cuore è tocco per qualche atto d’ingratitudine che forse hai ricevuto. Di tal maniera ti parla Roma, e ti volge preghiere per bocca dei tuoi Senatori. Che se nulla di lei pietà ti muove, parli al cuor tuo il santo spirito dei beati apostoli Pietro e Paolo. Imperocchè qual cosa potrai tu negar mai ai meriti di loro che spesso protessero Roma dai suoi nemici?»
Da parecchi passi di questa epistola, i cui sensi sono meritevoli di sprezzo, si pare che il Senato (al quale in unione al popolo romano il Re, dopo la morte di Atalarico, aveva prestato giuramento di conservare la costituzione dello Stato) operasse per minacce ch’erangli state fatte: nè è priva di fondamento la notizia offertaci da uno scrittore di quel tempo che il Re avesse minacciato i Senatori romani di mandarli a morte insieme alle mogli ed ai figli, se eglino non avessero dato opera colla loro influenza affinchè l’Imperatore non movesse alla conquista d’Italia[341]. E dalle lettere che leggonsi in Cassiodoro è posto in aperto che, all’avvenimento al trono di Teodato, il Senato ed il popolo di Roma fossero commossi a grave agitazione. Leggendo quegli scritti si vede che i Goti erano separati dai Romani per un abisso profondo e incolmabile, il quale, velato fino a quel momento [380] dall’arte politica di Teodorico e di Amalasunta, or d’un tratto si spalancava innanzi gli occhi di tutti, tremendamente. Non ci è dato di conoscere i maneggi secreti di Giustiniano coi Romani: Roma era in preda ad angoscia febbrile; e gli animi, scossi dal presentimento di qualche grave avvenimento che si reputava inevitabile, erano presi da terrore simile a quello onde già ai tempi di Onorio erano stati colti i loro avi al nome di Alarico. Dicevasi che il Re volesse sterminare il Senato, imperocchè egli lo avesse citato a comparire dinanzi a sè in Ravenna[342]. Si formavano crocchi di gente nelle vie; si narrava con terrore che Teodato avesse in animo di distruggere la Città e di trucidarne gli abitatori e che già un esercito goto movesse contro di Roma. Ed invero Teodato aveva comandato che un presidio goto ponesse quartiere entro la Città, senza dubbio affine di padroneggiarla in caso di sollevazione, e di difenderla da un assalto improvviso che i Greci movessero dal lato di mare. Ma i Romani, per mezzo di Vescovi spediti con ambasceria, protestarono vivamente, e ne lo dimostrano i Rescritti indiritti da Teodato al Senato ed al popolo: laonde dobbiamo trarre a conseguenza che Teodorico avesse posto a fondamento di costituzione che nella Città non sarebbe mai posta a presidio soldatesca straniera o gota. Ed ora il popolo romano, preso da panico terrore, sollevavasi rifiutando che i soldati goti entrassero nella Città a porvi stanza; per la qual cosa Teodato dava opera a restituirle pace, scrivendo lettere [381] ai Romani per dissipare «le ombre di terrore» e per acchetare «i pazzi tumulti». E diceva loro: «Contro i nemici vostri, non già contro i vostri difensori dovete opporre resistenza con saldo petto: l’esercito ausiliario dovevate invitare, piuttosto che respingere. Vi è dunque così straniera la faccia dei Goti che ne siate atterriti?[343] Perchè tremate di coloro che fino ad ora congiunti chiamaste? Eglino, che per correre a voi abbandonavano le loro famiglie, erano mossi soltanto da sollecitudine per la sicurezza vostra. E qual fama si spargerebbe del Principe, se noi (tolgalo Iddio!) alla vostra ruina avessimo congiurato? Non vogliate deh supporre cosa che noi non abbiamo mai accolta nella nostra mente».
Nel tempo medesimo Teodato indirizzava al Senato lettere di conciliazione. E ne aveva già resa cheta la paura allorchè aveva comandato che alcuni Senatori soltanto andassero a Ravenna, non già per aiutarlo dei loro consigli, ma piuttosto, ed eglino ben lo dovevano supporre, per servirgli di ostaggio[344]. Nella sua epistola ei diceva che i Goti non erano animati da altro desiderio fuor di quello di difendere Roma, città che non aveva sua pari nell’orbe; e affermava che alla difesa di lei nessun male andrebbe congiunto, perocchè l’esercito di presidio avrebbe provveduto da sè al suo provvigionamento: ma [382] finalmente egli acconsentiva che quello ponesse sue tende fuori della Città in alcune posizioni della Campania[345].
Queste dissensioni tra i Goti e la città di Roma agitavansi nel tempo stesso in cui il Re trattava di pace con Giustiniano ed in cui Belisario già scioglieva le vele partendo di Sicilia. E più tardi Roma doveva ricevere presidio, e già vedremo ch’esso vi poneva stanza sotto il comando supremo di Vitige.
Anche il Pontefice era costretto ad andare ambasciatore a Bisanzio per farsi mediatore di pace[346]. Era egli Agapito, di nazione romana, che, per volere di Teodato eletto a succeditore di Giovanni, era asceso, addì 3 di Giugno dell’anno 525, alla cattedra di san Pietro. Con dolore egli obbedì al comando del Re, e partendo in fretta di Roma, nè possedendo la moneta necessaria alle spese del viaggio, diè a pegno gli arredi preziosi del san Pietro agli officiali del regio tesoro per averne alcuna somma di denaro[347]. Il Libro Pontificale con ingenuo racconto dice che a Costantinopoli egli cominciasse anzi tutto [383] a tenere dispute con Giustiniano intorno a controversie religiose: e sembra ch’egli si comportasse nella sua ambasceria in maniera ostile ai Goti. Morte il coglieva in Bisanzio nel dì 22 di Aprile dell’anno 536, e lo preservava così dalla fine di Giovanni I della quale egli doveva paventare.
Frattanto Giustiniano accoglieva i legati Pietro e Rustico. Dopo di avere rifiutate con sorriso di sprezzo le pattuizioni della prima convenzione, accettava la seconda per la quale il vile Goto cedeva con obbrobrio l’Italia e deponeva la corona. L’Imperatore spacciava in fretta Pietro ed Atanasio a Teodato con lettere nelle quali accoglieva l’offerto trattato[348]. Ma alto stupore prendeva i due legati allorchè, giunti a Ravenna con precipitoso viaggio, videro che il Re li riceveva con parole di scherno. Una piccola vittoria ottenuta dalle sue soldatesche in Dalmazia aveva di repente mutato i propositi e la fede del disonesto Principe cui già sembrava di afferrare la corona della prodezza: per la qual cosa, cacciati in carcere i legati, volle guerra. Nè dovette attendere lunga pezza.
Nell’estate dell’anno 536 Belisario scioglieva le vele partendo di Sicilia per muovere alla conquista d’Italia. [384] Il tradimento del goto Ebrimuto, genero di Teodato, gli apriva con prospero successo, che superava la sua aspettazione, le porte di Reggio, fortezza importante situata al di qua dello stretto di Messina: ed il vincitore dei Vandali vedeva con gioia che i popoli e le città d’Italia meridionale gli spedivano ambasciadori plaudenti alla sua impresa, e la agevolavano con offerte di provvigioni. Il suo esercito procedeva lunghesso la costa, e di pari tempo lo seguiva la flotta: ma tutt’a un tratto la sua mossa era arrestata dalla coraggiosa difesa opposta da Napoli. La antica città diletta di Virgilio non era allora assai ampia[349], ma fortemente munita del pari che la prossima Cuma, era animata da fiorenti commerci che vi facevano i suoi abitatori greci ed i molti Ebrei che vi avevano stanza. Questi ultimi erano ostili all’imperatore Giustiniano che perseguitava i loro correligionarî, laddove invece la tolleranza dei Goti li rendeva loro amici, per la qual cosa combattevano a difesa delle mura non meno prodi che i soldati goti medesimi. L’assedio durava da venti giorni allorchè riusciva finalmente a Belisario di impadronirsi di Napoli penetrandovi per un acquedotto: la città fu saccheggiata, e gli abitanti, a punizione crudele di loro resistenza, furono messi a fil di spada. Possessore di quel fortissimo baluardo eretto sul mare, Belisario prendeva tosto dopo anche il castello di Cuma, e posto presidio nelle due fortezze affine di avere saldo fondamento alle sue opere di guerra nell’Italia meridionale [385] moveva rapidamente per la Campania e per il Lazio a cacciare di Roma i Goti.
Nella Città, o poco discosto, era Teodato stesso. Le soldatesche gote non avevano posto campo entro le mura, ma nel territorio circostante[350]: una parte di esse probabilmente alzava le tende presso il porto del Tevere, un’altra a capo dei due ponti dell’Anio, altri stuoli scaglionavansi lungo la Via Appia. Nè il pigro Teodato aveva saputo raccogliere altro esercito; e la soldatesca riunita intorno a Roma era scarsa di numero, avvegnachè le più forti schiere dei Goti fossero nelle Gallie e nelle Venezie attendendo a guerreggiare contro i Franchi. I prodi raccolti intorno a Roma si struggevano di rabbia di loro quiete inoperosa, e vedendo che il loro Re debole e imbelle tosto o tardi sarebbe sceso a vile pattuizione di pace con Belisario, un bel giorno partirono del loro campo movendo per la Via Appia. Questa celebre «regina delle lunghe vie»[351] da più che nove secoli era stata percorsa dalle moltitudini dei popoli; eppure il movimento continuo onde giorno e notte era calpestata non era mai stato potente a recare danneggiamento alla interezza ed alla saldezza di commettitura delle grandi lamine poligonali di basalto, delle quali era formato il suo lastrico; ed eccitava ancora la meraviglia dello storico Procopio il quale, nell’anno 536, [386] la vide, la misurò e la descrisse[352]. Quella Via partendo di porta Capena, dinanzi alla quale essa si distaccava dalla Via Latina, saliva con suo corso diritto i bei poggi di Alba, e scorrendo tra i monti Volsci ed il mare, attraversando simile ad alto argine le paludi Pontine e Decemnoviche, entrava al di sotto di Terracina nella Campania beata, e finiva a Capua[353]. Dall’un lato e dall’altro della strada, sepolcri senza numero, antichi e belli, ombreggiati da cipressi o adorni dei fiori del melogranato, si elevavano tristi compagni al viandante che di tratto in tratto posava ad alcune stazioni ove trovava ristoro e riposo del cammino[354].
Lungo questa Via or movevano i Goti fino a Regeta ove ponevano campo. Ed eleggevano di piantare le tende in quel luogo situato nelle paludi Pontine tra la stazione di Forum Appii e la città di Terracina, perchè ivi pingui paschi erano offerti ai loro corsieri dalle ampie pianure irrigate dal Decemnovio. Così Procopio appella un fiume [387] che gettavasi in mare presso a Terracina, dicendo che traeva nome dal suo corso di diecinove miglia. Ed era quel canale Decemnovio che scorreva a diritta della Via Appia, sul quale i viaggiatori, ai tempi dello Impero, solevano imbarcarsi presso Forum Appii affine di percorrere alcune miglia entro a navicelli, imperocchè la via che scorreva in mezzo a paludi rimanesse per lunghi anni inaccessibile, fino al momento in cui, sotto il regno di Teodorico, le paludi Decemnoviche erano rasciugate[355]. Nel campo di Regeta i guerrieri goti si raccolsero a consiglio, e nella pienezza del potere che compete ad una nazione offesa da grave oltraggio e cui alto pericolo minaccia, elessero un prode soldato a succeditore di Teodato ch’eglino proclamarono privo di onore e decaduto dalla corona. Nella regione erma e selvaggia delle paludi Pontine, sotto l’aperto cielo, di prospetto al capo di Circe che dalle onde del mare sorge simile ad azzurra isoletta, quei guerrieri che ricadevano nelle tristi condizioni di genti nomadi senza patria, elevarono sullo scudo Vitige, e collo squillo delle trombe e con grida di plauso lo salutarono re dei Goti e dei Romani. Eglino onoravano in lui il prode che già ai tempi di Teodorico s’era coperto di gloria nelle guerre contro i Gepidi, e [388] che non aveva mai cambiato la spada dell’eroe collo stilo del pedante.
Dopo che il novello Re ebbe arringato ai suoi guerrieri e dopo che ebbe determinato insieme coi principali capitani il disegno secondo il quale conveniva tosto operare, l’esercito goto ricalcando le proprie orme tornava per la Via Appia a Roma. Al suo avvicinarsi fuggiva per la Via Flaminia, colto da alto spavento, Teodato che nel suo palagio di Roma aveva ricevuto la notizia della ribellione dei suoi guerrieri. Ma il goto Ottari, nemico suo personale, correvagli dietro, e, prima che lo sventurato potesse ricoverare a Ravenna, sitibondo di vendetta raggiungevalo per via, e cacciatolo a terra, e tenendolo supino, e premendogli il petto col ginocchio, come vittima, lo scannava[356].
Rientrato Vitige coi suoi in Roma, promulgava un bando al popolo dei Goti: annunciava loro il suo avvenimento al trono e, facendo appello al loro animo marziale, diceva che non le voci di cortigiani adulatori ma lo squillo delle trombe lui aveva salutato re[357]. Egli congregava i guerrieri goti intorno a sè in Roma e loro diceva: la condizione delle cose imporre necessità di abbandonare la Città e di ritirarsi tosto a Ravenna: di là voler egli por fine alla guerra che s’agitava contro i Franchi per riunire intorno a sè la soldatesca sparsa e per opporre poi salda resistenza al greco Belisario: non dovere eglino offendersi al pensiero che nel frattempo [389] Roma cadesse in mano al Bisantino, avvegnachè, o i Romani coll’ajuto di un presidio goto si difenderebbero da valorosi, fedeli ai loro signori, oppure romperebbero fede, ed allora sarebbe meglio conoscerli nemici aperti, piuttosto che averli nemici celati. Plaudivano i Goti; e Vitige, adunato il Senato, rammentava ad esso, al popolo romano ed al Pontefice i beneficî che la Città aveva ricevuti dal generoso Teodorico; esortava affinchè si mantenesse fede al reggimento goto; e voleva che la loro antica promessa di sudditanza si rinnovellasse con un giuramento solenne. Indi, lasciati quattromila dei suoi più prodi guerrieri a presidio di Roma, e datone il comando ai vecchio e valente Leuderi, moveva a Ravenna per la Via Flaminia col rimanente del suo esercito, seco traendo parecchi Senatori quali ostaggi.
Nelle stanze del palazzo regale, Matasunta, figlia ad Amalasunta, viveva immersa in duolo profondo della distruzione di sua nobile famiglia. Vitige costringeva la giovane principessa, repugnante, a sposarlo: avvegnachè da quel connubio, che trasfondeva in lui il diritto di successione al trono della stirpe degli Amalî, egli sperasse di ottenere riconoscimento del suo potere da tutta la nazione gota e di rendere più propenso a conciliazione l’imperatore Giustiniano, a cui egli spediva tosto suoi legati[358]. Per concludere pace coi Re franchi egli era costretto, nelle estreme difficoltà da cui era circondato, di cedere a quei Principi avidi di potenza le belle province della Gallia meridionale, e ne riceveva in cambio promesse di pace eterna e di soccorsi. Di tal [390] maniera riusciva fatto a Vitige di raccogliere le sue soldatesche intorno a sè.
Nel tempo stesso in cui il novello Re dava in Ravenna provvedimenti guerreschi, Belisario moveva per la Via Latina alla volta di Roma[359]: e appena i Romani avevano contezza ch’egli s’avvicinava, deliberavano di spedirgli un messaggio di pace e di porgergli le chiavi della Città. A ciò spingevali il Pontefice, il quale sperava che i Greci riponessero in onoranza la fede ortodossa (sulla cattedra di san Pietro sedeva allora Silverio, figlio di Ormisda, che i Romani erano stati da re Teodato costretti ad eleggere dopo la morte di Agapito). Il capitano bisantino accoglieva con gioia il legato Fidelio e chiunque dei Senatori e del clero usciva ad incontrarlo; indi con rapida mossa si spingeva per la valle del Trero, ossia di Sacco, contro Roma. Nel tempo stesso in cui egli s’avvicinava, Leuderi conoscendo che gli era impossibile di difendere coi suoi quattromila soldati una città vastissima, il cui popolo era animato da senso ostile contro il presidio, fè che i suoi Goti partissero tutti per Ravenna: nè i Romani se ne crucciarono. Egli solo, trattenuto da sentimento generoso d’onore, rimase. Intanto che i Goti uscivano di porta Flaminia, entravano i Greci da porta [391] Asinaria[360]: ed i Romani ascoltavano con istolta gioia mista a stupore lo squillo dei corni dell’esercito greco onde risuonavano novellamente le loro mura, e miravano la cavalleria degli Schiavoni e degli asiatici Unni, splendida delle fogge dai vivaci colori, che a bandiere spiegate scendendo dal Laterano, per l’arco trionfale di Tito entrava nella Via Sacra. Alcuni gioivano al pensiero che la Religione ariana or ne sarebbe umiliata; altri accoglievano speranza della restaurazione dell’Impero romano antico; tutti desideravano una mutazione di reggimento: ma nè gli uni, nè gli altri erano agitati da alcun presentimento degli avvenimenti terribili onde sarebbero stati funestati in breve ora; ed il clero ed il popolo di Roma non comprendevano che eglino stavano per cambiare una libertà moderata ed il mite reggimento dei Goti con un vero giogo di schiavitù sotto la dominazione dei Bisantini.
Belisario entrava in Roma addì 9 di Dicembre dell’anno 536: erano ormai trascorsi sessant’anni dacchè l’Impero romano era caduto sotto la signoria dei Germani[361].
[392]
Belisario spediva a Bisanzio in segno di sua vittoria le chiavi delle porte di Roma e Leuderi prigioniero: ma egli stesso conosceva la difficoltà di mantenersi padrone di un’ampia città che egli non isperava di poter difendere a lungo dall’assedio onde prevedeva che tosto sarebbe cinta. Malgrado della cura con cui Teodorico aveva atteso a restaurarle, le mura di Aureliano erano in parecchi punti danneggiate ed in parte anche diroccate: egli diè opera tosto a munirle cingendole di larga fossa ed ergendo un saldo spalleggiamento di merli angolari. Ammiravano i Romani questi lavori e ad un tempo si affliggevano al pensiero dell’assedio al quale [393] Belisario s’apparecchiava con tanta sollecitudine. Il Bisantino riempiva i granai publici di cereali tratti di Sicilia e di grani raccolti dalla Campania, ai cui coloni egli aveva imposto che d’ogni parte somministrassero provvigioni. Nè egli errava nelle sue aspettazioni.
Vitige durante l’inverno raccoglieva l’intiero esercito goto, e dopo che lo ebbe fornito come meglio potè di armi, di abiti e di cavalli, affrettato dalla notizia della caduta di quasi tutte le città di Toscana e del Sannio, mosse di Ravenna contro Roma. Per via, alcuni Romani dicevangli che i Greci erano ormai abborriti nella Città, per la qual cosa i suoi spirti guerrieri ne erano accesi ognor più. Senza indugiare alla conquista di Perugia, di Spoleto e di Narni, con mossa affrettata, abbandonata la Via Sabina, scendeva da Via Casperia e da Via Salara. In sull’incominciamento del Marzo 537, dall’alto delle mura della Città, i Bisantini ed i Romani miravano l’oste gota che con aspetto terribile s’avvicinava. Innumerevoli erano le schiere dei Goti (i quali, secondo notizia forse esagerata del secretario di Belisario, sarebbero ascesi a 150,000 uomini): e quella moltitudine di fanti e di cavalieri dai destrieri coperti di ferrea maglia, moveva per Via Salara alla volta di Roma. Il Tevere, serpeggiando con dolce curva intorno a colline di tufo vulcanico, accoglie dalla sua sponda sinistra le acque del fiume Anio, il quale, scorrendo attraverso vallate coperte di bei tappeti d’erba sempre verdeggianti, termina a mescere le sue colle onde del maggior fiume presso al terzo stadio migliare.
Allorchè i Goti videro le mura di Roma elevarsi dirimpetto, si lanciarono all’Anio che li separava dalla [394] Città, mossi da desiderio ardente di traghettarlo. Durante la primavera, il bel fiume accoglie gran copia di acque che ne rendono difficile il guado, per la qual cosa eglino correvano tosto al ponte su cui conviene passare per giungere alla Città, ma lo trovavano munito di una forte torre e ben guardato[362]. Sennonchè il presidio, colto da paura, di nottetempo fuggiva nella Campania; laonde i Goti non durarono altra fatica che quella di spezzare la porta del ponte, varcato il quale, essi mossero contro porta Salara. Ma per via s’imbatterono in Belisario il quale era uscito della Città con mille cavalli per ispiare la mossa del nemico e per trattenerlo dal passare. Procopio tinse il suo pennello nei colori onde splende l’Iliade per dare una energica descrizione della prima pugna che si combattè sotto le mura di Roma. Egli ci dipinge Belisario che montando un generoso cavallo sauro stellato in fronte[363], simile ad un eroe omerico, abbatte nemici sopra nemici, combattendo sotto un nembo di frecce e urtando contro una selva di lance: imperocchè i Goti volgessero il loro studio a colpire il duce il cui destriero lo faceva conoscere da lunge. E poichè speravano di prendere Roma ad un primo assalto, morto il generale, lo stringevano con furore da tutti i lati. Ma la sua sola [395] spada fulminea lo proteggeva da tutti i colpi, e gli scudi delle sue guardie ne coprivano il petto, nel tempo stesso che Goti e Greci formavano coi cumuli dei loro cadaveri un alto baluardo intorno a lui.
Dopo una zuffa violenta di dubbio successo, i Greci sopraffatti dalla forza maggiore dovettero ripiegare: e si ritirarono rapidamente verso il colle, separato per una gola profonda dal monte dei Giardini che s’eleva innanzi a porta Pinciana[364]. Ma l’eroico valore di un Valentino, ch’era maestro delle stalle di Fozio figlio di Antonina, rattenne la foga dei cavalieri Goti che si scagliavano impetuosi contro i fuggitivi, finchè questi si furono ritirati sotto la protezione delle mura della Città. I Goti gli inseguirono con ardore fino alla porta ch’ebbe nome di «Belisaria», e che probabilmente sarà stata porta Pinciana. Le scolte che stavano a guardia delle torri e delle mura della Città, temendo che insieme ai Greci non irrompessero alla rinfusa anche i nemici, non badavano al grave pericolo dei loro compagni fuggiaschi; nè davano retta al comando di Belisario che con voce potente gridava che aprissero, perchè, tutto polvere e sudore non era riconoscibile al lume del sole cadente: ed anzi, reputando che il capitano fosse morto, il presidio teneva con maggior ostinatezza asserragliate le porte. Ma già i Goti s’apprestavano a colmare il fosso per poter superarlo, affine di fare strage dei Greci che stringevansi fra il fosso ed il muro. Allora Belisario confortava i suoi ad un ultimo sforzo, con urto terribile ed [396] improvviso assalendoli, ricacciava i Goti disordinati nel loro campo presso il fiume; indi entrava coi suoi guerrieri in città. I Romani avevano dalle mura contemplato con isguardo di meraviglia quel combattimento simile alle pugne che in tempi antichi avevano combattute i loro padri: ma eglino, che, nepoti di eroi, erano caduti nel profondo della viltà, avevano mirato alla zuffa neghittosi e tremanti di paura. Sembrava che fossero tornati i tempi dell’assedio di Troja, e nel mattino seguente dai baluardi vedevasi il campo della battaglia coperto di migliaia di cadaveri dei Goti e dei Greci. Fra i caduti, lo stesso nemico dovè con lode imparziale celebrare il valore di un Goto: fu questi il prode Visando vessilifero[365]. Combattè fra i più accaniti nella mischia appiccatasi intorno a Belisario, e, caduto con tredici ferite, fu trovato tre dì dopo che ancora alitava dai suoi Goti, che lo trasportarono al campo, ove fu salutato col nome di eroe.
Vitige, deluso nella sua speranza di prendere la Città ad un primo assalto, deliberò di cingerla d’assedio regolare. I Germani, ch’erano abituati a pugnare in campo aperto, ignoravano l’arte degli assedî; ed il Re, mal consigliato, pose con incredibile cecità a giuoco pericoloso il regno gotico dinanzi alle mura di Roma, contro le quali doveva infrangersi la bravura di un popolo guerriero. Il giro estesissimo delle mura di Aureliano non gli permise di circondarle interamente; per la qual cosa egli si restrinse a cingerne la parte più debole che si stende da porta Flaminia a porta Prenestina: e questo [397] è argomento che vale a sollevare dubbio non lieve sulla notizia dataci da Procopio che l’oste gota comprendesse centocinquantamille combattenti. Narra lo Storico che lungo quella linea di mura s’aprissero cinque delle porte principali, ma non ne dà i nomi. Noi sappiamo, per vero dire, che ivi dovevano esistere le porte Flaminia, Pinciana, Salare, Nomentana, Tiburtina, Clausa e Prenestina: per la qual cosa si pare che lo Storico non abbia tenuto conto della penultima, nè, sembra, di porta Pinciana[366]. I Goti posero sei campi fortificati dirimpetto a quelle porte, a manca del fiume; un settimo collocarono a destra del Tevere nel campo di Nerone, ossia in quel piano che si stende dal monte Vaticano a ponte Milvio, situato sotto il colle che oggidì ha nome di monte Mario. Imperocchè loro tardasse di tenere ben custodito quel ponte donde potevano vegliare all’altro di Adriano, da cui s’entrava in città per la porta interna Aureliana. E questa porta, che aveva anche allora nome di san Pietro, era al di qua del ponte di Adriano, e s’apriva in quella parte delle mura che, staccandosi da porta Flaminia e seguendo la sponda interna del fiume, cingeva il campo di Marte. E da quel settimo accampamento i Goti vigilavano anche sopra porta Transteverina, la quale non era differente dalla porta di san Pancrazio presso il Gianicolo[367].
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Frattanto Belisario dava opera nella Città a porre in migliore assetto di difesa le porte. Egli faceva murare porta Flaminia, che era troppo vicina al campo nemico, e ne affidava la custodia al valoroso Costantino; alla porta di Preneste preponeva Bessa; ed egli stesso poi stabiliva il suo alloggiamento fra porta Pinciana e porta Salara, ch’erano poste nella linea meno valida delle mura e ch’erano acconce a sortite. Ad ogni altra porta poneva a guardia un capitano; ed a tutti quei suoi luogotenenti comandava che non abbandonassero mai i luoghi affidati alla loro vigilanza per cosa che vedessero o che udissero. I Goti che di quando in quando si scagliavano contro le porte ne trovavano i guardiani sempre parati a difenderle; e silenzio profondo era opposto ai discorsi che eglino dal basso volgevano a quei di dentro, dicendo che i Romani erano traditori e dissennati poichè avevano anteposto alla potenza dei Goti il giogo dei Bisantini, dai quali (dicevano con verità incontestabile) Italia non aveva ricevuto altro profitto che quello di averne tragedi, istrioni e pirati[368].
[399]
Nel tempo medesimo in cui gli assedianti cingevano Roma, eglino tagliavano i quattordici acquedotti della Campania che conservavansi ancora in integra condizione: e Belisario (memore dell’assedio di Napoli in cui il suo esercito era entrato di nottetempo per un canale sotterraneo) fè murare con diligente cura le imboccature di tutti i canali della Città. Di tal maniera i bellissimi acquedotti di Roma, meraviglia di tanti secoli, andavano spezzati e distrutti a mezzo, e dopo tempo immemorabile cessarono di spandere la letizia delle loro onde alla Città. Ma i Romani per difetto di acqua non soffrivano tanto di sete, quanto dell’impossibilità di muovere le macine dei loro molini. Questi erano, secondo narra Procopio, e sono anche oggidì, nella Regione Transteverina, sul pendio del Gianicolo, dirimpetto al ponte che oggi ha nome di ponte Sisto, dove le onde dell’acquedotto di Trajano scendendo con impeto, simile a quello di un fiume, poneva in movimento i congegni. La inoperosità di quei molini era causa che si avesse penuria di farine e di pane, per la qual cosa il genio di Belisario ricorreva ad un’espediente del quale i Romani dei nostri giorni, che ancora ne usano, a lui debbono grazie. Egli fè collocare innanzi al ponte sunnominato due barche rattenute da gomone, e pose su quelle la macina in maniera che i congegni ne fossero posti in movimento dalla forza delle acque che con impeto si rovesciavano fra i pilastri del ponte[369]. I Goti tentarono di rompere o guastare [400] quei molini natanti abbandonando alla corrente del fiume tronchi d’albero e cadaveri di Romani, ma Belisario facendo tendere una catena a traverso delle acque rendeva nullo l’intento degli inimici.
Frattanto gli assedianti devastavano la Campania, e impedivano per quanto potevano che s’introducessero vettovaglie entro la Città. Il popolo romano era agitato da grave malcontento via via che crescevano le strettezze dell’assedio: la plebe con alti clamori diceva che non bastavano le forze della Città a sostenere l’assedio, e beffeggiava i Bisantini e Belisario il quale follemente pretendeva di voler difendere con cinquemila soli guerrieri una città malamente munita contro un’oste potente: il Senato mormorava in secreto. Alcuni trafuggitori narravano a Vitige dei torbidi interni, per la qual cosa egli cercava di accenderli vieppiù. E a tal uopo spediva a Belisario un legato il quale, in presenza dei Senatori e dei duci, lo ammoniva che cessasse di aggravare dei mali d’un assedio quei Romani che Teodorico aveva colmati di gioie e resi lieti di libertà: diceva che dovesse persuadersi essere la sua resistenza una pazza impresa: e lo esortava a cedere, promettendo che a lui sarebbe concesso di partirsi liberamente, ed ai Romani sarebbe dato obblio del passato. Ed a questi ultimi l’ambasciatore goto chiedeva, di quali opere malvage gli avessero oppressi i Goti, perchè questi, loro signori, [401] avessero avuto a tradire insieme a sè medesimi: chè invece dopo di avere resi loro beneficî memorandi, ora eglino, loro antichi proteggitori, comparivano novellamente innanzi le mura a liberarli. Gli udivano i Romani tremanti e taciti, chè non erano osi di dare risposta al rimprovero di tradimento. Ma Belisario calmo e imperterrito protestava al legato che egli terrebbe fermo in Roma finchè avesse un sol fiato di vita.
Come l’ambasciatore fu ritornato al campo recando questa risposta, e come Vitige ebbe compreso che Belisario non cederebbe, il Re continuò con maggior ardore nelle opere dell’assedio, e attese a dare apprestamenti all’assalto. Fabbricò alcune torri smisurate di legno la cui altezza superava quella delle mura, le quali con pesanti ruote sopposte agli angoli, dovevano essere trascinate da buoi, ed alle quali erano attaccati con catene alcuni arieti dal ferreo capo, che cinquanta uomini dovevano spingere a percuotere la muraglia. E fè pure costruire lunghe scale e salde che dovevansi appoggiare ai merli tosto che il fosso fosse stato colmato con fascine. A quei goffi apparecchi (e l’arte dei moderni assedî ride di loro rozza semplicità) opponeva Belisario altri provvedimenti. Ei collocava sulle mura alcune balestre congegnate con arte, e grandi frombe da gittar sassi, alle quali davasi nome di asini selvatici (onagri), ch’erano atte a scagliare una freccia con tale impeto da configgere ad un albero un uomo armato di corazza. A difesa delle porte egli eresse alcune macchine dette lupi, che erano saracinesche formate di pesanti travi armate di punte di ferro, le quali d’improvviso facevansi piombare con grande impeto sopra gli assalitori.
[402]
Come sorse il giorno decimottavo da che aveva avuto incominciamento l’assedio, Vitige mosse con assalimento generale contro la Città. Dai sei campi posti al di qua del fiume, e dal settimo collocato sulla destra sponda uscirono le spesse schiere dei Goti con loro torri e con iscale. La vista di quelle moli gigantesche che, simili a montagne crollanti, lentamente s’avvicinavano alle mura incuteva alto spavento ai Romani. Ma Belisario ne rideva, e da un merlo di porta Salara, impugnato l’arco, trafiggeva con una prima freccia il condottiero del drappello assalitore; un secondo ne stendeva tosto dopo al suolo e comandava ai suoi arcieri di far segno ai loro colpi i buoi che trascinavano la torre. I Goti videro delusa la loro speranza di avvicinare le loro macchine alle mura: le torri rimanevano immobili ed eglino stessi cadevano invece trafitti nella fossa della Città.
Nel tempo stesso in cui si dava l’assalto a tutte le porte innanzi alle quali i Goti avevano posti i loro campi, una violenta mischia s’era appiccata in due luoghi pei quali gli assalitori speravano di aprirsi un varco: a porta Prenestina e al mausoleo di Adriano. Presso alla porta di Preneste le mura erano assai deboli, particolarmente là dove vi si addossava un antico Vivario, ossia recinto ove custodivansi belve. Questo Vivario, il quale sembra che fosse situato in prossimità di porta [403] san Lorenzo, che allora doveva essere chiamata Prenestina[370], non era munito di torri e di merli e solo celava la fragilità del muro che dietro s’alzava, senza accrescervi saldezza. Vitige stesso guidava la schiera assalitrice, e Belisario avvisato il pericolo, lasciava porta Salara e correva a porsi alla testa dei difensori. I Goti erano già penetrati nel Vivario, e s’apprestavano con ardore a superare la muraglia, allorchè i Greci scagliandosi con impeto gli sgominavano in quell’angusto recinto, indi li volgevano a fuga disordinata verso il loro campo che era assai discosto, e ne ponevano in fiamme le macchine.
Gli assediati con energica sortita respingevano i Goti da porta Salara: porta Flaminia in causa della sua erta posizione non era assalita; ed il così detto Murus ruptus, che stava fra quella porta e l’altra Pinciana, era difeso dall’apostolo Pietro che aveva serrati gli occhi dei Goti. Questa strana leggenda, creata in quel tempo [404] in cui san Pietro era venerato quale patrono di Roma, in cui il suo corpo otteneva l’onoranza del Palladio antico, ci è narrata da Procopio, il quale aggiunge che i Romani prestavano omaggio a quell’Apostolo sopra ogni altro. Una parte della muraglia che si addossa a monte Pincio, di salda e bella costruzione, sostenuta da barbacani contigui gli uni agli altri e coperta di una bella rete di pietre, s’era fin da tempo antico naturalmente infranta, non dal basso ma dal mezzo in su: e rimasta in quella condizione, senza cadere stava con obbliquo pendio. Narra Procopio che fin da tempi antichi i Romani vi dessero nome di Muro Rotto, e noi aggiungiamo che oggidì ancora la appellano Muro Torto. Allorquando Belisario in sull’incominciamento dell’assedio volle munire quel luogo, troppo debole a respingere un assalto, ne lo impedirono i Romani, protestando con fermezza che il santo Apostolo aveva promesso loro di difendere in persona quel muro. E nel giorno dell’assalto e più tardi, i Goti non si scagliarono mai contro il Muro Rotto; per la qual cosa Procopio aveva argomento di meravigliarsi che il nemico, il quale aveva tentato di dare la scalata alle mura di giorno colla forza, di notte coll’astuzia, fosse stato sì negligente da non aprirsi un varco in quel luogo propizio che sembrava invitarlo[371].
[405]
Dal lato del Transtevere, i Goti tentarono con infausto successo di impadronirsi della porta del Gianicolo detta anche di san Pancrazio, cui proteggeva il luogo ripido su cui s’ergeva[372]. Ma con maggiore energia e con pugna accanita eglino mossero all’assalimento del mausoleo di Adriano. Procopio ci lasciò la narrazione di questo memorando episodio dell’assedio goto, ed a lui andiamo debitori a quest’occasione della prima ed unica descrizione del celebre mausoleo, quantunque abbiasi a deplorare ch’essa sia imperfetta assai. Gli scrittori che lo precedettero, con grave negligenza, appena badarono a quel monumento; e dalle parole di Procopio non si ricava perfetta notizia della forma e della condizione sua a quel tempo. Egli dice soltanto: «Il sepolcro di Adriano imperatore romano s’alza fuori di porta Aurelia distante un trar di sasso dalle mura. È edificio splendidissimo, imperocchè sia rivestito di marmo pario e le pietre sieno saldamente aderenti le une alle altre, senza che all’interno sieno di maniera alcuna congiunte. Uguali i suoi quattro lati e larghi ciascuno un trar di sasso: la sua altezza supera quella delle mura. Al sommo lo adornano statue bellissime di uomini e di cavalli dell’istesso marmo». A queste notizie si restringe la descrizione di Procopio, e da quelle sembrerebbe che il mausoleo fosse stato una torre adorna di statue di marmo che poggiava sopra un’alta base quadrangolare: se poi l’edificio rotondo andasse via via rastremandosi a parecchi ripiani, [406] se sovra questi si ergessero statue, se finalmente l’edificio terminasse in vertice appuntito coronato di una palla di bronzo, lo Storico greco non dice[373].
La solidità, la grandezza di quella mole simile a una rocca, la sua vicinanza alla Città dalle cui mura vi si riusciva direttamente per il ponte di Adriano, avevano consigliato ai Romani, molto prima del tempo di Belisario, di giovarsi di quel mausoleo a baluardo della Città, comprendendolo entro il circuito delle sue fortificazioni. «Gli Antichi», dice Procopio, «tramutarono quel sepolcro (il quale sembra essere una fortezza eretta a prima difesa della Città) in uno dei suoi baluardi, congiungendolo al muro della Città per mezzo di due muraglie»[374]. [407] Fra gli Antichi però lo Storico non può aver compreso Teodorico, quantunque il Re goto abbia forse restaurato il sepolcro di Adriano oppure ne abbia usato a cittadella ed a prigione dei rei di Stato; chè già fino al secolo decimo il popolo vi dava nome di «carcere di Teodorico», e soltanto posteriormente lo appellava «torre di Crescenzio»[375]. Egli è probabile che Onorio, se non sia stato Aureliano, lo congiungesse alle mura. Per poter comprendere il modo, ei fa duopo che si pensi, che la muraglia di Aureliano sorgendo sulla sponda sinistra del Tevere, partiva di porta Flaminia, e che, interrotta innanzi al ponte di Adriano dalla porta Aurelia, procedeva fino al ponte Gianicolo anzi fino al ponte dell’isola del Tevere, e finiva là dove la muraglia di Aureliano esterna al Gianicolo, toccava le onde del fiume. Disgiunto dal sepolcro per il corso del Tevere, il muro della Città non poteva esservi riunito se non per mezzo di quel ponte; e due muraglie, che se ne staccavano, ponevano in congiunzione il sepolcro e il ponte colla muraglia interna della Città e colla porta Aurelia. Di tal maniera quell’adito importantissimo di Roma era protetto da un baluardo che sorgeva a guardia del ponte; ed al suo presidio era dato di unirsi quando volesse con quello della porta[376]. [408] E poichè le muraglie condotte dal sepolcro al ponte precludevano la via che guidava al san Pietro, ne derivava necessità che vi si aprisse una porta: ed è quella che nei secoli ottavo e nono ebbe nome di porta sancti Petri in Hadrianeo[377].
Belisario aveva affidata la guardia del mausoleo al più valente dei suoi luogotenenti, a Costantino; ed avevagli dato comando che vigilasse anche alla difesa del muro vicino: imperocchè colà, forse a sinistra di porta Aurelia, fossero collocati pochi drappelli; chè il fiume col suo corso giovava a render munito il muro. Frattanto i Goti, conoscendo che quel tratto era difeso da pochi soldati, tentavano di guadare il Tevere sopra barchetti; e Costantino era costretto a correre in persona sul luogo minacciato, lasciando il nerbo dei suoi guerrieri a difendere porta Aurelia ed il sepolcro. I Goti s’avanzavano contro il mausoleo, e cominciavano da quello l’assalto, perocchè sperassero d’impadronirsi della porta tosto che [409] quello fosse caduto in loro potere. Senza trar seco loro macchine di guerra, protetti dai loro larghi scudi, eglino recavano scale. Un portico, o viale coperto, dal tetto sostenuto da colonne, s’alzava in vicinanza del sepolcro e si stendeva fino alla basilica Vaticana[378]. In quello riparavano gli assalitori dai colpi che con loro baliste lanciavano i Greci del castello; indi avvicinavansi destramente alla rocca per le strette vie che erano presso al distrutto circo di Nerone, in maniera che gli assediati non avevano più agio ad usare di loro macchine. Di repente movendo con impeto, scagliavano un nembo di dardi contro i merli della rocca ed appoggiavano le scale, ed avanzandosi da tutti i lati erano già per cingere d’ogni parte il mausoleo e per azzuffarsi coi difensori. In quella strettezza, la disperazione suggeriva ai Greci di giovarsi a guisa di proietti delle grandi e belle statue che ornavano il mausoleo: e messa in pezzi la maggior parte di quei marmi di mole considerevole, come narra Procopio, con ambe le mani ne scagliavano i rottami sui Goti. E ne veniva che il sepolcro di Adriano era per sempre spoglio del suo più splendido ornamento. Precipitava una gragnola tremenda di frammenti di tanti capolavori, di statue d’Imperatori deificati, di Numi, di Fauni, di eroi: gli assalitori Goti cadevano scacciati sotto i bei simulacri degli idoli, i quali, lavori di Policleto o di Prassitele, avevano forse un giorno abbellito i templi di Atene, oppure, quattrocento anni prima, da artisti greci erano stati scolpiti [410] nelle officine di Roma[379]. I Goti non poterono resistere a quella tempesta di marmi, ma costernati dierono indietro; e gli assediati mettendo grida di gioia raddoppiarono i loro sforzi e respinsero pienamente l’assalimento. Con quella zuffa terribile e strana che s’era combattuta intorno alla tomba d’un Imperatore, e che sembrava ricordare la lotta dei Giganti del mito, davasi dappertutto fine all’assalto, e dalla banda di porta Aurelia prima di ogni altra. Costantino, tornando dalla muraglia donde egli aveva impedito facilmente che i nemici scendessero sulla sponda sinistra del fiume, trovava che i Goti già ritiravansi del mausoleo, ai cui piedi ammucchiavansi cadaveri schiacciati e frammenti di statue sozze di sangue.
Vitige, ributtato in quell’assalto mosso contro tutte le porte di Roma, vi perdette il fiore della sua milizia; e forse vi perirono non meno di trentamila guerrieri, chè a tanti li fa ascendere Procopio per notizie avute da duci goti: e ancor maggiore, dic’egli, fu il numero dei feriti, perchè i colpi delle macchine degli assediati menavano grave danno alle ordinanze profonde dei Goti, e perchè i Greci nelle loro sortite avevano fatta grande strage fra i nemici che fuggivano disordinati. Come venne la notte, [411] Roma echeggiava di lieti cantici di vittoria e di lode a Belisario, ed i campi dei Goti risonavano di inni melanconici nei quali piangevasi la sorte dei fratelli caduti[380].
Il rovescio che i Goti avevano tocco nell’assalto mutava la condizione delle cose: ristavano i Goti dai loro apprestamenti; ne divenivano più baldi i Romani, Belisario più operoso. Gli assedianti stavano muniti nei loro accampamenti, nè si avvicinavano troppo alle mura per paura di sortite repentine dei loro nemici, nè scorazzavano più come prima senza precauzioni nella Campania, perchè la cavalleria leggiera dei Mauri di Belisario li molestava dì e notte. La Campagna di Roma è, in tutto il mondo, il territorio più opportuno ai volteggiamenti di cavalleria. Ivi si stendono vastissimi piani che possono corrersi a briglia sciolta: gli interrompono tratto tratto alcuni torrentelli che i cavalli guadano facilmente e con piacere; vi si alzano qua e colà alcune collinette d’origine vulcanica verdeggianti di erbe e sparse di fiori, che il cavaliere sale e scende senza rattenere la foga del suo corridore. I Mauri di Numidia, saettatori terribili, scorrevano in questa classica regione deserta [412] come solevano nelle patrie loro pianure che si stendono a’ piedi dell’Atlante; gli Unni venuti dall’Istro e i Sarmati nati sul Tanai, rinvenivano qui ancora le loro steppe coperte di erbe: e nessuna età vide mai zuffe di cavalleria più terribili di quelle che si combatterono intorno a Roma nel tempo di questo memorabile assedio.
Poichè i Goti non avevano potuto cingere Roma per intiero, era rimasta alla Città libera uscita e aperta la via dal lato di Napoli e del mare, chè Vitige era stato sì imprevidente da non impadronirsi di Albano e di Porto. I Romani or cessavano di schernire all’ardire di Belisario, ed anzi fidenti nel suo genio attendevano con zelo ai piccoli servigî di guardia ch’egli affidava loro. Le loro speranze erano confortate da buoni augurî; imperocchè, malgrado del loro culto ai santi Apostoli ed ai Martiri, eglino non avessero cessato di prestar fede agli auspicî pagani. E Procopio ne racconta alcuni fatti degni di nota del tempo dell’assedio. Nella Campania alcuni fanciulli conduttori di pecore, attendendo fra loro a lottare, avevano posto nome a due dei combattenti Belisario e Vitige. Cadeva il Vitige, ed in pena i furfantelli scherzando lo appendevano ad un albero: ma giunto frattanto un lupo, fuggivano abbandonando il miserello Vitige che, soffocato nella sua giacitura, ne moriva. I pastori ebbero quel fatto a presagio non mendace della vittoria di Belisario, e non ne punirono i colpevoli fuggitivi. Ciò accadeva nei monti Sanniti, ma in Napoli compievasi un portento ancor più eloquente. Nel foro di quella città era un musaico che rappresentava l’imagine del grande Teodorico: lui vivente ancora, era caduto il capo di quella figura e tosto dopo il Re moriva: otto [413] anni appresso cadutone il busto, moriva Atalarico: poco tempo dipoi ne rovinavano le anche, e moriva Amalasunta. Or finalmente durante l’assedio cadevano i piedi, e distruggevasi ogni vestigio di tutta la figura, laonde i Romani traevano ad indicio sicuro che Belisario vincerebbe. Un simile presagio era stato già ottenuto da un Ebreo indovino a’ tempi di Teodato; chè, chiusi in tre stalle trenta majali, dieci in ognuna, e a ciascun gruppo messo nome di Goti, di Greci e di Romani, e tenutili senza cibo, come si apersero le porte, fu trovato che i Goti erano tutti morti, i Greci vivi tutti fuor di due, e i Romani mezzi morti e mezzi pelati.
E nel tempo stesso anche nella Città alcuni patrizî diffondevano un oracolo tratto dai libri sibillini, il quale diceva: che nel mese quintile, ossia nel Luglio, Roma non avrebbe più nulla a temere dai Goti[381]. La rimembranza delle superstizioni pagane riviveva ancora di repente fra i Romani; ed un mattino il Papa era commosso a duolo alla notizia credibile appena, che fra i Romani fossero ancora secreti aderenti del Paganesimo, imperocchè si fosse tentato in quella notte di aprire violentemente le porte del tempio di Giano, e quantunque non vi si riuscisse appieno, fossero però tratte fuori dei gangheri. Si sa che nell’antica Roma spalancavansi le porte del tempio di Giano all’incominciamento di [414] una guerra: quella costumanza era stata distrutta dal Cristianesimo, dopo il cui trionfo, come osserva Procopio, i Romani, cristiani fervidissimi fra tutti, non avevano più aperte le porte di Giano in tempo di guerra. Ma l’antichissimo tempio del Nume s’ergeva ancora appiè del Campidoglio, presso il Foro romano, innanzi al palazzo del Senato, con sue porte chiuse; ed i Romani con pavido rispetto veneravano ancora in quel delubro «l’edificio fatale» della loro Storia. Era, dice Procopio, un piccolo tempio di bronzo, di figura quadrangolare, alto quanto bastava a capire il simulacro del mitico Giano. Anch’esso era di bronzo, alto cinque braccia, di umano aspetto, ma con due facce, l’una volta ad oriente, l’altra ad occaso: le due porte di bronzo s’aprivano innanzi le due fronti del simulacro del Nume.
Dalla menzione che è fatta in questa età del tempio e del simulacro di Giano ricavasi a sicura conseguenza che nè i Goti, nè i Vandali avessero recato oltraggio a quel santuario antico di Roma. E dallo stesso passo meritevole di nota dello Storico che fu testimonio oculare degli avvenimenti, ci è fatto conoscere che in sull’incominciamento del secolo sesto era nel Foro un luogo cui si dava nome di Tria Fata. Infatti Procopio dice: «Il tempio di Giano s’eleva nel Foro innanzi al palazzo del Senato, pochi passi oltre i Tria Fata, il qual nome sogliono i Romani dare alle Parche»[382]. Quella appellazione di Tria Fata dev’essere derivata da tre [415] simulacri antichi delle Sibille ch’erano allora in vicinanza dei Rostri[383]. Nel secolo quinto quel nome tribuivasi anche alle Parche[384], e vedremo in appresso che nel secolo ottavo se ne chiamava un luogo del Foro antico: e vedremo pure che il tempio di bronzo di Giano anche nel secolo duodecimo era appellato Tempio Fatale.
Quest’ultimo alito di vita del Paganesimo, che si agita in Roma a proposito del tempio di Giano, opera una possente attrattiva sulla nostra fantasia: e perciò a quest’occasione non possiamo fare a meno d’inserire nella nostra Cronica un antico inno latino, che è una [416] delle ultime reliquie del culto pagano. Eccone le strofe intraducibili:
O admirabile Veneris idolum
Cujus materiae nihil est frivolum;
Archos te protegat, qui stellas et polum
Fecit, et maria condidit et solum;
Furis ingenio non sentias dolum,
Clotho te diligat, quae baiulat colum.
Saluto puerum, non per hypothesim,
Sed serio pectore deprecor Lachesim,
Sororum Atropos ne curet haeresim (?)
Neptunum comitem habeas (perpetim ?)
Cum vectus fueris per fluvium Athesim.
Quo fugis, amabo, cum te dilexerim!
Miser, quid faciam, cum te non viderim?
Dura materies ex matris ossibus
Creavit homines iactis lapidibus;
Ex quibus unus est iste puerulus,
Qui lacrimabiles non curat gemitus.
Cum tristis fuero, gaudebit aemulus.
Ut cerva fugio, cum fugit hinnulus.
Se l’autore di quell’inno dal senso enigmatico, in cui Venere e Amore sono congiunti con legame misterioso alle tre Parche o alle tre Fate, ebbe cantati quei versi, possiamo rispondergli con quest’altro inno ad onore dei santi Pietro e Paolo:
O Roma nobilis, orbis et domina
Cunctarum urbium excellentissima
Roseo martyrum sanguine rubea
Albis et virginum liliis candida:
Salutem dicimus tibi per omnia,
Te benedicimus, salve per saecula.
[417]
Petre, tu praepotens coelorum claviger
Vota precantium exaudi iugiter!
Cum bis sex tribuum sederis arbiter,
Factus placabilis iudica leniter,
Teque precantibus nunc temporaliter
Ferto suffragia misericorditer!
O Paule suscipe nostra peccamina!
Cujus philosophos vicit industria.
Factus oeconomus in domo regia
Divini muneris appone fercula;
Ut, quae repleverit te sapientia,
Ipsa nos repleat tua per dogmata[385].
Ma Belisario aveva bisogno di più valido ajuto che non gli prestassero i vaticinî e le acclamazioni dei Romani. Egli mandava lettere all’imperatore Giustiniano, [418] nelle quali narrava dell’assalimento felicemente respinto, ma non celava la condizione difficile in cui egli si trovava: e chiedevagli con calda istanza rinforzi di milizia. La sua soldatesca, scemata per i presidî lasciati nella Campania e nelle Sicilie, ascendeva a 5000 uomini, e di questi una parte aveva perduta durante l’assedio. Di milizia cittadina non è fatta menzione; e sembra che Roma, antica signora del mondo, fosse divenuta impotente ed indegna di porre in arme i suoi cittadini. Procopio narra soltanto che Belisario avesse accolto nel suo esercito alcuni artigiani senza lavoro, e che se ne servisse di scolte, dando loro stipendio[386]. Ordinati in drappelli, forti di quasi sessanta uomini, dovevano quei Romani a vicenda vegliare alla guardia notturna. E siccome agitavalo sospetto di tradimento e di corruzione, Belisario, con grande previdenza, cambiava due volte ad ogni mese le guardie delle mura di stazione e di comandante; e nell’istesso tempo mutava chiavi alle porte. I comandanti avevano dovere di muovere in giro durante la notte, di chiamare per nome le scolte e di dare al mattino notizia al Generale di coloro che fossero stati negligenti. Alcuni sonatori con loro armonie, di nottetempo tenevano desti i dormigliosi[387]; ed i soldati [419] mauri, che serenavano fuor delle porte e presso il fosso, tenevano presso di sè i loro cani di Mauritania dal lungo pelo, che coll’acutezza dell’udito giovavano a porre in guardia i loro padroni.
Belisario senza dubbio aveva argomento di sospettare della fede di parecchi Senatori; e niuno poteva accusare l’animo suo di durezza allorchè egli faceva cacciare della Città alcuni patrizî. Ma il suo comportamento contro papa Silverio non può ottenere discolpa nell’accusa di secreti accordi coi Goti, che si moveva contro quel Pontefice; imperocchè egli fosse quel desso che aveva pur dianzi confortato i Romani ad accogliere tostamente Belisario entro la Città. Procopio narra di questo triste avvenimento con brevi e moderate parole dicendo: poichè si nutriva sospetto che Silverio, primo prete della [420] Città, ordisse tradimento a favore dei Goti, lo si mandò tosto nell’Ellade, e poco tempo dopo fu eletto a novello vescovo uno di nome Vigilio. Ma la Cronica dei Papi narra che la caduta di Silverio fosse cagionata da intrighi dell’imperatrice Teodora, la quale da un novello pontefice sperava di ottenere che fossero revocati i decreti del Concilio di Calcedonia e che fosse restituito alla sua sede il patriarca Antimo già deposto per sue dottrine riprovate. Profittando della condizione delle cose di Roma, colei si intendeva col diacono Vigilio (romano ambizioso che apparteneva ad una delle più illustri famiglie patrizie della Città e che era allora a Costantinopoli quale apocrisario o legato della Chiesa), e con sue lettere dava carico a Belisario di rimuovere con acconci pretesti papa Silverio e d’innalzare Vigilio al soglio di Pietro.
Belisario, quantunque fosse uomo illustre, era pur sempre un eroe bisantino; e le donne sapevano ben cogliere l’Achille al tallone vulnerabile. Benchè in sua coscienza ne arrossasse, egli obbediva all’impero di due invereconde femmine, della potente Teodora e dell’astuta Antonina, moglie di lui: le quali amendue, per bassa nascita e per abbominevole corruzione eguali, erano socie al male, e fra le lusinghe reciproche temevano l’una l’altra, e si odiavano. Mancava a Belisario il cuore di eccitar contro sè la collera di quelle due, laonde egli sottomettevasi all’abbiezione di farsi esecutore dei loro voleri. Antonina e Vigilio presentarono falsi testimonî i quali giuravano aver più volte papa Silverio scritto lettere a Vitige nelle quali diceva: «fa di venire a porta Asinaria presso il Laterano, che io ti darò in mano la Città e Belisario patrizio». Il Libro Pontificale, indotto forse da [421] ingenua credenza oppure da consiglio di prudenza, narra che quantunque il Generale non prestasse fede a quelle accuse, tuttavia ne lo ponesse in grave timore la moltitudine dei testimonî. Per la qual cosa faceva trarre a sè dinanzi, nel palazzo Pinciano ove aveva posta dimora durante l’assedio, il Pontefice, il quale mosso da paura s’era ricoverato nella chiesa di santa Sabina sul monte Aventino. Il clero che lo aveva accompagnato, rimaneva nella prima e nella seconda sala, e Silverio solo con Vigilio era introdotto nelle stanze riposte, dove il pro’ Belisario sedeva a piedi di Antonina che giaceva in atto voluttuoso sopra un lettuccio[388]. E appena lo vedeva, colei da attrice valente diceva: «Dinne, signor papa Silverio, che abbiamo noi fatto a te ed ai Romani, che tu ne voglia dare in mano dei Goti?» E mentre ancora coprivalo di villanie, entrava Giovanni suddiacono della prima Regione, e, tolto il pallio di collo al tremante prelato, lo conduceva in una stanza vicina, ove, spogliatolo dei vestimenti vescovili, facevagli indossare un saio di monaco: indi usciva, e al clero che attendeva angosciato con brevi parole annunciava, che il Papa era stato deposto e fatto monaco. A quella notizia fuggivano i cherici: e poco tempo dopo da che Silverio era stato tratto in esilio a Patara città di Licia, Vigilio, il quale aveva promesso all’Imperatrice una remunerazione di duecento libbre d’oro, era eletto papa dal Senato e dal clero, i quali, quantunque repugnanti, eranvi astretti dal [422] terrore della potenza greca. La violenta deposizione di Silverio era avvenuta nel Marzo del 537, e probabilmente addì 29 dello stesso mese ordinavasi Vigilio[389]. Quest’opera di despotismo esercitata contro il loro sacerdozio, doveva mostrare chiaramente ai Romani che la signoria dei Goti era ben leggiera; che invece il giogo dei Bisantini pesava assai, e che di pondo sempre maggiore loro graverebbe le spalle.
Ma ora il flagello tremendo della fame (che desolava tutta Italia, in maniera che a Milano madri avevano mangiato delle carni dei loro pargoli lattanti) cominciava ad attristare Roma. La penuria di vettovaglie aveva costretto già Belisario a far partire della Città le donne, i fanciulli e gli schiavi che non erano buoni a difendere le mura. Quegli sventurati uscendo a torme fuor di porta Appia e fuor di quella di Porto, movevano per la Campania oppure s’imbarcavano sul Tevere per irne a Napoli e in Sicilia a cercarvi ricovero ospitale: chè da quei due lati era aperta la via. Allorquando i Goti s’avvenivano nei fuggiaschi, rispettavano pietosi quei tapini e li lasciavano procedere senza molestarli nel loro cammino. Durante l’assedio, la loro umanità fu degna dell’esempio del gran Teodorico; e i loro stessi nemici dovettero confessarlo a loro gloria, chè eglino non fecero oltraggio nè alla basilica di san Pietro, nè a quella di san Paolo, quantunque tutte e due quelle chiese fossero situate fuor [423] delle mura, nel territorio ch’era in loro potere. E quegli Ariani rispettavano le proprietà degli Apostoli, nè turbavano il culto al cui esercizio attendevano i preti cattolici che dimoravano presso quelle chiese senza che ricevessero molestia dagli assedianti.
Ad una sola opera di sangue Vitige fu tratto dalla forza dell’ira. Egli spediva suoi messi a Ravenna con ordine crudele che si dessero in mano al carnefice quei Senatori ch’egli aveva tratto con seco di Roma ad ostaggio. A quell’ingiustizia egli fu tratto dalla rabbia del tradimento dei Romani e dal dispetto del cattivo successo del suo assalimento. Indi cercava di stringere sempre più l’assedio di Roma e d’impedire da ogni lato che s’introducessero vettovaglie entro la Città. A tal uopo egli s’impadroniva di Porto, celebre luogo di approdo della Città sul Tevere. Il fiume si riversa nel mare per due braccia le quali cingono l’isola sacra che ora raggiunge una superficie di dieci miglia. Il porto antico di Ostia, situato sulla sponda sinistra dell’imboccatura del Tevere a due miglia di distanza dal luogo in cui le acque del fiume si mescono a quelle del mare, era divenuto da molto tempo per le sabbie deposte dalle alluvioni inopportuno; per la qual cosa l’imperatore Claudio aveva scavato un porto ed un canale sulla destra riva, edificando un molo che si protendeva nel mare. E questa fu l’origine del Portus Romanus ossia Urbis Romae. Trajano lo aveva ampliato colla costruzione di un novello porto interno di figura esagona cui egli circondava di splendidi edificî. Egli faceva scavare nel tempo medesimo un novello canale, la Fossa Trajana, che oggi si crede di ravvisare nel braccio destro del Tevere detto di Fiumicino. E [424] Porto cresceva così ad importante Città e già fin dai primi secoli del Cristianesimo aveva sede episcopale, ed era reso illustre pel martirio del vescovo Ippolito morto intorno all’anno 229[390]. Negli ultimi tempi dei Paganesimo solevano i Romani andare con festa all’isola situata tra Porto ed Ostia, avendo a capo il prefetto della Città o il console, per offrirvi sacrificî a Castore e a Polluce, e per bearsi nell’amenità dei suoi prati sempre verdeggianti. Avvegnachè nè gli ardori dell’estate, nè i rigori dell’inverno valessero ivi a distruggere la vegetazione dei fiori: e al fiato delle tepide aurette primaverili le piagge dell’isola s’inghirlandavano di rose e spandevano l’olezzo di balsamiche piante, di maniera che i Romani vi davano nome di Libano della dea Venere[391]. Alla conservazione ed all’allargamento del porto aveva più tardi dato opera anche Teodorico, affidando l’officio importante della vigilanza di quello ad un officiale detto comite ossia conte. Ed ai tempi di Procopio, era pur sempre Porto una città considerevole e cinta di salde mura, laddove l’antica Ostia situata sulla sponda sinistra fosse già [425] deserta e senza mura: e quantunque allora fossero puranco navigabili le due braccia del fiume, le barche seguivano la via di Porto. Una bella strada conduceva da porta Portuense a Porto; ed il fiume, cui quella via segue in linea parallela, era animato dal movimento delle barche che spinte non da vele o da remi, ma per mezzo di gomone trascinate da buoi, trasportavano a Roma le derrate di Sicilia e le mercanzie dell’Oriente[392].
Poichè Vitige, senza che trovasse resistenza, si fu impadronito di Porto e vi ebbe posto un presidio di mille uomini, potè tagliare ai Romani la via che conduceva al mare: e siccome il porto di Ostia non serviva più, le salmerie dovevano essere condotte per la strada difficile e mal sicura di Anzio.
A rialzare l’animo degli assediati commosso a tristezza per quella perdita giovava il rinforzo di milleseicento cavalli unni e slavoni, che venti giorni dopo ingredivano in Roma, e coi quali Belisario poteva molestare i Goti con piccole zuffe combattute innanzi le porte, nelle quali la destrezza dei saettatori sarmati riportava vittoria sulla cavalleria gota armata di lancia. Alcuni leggieri trionfi accendevano il coraggio degli assediati i quali chiedevano al Generale repugnante che li conducesse a combattere il nemico con una sortita universale. [426] Belisario profittava del loro accendimento ed ordinava l’impresa in questa maniera: il nerbo della soldatesca doveva uscire della piccola porta Pinciana, e della grande porta Salara; un altro stuolo minore sortendo di porta Aurelia doveva avanzarsi nel campo di Nerone ed affrontare i Goti in modo da precludere loro il varco di ponte Milvio e da vietare così che recassero soccorso ai loro compagni attendati di qua del fiume: un quarto drappello doveva schierarsi all’istesso uopo fuori di porta Pancraziana. I Romani vegliavano agli ingegni delle mura, e Belisario nutriva sì grande sprezzo per la milizia cittadina, che in quel popolo imbelle egli aveva dovuto comporre di artigiani, che la escluse dalle file delle milizie le quali uscivano a combattere, per tema che la sua imperizia e la sua viltà non vi ponesse scompiglio.
Ma i Goti per mezzo di trafuggitori ebbero notizia della sortita che si preparava e si posero in guardia: essi uscirono ad incontrare i Greci in bell’ordine di battaglia, i fanti nel mezzo, la cavalleria ai fianchi. Dopo una pugna di parecchie ore la loro prodezza otteneva una segnalata vittoria: nè ai Greci riusciva di insignorirsi di ponte Milvio, con che essi avrebbero tagliata ai Goti la via del loro campo posto al di là del fiume; nè era dato loro di vincere le schiere nemiche al di qua del Tevere, ma respinti d’ogni parte con grande strage erano cacciati tra il fosso ed il muro. E siccome quei di dentro avevano asserragliate in fretta le porte, eglino andarono debitori di loro salvamento all’effetto potente dei mangani che operavano dai merli. I vincitori si scostarono delle mura, e gettando grida di sprezzo sui vinti tornarono agli accampamenti.
[427]
Dopo quella sortita d’esito sfortunato, gli assediati non uscirono più che a piccole zuffe[393], laddove i Goti cercavano di domare la Città colla fame serrandola sempre più strettamente. Fra la Via Appia e la Via Latina, alla distanza di cinquanta stadî dalla Città, era un luogo dove un crocicchio di due acquedotti formava uno spazio atto a porvi un campo forte[394]. Murate le alte arcate dei due canali, i Goti vi posero un accampamento capace di settemila uomini, che impediva il transito di vettovaglie dalla via di Napoli. Ne cresceva la miseria di quei di dentro: le erbe che germogliavano sugli argini delle mura di Roma non bastavano a pascere i cavalli: di nottetempo escivano cavalieri a cogliere biade nei campi (era già trascorso il solstizio di estate), che saziavano per qualche momento la fame dei ricchi. Cibavansi di misere carni; e certe nauseanti salsicce, che i soldati facevano delle carni di muli morti, erano comperate a caro prezzo dai Senatori. Alla fame s’aggiungevano le febbri prodotte dall’ardore dell’estate; e i cadaveri insepolti sparsi per le vie di Roma aumentavano per contagio le morti.
Non potendo più resistere a tanti mali, tumultuava il popolo, e mandando suoi legati a Belisario chiedeva che lo conducesse ad una seconda pugna che sarebbe combattuta coll’ardore della disperazione. Ma il saggio [428] Generale acchetava i clamori colla sua calma incrollabile, e dava loro speranza di rinforzi che tosto sarebbero giunti e di una flotta che veleggiava carica di vettovaglie onde avrebbero ristoro alle loro necessità. E Belisario mandava Procopio lo storico ed Antonina a Napoli, a levarvi soldati accampati colà e nelle vicinanze, e loro commetteva di caricare di vettovaglie quanti vascelli potessero trovare. Finalmente sbarcavano sulle coste d’Italia meridionale soldati venuti di Bisanzio; ed Eutalio giunto a Terracina recando il soldo della milizia, protetto da una guardia di cento cavalli, penetrava felicemente di notte in città, non veduto dai Goti i quali volgevano la loro attenzione al campo di Nerone ed a porta Pinciana, dove combattevansi acri pugne. Ed ora per proteggere dall’assalto dei Goti le salmerie che si stavano attendendo, Belisario muniva di presidio la città di Albano e il castello di Tivoli già diroccato, che gli assedianti con negligenza inconcepibile non avevano tenuto in loro guardia. Affine di molestare il nemico nei suoi trinceramenti della Via Appia, Belisario faceva uscire la cavalleria unna, e ordinava che mettesse campo in vicinanza del san Paolo. Già da quel tempo, un portico che si distaccava da porta Ostiense, seguendo il corso dei Tevere si stendeva fino a questa basilica, ed alzandosi presso un sobborgo, offriva saldo appoggio ad un accampamento militare[395]. Di qui e da Tivoli e da [429] Albano, gli Unni molestavano continuamente con loro scorridori il campo goto posto nella Via Appia; ed i cavalli leggieri di Belisario impedivano ai Goti che andassero per foraggio nella Campania. Ma quei terreni bassi erano afflitti dalle febbri, per la qual cosa i soldati d’ambe le parti non potevano rimanere in quei trinceramenti: la morìa ne faceva strage, laonde i pochi che sopravvissero nei due campi, dovettero partirne. Gli Unni furono richiamati, e il presidio goto dell’accampamento posto fra gli acquedotti, si ritirava negli altri trinceramenti.
I Goti, sparsi nella insalubre Campania che nella state è tribolata dalla mal’aria letale, erano mietuti ogni giorno dalle febbri che spargevano morte. E le loro schiere riunite erano desolate non meno dalla fame in quel deserto che, arso dal sole e non rallegrato da verzura, si stendeva simile ad un cimitero senza confini. L’avvicinarsi di soldatesche bisantine toglieva agli assedianti ogni speranza di giungere al fine di loro impresa. Imperocchè tremila Isauri sotto Paolo e Conone fossero approdati a Napoli, milleottocento cavalli di Tracia condotti dal feroce e sanguinario Giovanni fossero sbarcati a Otranto, e un terzo stuolo di cavalleggieri guidato da Zenone movesse per la Via Latina. Dicevasi che [430] Giovanni lungo la marina s’avanzasse, conducendo un grande convoglio di vettovaglie su carra trascinate da buoi di Calabria, e che già le salmerie fossero giunte presso ad Ostia sotto la guardia di parecchie migliaia di cavalieri, nel tempo stesso che la flotta che portava gli Isauri era per entrare nelle acque del Tevere, dove aveva ad unirsi coll’altro convoglio. Disperando dunque del buon esito del loro assedio, i Goti già pensavano a levarlo, e spedivano un Romano e due dei loro capitani a Roma, per trattare con Belisario. Procopio riferisce esattamente quel negoziato memorando nel quale fu osservato tutto il decoro delle forme parlamentari. I legati Goti parlarono bellamente così:
«Voi, o uomini romani,» dissero, «male operaste con noi, poichè volgeste le armi contro amici e commilitoni vostri, locchè non avreste dovuto fare. Or noi vi parleremo il vero, di cui, crediamo, ognuno di voi deve avere fermo convincimento. I Goti non conquistarono Italia strappandola colla violenza ai Romani; chè già questo suolo era stato tolto all’Imperatore da Odoacre che avealo tenuto in tirannico regno. Zenone, ch’era allora imperatore d’Oriente, volle vendicare il suo socio all’Impero punendo il tiranno, e volle liberarne il paese; ma mal potendo da sè vincere Odoacre, fece appello a Teodorico re nostro, che si apprestava a combattere contro Bisanzio, affinchè, dismessa l’inimicizia, volesse ricever l’onore di patrizio e di console dei Romani, e si volgesse a punire Odoacre della sua mala opera contro Augustolo, promettendo che poscia i Goti sarebbero investiti della signoria del paese in tutte le forme richieste dal diritto. Di tal maniera noi avemmo il regno d’Italia: [431] nè meno degli antichi signori noi ne abbiamo rispettate le leggi e la forma di governo; chè nè Teodorico, nè alcun altro che gli succedette nella signoria, diede a questa contrada leggi scritte o non iscritte[396]. Religione e culto noi abbiamo conservati ai Romani di maniera che niuno degli Italiani mai volontariamente o contro volontà ne mutò, e niuno dei Goti fu mai punito perchè fosse passato all’altra fede. E la più alta venerazione fu da noi tributata ai templi dei Romani, nè alcuno fu oso mai di molestare a colui che in quelli cercava ricovero. Tutte le alte magistrature furono sempre dei Romani; dei Goti non mai. Sorga pure chi voglia e provi, se può, che noi diciamo menzogna. Chè anzi i Goti permisero ai Romani di ricevere ogni anno i loro consoli dall’Imperatore di Oriente. E nondimeno voi che non foste capaci di strappare al barbaro Odoacre quest’Italia vostra che, non per breve tempo ma per ben dieci anni ne ebbe strazio, voi moveste ingiusta guerra ai suoi giusti signori. Or via dunque sgomberate della terra ch’è nostra, recando pure con voi ciò che possedete di proprietà vostra o di bottino!»
A quel calmo e chiaro discorso dava Belisario risposta quale già doveva prevedersi: ben aver Zenone dato carico a Teodorico di guerreggiare contro Odoacre, non già avergli dato il regno d’Italia: al signore antico appartenerne il dominio che i Goti dovevano perdere. Gli ambasciatori goti offrivano allora di cedere all’Imperatore il possedimento della bella Sicilia, ma Belisario [432] deridendoli rispondeva, ch’egli voleva conceder loro piuttosto a dono l’isola di Bretagna assai più estesa. Respingeva egli le loro proposte di cedere la Campania e quel di Napoli: e sdegnando l’offerta di un tributo annuo, diceva essere necessario che rinunciassero senza condizioni di sorte alcuna al regno d’Italia. Si conveniva infine ad una tregua che durerebbe quanto tempo fosse necessario a spedire un’ambasceria a Bisanzio per trattarvi di pace coll’Imperatore.
Nel tempo istesso in cui conchiudevasi la tregua, la Città era commossa ad alta gioia all’annuncio che il generale Giovanni era giunto col convoglio delle vettovaglie in Ostia, e che la flotta isaurica aveva approdato a Porto. E poco dopo la soldatesca entrava in città, e vi giungevano le vettovaglie che, sopra barche spinte faticosamente a forza di remi, erano salite a ritroso del Tevere passando innanzi a Porto e a vista dei Goti che vi erano a presidio. I Goti nelle pattuizioni della tregua avevano dimenticato di convenire intorno a un argomento di sì grande importanza, per la qual cosa dovettero con loro grave corruccio permettere che le salmerie passassero, per non infrangere la convenzione conchiusa. Determinavasi che l’armistizio durasse tre mesi, consegnavansi d’ambe le parti alcuni ostaggi; e legati goti partivano indi, accompagnati da Greci, alla volta di Bisanzio. Era allora il solstizio d’inverno.
Infiacchiti dalla lotta, impediti di procacciarsi vettovaglie dalla via di mare, or maggiormente dalla flotta greca, i Goti non poterono più tenere in loro signoria i luoghi forti che circondano Roma. Appena eglino avevano sgomberato Porto, gli Isauri di Ostia vi entravano; e [433] appena erano partiti dell’importante Centumcella (ch’è l’odierna Civitavecchia), Belisario vi mandava soldati a presidio. Lo stesso avveniva in Albano che Vitige alcuni mesi prima aveva strappato ai Greci. Belisario rispondeva con discorso beffardo ai lamenti che levavano i Goti di quei movimenti, coi quali, dicevano, erasi infranta la tregua. E nel tempo stesso egli mandava il «sanguinario» Giovanni con un grosso stuolo di cavalleria ad Alba nell’agro Piceno, imponendogli che corresse la campagna e che facesse prigioni le donne e i fanciulli dei Goti e che ne rapisse le ricchezze, tosto che i nemici avessero ceduto al desiderio di rompere la tregua.
I Goti spinti da disperazione erano mossi da parecchi e gravi motivi a ricominciare le ostilità: e per fermo da parte loro era la giustizia, quantunque il greco Procopio taccia il vero. La notizia di un grave avvenimento accaduto entro la Città animavali ad operare. Belisario aveva fatto mettere a morte il più valente dei suoi luogotenenti, Costantino, il quale (offeso da una sentenza che il Generale mosso da sentimento di giustizia ma con forme troppo rigide aveva pronunciata contro di lui in un negozio privato) lo aveva minacciato col pugnale. La morte di Costantino aveva irritati i soldati che avevano combattuto sotto le gloriose insegne di lui, e acquistava odio a Belisario: ne giungeva notizia ampliata oltre il vero al campo dei Goti i quali accoglievano speranza di annodare accordi coi faziosi della Città. Eglino tentarono di penetrare per un acquedotto in città. L’Aqua virgo, i cui canali si stendevano appiè di monte Pincio sotto il palazzo di Belisario, sembrava acconcia al loro disegno, [434] ed alcuni guerrieri scendevano celatamente per i suoi ampi e oscuri sotterranei. I soldati ignoranti o superstiziosi che stavano a guardia di porta Pinciana non si sarebbero accorti del loro tentativo, benchè un raggio dell’incerto lume delle loro lampade si svelasse da una fessura. Ma dopo lunghi e tortuosi giri sotterra, i Goti ne trovavano murata la uscita, per la qual cosa redivano in fretta sulle loro orme portando ai loro capitani un mattone che desse prova della esistenza di quella chiusa. Vitige or gettava la maschera e apertamente moveva un mattino colle sue schiere munite di scale e di fiaccole ad assalire porta Pinciana. Il tumulto della pugna, che si combatteva alla porta, svegliava i cittadini; i difensori correvano al loro posto, e dopo breve mischia i Goti scorati erano costretti a ritirarsi. Nè meglio riusciva il tentativo d’impadronirsi di porta Aurelia, di dove Vitige coll’aiuto di due Romani che dimoravano nel quartiere di san Pietro, a sè venduti, sperava di penetrare in città. Il disegno fu tradito e perciò fallì.
Finalmente notizie sempre più tristi inducevano lo scoramento nell’animo del Re. Giovanni rapidamente e senza pietà aveva adempiuta la missione ond’era stato incaricato: battuto e ucciso Uliteo zio del Re, aveva preso Rimini, e già moveva contro le mura di Ravenna, dove Matasunta, mal sofferendo il maritaggio a cui Vitige l’aveva costretta, nel suo desio di vendetta dava speranza al nemico di prendere col favore di lei Ravenna e di ottenerne la mano. A quell’annuncio Vitige cedeva alle istanze del suo popolo stanco della lotta, che, assediato ora esso medesimo, era minacciato dell’estremo esizio dalla fame, dal contagio e dalla spada del nemico. [435] Già entravasi in primavera e i tre mesi dell’armistizio compievansi, nè nuncio alcuno rediva di Bisanzio. Un agitarsi, un muoversi nella Campagna di Roma mostrava tutt’a un tratto ai Romani che qualche grave avvenimento si compieva: nella notte vedevano gli accampamenti dei Goti in fiamme, e all’alba vegnente miravano le schiere nemiche che movevano per Via Flaminia. I Goti partivano. La metà dell’esercito aveva già valicato il ponte Milvio, allorchè di porta Pinciana si scagliavano fanti e cavalieri contro l’oste che si ritirava. Dopo breve e accanita battaglia i Goti s’addensavano in disordine al ponte per gettarsi sull’altra sponda del fiume; i loro drappelli affollandosi al varco, si urtavano; e sotto una tempesta di dardi e sotto i colpi delle spade dei Greci, con gravi perdite e dopochè molti di loro erano precipitati nelle onde del fiume, eglino giungevano alla destra riva. Colà riordinatisi movevano per Via Flaminia alla volta di Ravenna, scorati e tristi del presentimento della distruzione del loro eroico popolo, il fiore dei cui valorosi era caduto bagnando del suo sangue il terreno che si stendeva intorno alle antiche mura di Roma. Di tal guisa, i Goti pagavano il fio dell’opera dissennata di Teodato, il quale, invece di restringere la guerra nel territorio di Napoli, aveva permesso che Belisario fino a Roma si avanzasse. Ed errori aggiungevansi a errori; chè Vitige sciupava le forze di tutto il suo grande esercito raccolto nella insalubre Campagna di Roma, e negligendo di intraprendere nel tempo medesimo opere di guerra nella regione meridionale e nella settentrionale, nè intendendo a dominare il mare romano con una flotta, recava la distruzione al suo popolo di prodi in un assedio mal guidato.
[436]
Erano trascorsi omai un anno e dieci giorni dacchè i Goti avevano cinto la Città: e in sull’incominciamento del Marzo dell’anno 538, respinti dalla sorte e vinti dal genio di Belisario, eglino levavano quell’assedio memorando, nel quale avevano combattute sessantanove pugne con esito infelice ma con eroica bravura[397].
[437]
Noi dobbiamo restringerci alla storia della Città, per la qual cosa non ci è dato di seguire i passi dei Goti che si ritirano per la Via Flaminia, nè di descrivere le acri battaglie che si combatterono in Toscana, nell’Emilia e nelle Venezie, nelle quali Belisario coll’illustre suo genio di guerra uscì trionfatore dei nemici che pugnavano coll’ardore della disperazione, e vinse la caparbia disobbedienza dei generali imperiali. Ventidue mesi dopo che i Goti erano partiti di Roma, sulla fine dell’anno 539[398], il gran capitano entrava nella forte Ravenna. Affine di conservare la signoria d’Italia all’Imperatore, Belisario faceva mostra di accettarne la corona che gli avevano [438] offerta i Goti; ma imbarcandosi tosto per Bisanzio vi recava i tesori del palazzo di Teodorico e vi conduceva prigione re Vitige ch’era caduto tra le mani del prode Giovanni. Ciò che si narra di Vitige, ch’egli fuggisse di Ravenna a Roma, che penetrando nella basilica di Giulio nel Transtevere vi abbracciasse un altare, e che si ponesse in balia dei nemici, avutone giuramento che avrebbe salva la vita, sembra essere una semplice leggenda[399].
Ma il regno del gran Teodorico non era ancora annientato. Se ci muove a sorpresa la rapida fine del reame dei Vandali in Africa, di cui non rimase più traccia alcuna, a ben maggior diritto eccita in noi alta meraviglia lo splendido risorgimento dei Goti da caduta sì profonda.
Il destino aveva per un momento abbattuto questo popolo prode, il quale nello scoramento aveva posato le armi innanzi ad un eroe, nella speranza che questi tosto guiderebbe le loro sorti e quelle d’Italia. Delusi in quel loro voto, i Goti si sollevavano novellamente, e quantunque di duecentomila forti guerrieri fossero stati stremati a due sole migliaia, correvano di bel nuovo all’armi e rialzavano l’onore di loro nazione e la loro signoria con rapide pugne, grandi sì da sembrare incredibili, che spargevano splendore di gloria imperitura sulla loro presta caduta. Imperocchè nessun popolo mai si sia rialzato dalla disgrazia con pari fortezza, nessuno sia stato mai, che, compiuto il corso cui era da fortuna appellato, abbia avuto fine più eroica.
[439]
Belisario non aveva ancora sciolte le vele, che i Goti di Pavia offrivano la corona ad Uraia, nipote di Vitige: ma quegli deponevala sul capo del prode Ildibado ch’ei faceva appellare in fretta di Verona. Il novello Re goto spediva tosto ambasciatori a Ravenna, perchè protestassero a Belisario ch’egli medesimo andrebbe a deporre la porpora ai suoi piedi, appena fosse per adempiere la promessa data di cingere la corona d’Italia. Ma il saggio Belisario rifiutava un onore cui sarebbe andato congiunto il titolo di ribelle, e imbarcandosi tranquillamente alla volta di Bisanzio, per prendere il comando dell’esercito greco nella guerra di Persia, affidava a Bessa, a Giovanni e ad altri capitani la direzione delle cose d’Italia. Appena egli aveva sciolto le vele, le sorti volgevansi avverse ai Greci; e breve tempo dopo la rapida morte d’Ildibado e del succeditore di lui Erarico, rugio di nascita, s’elevava a terrore di Giustiniano e di Belisario stesso un eroe, che Omero con senso di ammirazione avrebbe posto a fianco di Ettore e di Achille, e a cui la storia giustamente decretò l’immortalità a lato di Annibale.
Totila, nipote d’Ildibado, in ancor giovane età era illustre per quelle virtù che sono retaggio degli uomini grandi: egli era già chiaro per animo forte, prudente, generoso, moderato. Ei guidava uno stuolo di guerrieri goti accampato nella città di Treviso, allorquando gli perveniva l’annuncio che suo zio era caduto sotto il pugnale del gepido Vila. A quella nuova atterrito, il giovane credette ogni cosa perduta, per la qual cosa, non consapevole di sua propria virtù, egli trattava con Costanziano, che comandava in Ravenna, della cessione [440] della città di Treviso. E già allo scopo di negoziare, egli aveva accolti ambasciadori greci, allorquando di furia giungevano alcuni corrieri i quali gli annunciavano che il popolo congregato nel campo di Pavia lo aveva acclamato re. Il giovane guerriero accettava la corona; ed i Goti, verso la fine dell’anno 541, avevano di pari tempo la notizia della morte dell’usurpatore Erarico e della elezione di Totila[400].
Noi oltrepassiamo in silenzio le prime battaglie ed i primi trionfi del novello Re goto, per accompagnarlo a Roma. Avvegnachè nello spazio di un anno, assoggettate parecchie città di qua e di là del Po, egli si fosse reso terribile, e ne avesse tratto potenza a muovere contro Toscana: e vi entrava in sull’incominciamento della primavera dell’anno 542, colla quale stagione Procopio, che conta a primavere, dà principio all’ottavo anno della guerra gotica. Totila guadava il Tevere, ma rimettendo ad altro tempo di vendicare contro le mura di Roma bagnate di sangue le stragi sofferte dal suo popolo, volgeva per l’agro Sannitico e per la Campania alla conquista delle più importanti città per averne fortezza nelle sue opere di guerra. E nel muovere a quella spedizione, cui prudenza comandava d’imprendere, visitava nel convento di Monte Cassino il santo monaco Benedetto, e ne aveva ammonizioni e profezie: «Molte opere malvage tu fai», dicevagli il Santo, «molte ne facesti; oh [441] desisti dall’iniquità! Passerai il mare, entrerai in Roma e vi avrai impero nove anni: nel decimo morrai»[401].
Assalita Benevento prima d’ogni altra città, la prese: abbattutene le mura, procedè innanzi fino a Napoli, e al suono delle trombe vi pose campo. Nel tempo stesso in cui cingevala d’assedio, Totila mandava alcuni stuoli di cavalleria leggiera in Lucania, nelle Puglie e nelle Calabrie. Tutte queste belle province assoggettavansi di buona volontà alla sua signoria; e i tesori raccolti dagli Imperiali nelle gabelle cadevano in mano ai Goti, il cui giovane Re era pietoso ai paesani, laddove invece gli officiali greci da Ravenna ad Otranto con loro avide requisizioni suggevano il sangue ai cittadini ed agli abitanti delle campagne, e mostravano agl’Italiani ch’eglino erano usciti di senno allorchè avevano preferito alla giusta signoria dei Goti l’insaziabile despotismo dei Bisantini. Al governo delle finanze d’Italia sedeva allora in Ravenna Alessandro, vampiro senza coscienza, che, a cagione della sua destrezza a tosare monete d’oro, i Greci faceti appellavano col nome di Psalidione, che in loro favella significa forbice: e gli altri duci delle città principali (fra i quali l’avaro Bessa comandava a Roma) non gli erano inferiori nello angariare il popolo. Procopio dice espressamente che tutte le largizioni di grano che Teodorico distribuiva ai cittadini ed ai poverelli di Roma erano interamente cessate, e che Giustiniano aveva [442] acconsentito che Alessandro le togliesse[402]. E siccome ciurmavansi anche i soldati del loro soldo, avveniva che affamati e senza mercede abbandonassero i loro vessilli e a frotte passassero tra le file dei Goti dove avevano nutrimento abbondante e buono stipendio.
Napoli, domata dalla fame, apriva finalmente nella primavera dell’anno 543[403] le porte, e offriva opportunità a Totila di muovere il mondo ad ammirazione per le virtù del suo animo umano, come la sua bravura in guerra gli aveva già meritata bella nominanza. Coll’affetto di padre e colla prudenza di buon medico ebbe cura dei Napoletani: a poco a poco restituì con parco nutrimento le forze ai morenti di fame, per non recare morte saziandone tosto l’avidità rabbiosa. Fè rispettare le proprietà, l’onore delle donne, e con grandezza d’animo diè carri, cavalli e vettovaglie al greco Conone ed ai suoi soldati, i quali per il patto di resa della città dovevano partire su navi, ma ne erano impediti dai venti contrarî; e permise che eglino, i quali benedicevano alla sua bontà, movessero sotto guardia gota a Roma. Indi, come soleva fare di tutte le città conquistate, fè smantellare le mura di Napoli; imperocchè sembri che, memore di Roma sotto i cui baluardi inespugnati il popolo goto era stato colpito da terribili calamità, egli avesse giurato la distruzione delle fortificazioni di tutte le città. E facendole [443] abbattere, diceva ai Goti operare di tal maniera affinchè il nemico non vi si munisse; ai terrazzani poi diceva volere così liberarli per sempre dagli orrori degli assedî.
Di Napoli Totila spediva lettere al Senato di Roma. Egli già se n’era acquistata la benevolenza, facendo condurre a Roma con cortesia alcune patrizie donne fatte prigioniere in Cuma. Ed or diceva ai Padri di Roma:
«Coloro i quali, per ignoranza o per obblivione, oltraggiano i loro simili, hanno diritto all’indulgenza delle genti oltraggiate: imperocchè la ragione del loro fallo gli scusi. Ma se qualcuno scientemente dà offesa, a lui non giova alcun argomento che mitighi la gravezza del fallo, avvegnachè non sia sola la reità dell’opera, ma vi si accoppii la colpa del mal talento. Poichè la è così, vedete quale giustificazione possiate trovare nel modo con cui operaste verso i Goti. Che potete infatti addurre a discolpa? la ignoranza forse dei beneficî di Teodorico e di Amalasunta, oppure la dimenticanza indotta dal tempo che vi corse sopra? Nè una cosa nè l’altra è possibile. Perocchè eglino non di leggieri o mediocri beni in tempi antichissimi vi sieno stati cortesi, ma sì di beneficî altissimi e in tempi recenti vi abbiano ricolmi, o diletti Romani. La maniera onde i Greci operarono verso i loro soggetti voi conoscete o per fama o per propria vostra esperienza, nel tempo stesso in cui già sapete [444] di qual guisa i Goti trattino gl’Italiani. Eppure quelli, mi cred’io, con ospitalità cortese voi accoglieste: quali ospiti poi vi abbiate accolti, ben sapete se vi soccorra memoria delle male arti di Alessandro. Non vo’ parlare della soldatesca e dei suoi condottieri della cui benevolenza e della cui grandezza d’animo aveste ampie prove. Nè alcuno di voi creda che vituperi ad essi mosso da giovanile orgoglio, o che io come re dei barbari parli magnificando le cose. Chè io non dico, la vittoria su quelle genti riportata essere opera di nostra prodezza, ma affermo piuttosto avere coloro pagato il fio delle malvagità onde vi oppressero. E non sarebbe la più dissennata cosa del mondo, se voi stessi, or che Dio li flagella, voleste sopportare volonterosi i loro cattivi trattamenti invece di sottrarvi a quei mali? Or ecco il momento di purgarvi dell’onta dei vostri brutti comportamenti verso i Goti, e di dare a noi ragione di concedervi venia. E la avrete se, non ispingendo noi alle ultime estremità della guerra, e non ostinandovi affidati ad una fallace speranza che poco durerebbe, vorrete scegliere il vostro meglio, riparando ai torti onde foste rei verso di noi»[404].
Totila faceva pervenire queste lettere ai Senatori per mezzo di alcuni prigioni: e poichè il generale Giovanni aveva vietato loro di darvi risposta, altre ne mandò a Roma con sensi di conciliazione; ed il popolo ne aveva contezza leggendone con animo agitato copie nei luoghi più frequentati, imperocchè fossero stati alcuni che in tempo di notte le avevano affisse. I governatori greci [445] venuti in sospetto che i preti ariani di Roma tenessero accordi secreti coi Goti, ne li cacciarono; e poco stante mandavano in esilio a Centumcella il patrizio Cetego cui Procopio dà il titolo di principe del Senato di cui ci è dubbio il valore.
Sulla fine del verno, tra l’anno 543 ed il 544, Totila dalla Campania soggiogata moveva contro Roma. La notizia che l’imperatore Giustiniano atterrito dalla mala piega che prendevano le cose d’Italia, aveva chiamato di Persia Belisario affinchè prendesse il comando nella seconda guerra gotica, nol trattenne: poichè da capitano sapiente aveva posti fondamenti eccellenti nel settentrione e nel mezzogiorno della penisola alle sue opere di guerra: e già sapeva che le forze di Belisario erano assai scarse.
Belisario giungeva, e intanto ch’egli sprecava tempo a raccogliere milizie sulle coste del mare Adriatico, il Re goto con mossa rapida s’avanzava nelle vicinanze di Roma. Ma il suo occhio non perdeva di vista la forte città di Tivoli, la quale domina la Campania nel corso superiore del fiume, e la otteneva per tradimento. Erano colà a presidio Isauri i quali per caso vennero a dissidio colla milizia cittadina: alcune guardie di questa aprivano in tempo di notte le porte ai Goti; ma ne avevano mala ricompensa, chè la soldatesca, irritata contro quei di Tivoli, nè sappiamo perchè, trucidava gli abitanti e lo stesso Vescovo: e Procopio, il quale sembra non volere per sentimento di umanità descrivere la strage, deplora la morte di Catello cittadino di Tivoli, il quale fra gl’Italiani di quel tempo aveva bella nominanza[405]. [446] Scendendo di Tivoli dove posero presidio, i Goti si resero padroni del corso superiore del Tevere e tagliarono ai Romani la via di Toscana.
Ma neppure adesso Totila dava opera all’assedio di Roma: il suo genio lo premuniva da ogni movimento affrettato suggerito dall’impeto della passione, ond’è che, guidato dalla saggezza, imprendeva con energia la conquista di parecchie città importanti di Toscana, del Piceno e dell’Emilia, ed in quelle imprese consumava l’anno 544 ed una parte dell’anno successivo. E dopo di avere munita la sua impresa di ogni saldezza, raccolti da tutte le parti i suoi Goti, li guidava contro Roma a vendetta, per assediarla, per prenderla, per punirla. Era l’estate dell’anno 545[406].
La Città era presidiata da tremila uomini capitanati da Bessa, generale d’ingegno mediocre, ad ajuto del quale Belisario, alcuni anni prima, aveva aggiunto due prodi capitani, Artasire persiano e Barbazio trace di nascita, vietando loro severamente di tentare mai sortite contro il nemico. Ma non sì tosto i Goti s’erano avvicinati alle mura, che quei due duci, desiosi di gloria, non obbedirono al suo comando, nè alle ammonizioni di Bessa ed uscirono contro l’oste che si avvicinava. I loro soldati furono fatti a pezzi, ed eglino medesimi scamparono a [447] stento, con pochi ricoverando entro la Città, donde non furono più mai arditi di tentare alcuna sortita.
Questo secondo assedio onde i Goti cinsero Roma, fu condotto in modo affatto differente dal loro primo, e fu invece simile a quello di Alarico. Laddove l’imprudente Vitige aveva ordinato il grande suo esercito in sette campi muniti ed aveva assalito con ardore incessante la Città cui difendeva uno dei più grandi capitani di tutte le età, Totila al contrario assediava Roma con calma sapiente; ed anzi toglieva agio a uscire del suo campo per condurre opere di guerra nell’Emilia. Egli si restringeva a impedire che in Roma entrassero vettovaglie, avvegnachè fosse padrone del corso superiore del fiume, e sul mare avesse una flotta che, signora delle acque di Napoli, rendeva per lo meno difficile che da quel lato la Città ricevesse soccorsi. E finalmente egli aveva argomento di sprezzare gli uomini che comandavano in Roma: la loro imperizia e la negligenza usata nella difesa si mostrarono in siffatta guisa dipoi, che Totila avrebbe potuto prendere la Città malamente munita se avesse voluto esporre al cimento i suoi guerrieri. Ma sembra che la ricordanza terribile della sorte di Vitige rattenesse i Goti dal muovere contro le venerande mura; chè già qualunque perdita sarebbe stata gravemente pericolosa al loro esercito poco numeroso.
Frattanto Belisario stavasi in Ravenna inoperoso. Con lettere in cui dipingeva la triste condizione delle cose, egli aveva chiesto a Giustiniano che rapidamente gli mandasse soldati: e mentre questi con inconcepibile lentezza venivano, l’eroe sventurato malediceva al suo destino che lo costringeva a veder da lontano che il [448] frutto della sua gloria conquistata con sì aspra fatica andasse disperso colla perdita di quella città medesima dove aveva raccolta la sua bella corona. Egli accusava sè stesso d’imprevidenza per essere rimasto a Ravenna invece di gettarsi coi suoi pochi soldati in Roma: e Procopio, il quale sembra convenire egli pure a deplorarlo, scusa quel fatto con una meditazione filosofica sulla forza del destino, il quale talvolta volge a risultamenti avversi i più savi proponimenti degli uomini, perocchè il fato crudele voglia compiere i tenebrosi suoi disegni. Belisario con rapida mossa andava di Ravenna ad Epidamno ad incontrare le soldatesche guidate da Giovanni e da Isacco: e dopo di essersi congiunto ad esse, spediva Valentino e Foca con uno stuolo di guerrieri all’imboccatura del Tevere, per accrescere fortezza al presidio di Porto. Imperocchè il porto romano fosse ancora in potere dei Greci, e Totila non avesse ancora potuto muovere alcun tentativo per istrappare loro quel baluardo importante: e ciò valeva a prolungare l’assedio di Roma. Allorchè però quei duci furono giunti a Porto, dove comandava il generale Innocenzo, trovarono innanzi a sè i Goti signori del corso inferiore del fiume, avvegnachè tra la Città ed il porto, Totila avesse posto il suo campo bene munito alla distanza di otto miglia dalla Città, in un luogo che aveva nome di Campus Meruli, ossia di campo del merlo[407]. Il campo così situato, minacciato di fronte e [449] da tergo, poteva essere esposto a qualche pericolo; ma tuttavia quella posizione era stata saviamente scelta, perocchè ivi riuscissero ad incontrarsi tutte le vie che venivano della marina: e poichè i Goti dominavano le Vie Appia, Latina e Flaminia, i Greci potevano tentare di muovere a soccorso di Roma soltanto dal lato della foce del Tevere.
Valentino e Foca annunciarono tosto ai Romani la loro venuta, ed ammonirono il general Bessa che in un giorno determinato sortisse contro il campo dei Goti, nel tempo stesso in cui le soldatesche di Porto moverebbero ad assalirlo da tergo. Ma Bessa non si arrischiò di farlo, e l’assalimento condotto da un solo lato fu rigettato dai Goti con piena sconfitta dei loro nemici che si ritirarono in fuga.
Papa Vigilio non era in quel tempo nella Città. Dopochè Silverio suo antecessore, alla cui deposizione ed al cui esilio egli aveva operato con influenza potente, fu morto nell’anno 538 oppure nel 540, nell’isola Palmaria, per fame ovvero per violenza di genti spedite da [450] Antonina[408], la Chiesa riconobbe Vigilio a pontefice legittimo. Egli eccitava contro di sè la collera di Teodora imperatrice a cagione del suo rifiuto di annullare la sentenza che papa Agapito aveva pronunciata contro Antimo e contro la setta degli Acefali, ed a cagione della condanna ch’egli aveva data contro alcuni insegnamenti di Origene sulla preesistenza dell’anima, sulla trinità e sulla natura dell’anima di Cristo, dottrine che Giustiniano, mosso da ragione di Stato e da smania di entrare in disputazioni teologiche, aveva fatto insegnare, dando così origine alla controversia dei tre Capitoli[409]. Al suo energico rifiuto di accogliere i tre Capitoli, Vigilio era chiamato a Costantinopoli dove un Sinodo avrebbe giudicato della controversia: e dopo incerta tardanza, partiva a quella volta, addì 22 di Novembre dell’anno 544[410]. Gli avvenimenti occorsi nel suo viaggio sono involti nell’oscurità; e ciò che narra il Libro dei Papi che Vigilio, preso nella chiesa di santa Cecilia nel Transtevere, per ordine di Teodora fosse fatto imbarcare sul fiume in una nave, e che i Romani la accompagnassero delle loro maledizioni, tempestandola con pietre, con rottami di legno e con frammenti di stoviglie, se non possa essere dichiarato falso del tutto, eccita almeno qualche dubbio della sua verità[411].
[451]
Vigilio andava primamente in Sicilia, e vi si fermava a lungo, fino al tempo in cui Totila cingeva Roma di assedio. Informato delle necessità ond’erano stretti i Romani, dai ricchi patrimonî che la Chiesa romana possedeva nell’isola, raccolse gran copia di grano, e cariconne vascelli che infatti giunsero felicemente ai lidi di Porto. Ma i Goti, avutane contezza, si avanzarono fino all’imboccatura del Tevere, ed ivi si ascosero presso il molo con loro navicelli. I Greci del castello di Porto scopersero l’intendimento dei nemici; e nel momento in cui il naviglio carico di vettovaglie stava per entrare nel fiume per salire fino a Porto, dall’alto dei merli agitando panni cercarono di far intendere ai naviganti di tornare indietro: ma quelli, credendo anzi che fosse un segno con cui gli invitassero, si avanzarono, ed il convoglio di grano cadde fra le ugne dei Goti che ne alzarono grida festose. In quel naviglio erano anche parecchi Romani, fra i quali Valentino, che il Papa in Sicilia aveva eletto vescovo di Silva Candida e che ora egli spediva quale vicario suo a Roma. Condotto alla presenza di Totila, fu interrogato di parecchie cose, e, accusato di menzogna, quello sventurato ebbe crudelmente mozze ambe le mani. Ciò accadde, secondo le notizie dateci da [452] Procopio, verso la fine dell’anno undecimo della guerra gotica, cioè nella primavera del 546.
Tosto che fu conosciuta la perdita di quel convoglio di vettovaglie, si dileguò ogni speranza nella Città travagliata; e gli orrori della fame si resero vieppiù insopportabili. Commossi a disperazione, i Romani ricorsero al diacono Pelagio, uomo altamente reverito, il quale, di fresco tornato di Bisanzio dov’era andato nunzio della Chiesa romana, aveva distribuito il suo ricco patrimonio a lenire la miseria del popolo della Città, nella quale, durante l’assenza del Papa, ne fungeva egli senza dubbio le veci. Di buona voglia egli si sobbarcò al carico di andare ambasciatore al campo di Totila, affine di implorare dal Re una tregua, scorso il tempo della quale senza che di Bisanzio fosse porto ajuto, la Città si sarebbe resa. Il Re accoglieva il venerando ambasciatore dei Romani con segni di onoranza; ma tagliando corto ogni discorso di negoziati, gli diceva con fermezza, essere suo animo di concedere qualunque cosa gli chiedessero, fuori di tre: chè non voleva udire loro preghiere a ciò che perdonasse ai Siciliani, o che conservasse le mura di Roma, o che restituisse gli schiavi fuggiti. Perchè Sicilia aveva fellonescamente accolti i Greci, perchè le mura di Roma impedivano di deciderne in una battaglia in campo aperto e costringevano i Goti a far sofferire ai Romani gli orrori dell’assedio; perchè finalmente la fede data agli schiavi non poteva essere rotta. Pelagio com’ebbe inteso ciò, tornava atterrito, abbandonando la sorte della Città nelle mani di Dio.
Allorchè cadde infruttuosa l’opera di quell’uomo nella cui dignità e nella cui eloquenza i Romani avevano [453] riposta l’ultima loro speranza, confidenti ch’egli sarebbe un secondo Leone, i miseri cittadini angosciati dalla fame piombavano nel profondo della disperazione. S’adunavano con grida di guajo, e deliberavano di spedire alcuni uomini al palazzo: ivi quei tapini senza forza volsero ai duci un breve discorso, cui l’ambascia della fame dava una insolita energia ed il cui tenore fu presso a poco il seguente. «I Romani vi supplicano di essere trattati se non come amici scesi della stessa stirpe, o come concittadini dello stesso Stato, almeno come nemici vinti, come schiavi di guerra. Date ai prigioni vostri alcun poco di pane! Non diciamo, no, nutrimento da bene vivere, ma il tozzo necessario affinchè possiamo trascinare la vita al servigio vostro, come a’ servi si conviene. Che se vi sembra soverchio il dimando nostro, permetteteci almeno di uscire liberamente della Città, affinchè vi risparmiamo la fatica di dare agli schiavi vostri sepoltura. Che se pur questo desiderio nostro vi sembri troppo grave, ebbene! Date morte a noi tutti; chè ella sarà pietosa cosa!» Rispondeva Bessa: «Cibo per loro non avere; lasciarli partire essere cosa pericolosa; ucciderli empia; Belisario esser vicino ad ajutarli». E con queste parole congedava gli affranti ambasciadori che tornavano alla moltitudine affamata che gli attendeva ansiosa e istupidita.
Neppur una mano si levava tra i Romani a punire gli infami. Bessa e Conone, spinti dalla più turpe avarizia, traevano in lungo l’assedio per trafficare sulla fame del popolo e per cavarne denaro. Eglino incettavano le vettovaglie, e, fatti mercanti, le ammassavano nei granai: e gli stessi soldati greci toglievansi di bocca la loro [454] porzione di cibo per averne denaro e denaro. Imperocchè i Romani ricchi pagassero un medimno, ossia un piccolo moggio di grano, a sette monete d’oro, ed i meno agiati reputassero buona ventura quando potevano avere una misura eguale di crusca pagandola a monete d’oro 1 3⁄4. Cinquanta monete d’oro pagavasi con gioia un bue, se fortuna dava che se ne trovasse. Nella Città non era che avarizia da un lato la quale vendeva, e fame dall’altro che senza ridire sul prezzo, comperava e divorava. E come fu esausto il denaro contante, si videro i Romani trarre sul mercato una dopo l’altra le suppellettili dalle loro case permutandole con grano, nel tempo stesso in cui i cittadini poveri si trascinavano carponi alle mura e fra i ruderi dei portici (dove un tempo gl’Imperatori avevano fatte ai loro pigri avi largizioni di olio, di pane, di grasce), per cogliervi erbe selvatiche e per saziarne le brame del ventre. Ma anche il grano consumavasi fino alla scarsa porzione che Bessa aveva conservato per sè stesso; laonde la rabbiosa fame costringeva ricchi e poveri del paro a ricorrere alle ortiche che cotte trangugiavano. Vedevansi i Romani simili a spettri dalle occhiaie incavate errare per le piazze deserte, schiacciare co’ denti le ortiche, e tutt’a un tratto cadere inanimati. E la natura stessa che sotto quel cielo disserra estesa vegetazione di piante selvatiche, da ultimo non aveva più erbe che coi loro amari succhi porgessero miserando alimento. Molti ponevano fine a loro martòri dandosi morte: e fra gli spaventosi orrori di quei giorni Procopio narra di un fatto che non è terribile meno del lacrimevole destino del conte Ugolino. Era un padre di cinque figli: attorniato da quelle sue creature che gli si stringevano alle vesti [455] a piagnere e a domandar del pane, senza far motto accennava che lo seguissero. E come erano venuti al ponte del Tevere, da vero Romano copertosi il volto col lembo della sua veste, gettavasi del capo in giù nell’onda, dinanzi ai figli ed ai concittadini che non piangevano, sì dentro erano impietrati.
Alla fine i duci davano licenza che partisse chi voleva, tolto ancora perciò qualche po’ di denaro. Roma vuotavasi d’abitatori; ma dei miseri fuggiaschi che ivano a cercar alimento di fuori, molti cadevano per via di fame, e, se si presti fede alla narrazione dei Greci, anche di ferro del nemico: sennonchè noi abbiamo argomento di scolpare i Goti da questa crudeltà. In sì profonda miseria, esclama Procopio con istupore, la fortuna aveva precipitato il Senato ed il popolo di Roma!
Sembrava che l’arrivo di Belisario nel porto del Tevere dovesse finalmente decidere delle sorti. Partendo di Otranto egli conduceva seco la soldatesca di Isacco, e comandava al «sanguinario» Giovanni di muovere per le Calabrie e di incamminarsi per la Via Appia. Egli poi deliberava di fermarsi a Porto per vedere se potesse con pochi soldati liberare Roma: e ne era ben tempo. Approdato a Porto, trovò che i Goti avevano posto tra [456] lui e Roma un impedimento cui era necessario di superare, ma che opponeva grave difficoltà. Novanta stadî al di sotto della Città, là dove il fiume era più stretto, Totila aveva teso dall’una all’altra sponda una chiusa di fortissimi fusti di alberi: sull’una e sull’altra riva aveva eretto due torri di legno munite di mangani e difese dai giavellotti dei loro guardiani. Nessun vascello poteva oltrepassare quel forte serraglio, e neppure vi si poteva avvicinare se non dopo di avere spezzato una catena di ferro, tesa sul fiume a qualche distanza dalla chiusa.
Belisario doveva distruggere quell’ostacolo se voleva portare soccorso di soldati e di vettovaglie alla Città. Egli attendeva perciò alcun tempo che giungesse Giovanni, ma indarno, chè i Goti avevano a Capua impedita la via a quell’ardito capitano. Per la qual cosa Belisario eccitava parecchie fiate Bessa affinchè da parte sua movesse contro il campo, nel tempo istesso in cui egli dall’altro lato vi darebbe assalto. Ma il duce di Roma non si moveva, ed il presidio colle armi al braccio stavasi noncurante e neghittoso entro le mura. Allora Belisario deliberava di non aspettare più a lungo, e confidava nel proprio genio di guerra. Ad ogni modo voleva egli prima tentare di introdurre viveri nella Città; ed il suo disegno era splendido, ardito e degno di alta lode. Egli caricava le vettovaglie sopra duecento dromone o navi da trasporto dal corpo lungo e snello: e nel tempo stesso faceva di ognuna di esse una piccola cittadella natante, munendola all’intorno di un parapetto formato di forti panconi, con feritoje pei balestrieri. Ordinate le navi in ischiera sul fiume, vi faceva precedere una gigantesca [457] macchina incendiaria natante. Era essa formata di una torre di legno che, posando sopra due zattere congiunte insieme, superava in altezza le torri nemiche erette a difesa dello steccato, e recava al suo vertice una barca mobile piena di pece, di zolfo e di altre materie incendiarie.
Allorchè fu giunto il giorno determinato all’impresa, Belisario affidava la difesa del castello di Porto e la custodia della sua donna al generale Isacco, dandogli comando che non abbandonasse mai la città anche se gli giungesse novella che il generale supremo fosse stretto da grave pericolo e che anche fosse stato sconfitto. Nel tempo medesimo, presso le foci del fiume ordinava soldatesche dietro a trinceramenti, e comandava ai suoi fantaccini di seguire lungo le sponde del Tevere il movimento del naviglio.
Egli stesso saliva sulla prima dromona e dava il segnale della partenza. Precedevano venti navi spinte con grave sforzo dai remiganti a ritroso della corrente del fiume, nel tempo medesimo in cui la macchina incendiaria trascinata lungo la sponda lentamente s’avanzava. I Goti miravano con istupore quel movimento e rimanevano alcun tratto inoperosi nel loro campo. Coloro che stavano a guardia della catena erano presto sconfitti; la catena era spezzata; e con lena raddoppiata i Greci facevano forza di remi verso la chiusa. La macchina incendiaria si posava con buon successo sopra la torre volta al lato di Porto, e scagliandovi dall’alto il barchetto ardente, poneva tosto in fiamme la torre. Il presidio di questa, composto di duecento Goti capitanati dal prode Osda, vi periva miseramente. Una pugna accanita si combatteva intorno [458] alla chiusa, contro la quale facevano pressa le dromone, nel tempo medesimo in cui i fanti dalla banda di terra s’azzuffavano contro i Goti, che dal campo erano accorsi a difenderlo. Le sorti di Roma erano per essere decise in brevi istanti, e forse la vittoria sarebbesi in poco tempo ottenuta, se Bessa fosse mosso della Città ad assalire dal suo lato.
Intanto che ferveva la battaglia sopra una sponda del fiume ed intorno alla chiusa, un corriere recava a Porto la novella che la catena era stata infranta e che il ponte era preso. Isacco, trascinato da desiderio di aver parte alla gloria della vittoria e dimentico del comandamento di Belisario, correva ad Ostia, vi raccozzava uno stuolo di cavalieri, e stoltamente, quasi fuor di sè, aggrediva il campo nemico da quella banda. Nel suo impeto primo passò oltre ai Goti, entrò nei loro trinceramenti e cominciò a darvi saccheggio. Ma i Goti rinvennero tosto del loro sgomento, tornarono indietro, e serrando la via ai nemici entrati nel campo fecero prigione il temerario capitano. La notizia che Isacco era stato preso giunse sciaguratamente colla rapidità del folgore ad orecchio di Belisario intanto che pugnava intorno al serraglio. Atterrito a quell’annunzio, non comprese il vero dell’avvenimento, ma reputò che Porto fosse stato preso, che il castello, il tesoro, la sua donna, i materiali di guerra fossero caduti in mano del nemico; e per la prima volta la mente dell’eroe presa da agitazione si smarrì. Fè cessare dalla battaglia, fè chiamare a raccolta, e voltate le navi e la soldatesca, mosse in furia verso Porto per riprendere il castello. Ma come giungeva, stupiva di non trovarvi faccia di nemico, ma di rivedervi [459] le proprie scolte che attente vigilavano dai merli del castello: allora comprendeva il suo errore, ed era colto da angoscia sì grave che lo assaliva una febbre violenta, la quale togliendogli ogni sentimento lo teneva a lungo sospeso tra la vita e la morte.
Così falliva il tentativo di liberare la Città, nè era questa volta conceduto a Belisario di accrescere la gloria della sua prima difesa di Roma con una seconda. Una sospensione inerte ne derivò: in Porto dove Belisario giaceva infermo tutto era silenzio; nel campo dei Goti non facevasi alcun movimento; la città di Roma era simile a chiuso sepolcro. Le mura antiche di Aureliano che cingevano la immensa Città deserta dalla quale era fuggito il popolo tutto, sembravano sole guatare vigilando. Sui baluardi vedevasi appena qualche scolta: di rado qua e colà appariva un drappello di guardie: chi voleva dormire, dormiva; nè alcun duce ne lo sturbava. Nelle vie vedevansi pochi uomini vacillanti per fame: Bessa era nel suo palagio a guardia del denaro guadagnato sui dolori dei cittadini; e Totila stava irresoluto nei suoi trinceramenti mirando l’antica Roma dalle cui alte mura sembrava che le ombre sanguinose del suo popolo lo ricacciassero con terrore. La descrizione che dà Procopio delle condizioni della Città assediata è così terribile e straordinaria da far credere all’esagerazione; ma pure non sembra ch’essa sia mendace.
Quattro Isauri, che facevano parte di un drappello posto a guardia di porta Asinaria diedero finalmente Roma in mano al nemico. Senza che se ne accorgessero i loro duci, duranti parecchie notti calarono dalle mura sospesi a funi, e introdotti nel campo nemico annunciarono al [460] Re ch’egli potrebbe spedire soldati a impadronirsi della porta, con che egli avrebbe preso la Città quando avesse voluto. Le loro offerte ripetute e le assicurazioni di alcuni Goti che s’erano resi certi della veracità della proposta, tolsero ogni dubbiezza in Totila. Quattro valenti Goti aiutati dai traditori scalarono una notte la muraglia, e, scesi in Città, aprirono la porta per la quale l’esercito goto entrò quietamente. Ciò avvenne, dicesi, nella notte dei 17 di Dicembre dell’anno 546[412].
Totila, guidato da prudenza, non volle tosto penetrare durante l’oscura notte nel cuore della Città, ma fè sostare i suoi guerrieri nel quartiere Laterano. Ma la Città agitavasi tosto a grave tumulto; ed il Re ordinava che tutta la notte squillassero le trombe, affinchè i Romani avessero avviso di trovare scampo fuor delle porte oppure nelle chiese[413]. Il presidio di Roma al primo clamore fuggiva coi suoi duci Bessa e Conone: [461] tutti i Senatori che ancora avevano un cavallo, scappavano; e fra quelli era Decio e forse anche Basilio ultimo console di Roma, laddove Massimo, Olibrio, Oreste ed altri patricî si ricoveravano nella chiesa di san Pietro[414]. Chiunque aveva forza di trascinarsi fino alle chiese vi si rifuggiva; ed allorquando al sorgere della luce i Goti mossero per le vie di Roma, gli accolse il silenzio d’un deserto privo d’abitatori. Narra Procopio che in tutta la Città fossero rimasti soli cinquecento uomini che a fatica riuscirono a scampo nei santuarî, imperocchè tutti gli altri fossero usciti di Roma, oppure per fame fossero morti[415]. Ciò può sembrare meraviglioso anzi impossibile, ed il numero di cinquecento sarà forse da ripetersi dieci volte: ma la notizia offertaci dall’illustre Storico di quel tempo, se anche sia esagerata, dimostra in quale profondo decadimento ed in quale estrema miseria Roma fosse precipitata.
Allorquando i Goti finalmente corsero le vie della Città conquistata, intorno alla quale alzavansi ancora i cumuli che coprivano i cadaveri dei loro connazionali, fu porta loro opportunità di ottenerne ampia vendetta: ma Roma era sì deserta, che il loro odio non trovava oggetto sul quale si sfogasse, ed era sì miseranda nello aspetto, che la passione di vendetta si sarebbe anche nel petto dei Barbari tramutata in sentimento di compassione. [462] La rabbia dei Goti rimaneva paga dell’uccisione di ventisei soldati greci e di sessanta Romani colti nelle vie: e Totila, preso nell’animo meditabondo da sensi di pietà, moveva in sul mattino alla tomba dell’apostolo Pietro a sciorvi sue preci mattutine. Al prode vincitore si presentava sulla soglia della basilica il diacono Pelagio tenendo in mano il libro degli Evangeli, ed esclamava con voce interrotta da sospiri: «Signore, perdona ai tuoi!» Totila gli diceva: «Supplice tu vieni or dunque, o Pelagio?» E questi rispondevagli: «Iddio mi rese tuo servo, e tu perdona, o signore, ai servi tuoi». Il giovane eroe consolava l’animo triste del sacerdote, promettendogli che i Goti risparmierebbero le vite dei Romani: ma ai suoi prodi guerrieri concedeva, come già aveva fatto Alarico, che dessero saccheggio alla Città, purchè non toccassero quelle ricchezze più preziose che egli, quale parte del bottino, a sè riservava.
Roma fu saccheggiata ma senza spargimento di sangue e senza crudeltà; chè nelle case deserte i Goti non trovavano chi resistesse per difendere le robe. La Città non possedeva più le ricchezze onde era ornata ai tempi di Alarico, di Genserico ed anche di Ricimero: i palazzi delle antiche famiglie erano già da gran tempo deserti in parte e decaduti; e pochi soltanto erano ancora splendidi di capolavori di marmo e ricchi d’ornamenti d’oro e di preziose biblioteche. Tuttavia trovavasi ancora di che depredare nelle case dei Patrizî; e nel palazzo di Bessa il Re goto raccolse tutti quei cumuli d’oro che l’avarizia del Greco vi aveva ammassati. Tutti quegli sventurati Patrizî che erano rimasti nelle loro case, furono risparmiati; ed in fatti eglino avevano diritto a pietà, [463] chè, ravvolti entro vesti servili cenciose, vedevansi errare di casa in casa tendendo la mano ai loro nemici stessi e accattando per Dio un tozzo di pane. In quella miseranda condizione videro i Goti anche una donna illustre che sopra ogni altro era meritevole di compassione. Rusticiana, figlia di Simmaco e vedova di Boezio, durante l’assedio aveva distribuito ogni suo avere a lenire la miseria generale; e la nobile matrona non aveva ora causa di arrossire, se, obbietto di compassione, errava mendicando sua vita a frusto a frusto per campare ancor breve tempo. I Goti la mostravano a dito, e dicevano con amarezza che quella femmina a torre vendetta della morte del padre e dello sposo aveva fatto distruggere in Roma le effigie di re Teodorico: e chiedevano che la nobile vedova fosse messa a morte. Ma Totila onorava la sventura di lei, figlia e moglie a due Romani sì illustri, e proibiva che a nessuna vedova, nè ad alcuna orfana venisse fatto oltraggio. E fu tanta la sua mitezza d’animo verso tutti senza differenza, che egli meritò l’ammirazione e l’amore dei suoi nemici medesimi, a tale che di lui fosse detto, essere vissuto coi Romani, dopo la presa della Città, come un padre coi figliuoli[416].
[464]
Nel dì seguente Totila congregava i suoi Goti, forse nel Foro del popolo romano già da gran tempo deserto, e loro volgeva un discorso degno della grandezza e della moderazione dell’animo suo. Egli comparava il numero e la potenza presente dei Goti alla loro grandezza passata; e con nobile sentimento ispirato dalla vittoria, ricordava che se il loro superbo esercito di duecentomila uomini valenti era stato sotto Vitige vinto da settemila miserabili Greci e ridotto ad un debole stuolo di guerrieri nudi e malperiti nell’arme, eglino avevano pure saputo sconfiggere ventimila nemici, e riconquistare il regno perduto. Egli disse esservi una secreta e irresistibile potenza che punisce i delitti dei Re e dei popoli; per la qual cosa piamente ammoniva i suoi di ottenere il favore di Dio operando con giustizia verso i loro soggetti.
Indi egli si presentava con irato sembiante alle reliquie del Senato romano; e fu quella forse l’ultima volta che i Padri di Roma si congregassero nel palazzo senatorio. I Patrizî a capo chino si tennero indietro, quasi celandosi sotto l’abito sacerdotale del diacono Pelagio; e tremanti e silenti ascoltarono le parole severe dell’eroe, il quale rimprocciando la ingratitudine loro ai beneficî di Teodorico e di Atalarico, lo spergiuro, la fellonia, la stoltezza, disse volere quindi innanzi trattarli quai [465] servi. Eglino non fecero motto, e solo Pelagio pregò a favore «dei miserandi peccatori», finchè il Re promise che li tratterrebbe pietoso piuttosto che giusto[417].
Totila poi mostrava intendimenti oscuri e nunci di disgrazia alla parte materiale della Città. In questo tempo stesso i Goti avevano sofferta una lieve perdita in Lucania, ed a quella notizia il Re era commosso a violenta collera: ei voleva spianare al suolo tutta Roma; e, lasciando indietro la maggior parte del suo esercito, voleva muovere in fretta in Lucania contro il cane sanguinario, contro il feroce Giovanni. Ei dava tosto comandamento che si abbattessero le mura, e ciò fu eseguito in parecchi luoghi, di maniera che una terza parte di quelle fu infatti demolita[418]. Ed anzi ei faceva sacramento che darebbe alle fiamme i più belli, i più splendidi monumenti di Roma, e: «tutta la Città», sclamava, «voglio tramutare in vastità deserta ove pasca l’armento!»
Il Re nello accendimento dell’ira usciva con questi proponimenti, ma difficilmente un uomo di genio pari al suo poteva operare in maniera da deturpare il proprio nome immortale con una macchia di simil fatta[419]. Spargevasi fama intanto che i Goti fossero per distruggere Roma; e Belisario, che stavasi inoperoso chiuso nel vicino Porto, [466] nei suoi vaneggiamenti febbrili vedeva Roma, la città della sua gloria, posta a ruba e a fuoco. Egli spediva al Re lettere recanti la vera impronta di un’anima grande, le quali avrebbero meritato che dai grati Romani si incidessero in tavole di bronzo e si esponessero in una piazza publica della loro Città, affinchè servissero di ammonizione non già ai Barbari, ma sì a quei Baroni ed a quei Papi del medio evo che tanti monumenti di Roma distrussero. E quell’epistola sonava così:
«Gli uomini savii e che bene apprezzano le leggi del vivere civile sogliono rendere adorne di belle opere d’arte le città che non ne possedono: è costume invece degli uomini stolti di derubarle dei loro ornamenti, tramandando così senza rossore alla posterità la ricordanza di loro indole prava. Or di tutte le città su cui splende la luce del sole, Roma è la più grande e la più mirabile. Imperocchè essa non dalla potenza di un solo uomo sia stata edificata, nè in breve tempo a tanta grandezza ed a tanta bellezza sia pervenuta; ma la lunga serie degli Imperatori, l’associazione dell’opera degli uomini più illustri, usando in lungo ordine d’anni di ricchezze infinite, la abbiano resa splendida dei capolavori degli artefici raccoltivi da tutto l’orbe. E questa Città, che, quale tu vedi, fu poco a poco edificata, quegli uomini lasciarono ai loro posteri a monumento della virtù del mondo; per la qual cosa chi facesse oltraggio a tanta grandezza si renderebbe reo di grave delitto verso tutti gli uomini dei tempi che verranno. Avvegnachè egli rapirebbe gli avi del monumento del loro valore, ed ai nepoti torrebbe di godere della vista delle opere eccelse degli antenati. Poichè ella è dunque così, tu devi confessare che [467] di necessità delle due cose l’una deve accadere. O tu in questa guerra sei vinto dall’Imperatore, oppure, se fia possibile, lo vinci. Se tu trionfi, distruggendo Roma non perdi già una città altrui, bensì la tua propria, o chiarissimo uomo: serbandola invece, tu puoi reputarti arricchito a buon prezzo del più splendido possedimento della terra. Se ti fia avversa fortuna, la conservazione di Roma sarà argomento acciocchè tu trovi grazia agli occhi del vincitore, laddove la distruzione sua ti torrebbe speranza di esserne accolto con mitezza e di averne alcun vantaggio. Adeguata all’opera scenderà la sentenza del mondo, che in ogni caso ti giudicherà; imperocchè la bella o brutta nominanza dei Principi dipenda per necessità dalle loro geste»[420].
Totila ricevette lo scritto del suo grande avversario dalle mani di coloro ch’egli aveva spediti a recarglielo; e nel tempo in cui lo leggeva attentamente, il suo animo era preso da duolo, pensando che Belisario avesse potuto crederlo capace di un’opera sì stolta ed infame. Egli gli rescriveva in risposta; e noi deploriamo che la Storia non ci abbia conservato le sue lettere a monumento degli alti sensi di quell’anima eroica.
I monumenti di Roma furono rispettati: soltanto alcune case della Città furono date al saccheggio ed alle fiamme, e quella sorte toccò segnatamente alla Regione del Transtevere, dove per buona ventura erano di pochi edificî splendidi[421]. Forse Totila vi faceva incendiare [468] alcuni fabbricati, come se realmente volesse porre ad esecuzione la sua minaccia; e quelle fiamme facevano sì che Belisario prestasse fede alla fama sparsa del brutto proponimento di lui. Le lettere del duce greco al Re goto, ed alcuni passi di Procopio e di Giornande frantesi, oppure a bello studio travolti nel loro senso, fecero accogliere opinione che Totila abbia realmente eseguita sua opera di demolizione in Roma. Alcuni Storici del medio evo ed anche di tempi recenti lo affermano solennemente: e laddove avrebbero dovuto discolpare Alarico, Genserico e Ricimero delle brutte colpe loro attribuite, eglino accusarono Totila della ruina di Roma. Leonardo Aretino coi colori di Virgilio dà persino una dipintura terribile dell’incendio di Roma operato da Totila: egli fè prima di tutto, così narra quello Storico, abbattere le mura; indi diè fuoco al Campidoglio e fè mettere in fiamme tutti gli edificî che s’alzano intorno al Foro, alla Suburra ed alla Via Sacra: ne arsero i monumenti del monte Quirinale; e l’Aventino splendeva del chiarore dell’incendio, e sonava per l’aere il crepitio delle fiamme e il rumore delle case crollanti. Altri retori italiani sulle sue orme spacciarono di simili narrazioni fantastiche; nè soltanto narrarono che i Goti, simili a «sciame di vespe in furore» si lanciassero contro il Colosseo, e dall’alto al basso vi compiessero opera di disfacimento, ma seppero dire persino ch’eglino mossero acerba guerra segnatamente contro gli obelischi di Roma. Perocchè, avendo eglino pure [469] nella loro patria di quei marmi alti da venti a trenta piedi, sieno stati presi da invidia degli obelischi della Città più belli di gran lunga, e gli abbiano perciò tutti, all’infuori di quello soltanto del san Pietro, distrutti con fuoco, o abbattuti con picconi, o strappati con corde. E tali fole diffondevansi ancora nel secolo decimottavo[422].
Del resto compievasi la mirabile profezia che santo Benedetto aveva pronunciata su Roma, e che il grande pontefice Gregorio narrava nei suoi dialoghi soltanto quarantasette anni più tardi. Sembra che, allorquando Totila entrava in Roma, si narrasse con terrore universale che i Goti, a vendicare i loro fratelli caduti con Vitige, volessero distruggere la veneranda Città: e questa è dimostrazione ch’essa non ebbe mai cessato di essere obbietto di amore a tutto il genere umano. Il Vescovo di Canusio nelle Puglie, andato un dì a Monte Cassino, [470] svelava le paure ond’era combattuto il suo animo a san Benedetto: ma l’uomo del Signore confortava lo spirito angosciato di lui, dicendogli con calma: «Roma non sarà distrutta dai Barbari; ma, travagliata da nembi e da folgori, da procelle e da terremoti, di per sè stessa decadrà putrefacendosi»[423].
Dopochè Totila ebbe distrutta la terza parte delle mura, con una risoluzione di cui non sappiamo giustificare la cagione, forse spinto da irrequietezza d’animo, partiva di Roma. Egli non lasciava alcun presidio nella Città, ma alla distanza di 120 stadî poneva un campo in un luogo chiamato Algido[424], affine di impedire che Belisario uscisse di Porto. Egli poteva a buon dritto reputarsi per sacro titolo signore di Roma, e ben poteva partirne; ma ci riesce a sorpresa ch’egli non movesse tutte le forze sue contro Porto per soffocarvi il germe di una novella guerra. Indi andava in Lucania, dietro a sè traendo, quali ostaggi o quali prigionieri, tutti i Senatori; [471] e Roma, donde egli aveva nella sua collera cacciato il popolo tutto nella Campania, era tramutata in uno squallido deserto che metteva terrore[425]. La fantasia nega quasi di credere a quell’avvenimento straordinario ed unico nella Storia: nè di quella immensa capitale del mondo, che il nostro pensiero suole mostrarci animata della vita delle nazioni, la fantasia vale a dipingere a sè stessa neppure per brevi istanti l’imagine desolata, che la rende simile a luogo maledetto ed a tomba spalancata, muta, deserta di abitatori. Ma la narrazione di Procopio è chiara e precisa, ed è sorretta dalla testimonianza d’un altro Storico che dice: «Totila condusse i Romani in cattività nella Campania; e Roma ne rimase più che quaranta giorni deserta, in modo che vi si aggiravano per le vie animali, senza che uomo ivi entro movesse»[426].
[473]
Tosto che Totila era partito per le Puglie e per la Lucania, Belisario tentava di rendersi signore della Città non presidiata. Egli usciva di Porto a tal uopo con mille guerrieri, ma assalito dalla cavalleria gota che veniva con rapida mossa di Algido, era costretto a ritirarsi dopo una pugna accanita. Sembrava che il Re dei Goti per dileggio avesse abbandonata Roma, collo stesso sprezzo con cui uomo gitta da sè la buccia senza midollo delle frutta, e che ancora volesse impedire a Belisario di raccoglierla. Ma il duce greco attendeva con calma una opportunità migliore, e finalmente moveva [474] per la seconda fiata all’impresa. Lasciando un piccolo stuolo di soldati a presidio del castello e ingannando la vigilanza dei Goti, di repente, con movimento rapido e senza contrasto, egli si gettava colla rimanente soldatesca entro la deserta Città, traendo per porta Ostiense, intorno alla quale s’alzavano i cumuli di pietre delle mura diroccate in parte. Volgeva la primavera dell’anno 547, quando Belisario entrava la seconda volta in Roma: e appena egli era dentro alla Città, ch’era stata già teatro alla sua gloria, sembrava che il suo genio rivivesse con duplice vigoria.
Sua prima cura fu di restaurare il muro. Ma siccome ei difettava del numero di operai necessario a quel lavoro, e non possedeva materiali da costruzione sufficienti, nè aveva il tempo occorrente per riedificare saldamente la muraglia nel lungo giro in cui era stata demolita, ei la racconciò nel modo migliore che per lui si potè. Restituilla accumulando i ruderi dell’antica; nè v’ha dubbio che si saranno adoperati a quello scopo anche molti bei pezzi di nobile marmo e di pietra travertina strappati ai monumenti che s’elevavano nelle vicinanze. Non si congiunsero le pietre per mezzo di calce o di altro cemento; soltanto nella parte esterna si sostennero per mezzo di una palizzata; e il fosso scavato già ai tempi del primo assedio, liberato dalle materie che lo riempivano e reso più profondo, servì a ottimo mezzo di difesa. Dopo venticinque giorni di operoso lavoro, Belisario poteva muovere intorno alle mura rinnovellate e persuadersi che per lo meno esse avrebbero giovato alla stessa guisa di uno scenario appariscente da teatro. Dalla Campania frattanto traevano di nuovo entro la Città i Romani [475] dispersi qua e colà, e le davano ancora sembianza di paese popolato[427].
Se la difesa di Roma sostenuta da Belisario contro il primo assedio condotto con tanta energia ci muove ad ammirazione, sorpresa ancor maggiore deve eccitare in noi la seconda in cui egli respinse l’oste nemica malgrado della debolezza delle opere necessarie alla resistenza. Non appena ebbe Totila l’annuncio che il nemico era di nuovo rientrato in Roma, che senza indugio, rapido e ardito come Annibale, veniva di Apulia contro la Città. Potrebbe sembrare che i suoi movimenti sieno stati condotti senza saggio disegno perchè ebbero esito sventurato: ed infatti quel prode capitano abbandonando Roma senza prima prendere Porto e senza distruggere la fortezza di Belisario, può dare ai censori fondamento di rimproverarlo di precipitata sconsideratezza. Egli trovava i Greci che davano opera in fretta a restituire a saldezza le porte: chè le loro aperture non erano munite, perocchè Totila, partendo, avesse trasportate con sè, oppure avesse distrutte le imposte; e i falegnami di Belisario non le avessero peranco ricostruite. In mancanza di barre, i disperati guerrieri greci ne chiusero il varco coi loro petti protetti dagli scudi e dalle aste che spingevano a mo’ di siepe all’infuori. I Goti rimasero durante la notte nel loro campo presso il Tevere, e al sorger del giorno si lanciarono con furore contro le porte e contro le muraglie, che il più lieve urto delle macchine di guerra di Vitige avrebbe facilmente abbattute. Ma dopo un combattimento [476] che durò tutto quel giorno fino a notte avanzata, i Goti respinti con grave perdita tornavano al loro campo, confessando con istupore, che innanzi a Roma aperta avevano ricevuto una sconfitta. All’albeggiare del dì successivo redivano all’assalto: ma le mura erano ben difese da balestrieri, e fuori, innanzi alle porte, s’alzavano parecchie macchine di legno che erano formate di pali congiunti fra loro ad angolo retto, uno dei quali, spingendosi fuori diritto a punta, volgevasi a volontà di chi lo maneggiava d’ogni parte contro le ordinanze nemiche, senza che mutasse la forma o l’intento[428]. Il genio di Belisario sembrava creato apposta per difendere Roma, e in tale bisogna sembrava invincibile, laddove invece i Goti nelle arti degli assedî imperiti, respinti quasi da un fato, affievolivano la loro potenza urtando contro le mura di Roma. La notte poneva fine anche al secondo assalto; nè meno infelice riuscita aveva un terzo che Totila imprendeva parecchi giorni dopo. Il suo vessillo regale istesso era con grave pena strappato alle mani degl’inimici; e dopo un’aspra pugna combattuta intorno al corpo dell’alfiere, i Goti si ritiravano, lieti di aver potuto troncare all’estinto la mano sinistra, per non lasciare ai Greci l’aureo braccialetto a trofeo di loro vittoria.
[477]
Ma come ripararono nel campo, quei guerrieri, presi da dispetto di loro onta, colmarono Totila di rimbrotti: e quegli uomini stessi i quali avevano fatto plauso al disegno di lui di abbattere tutti o in parte i baluardi delle città conquistate, or lo biasimavano amaramente di non essersi munito validamente entro le mura di Roma, oppure, se lo avesse reputato poco saggio consiglio, di non averla tutta rasa al suolo. Quindi si spandeva anche da lontano la fama dei rovesci sofferti dai Goti innanzi a Roma semiaperta; ed alta meraviglia levava la resistenza senza pari di Belisario. E qualche tempo dopo Totila ne riceveva beffa da Teodeberto re dei Franchi; chè avendo il Goto chiesta la figlia di lui in isposa, il Franco davagli a pungente risposta: non potere creder mai che fosse re d’Italia, nè che sarebbe mai per divenirlo un uomo, che non poteva conservarsi nel possedimento di Roma conquistata e che era costretto a vedere ripresa dai suoi nemici la Città mezzo distrutta[429].
Totila poteva sprezzare le ingiurie, ma non poteva impedire che gli si volgessero contro. Egli perdette sotto le mura fatali di Roma una parte della sua bella nominanza di grande guerriero, ed una parte ancor maggiore di sua fortuna; e senza cimentarsi in novelli assalimenti, tagliando dietro a sè i ponti dell’Anio, moveva con tutta la soldatesca a Tivoli, ch’egli rendeva fortemente munita[430]. Di tal maniera Belisario aveva agio ad [478] asserragliare le porte di Roma con imposte coperte di ferro; e per la seconda volta gli era concesso di spedire con senso di orgoglio le chiavi di Roma all’Imperatore in Costantinopoli. A quest’epoca Procopio pone fine all’inverno, ed al duodecimo anno della guerra gotica. Doveva essere quindi in sul torno della primavera dell’anno 548 allorchè Totila levava il campo: egli sembra però che lo Storico greco affretti di troppo il corso del tempo. L’assedio durava forse un sol mese; e gli avvenimenti erano rapidi sì come le deliberazioni e le opere del Goto, il quale pareva che nello stesso tempo fosse d’ogni dove.
Durante l’assedio poi, Totila soffriva un’altra grave perdita che aggravava vieppiù il peso morale dello smacco ricevuto sotto le mura di Roma. Il feroce Giovanni, continuando instancabilmente a combattere una piccola guerra nell’Italia meridionale, compieva felicemente con uno stuolo di cavalleria un’ardita impresa nella Campania. Quivi, forse in Capua, erano tenuti in cattività i Senatori di Roma colle loro donne e coi figli. I Goti avevanli costretti a scrivere lettere agli abitatori delle province colle quali gli eccitavano all’obbedienza ai loro signori: e questi tenevano il patriziato romano in obbrobrioso servaggio a somiglianza di un armento, pronti a spingerselo innanzi d’uno in altro luogo, ma tenendolo sempre sotto buona guardia a propria sicurezza. [479] Giovanni all’impensata assaliva Capua, faceva strage del presidio goto, gettava i Padri venerandi colle loro famiglie sopra alcuni carri, indi con quel suo bottino di nuovo genere riparava in fretta nelle Calabrie. Egli traeva seco pochi patrizî, perocchè la maggior parte di quelli, dopo la presa di Roma, si fossero dispersi in fuga; ma molte donne di ordine senatorio egli vi trovava, e quelle ei faceva condurre in Sicilia sotto pretesto di loro sicurezza, e veramente allo scopo di averne importanti ostaggi della fede di Roma.
Alla notizia del buon esito della spedizione di Giovanni, Totila partiva di Perugia ch’egli teneva stretta d’assedio e moveva contro Italia meridionale rapidamente sì che sembrava avere il suo esercito poste le ali. Valicati gli scoscesi monti di Lucania, piombava sul campo di Giovanni, lo rompeva e ne disperdeva i soldati, che con vergognosa fuga cercavano salvamento nei monti e nei boschi. Indi correndo a Brindisi colla sua cavalleria, vi sorprendeva uno stuolo di soldati greci approdato in quello, e lo distruggeva. Trasportata così la guerra nelle province della bassa Italia, Totila colla previdenza del suo genio sperava che Belisario abbandonerebbe Roma; ed infatti il Generale preso da sollecitudine della piega delle cose, era costretto a recarsi in persona sul nuovo campo della guerra. Alle lettere pressanti con cui egli chiedeva soccorsi, aveva risposto l’Imperatore ch’erano già state mandate truppe nelle Calabrie, per lo che egli stesso andasse a prenderne la capitananza. Belisario obbediva; e imbarcatosi con soli settecento cavalli e con duecento fanti, lasciava il rimanente della soldatesca a presidio della Città sotto il comando di Conone, e verso [480] l’inverno dell’anno 547 partiva per sempre di quella Roma che era monumento e sepolcro di sua gloria immortale, per andare errando senza splendore di costa in costa nell’Italia meridionale simile ad un fuggiasco.
A testimonianza eloquente delle geste di Belisario in Roma s’elevano ancora le mura della Città, le quali ricorderanno eternamente il nome di lui a chi le mira. Ignoriamo di quali altri monumenti a lui vada debitrice Roma; e dobbiamo dubitare che gli avanzassero tempo od opportunità di pensare ad altro che non fosse utile al presidio della Città. Per la qual cosa non è probabile ch’egli ristorasse gli acquedotti distrutti dai Goti e che egli restituisse a Roma il godimento dei bagni. La sola Aqua Trajana va debitrice a lui di una restaurazione, perocchè fosse necessario il corso delle sue acque a muovere le macine dei molini: e di questo fa fede un passo del Libro Pontificale[431]. Mancava allora ricchezza che bastasse alle gravi spese necessarie a racconciare gli acquedotti: e, se si tolgano le ristorazioni dell’Aqua Trajana ed alcuni altri meschini lavori, dopo il tempo di Vitige e precisamente dall’anno 537 al 775, gli acquedotti cessarono di spandere in Roma la letizia delle [481] acque; e quella città che fra tutte del mondo ne possedeva copia maggiore, fu per lo spazio di più che due secoli fornita delle acque dei soli pozzi e delle cisterne, come nei tempi suoi primi.
Il Libro Pontificale narra con una specie di orgoglio che Belisario fondasse in Via Lata un ospizio per i pellegrini, e che molte ricchezze spendesse a beneficio dei poverelli: e racconta che, oltre a due grandi candelabri dorati, egli donasse all’apostolo Pietro una croce d’oro del peso di cento libbre e seminata di gemme, sulla quale erano incisioni commemorative delle sue vittorie. Egli è probabile che quell’opera d’arte fosse adorna di imagini condotte a cesello, per la qual cosa dobbiamo deplorarne la perdita[432]. Immense erano le ricchezze che Belisario aveva raccolte nel bottino fatto sui Vandali: ben è facile dunque che una piccola parte di quelle egli volgesse a pia testimonianza di gratitudine alla Divinità; e poichè il Libro Pontificale narra ch’egli abbia deposto quei suoi doni votivi fra le mani di papa Vigilio, così non vi ha dubbio che gli offrisse dopo la vittoria riportata su Vitige. La restaurazione di qualche monumento antico, [482] del palazzo dei Cesari, ad esempio, avrebbe reso per fermo più reverito presso ai posteri il nome del difensore di Roma.
Belisario salpava di Porto movendo alla volta dell’antico Taranto; ma una burrasca lo gettava a Crotona. E in quella città, non protetta da mura, egli rimaneva colla sua donna e colla fanteria, nel tempo medesimo in cui comandava ai suoi cavalleggieri che corressero il paese lunghesso la bella marina del golfo, le cui colonie greche, anticamente fiorenti, già incominciavano a decadere nella rozza selvatichezza della vita prima di natura. Ma Totila celeremente sorprendeva quella cavalleria nelle vicinanze dell’antico porto dei Turî, presso a Ruscia (ch’è l’odierno Rossano) e la sbaragliava completamente: e ne avveniva che Belisario stesso in fretta ponevasi in mare e si ricoverava a Messina in Sicilia. Era, secondo la notizia offertaci da Procopio, verso la fine del decimoterzo anno della guerra gotica, intorno alla primavera dell’anno 548.
L’intero anno successivo occupavasi in battaglie combattute nella bassa Italia, le quali tutte avevano infausto risultamento pei Greci. Lo sventurato Belisario ne sentiva acre dolore; le poche soldatesche che l’Imperatore [483] spediva erano disfatte tosto che approdate, per la qual cosa ei poteva reputarsi fortunato che Giustiniano lo richiamasse in Oriente. Egli ingrediva in Costantinopoli senza onore di trionfo, dopo di avere spesi con cattivo successo cinque anni in Italia, ch’egli lasciava in balia del nemico vittorioso: e quello fu il massimo dei dolori della sua vita. Alla partita di lui Totila trionfava vie maggiormente: dopo di aver conquistate felicemente parecchie città della Calabria, e dopo di avere presa la bene munita Perugia, quell’eroe instancabile moveva per la terza volta col suo esercito contro Roma, in sull’incominciamento dell’anno 549.
Al comando del presidio della Città non era più preposto Conone: chè i soldati, irritati contro l’avidità sua, ammutinatisi lo avevano trucidato; e Giustiniano era stato costretto a perdonare loro quel delitto, atterrito alla minaccia che alcuni preti romani, spediti ambasciatori, gli avevano fatta, protestando che, ove non avesse dato perdono, il presidio sarebbe passato dalla banda dei Goti. Ora aveva Diogene il comando della Città con tremila uomini di presidio; e il coraggio ed il valore di quello sperimentato capitano bene prometteva della difesa. Nè egli fu negligente di provvedimento alcuno che giovasse a respingere l’oste nemica: fornì i granai e fè seminare a grano tutti gli spazi deserti che si trovavano entro la cerchia delle mura[433]: ed i Romani avranno mirato (doloroso spettacolo!) intorno alle ruine della loro grandezza antica, nel Circo stesso forse, biondeggiare [484] le spiche. Già Totila stava innanzi a Roma, e già dal loro campo (che probabilmente sarà stato situato ove era l’antico, al di sotto di porta san Paolo, presso il fiume[434]) i Goti movevano ripetuti assalti contro le mura, ma ne erano respinti con energia: e la stessa presa di Porto, baluardo potente la cui perdita riescì alla Città di grave danneggiamento, non avrebbe affrettata la conquista di Roma, se anche questa volta alcuni traditori non l’avessero aperta a Totila. A guardia della porta san Paolo stavano Isauri. Irritati che si ritardasse loro da gran tempo il pagamento del loro soldo, e invaghiti d’altra parte della ricca ricompensa ottenuta dai loro connazionali i quali avevano altra volta messo dentro della porta il Re goto, deliberarono di imitarli e offersero a Totila i loro servigi. Una notte il Re s’avvicinava col suo esercito a quella porta, nel tempo istesso in cui mandava suoi trombettieri su due barchetti attraverso il Tevere, affinchè con alti squilli volgessero l’attenzione dei difensori verso un luogo remoto. Quelli della Città, atterriti a quel segno di battaglia, accorrevano là dove credevano che si movesse l’assalto: e in quello gl’Isauri aprivano porta san Paolo per la quale ingredivano i Goti. Uccidevano senza pietà quanti incontravano; ed i Greci, fuggendo per la Via Aurelia a Centumcella, [485] cadevano in un agguato donde si salvavano a stento pochissimi, fra i quali anche Diogene ferito.
Roma per la seconda volta cadeva in balia di Totila, all’infuori soltanto della tomba di Adriano. In mezzo allo sbigottimento universale, Paolo cilicese, prode capitano, si ricoverava con quattrocento cavalieri entro quel baluardo. In sul mattino i Goti lo assalivano, ma egli ne li ricacciava vittorioso con grave loro perdita. I nemici deliberavano perciò di prendere quel pugno di valorosi per fame: due giorni duravano eglino senza cibo, non volendo nutrirsi delle carni dei loro cavalli; e finalmente determinavano di morire da eroi. Abbracciatisi l’un l’altro, dicevansi l’estremo addio; indi prendevano l’arme per iscagliarsi in mezzo all’oste nemica risoluti di vender cara la propria vita. Totila, conosciuto il loro proponimento, ebbe paura dell’urto di quel gruppo di prodi ai quali la disperazione rendeva desiderata la morte, e loro fè sapere che darebbe permissione a ciò che, posate le armi, liberi si ritirassero. Ma quei valorosi guerrieri elessero di servire indi innanzi colle armi alla mano sotto la bandiera di un eroe liberale, piuttosto che di tornarsene con povertà e con onta a Bisanzio: per la qual cosa tutti, ad eccezione di Paolo e di un altro officiale, s’arrolarono nello esercito Goto.
Dopochè Totila si fu impadronito intieramente di Roma, non fu più indotto al consiglio di abbandonare la Città e molto meno di distruggerla: ed è a tale proposito che lo storico Procopio narra che un tale mutamento avessero operato nell’animo suo i beffardi rimproveri del Re dei Franchi. Egli trovava Roma ridotta a deserto, abitata da pochi e miseri cittadini, povera sì come una [486] meschina città di provincia. A renderla novellamente popolata ei vi chiamava dai dintorni e dalla Campania Goti e Romani ed anche Senatori: e nel tempo medesimo in cui dava opera a provvederla di vettovaglie, comandava che si restaurasse tutto ciò che dopo la prima sua conquista, nella Città era stato distrutto. Indi con regale liberalità richiamava il popolo a letizia dando spettacoli nel Circo massimo: e gli ultimi giuochi di corse che i Romani vedessero, erano loro offerti da un Re goto, quasi che ne prendesse di tal maniera congedo. E allorquando i radi stuoli di cittadini ed i pochi Senatori, a godere lo spettacolo delle corse, avranno preso seggio nel Circo smisurato, sui gradini anneriti per la vecchiezza, Roma mirando quell’adunanza di ombre e quei giuochi, sarà stata commossa a terrore come alla vista di uno spettro beffardo.
Ma le necessità della guerra non concedevano che Totila dimorasse a lungo nella Città. Vanamente sperava il Re che la presa di Roma e le tante sue vittorie nelle province sarebbero per muovere l’animo caparbio di Giustiniano: il Romano da lui spacciato ambasciatore per far noto all’Imperatore il suo vivissimo desiderio che Italia tornasse a ordinamento di pace, non era accolto entro Bisanzio; chè anzi le istanze pressanti di papa Vigilio, il quale era allora in Costantinopoli, unite ai consigli del patrizio Cetego (e questi due uomini, il primo Vescovo di Roma, il secondo presidente del Senato, erano i rappresentanti dei Romani devoti all’Impero), facevano sì che l’Imperatore deliberasse di tentare uno sforzo supremo a riconquistare Italia, e di porre alla testa dell’esercito uomini di somma virtù militare.
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Totila incrollabile ed instancabile nella sua energia, colla mente feconda di disegni, partiva novellamente di Roma nell’anno 549, nel tempo stesso in cui teneva stretta d’assedio con una parte della sua soldatesca la prossima Centumcella. Con quattrocento navi, che egli aveva saputo raccogliere predando o in altra guisa, egli s’ergeva ora a dominatore dei mari; e salpando dalle coste del Lazio scioglieva le vele alla volta del mare inferiore per punire la colpevole Sicilia e per distruggere i nemici che avevano posto stazione in quelle acque. Ma qui ci è tolto di poter seguire Totila nelle splendide e grandi sue imprese; nè possiamo narrare della conquista di Corsica, di Sardegna e delle ardite spedizioni che i Goti, fatti marinari e precursori dei Normanni, impresero contro Grecia stessa; chè ci caccia il lungo tema della nostra Storia della città di Roma.
Volgeva il decimosettimo anno di guerra, verso la fine del 551 o in sull’incominciamento del 552, allorquando Narsete veniva al campo della guerra. E mutava tosto la piega delle cose. Strano spettacolo per fermo è la pugna tra un eroe ed un eunuco: ma la fortuna, che abbandonando di repente Totila lasciavalo cadere, rendeva meno obbrobriosa la sua sconfitta dandogli a emulo [488] un uomo d’alto valore, e opprimendolo per quelle grandi leggi del fato che condannano alla rovina anche gli uomini illustri dopo una serie di trionfi gloriosi.
La vittoria dell’Eunuco era stata annunciata al mondo da un presagio compiutosi in Roma. Un Senatore narrava allo storico Procopio quest’aneddoto: al tempo di re Atalarico passando un armento di buoi per il foro della Pace, uno di quegli animali evirati, di repente scagliandosi, s’era sovrapposto al simulacro di bronzo d’un toro il quale stava ad ornamento d’una fontana del foro: e un contadino toscano il quale a caso passava di là aveva esclamato esser quello presagio che un eunuco un dì vincerebbe il dominatore di Roma[435]. Noi non avremmo fatta menzione di questa fola, se non fossero stati alcuni cenni che lo Storico dà a quel proposito intorno ai monumenti ancora esistenti in Roma.
Procopio stesso vide ancora il foro della Pace ed il tempio conquassato dalla folgore che indi non fu più restaurato e di cui sparve in seguito ogni traccia; vide ancora le fontane ed il toro di bronzo ch’egli reputò opera di Fidia o di Lisippo. E lo Storico narra che ai suoi tempi esistevano ancora in Roma parecchie statue di quei due sommi maestri; e, senza darcene il nome, ei parla di un’altra statua di Fidia che portava scritto il nome di quel suo artefice. Ivi, dic’egli, esiste ancora la vacca di Mirone. Forse quel celebre capolavoro sarà stato da Augusto trasportato di Atene a Roma; forse anche il Bisantino avrà scambiata quell’opera di Mirone, già veduta un tempo da Cicerone in Atene, con altri [489] simulacri in bronzo di buoi, dei quali era in Roma gran copia. I Romani si dilettavano di simulacri d’animali; e la statua più preziosa di Roma era quella di bronzo che rappresentava un cane che lambiva la sua ferita, e che era conservata, miracolo d’arte, nel tempio Capitolino. Il foro boario riceveva nome dal simulacro di un bue; e con quattro figure di tori, opere di Mirone, Augusto aveva reso adorno il cortile del tempio di Apollo Palatino[436]. Nel Foro romano e nelle sue vicinanze stavano ancora altri simulacri di animali; e l’Elephans Herbarius si ergeva dal lato del Campidoglio volto verso il Tevere, e Procopio vedeva ancora nella Via Sacra gli elefanti di bronzo che ad opera di Teodato in tempi recenti vi erano stati restituiti[437]. Egli fa menzione anche di una statua di bronzo dell’imperatore Domiziano ch’ei vide presso il Clivo capitolino a mano destra di chi usciva del Foro: e poichè dice ch’essa era la sola statua di Domiziano che esistesse, egli è chiaro non [490] potere reputarsi che fosse la celebre statua equestre di quello Imperatore, che il poeta Stazio descrive esattamente nel primo canto delle sue Selve. Questo grande ed illustre monumento dell’arte dopo i tempi di Stazio s’ergeva nel Foro stesso, più in là del luogo ove in tempi posteriori s’innalzò la colonna di Foca; ma non esisteva più all’età di Procopio. La statua di bronzo di cui parla lo scrittore greco si sarà elevata a mano destra dell’arco di Severo, o meglio, innanzi al palazzo senatorio edificato da Domiziano[438].
Se lo Storico della guerra gotica ci avesse lasciata la descrizione di altri monumenti d’arte esistenti in Roma al suo tempo, egli ci avrebbe recato servigio non lieve. I Romani vergendo a barbarico decadimento, senza fondamento reputavano opera di illustri artefici greci parecchie statue; e forse sui piedestalli dei due colossi posti innanzi le terme di Costantino leggevansi i nomi di Prassitele e di Fidia. Procopio parla per minuto di un monumento di Roma che credevasi assai antico, e ne trae argomento a lodare l’amore che i Romani portavano alle opere dell’antichità, e che avevano serbato fervidissimo [491] malgrado della lunga dominazione barbarica[439]. Lo moveva a meraviglia la vista della nave favolosa di Enea, che ancora conservavasi nell’arsenale presso la sponda del Tevere[440], e che egli descrive lunga centoventi piedi, larga venticinque: dice che era ad un solo ordine di remi, che gli assi erano uniti con arte senza arpioni, che la chiglia era formata di uno smisurato tronco di albero lievemente curvato, e che i fianchi costruiti di un solo pezzo di legno piegavano uniformemente dall’uno e dall’altro lato della nave. Il credulo Procopio esprime con vivace discorso la sua ammirazione per quell’opera che «avanza ogni concepimento», ed assicura che quella nave favolosa sembrava costruita di recente, senza che si scorgesse vestigio di corruzione recata dalla vecchiezza[441].
Gettato così uno sguardo fugace sui monumenti di Roma decaduta, torniamo tosto a Totila ed a Narsete. Il novello Generale fornito di pieno potere ad usare del tesoro imperiale, di animo liberale, pronto ad operare, chiaro per eloquenza, raccoglieva in Dalmazia un grande esercito in cui si riunivano genti d’ogni nazione, che [492] con loro varie fogge presentavano uno spettacolo simile a quello degli eserciti crociati di tempi più tardi. Unni, Longobardi, Eruli, Greci, Gepidi e persino Persiani, differenti di forme, di linguaggio, di armi, di costume, ma animati tutti da pari desiderio d’impadronirsi dei tesori dei Goti, o meglio d’Italia, si schieravano a Salona sotto la bandiera di Narsete. Con bella mossa ei guidava quelle soldatesche terribili lungo le spiagge paludose del mare Adriatico a Ravenna; e Totila era agitato a terrore dall’improvvisa notizia che già il Greco s’avanzava verso l’Apennino.
Il Re goto era in Roma. Tosto ch’egli aveva abbandonata Sicilia, ei ritornava nella Città ad attendervi che giungesse Narsete. Ei vi richiamava alcuni Senatori, e loro affidava la cura della restaurazione della Città, nel tempo stesso che gli altri teneva sotto buona guardia nella Campania. Ma i Padri ch’erano in Roma difettavano degli agî necessarî a provvedere alle publiche bisogne ed alle proprie loro necessità; e dai sospettosi Goti eglino stessi erano trattati quali schiavi di guerra. Sembra che Totila facesse lunga dimora nella Città, e che di qui egli possa già prima aver dato ordinamento alla spedizione contro le coste di Grecia. Per lo meno egli era in Roma allorquando Narsete mosse di Ravenna: e vi rimaneva attendendo che i Goti di Verona guidati dal valoroso Teja, si fossero avanzati in modo da impedire che i nemici guadassero il Po. Tostochè eglino, ad eccezione di duemila cavalli, furono giunti, Totila partiva di Roma, attraversava Toscana e poneva suo campo presso l’Apennino in un luogo appellato Tagina. Poco tempo dopo vi giungeva Narsete e [493] accampava di fronte ai Goti, a cento soli stadî di distanza, in un piano cinto di tumuli chiamati tombe dei Galli (busta Gallorum).
E qui per l’ultima volta fu veduto Totila nello splendore della sua eroica prodezza. Procopio ce lo descrive innanzi all’incominciamento della pugna, sul campo fra i due eserciti schierati in battaglia. Ei ci sembra di vedere la imagine di un cavaliero del medio evo. Vestito di una armatura sfavillante d’oro, coll’elmo e colla lancia adorni di banderuole porporine, quel mattino egli cavalcava un bellissimo destriero di battaglia e faceva mirare ai due eserciti la sua destrezza nell’armeggiare. Spronava pel campo il cavallo, piegandolo a cerchio, nel tempo stesso in cui egli or piegavasi supino sull’arcione, or con giovanile agilità si gettava sopra un fianco e sull’altro, ed or lanciava in aria la lancia per ripigliarla poi correndo di carriera. A notte era morto. Il suo esercito era disfatto e fugato: egli stesso ferito mortalmente da un dardo volgeva in fuga, quando un Gepido lo trafiggeva da tergo coll’asta. I suoi compagni a fatica traevanlo agonizzante fino ad un luogo detto Capra, dove spirava e dove era in fretta seppellito. Volgeva l’estate dell’anno 552.
Bella lode si merita lo Storico greco, che si stende in alcune considerazioni filosofiche sopra la sorte lacrimevole di quel glorioso nemico: ed il Muratori con caldo elogio lo annovera tra gli eroi dell’antichità. Se la grandezza dell’uomo sia proporzionata alle difficoltà ch’ei deve superare ed alla avversità del destino che deve vincere, Totila è meritevole dell’immortalità del nome ben a maggior diritto che Teodorico. Imperocchè egli in [494] giovanile età abbia con energia, con prestezza e con saggezza non soltanto restaurato il regno crollato di lui, ma lo abbia anche per un periodo di undici anni difeso contro Belisario. Che se poi l’eccellenza di un uomo si riconosca alle alte virtù che ne adornano l’animo, pochi sono fra gli eroi dell’antichità e dei secoli successivi che per grandezza d’animo, per giustizia, per continenza possano reputarsi pari all’illustre Goto.
Seimila Goti erano caduti sul campo di battaglia a Tagina, gli altri erano dispersi. Il maggior numero di quei fuggiaschi si raccolse sulle sponde del Po, ed in Pavia elesse a re il più prode dei guerrieri goti, Teja. Narsete, partendo dal campo della sua vittoria, congedava i feroci suoi ausiliarî longobardi con ricchi donativi e moveva alla volta di Toscana. Ei prendeva rapidamente Narni, Spoleto e Perugia, indi compariva innanzi a Roma.
Il debole presidio goto della Città al suo avvicinarsi s’apparava ad energica resistenza, ma rinunciava al disegno di difendere l’intera cerchia estesissima delle mura, e si restringeva a bene munirsi nel sepolcro di Adriano, che Totila aveva reso forte baluardo che [495] proteggesse Roma, circondandolo di una piccola muraglia, e questa riunendo alle mura della Città per mezzo del ponte di Adriano[442]. Ed ivi i Goti avevano deposto i loro più preziosi tesori. Anche Narsete d’altro canto riconosceva l’impossibilità di cingere d’assedio tutta la Città, per la qual cosa egli divideva il suo esercito in parecchi stuoli che assalissero in punti differenti le mura. E i Goti raccogliendosi or qua, or là sui punti minacciati, erano costretti a lasciare le altre parti indifese. Dopo parecchi assalti in cui furono respinti, i Greci guidati da Giovanni, da Narsete e dall’erulo Filemuto, movevano da tre lati contro le mura, nel tempo medesimo in cui un quarto stuolo guidato da Dagisteo dava la scalata ad uno di quei tratti vuoti di difensori, e, gettandosi nella Città, ne apriva le porte. Era troppo tardi per respingere l’oste che irrompeva. Fuggivano i Goti, alcuni verso Porto, altri alla mole di Adriano. Ma Narsete non concedeva loro un momento di sosta, chè si lanciava con tutta la sua soldatesca contro il castello, e dai Goti mossi a disperazione lo aveva a patti, permettendo loro che liberi partissero.
Di tal guisa Roma cadeva nelle mani dei Bisantini nell’anno 552, vigesimo sesto di regno dell’imperatore Giustiniano, sotto il cui reggimento, come osserva meravigliando Procopio, la Città era stata conquistata non meno di cinque volte. Il fortunato vincitore ora spediva le chiavi di Roma a Bisanzio, all’Imperatore, il quale le riceveva con gioia pari a quella con cui aveva poco [496] tempo innanzi accolto il manto insanguinato e il cimiero regale di Totila.
Lo Storico di questo periodo getta a quest’occasione un timido sguardo sulle contraddizioni del destino, il quale volge a conseguenze di triste ruina gli avvenimenti che sembrano i più fortunati. Egli narra con breve discorso la fine del Senato, dell’illustre ed antichissimo monumento della costituzione politica di Roma, senza però mostrare duolo alla ricordanza della sua grandezza passata. Al popolo romano, dic’egli, di pari guisa che al Senato, questa vittoria doveva essere cagione di ruina ancor maggiore. I Goti fuggenti, disperando omai di poter conservare il possedimento d’Italia, davano ora libero corso al sentimento di odio e alla foga di vendetta: trucidavano senza pietà tutti i Romani, nei quali eglino s’avvenivano: e il loro esempio seguivano anche i Barbari che militavano sotto le bandiere di Narsete, facendo strage di molti Romani i quali, mossi da ansioso desiderio della cara patria, alla notizia della liberazione della Città, vi facevano ritorno. Parecchi Senatori, già condotti da Totila in cattività, erano nella Campania[443]; chè pochi di loro soltanto Giovanni aveva potuto prendere e trarre in Sicilia. Or eglino s’accingevano a tornarsene a Roma, ma i Goti com’ebbero contezza della fuga di pochi e del proponimento di tutti, posero a morte quanti tenevano prigioni nelle castella della Campania. Di quelli Procopio cita a nome soltanto un Massimo. E la distruzione delle nobili famiglie romane compievasi nel tempo medesimo colla uccisione di trecento giovinetti [497] ch’erano discendenti di quelle. Avvegnachè Totila, prima di muovere contro Narsete, avesse tratto da parecchie città altrettanti fanciulli delle più illustri famiglie, e gli avesse fatti condurre al di là del Po quali ostaggi. Ed ivi Teja facevali tutti uccidere per mano del carnefice[444].
Di tal modo le antiche famiglie senatorie s’estinguevano, all’infuori di pochi dei loro membri, i quali in tempi anteriori erano fuggiti a Costantinopoli od in Sicilia, o erano rimasti in Roma. Quelli ed altri fuggitivi tornavano forse, dopo la fine della guerra, nella Città; e quelle miserande reliquie del patriziato di Roma continuavano alcun tempo ancora a presentare un fantasima del Senato antico, finchè anche questo, in sull’incominciamento del secolo settimo, si estingueva del tutto, in maniera che i nomi di Senatore e di Console, gloriosi tanto e onorati un tempo, non erano nei tempi posteriori che titoli vani di uomini ricchi e ragguardevoli[445].
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Narsete frattanto toglieva ai Goti Porto; e, presi Nepi e Petra Pertusa, cacciavali anche dalle ultime castella che possedessero nella Campania tusca di Roma, e fino a Centumcella ch’ei faceva assediare[446]. Egli poi rimaneva a Roma e vi dava opera alla restaurazione ed all’ordinamento delle cose cittadine[447]: spediva frattanto una parte del suo esercito ad assediare Cuma, terra ben munita della Campania, dove Aligerno, prode fratello di Teja, stava a guardia del tesoro dei Goti; ed un altro grosso stuolo capitanato da Giovanni mandava in Toscana a tagliarvi la via a Teja. Imperocchè l’ultimo Re dei Goti, deluso nella sua speranza di avere ajuto [499] dai Franchi, movesse verso la Campania per liberare dall’assedio l’importante baluardo di Cuma. Per vie remote e disastrose Teja scendeva lunghesso la spiaggia dell’Adriatico, e compariva di repente nella Campania. All’annuncio di sua venuta, Narsete, raccolto il rimanente dell’esercito, partiva di Roma; e per la Via Appia oppure per la Via Latina moveva a Napoli.
Per lo spazio di due mesi, Greci e Goti stettero di fronte gli uni agli altri nelle bellissime pianure che si stendono appiè del Vesuvio, separati dal fiume Dracone, ch’è forse il Sarno, in quel punto dove si gitta in mare nelle vicinanze di Nocera. Un tradimento dava in mano ai Greci la flotta dei Goti, per la qual cosa Teja era costretto ad uscire di quel campo. I Goti, costernati a quell’avvenimento, si raccoglievano sul pendio di monte Lattario; ma ridotti in breve allo stento della fame, dovevano scenderne, risoluti di non indugiare più a lungo e di tentare l’estremo sforzo. La gloriosa battaglia che quegli ultimi Goti diedero in uno dei più bei campi del mondo, che, ridente della splendida veduta dell’azzurro golfo di Napoli, si stende alle falde del Vesuvio antico, sopra il suolo che è tomba a cadute città, chiude la storia di quell’immortale popolo di origine germanica, la cui fine oggidì ancora muove l’animo nostro a dolore, temperato però dalla ricordanza della grandezza tragica con cui cadde. I guerrieri goti pugnarono con bravura senza pari, e Procopio stesso sclama che nessun eroe fu mai nell’antichità il quale superasse la prodezza di Teja. Deboli di numero eglino combattevano in ordinanze serrate senza indietreggiare dai primi albori del dì fino al tramonto; ed il Re circondato da pochi amici [500] pugnava innanzi a tutti. In mezzo alla pressa della mischia, egli resisteva alla moltitudine dei nemici che si scagliavano impetuosi contro di lui: e coprendosi col largo scudo, e raccogliendo su quello un nembo di frecce e di aste, egli respingeva i suoi assalitori. Come il palvese era coperto dei dardi conficcativi, ne prendeva un altro dalle mani dei suoi scudieri e di nuovo pugnava. Così durava incrollabile nella battaglia fino a mezzogiorno; allorquando, non potendo più sostenere lo scudo pesante per dodici lance che vi si erano confitte, chiamava con potente voce il suo scudiero: nè indietreggiava di un sol passo, nè cessava di rotare a cerchio la spada, ai nemici tremenda, ma appellava ripetutamente lo scudiero, il quale accorreva recandogli un novello palvese. Ma nel momento in cui il Re lo prendeva e gettava l’altro, il petto rimaneva d’un attimo indifeso, e una saetta di repente colpivalo, onde ei cadeva esanime al suolo.
I Greci, mozzato il capo a quell’ultimo Re dei Goti, lo elevavano sopra una lancia e recavanlo in trionfo alla vista dei due eserciti. Sgomentati per un momento i prodi Goti, riprendevano tosto animo, e continuavano a combattere con novella forza, finchè la notte, involgendo nelle tenebre loro ed il nemico, poneva fine alla lotta. Dopo una notte di riposo breve e angosciato, quei prodi ripigliavano ai primi albori le armi, e pugnavano con fortezza che non venne mai meno e senza cedere terreno, fino a che scendeva colla sua oscurità la seconda notte a separarli. Allora sedevano a riposo, e numerate le loro rade schiere, venivano a consiglio di ciò che fosse a fare. Quella stessa notte spedivano a Narsete alcuni dei loro capitani i quali dicevano: «Ben [501] avvedersi i Goti che vana cosa sarebbe pugnare contro i voleri d’Iddio: sdegnare eglino la fuga, chiedere che loro si concedesse libera dipartita, affinchè, abbandonata Italia, non servi dell’Imperatore, ma uomini liberi potessero trarre loro vita sotto quel cielo ch’eglino scegliessero: chiedere che loro si concedesse di recare con sè i loro averi che avevano deposti in parecchie città». Narsete ondeggiava nell’incertezza, ma il generale Giovanni, che per l’esperienza di cento battaglie conosceva il valore dei Goti, lo consigliava di accogliere le offerte di eroi decisi a morire. Intanto che si conchiudeva il trattato, mille Goti, disdegnando ogni pattuizione come disonorevole, sguainavano le loro spade, ed uscivano del campo, e partivano non molestati dai Greci che concedevano loro libero passaggio, temendo gli effetti del loro coraggio disperato. Guidati dal prode Indulfo, eglino giungevano salvi a Pavia. I rimanenti prestavano solenne giuramento di adempiere quanto avevano promesso nella convenzione, e di partire d’Italia. Ciò avveniva nel Marzo del 553, verso la fine dell’anno decimottavo della tremenda guerra gota[448].
Ignoriamo a qual luogo movessero gli ultimi mille Goti dopo la battaglia del Vesuvio. Il modo con cui eglino partirono del bel paese, che i loro padri avevano conquistato e nel quale mille luoghi conservavano [502] ricordanza delle geste più gloriose, è involto per noi nella notte del mistero.
Sessant’anni aveva durato il regno fondato da Teodorico. Nell’ultimo periodo del decadimento, quando s’apriva per Roma una êra novella che dall’antica aver doveva svolgimento, i Goti, benchè fossero nelle arti della civiltà inferiori ai Latini (per la dissoluzione degli ordinamenti antichi profondamente decaduti), erano d’altra parte nelle virili virtù politiche per robusta energia e per animo eroico superiori. E i Goti s’alzano splendidi di gloria in un’epoca oscura della storia d’Italia; nè alcuno potrà mai contestare loro il sommo merito che abbiano preservata dalla barbarie la civiltà antica dei Romani tramandandola ai posteri. Rispettando con soverchia venerazione le tradizioni politiche dello Impero, in un’età nella quale era impossibile di concepire la costituzione dello Stato in modo differente dagli ordinamenti romani antichi, eglino entrarono per loro ruina in lotta contro le decrepite forme politiche dell’antichità, contro il sentimento nazionale e religioso degli Italiani, e perirono perchè non ebbero potenza di inspirare nelle membra antiche la forza di una vita novella. Fra tutti i popoli stranieri ch’ebbero dominio sull’Italia (perocchè questo bel paese, ch’è il paradiso dell’Europa, sia stato colpito sempre da una maledizione che lo getta sotto la tirannia degli estrani, colpa della sua natura e di eventi fatali) [503] eglino furono i più illustri e gloriosi. Forniti di tutte le incorrotte virtù delle quali la originale natura è prodiga ai popoli nel primo incominciamento di loro vita, eglino rappresentavano nelle forme del corpo, nel costume e nella lingua quel popolo di Zamolxi o di Ulfila, di cui (come narra Giornande) Dione anticamente aveva scritto in quella sua Istoria dei Geti che andò perduta, essere il più sapiente tra tutti i popoli barbari, e per la natura dell’ingegno pressochè simile al greco[449]. Alla elevata indole capace di accogliere le arti della civiltà, eglino accoppiavano la mitezza d’animo germanica: e basta che si paragoni il periodo della dominazione gota in Italia con quelli della signoria greca e della spagnuola venute più tardi, perchè ne balzino all’occhio le gravi differenze senza che sia mestieri di soverchio discorso.
Egli è tuttavia opportuno che si oda il giudizio che dei Goti reca il maggiore Storico degli Italiani, affinchè non si creda che tutti sieno stati acciecati da eguale ignoranza. «Al nominarsi ora i Goti in Italia», dice il Muratori, «si raccapricciano alcuni del volgo ed anche i mezzo letterati, quasi che si parli di barbari inumani e privi affatto di legge e di gusto. Così le fabbriche [504] antiche mal fatte si chiamano d’architettura gotica, e gotici i caratteri rozzi di molte stampe fatte sul fine del secolo quintodecimo o sul principio del susseguente. Tutti giudizî figliuoli dell’ignoranza. Teodorico e Totila, amendue re di quella nazione, certo non andarono esenti da molti nei; tuttavia tanto fu in essi l’amore della giustizia, la temperanza, l’attenzione nella scelta dei ministri e degli uffiziali, la continenza, la fede nei contratti, con altre virtù, che potrebbero servire d’esemplare pel buon governo dei popoli anche oggidì. Basta leggere le lettere di Cassiodoro, e in fine le Storie di Procopio, nemico peraltro dei Goti. Nè quei regnanti variarono punto i magistrati, le leggi o i costumi dei Romani; ed è una fanciullaggine ciò che taluno imagina del loro pessimo gusto. Lo stesso Giustiniano Augusto ebbe bensì più fortuna che i re Goti; ma se è vero, almeno per metà, quanto di lui lasciò scritto Procopio, fu di gran lunga superato da essi Goti nelle virtù»[450]. — «I Romani», dice più oltre il Muratori, «bramavano di mutar padrone. Lo mutarono in fatti, ma con pagare ben caro l’adempimento dei loro desideri per gli immensi danni che seco portò una guerra di tanti anni; e quel ch’è peggio, perchè questa mutazione si tirò dietro la total [505] ruina dell’Italia di lì a pochi anni, con precipitarla in un abisso di miserie»[451].
Durante tutto il medio evo, e fino ai tempi più recenti, molto tempo ancora dopo che erano riposte in fiore le scienze, tenevasi in Roma la dissennata credenza che i Goti avessero recata la distruzione ai monumenti della Città. Quali fole meschine si andassero diffondendo, ci fanno conoscere alcune memorie dell’anno 1594, lasciate da Flaminio Vacca, scultore romano: e la Storia della Città deve tener conto di alquante di quelle, come di monumenti della ignoranza dei Romani intorno alla storia dei loro monumenti[452]. Mirando le tristi ruine dell’antica Città, nè sapendo che, più ancora dell’opera devastatrice del tempo, i rozzi Baroni del medio evo ed anche alcuni Pontefici avevano demolito monumenti dell’antichità, i Romani ricordavano soltanto la tradizione la quale narrava che i Goti avevano per lunghi anni tenuta Roma sotto la loro signoria, che la avevano assediata parecchie volte, che la avevano conquistata e saccheggiata. Eglino vedevano la maggior parte degli edificî [506] antichi, gli archi di trionfo, e le stesse smisurate mura del Colosseo, quali oggidì ancora miriamo, danneggiate per forami innumerevoli; nè potendosene render ragione, reputavano che quella rovina avessero recata i Goti per desiderio di spezzarne i marmi, oppure, che sarebbe stata cosa più assennata, per rapirne gli arpioni di bronzo[453]. Ed al tempo del Vacca mostravansi in Roma alcune picozze di certa foggia, colle quali i Goti avrebbero demolito le statue; imperocchè l’ingenuo scultore ci narri, che un giorno, scavandosi nel suolo di una vigna, là dove è il così detto tempio di Cajo e di Lucio cui il volgo dà nome di Galluzzi, vi si erano trovate due picozze. Dall’un lato avevano una mazza, dall’altro un ferro di alabarda; [507] ed io credo, dice il Vacca, che quelle fossero armi dei Goti, i quali del ferro si servivano a spezzare in battaglia gli scudi dei nemici, e la mazza adoperavano a recare il guasto ai monumenti[454].
La fantasia dei Romani di quel tempo imaginava persino di aver trovate le urne che chiudevano le ossa di quei Goti i quali durante l’assedio di Vitige erano caduti sotto le mura. Essendo stati un giorno dissotterrati presso porta san Lorenzo molti sarcofaghi di granito e di marmo, si reputò dalla bruttezza del lavoro che fossero di origine gotica: ed io penso, dice lo stesso Vacca, che appartengano al tempo in cui l’infelice Italia era dominata dai Goti; chè mi ricorda d’aver letto che coloro ebbero sofferta presso a quella porta una grave sconfitta. E forse erano le urne di capitani, che, morti nell’assalto, vollero aver tomba presso il luogo in cui caddero.
Ella è curiosa la credenza diffusa in Roma fino da quel tempo remoto tanto, che i Goti avessero non solo deposti tesori qua e colà nella Città, ma che avessero anche segnati i luoghi ove gli avevano seppelliti, affine di lasciarne ricordanza ai loro nepoti. E la ignoranza era sì grande, che ancora in sulla fine del secolo decimosesto si reputava che ancor vivessero uomini del popolo goto in qualche paese del mondo, e ch’eglino venissero di soppiatto a Roma per dissotterrarvi tesori dei loro antenati con quell’ardore con cui lo facevano già parecchi Cardinali. E Flaminio Vacca narra con pregevole ingenuità quanto segue:
«Molti anni or sono io usciva un dì a vedere alcuni [508] monumenti antichi. Giunto a porta san Bastiano presso a Capo di Bove (ch’è il sepolcro di Cecilia Metella), e colto dalla pioggia, entrai in un alberghetto. E mentre stava attendendo che l’acqua cessasse, presi a chiaccherare coll’oste. Egli mi narrava che pochi mesi prima era venuto da lui un uomo chiedendolo di un pò di fuoco. Verso sera lo stesso uomo tornava con altri tre, e dopo di aver cenato partivano senza che i tre compagni facessero mai parola. Ripetutosi ciò per tre sere consecutive, l’albergatore entrava in sospetto che venissero a fin di male, e deliberava di darne denuncia al magistrato. Per la qual cosa, quando uscivano una sera dopochè avevano come al solito mangiato, egli seguiva da lontano le loro orme al chiarore della luna, finchè li vedeva entrare in alcune grotte del circo di Caracalla (di Massenzio). Al mattino vegnente egli narrava quanto era accaduto al magistrato. E questi, fatto cercare nelle grotte suddette, vi trovò il terreno smosso ed una buca profonda, in cui erano alcuni frammenti di vasi di creta di recente spezzati: e poco lontano, entro il cumulo di terra, si rinvennero celati alcuni stromenti di ferro, coll’ajuto dei quali avevano mosso il suolo. Volendo accertarmene, poichè il luogo era poco distante, vi andai, e vidi la buca ed i frammenti dei vasi ch’erano cilindrici a somiglianza di tubi. Sembra che fossero Goti che, messi sulle tracce da certe notizie antiche, vi avessero dissotterrato un tesoro»[455].
Eccone un altro racconto:
«Mi ricorda che ai tempi di Papa Pio IV, venne a [509] Roma un Goto il quale possedeva alcune carte antichissime, che parlavano di un tesoro che sarebbe a trovarsi coll’indizio di una figura in bassorilievo che rappresentava un serpente, e che dall’un lato aveva il corno dell’abbondanza e dall’altro la figura della terra. Il predetto Goto cercò tanto, finchè trovò il segno sopra un lato dell’Arco: e presentatosi al Papa, pregollo che gli desse licenza di scavare per trovarvi il tesoro che apparteneva, diceva egli, ai Romani. E ricevutane permissione, cominciò a lavorare collo scalpello su quel lato dell’Arco, e, profondato alquanto, vi aprì una specie di porta. Ma mentre stava per procedere nell’opera sua, i Romani entrarono in timore ch’ei rovesciasse l’Arco, perocchè eglino fossero agitati da sospetto contro la malevolenza dei Goti e temessero che ancora durasse in quel popolo il mal talento di distruggere i monumenti di Roma. Per la qual cosa scagliatisi contro di lui, il Goto ebbe a ringraziare Iddio di fuggirne illeso: e così il suo proponimento andò fallito»[456].
A queste e ad altre favole di simil fatta si restringeva la ricordanza che i Romani serbavano della gloriosa dominazione dei Goti e della sollecitudine colla quale eglino avevano data opera alla conservazione dei monumenti di Roma: e noi vedremo che durante il medio evo la barbarica ignoranza doveva salire nella Città a tale grado, che persino la memoria di Cesare, di Augusto e di Virgilio si presentava ai nepoti di quei grandi Romani confusa nella tenebra della favola.
[511]
La vittoria di Narsete non era completa. Terribili torme di Barbari si riversavano nell’anno 553 sopra Italia, minacciando ruina alla città di Roma. Già Teja aveva cercato con promesse e coi tesori di Totila di muovere i Franchi ad invadere Italia; e con istanza più pressante ancora, i Goti dell’Italia superiore gli avevano appellati a soccorso. Il paese indebolito dalla guerra lunga e terribile, ed esanime per piaghe d’ogni maniera ond’era il suo corpo straziato, poteva opporre fiacca difesa e presentava facile la conquista. Alemanni e Franchi in numero maggiore di settantamila uomini, condotti da due fratelli, Leutari e Bucelino, scendevano dalle Alpi e si gettavano sulle province dell’alta Italia, desolandole con guasto orrendo. La poca soldatesca di Narsete vi opponeva debole resistenza. Lo stesso Generale, partendo [512] di Ravenna, correva a Roma, e vi si fermava durante l’inverno, tra l’anno 553 ed il 554, in attitudine minacciosa sì, che ratteneva i Barbari dal lanciarvisi sopra. Ed anzi, allontanandosi della Città e del suo territorio, eglino entravano nel Samnio, ed ivi si dividevano in due schiere. La prima, condotta da Leutari, scendeva lungo la costa dell’Adriatico fino ad Otranto, e l’altra, capitanata da Bucelino, moveva dall’altro lato e poneva a devastazione le province della Campania, della Lucania e degli Abbruzzi fino al mare di Sicilia.
Non trovando resistenza, quelle orde terribili di predoni disertavano l’Italia meridionale colla rapidità e colla forza devastatrice degli elementi della natura sbrigliati nel loro furore: e la ricordanza di quell’invasione mette orrore in chi ne legge la storia, nel tempo medesimo in cui abbatte dalla sua altezza il concetto della nobile natura dell’uomo. Ed infatti quell’avvenimento, che è uno dei più terribili negli annali d’Italia, è simile ai fenomeni della storia naturale dei bruti; perocchè il riversarsi di quelle torme barbariche e il loro annientamento, che non ne lasciava vestigio alcuno, siano simiglianti alle peregrinazioni degli sciami di locuste e degli stuoli di scojattoli nelle torride regioni. Leutari, verso la fine dell’estate dell’anno 554, rediva sulle sponde del Po colle sue schiere cariche di bottino; ma ivi una pestilenza terribile distruggeva lui e le sue orde. Bucelino invece da Reggio si volgeva verso Capua, ma giunto presso al fiume Casilino o Volturno trovava innanzi a sè Narsete, che partito di Roma aveva posto campo in un luogo detto Tanneto. In una terribile battaglia i numerosi stuoli degli Alemanni e dei Franchi seminudi [513] soggiacevano al valore ed alla perizia dei greci veterani, e vi perivano tutti come un armento al macello, all’infuori di cinque soli ai quali riuscì di fuggire[457].
Carico dello immenso bottino dei vinti che componevasi delle ricchezze rapite a tutta Italia, l’esercito di Narsete tornava a Roma; e le vie della Città erano liete dello strepito dell’ultima pompa trionfale della cui vista godessero i Romani. I guerrieri vincitori or davansi in braccio al piacere, e alleggerita la fronte dell’elmo, e deposto lo scudo pesante, gioivano fra le tazze e i suoni della lira. Ma il pio capitano, che soleva ascrivere tutti i suoi trionfi alle fervide preci ch’egli volgeva alla madre di Dio, raccoglieva le sue soldatesche e loro indirizzava un discorso nel quale le esortava a vita di temperanza e di pietà, e le eccitava a vincere le tendenze, che in quella opportunità gli invitavano alla crapula, colla fatica degli armeggiamenti non mai interrotti[458]. Ed ancora gli attendeva l’ultima pugna; chè settemila Goti, i quali s’erano già uniti agli Alemanni fuggiti alla strage, gettatisi entro il castello ben munito di Compsa o Campsa, sotto la capitananza dell’unno Ragnari vi duravano acre resistenza fino all’anno 555 in cui finalmente abbassavano le armi innanzi a Narsete[459].
[514]
Dopo di avere narrati così gli avvenimenti della guerra lunga e terribile che fu combattuta per il possedimento d’Italia, è a dirsi quali fossero le condizioni di Roma in quel tempo. E già si può di leggieri formarsene il concetto, allorchè si ricavino le conseguenze di quanto fu per noi discorso fin qui. La Città, che in breve spazio di tempo era stata presa cinque volte d’assalto, aveva sofferto estremamente. La distretta della fame, la strage della guerra, e il morbo contagioso avevano distrutta a copiosi stuoli la sua cittadinanza. Cacciati tutti a un tempo gli abitatori della Città dai Goti, eglino vi erano tornati ma in numero bene minore, per essere di nuovo flagellati dalle crudeli sorti della guerra. Non ci è dato di determinare con precisione il numero degli abitanti di Roma alla fine della lotta; ma, fatto computo secondo verosimiglianza, sembra che il numero di cinquantamila persone sia piuttosto eccedente che inferiore alla realtà. Imperocchè il decadimento di Roma in nessun tempo mai, neppure durante il periodo della così detta cattività dei Papi in Avignone, abbia mai superato [515] le condizioni miserrime in cui essa trovavasi alla fine della guerra dei Goti. Non oro, non argento era più nella Città, e neppure nelle chiese: ogni cosa preziosa che, reliquia dell’arte antica, era sfuggita alle ugne dei Vandali e dei Goti di Totila, era stata spesa dai posseditori durante le difficoltà dell’assedio o rapita dalle angherie degli avidi Greci: e i Romani sopravissuti non ritenevano del retaggio dei loro maggiori che magioni spoglie e diroccate oppure diritti alla proprietà di poderi remoti o di terreni nella vicina Campagna, che già dal secolo terzo incolti, erano ora tramutati in regione deserta che la guerra aveva privata persino dell’ultimo colono fugato od ucciso.
Le tristi condizioni di Roma a quel tempo hanno il loro specchio nelle condizioni generali d’Italia dopo la guerra gotica, nè ci basta l’animo di darne la dipintura: e reputiamo vero quanto dice un profondo e calmo scrittore della storia di quell’età, che a pingere tanti avvenimenti, e sì grandi mutazioni di fortuna, e la distruzione di tante città, e le fughe degli uomini, e tanta strage di popoli, l’animo umano non abbia forza sufficiente di pensiero, nonchè potenza di esprimere a parole[460]. Italia devastata era dall’Alpe a Taranto coperta di cadaveri e di rovine: la fame e la peste correndo sulle orme della guerra avevano ridotte a deserto borgate intere; ed il nome di Giustiniano imperatore sarà sempre annoverato tra i primi di quei monarchi i quali al desio di dominazione e all’avida sete di ricchezze non ebbero raccapriccio di sacrificare i popoli. Procopio imprendeva [516] a contare il numero degli uomini periti nelle guerre mosse in quel tempo dai Greci, ma disperava dell’opera sua, dicendola simile a quella di numerare i granelli d’arena del mare. Nelle guerre d’Africa ei computa cinque milioni; e siccome Italia era tre volte maggiore delle province soggette ai Vandali nei tempi antichi, così egli reputa che la perdita secondo proporzione sia stata assai più considerevole. Benchè ella sia esagerazione, per il fatto che Italia allora difficilmente contava una popolazione maggiore di cinque milioni, è tuttavia certo, che per lo meno un terzo della cittadinanza ne era perita di guerra, di morbo e di fame[461].
A dare ordinamento alle cose d’Italia, Giustiniano, sollecitato dalle preghiere di papa Vigilio, emanava, addì 13 di Agosto dell’anno 554, la sua Prammatica Sanzione, celebre Editto composto di ventisette articoli[462]. Unendo di nuovo Italia all’Impero d’Oriente, [517] ei confermava tutte le ordinanze di Atalarico e di Amalasunta madre di lui, manteneva in vigore anche i decreti di Teodato, ma annullava tutte le leggi di Totila. L’Imperatore colla sua Sanzione tentava di restituire l’ordine ai rapporti della proprietà, tutelando i diritti dei cittadini ch’erano stati turbati nella confusione avvenuta durante la guerra e duranti gli assedî di Roma, dando forza al diritto dei fuggiaschi contro le pretese dei nuovi possessori subentrati, e deliberando che i contratti conchiusi al tempo dell’assedio avessero validità obligatoria. Nel capitolo decimonono della Sanzione, comandava che il Pontefice ed il Senato dessero opera a determinare i pesi e le misure che sarebbero da assumersi ad unità in tutte le province d’Italia; e quest’è argomento che dimostra l’alta estimazione in che era tenuto il Vescovo, ed è prova che il Senato esisteva ancora in Roma[463]. Da questo tempo in poi il beatissimo Pontefice cominciava ad esercitare influenza sulla giurisdizione e sull’amministrazione della cosa publica in Roma; chè la legislazione di Giustiniano accordava potenza nei publici negozî ai Vescovi delle città. Eglino non soltanto possedettero per il tempo avvenire la giurisdizione civile sui cherici, ma ebbero anche la soprintendenza su tutti gli officiali imperiali e sullo stesso giudice della provincia: e cominciarono ad aver parte al reggimento municipale, perocchè l’elezione dei Defensores e dei Patres Civitatis dipendesse piuttosto dalla loro volontà che non da quella dei primati delle città[464]. Giustiniano investì i [518] Vescovi italiani di legale autorità; e la grande potenza che ne ricavarono in tutte le materie dell’amministrazione civile, fu cagione del fondamento successivo della potenza dei Pontefici nella città di Roma.
Per quello che concerne il Senato, nulla sappiamo intorno alla sua forma; ma per nessun modo può credersi che l’Imperatore restituisse a vita quel corpo dello Stato, alla perdita dei suoi membri più illustri riparando coll’elezione di novelli Senatori tolti da famiglie plebee: e questa opinione accolgono quegli scrittori i quali s’industriano di dimostrare che il Senato romano continuò ad esistere nei secoli susseguenti[465]. Nella Città rimase la reliquia e l’ombra dell’antico collegio dello Stato, che, perduta ogni influenza politica, continuò a dare opera all’amministrazione ed alla giurisdizione municipale sotto il governo del Prefetto della Città, finchè, puranco come curia ossia ordo, si estinse facendo luogo a magistrati imperiali. Giustiniano accordò a tutti i Senatori libertà piena di andarsene e di porre dimora ove loro più talentasse, di recarsi nei loro possedimenti delle province d’Italia per darvi opera alla cultura delle terre, o di sedere alla corte di Costantinopoli: e ciò molti di loro fecero per buoni motivi[466].
[519]
E nella Prammatica Sanzione medesima trovansi alcuni provvedimenti a beneficio di Roma, i quali probabilmente non saranno stati che frasi di benevolenza. Nel capitolo vigesimosecondo è statuito, che le largizioni publiche (annona), onde Teodorico aveva fatto lieto il popolo (e che Giustiniano pretende di avere a somiglianza di lui distribuite, quantunque Procopio ne lo accusi del contrario), devano essere nel tempo avvenire continuate: e vi si prefigge che i grammatici e gli oratori, i medici ed i giureconsulti debbano ricevere i consueti onorarî, «affinchè la gioventù dell’Impero romano che appara le arti liberali abbia a salire ad altezza nella scienza».
La Sanzione dà finalmente in un suo articolo ordinamenti per la conservazione dei monumenti publici di Roma. «Comandiamo», vi è detto, «che le solite provvisioni e che i consueti privilegi della città di Roma, in quello che riguarda alla restaurazione degli edificî publici, o alla conservazione dell’alveo del Tevere, od al mercato, od al porto di Roma[467], continuino, in modo però che si volgano a quegli scopi medesimi pei quali vennero destinati».
Come Giustiniano ebbe dato di tal maniera provvedimento alle cose politiche, ei rivolse le sue cure ai negozî ecclesiastici. E quest’argomento fu d’ora in poi il più importante nelle relazioni dell’Oriente coll’Occidente ossia di Bisanzio con Roma. Il Vescovo romano ricavava grande vantaggio dalla caduta della signoria gota. La Chiesa ne otteneva vittoria in Italia della eresia ariana. [520] Spento lo Stato romano, la potenza di lei per gli ordinamenti di Giustiniano otteneva accrescimento nella Città: e la ruina quasi totale dell’antico patriziato romano lasciava in Roma libero il campo all’influenza del chericato. La Chiesa s’elevava sublime in mezzo ai ruderi del crollato edificio dell’Impero antico: essa sola stava vigorosa or che tutto intorno a lei era deserto. Soltanto per un momento essa ebbe a deplorare la perdita di quella independenza onde aveva goduto sotto il reggimento mite o prudente degli stranieri ariani. Il Vescovo di Roma or più non vedeva sopra di sè un Re d’Italia il quale, di origine germanica e di credenza scismatica, sedeva sopra un trono mal sicuro perchè non sostenuto dall’amore della nazione; ma vedeva sorgere il Principe ortodosso dell’Impero romano novellamente riunito, il quale, forte di tutti i diritti dell’imperio, consideravalo patriarca suddito del suo reame. Il Pontefice, durante la guerra gotica, aveva compreso per esperienza quale attitudine l’Imperatore avesse deliberato di prendere di fronte a lui: e tosto che fu cessato lo strepito delle armi e che Roma decadde alla condizione di città di provincia sotto il giogo militare di Bisanzio, il Papato andò incontro ad un avvenire difficile per lotte di due maniere. Le une erano d’indole teologica, perocchè gli inquieti ingegni degli Orientali, compiacendosi di controversie sofistiche, non fossero mai stanchi di muover guerra ai dogmi religiosi esistenti e di creare novelle dottrine filosofiche: le altre lotte s’agitavano intorno allo Stato assoluto. Avvegnachè gli Imperatori di Bisanzio non entrassero già nei negozî teologici perchè li prendesse vaghezza di quelle dispute, ma perchè [521] immischiandovisi era loro offerta opportunità di sottomettere la Chiesa allo Stato. Eglino ricordavano che i loro antichi predecessori all’Impero avevano tenuto la dignità di Pontefice Massimo, per la qual cosa tentavano con isforzo sempre continuato di abbassare la Chiesa universale a Chiesa particolare dello Stato, della quale eglino si sarebbero posti a capo. Sotto di Giustiniano, la cui sola grandezza sta in ciò ch’egli diede compimento alla legislazione romana, il civismo, che il Cristianesimo aveva nei primi tempi combattuto, s’alzò novellamente a terribile altezza: e dopo di quell’Imperatore, nei secoli seguenti, si presenta lo spettacolo meraviglioso della Chiesa libera, rappresentata da Roma, pugnante contro l’assolutismo dello Stato. Spettacolo altamente meraviglioso per fermo, che noi avremo occasione parecchie fiate di seguire col nostro sguardo; perocchè in quella lotta sia stato il procedimento più importante con cui si compiè l’elaborazione degli elementi della civiltà nel medio evo: ed infatti quella grande pugna ond’ebbe origine l’operosità della vita di Europa, dopo l’estinzione dell’Impero bisantino continuò ad agitarsi fra i più violenti rivolgimenti in Occidente; e da lei conviene prendere il vero punto visivo nella storia dell’Impero romano trasfuso nel popolo tedesco.
Giustiniano aveva relegato papa Vigilio (il quale vedemmo essere stato costretto a recarsi a Costantinopoli) ed i preti che lo avevano accompagnato, in un’isola della Propontide: ma ora, mosso a conciliazione, egli cedette alle preghiere del clero romano che presso di Narsete s’era adoperato ad ottenere la liberazione del Pontefice, e permise, dopo che Vigilio ebbe approvato i [522] decreti del quinto sinodo di Costantinopoli, che quei prigionieri tornassero in patria. Ma Vigilio, affranto dai patimenti, moriva per via in Siracusa in sull’incominciamento dell’anno 555[468]. Alcuni mesi dopo saliva alla cattedra di san Pietro il diacono Pelagio, l’uomo più illustre di tutti i cherici Romani, e che già abbiamo veduto operoso ai tempi di Totila. La sua elezione era imposta da Giustiniano, ed i Romani vi si sottomettevano nel silenzio obbedienti. Molti sacerdoti e molti nobili bene pensanti (il Libro Pontificale non fa più cenno di Senato[469]), non vollero fargli omaggio perocchè si sospettasse ch’egli avesse cooperato alla morte di papa Vigilio. A purgarsi di quel sospetto, il novello Papa ordinò una solenne litania, e movendo, a fianco di Narsete patrizio, dalla chiesa di san Pancrazio fuor di porta Aureliana sul Gianicolo fino al san Pietro, fra i cantici sacri salì nell’ambone, e tenendo l’Evangelio nella mano e la croce di Cristo sul capo, prestò innanzi al popolo congregato giuramento di sua innocenza.
Dalla narrazione del Libro Pontificale si pare che Pelagio avesse incominciato ad edificare la bella chiesa degli apostoli Filippo e Jacopo, e che nel tempo in [523] cui vi dava opera, nell’anno 560, morisse, lasciando al suo succeditore, che fu Giovanni III romano, il merito di compiere quella meravigliosa basilica. È il tempio medesimo che oggidì è dedicato ai dodici Apostoli, o meglio è quello nel cui luogo venne da Clemente XI nell’anno 1702 elevata una novella chiesa; chè di quella antica, ch’era a tre navate, non rimangano che sei sole colonne. Era di grande ampiezza (come ne dà notizia papa Adriano I in un trattato indiritto a Carlo Magno in difesa del culto delle imagini) e adorna di disegni di storie in musaico ed in pittura[470]. E poichè era stata edificata nella Via Lata, al di là delle terme di Costantino, fu accolta l’erronea opinione che l’Imperatore la avesse in origine fondata, e che papa Pelagio la avesse ricostruita[471]. Ella è cosa probabile che a edificarla si [524] adoperassero materiali tolti alle terme di Costantino, che allora dovevano essere in decadimento; nè Narsete avrà negato che si usasse dei loro marmi poichè quei bagni erano usciti d’uso. Una basilica di tale grandezza e sì magnifica non poteva allora essere eretta senza che a quell’uopo si raccogliessero marmi e colonne di antichi edificî; e di tal maniera soltanto può comprendersi come in tempo di decadimento sì profondo quella chiesa si edificasse. Ma ella è una favola scipita quella che divulgavasi in tempi posteriori, che per la costruzione di quella chiesa Narsete desse colonne e marmi tolti al foro di Trajano, e ch’egli donasse in proprietà della novella basilica la colonna di Trajano col territorio attiguo[472]. La vicinanza immediata del foro diede origine a quella leggenda; ma donazioni a chiese di monumenti illustri dell’antichità non erano allora in costumanza, chè soltanto nell’anno 955 si trova che papa Agapito II confermasse in proprietà del convento di san Silvestro in Capite la colonna di Marco Aurelio nel campo di Marte. E la colonna di Trajano, già prima dell’anno 1162, era possedimento della piccola chiesa s. Nicolai ad Columpnam Trajanam, che era stata edificata in vicinanza a quel bel monumento antico, dopo che il magnifico foro tutt’intorno era caduto in ruina[473]. E quella chiesa era una fra le otto soggette alla basilica.
La basilica dei santi Apostoli di Roma deve dunque [525] considerarsi quale monumento eretto sotto gli auspicî di Narsete a ricordanza della liberazione d’Italia dai Goti, e del trionfo riportato sulla loro eresia ariana. Giovanni III la elevò forse a titolo cardinalizio, come è riconosciuta ai tempi di Gregorio I: ed a quell’antico Pontefice si attribuisce una bolla che determinava i limiti della giurisdizione della chiesa e che fu poi confermata da Onorio II nell’anno 1127. Però quel monumento reca tutti gl’indicî che appartenga al secolo duodecimo od al decimoterzo, ond’è impossibile che risalga ai tempi di Giovanni III; per la qual cosa noi non potremo giovarcene che nei tempi più tardi del medio evo[474].
Di tal maniera Roma, quantunque decaduta nella estrema miseria dopo la guerra gotica, aveva potenza di erigere una novella basilica magnifica. L’energia della vita della Chiesa ci commuove a stupore: e a buon dritto si può levare le meraviglie dello zelo istancabile con cui si dava opera alla costruzione di chiese in quella Roma nella quale le magioni degli uomini crollavano e tutte le fonti della civile prosperità si disseccavano, nel tempo stesso in cui le case dei Santi ricche d’oro crescevano sempre più di numero. Ne era conservata l’operosità artistica; e se anche si abbandonavano le antiche tradizioni dell’arte, la quale vergeva più e più alla barbarie, tuttavia l’ingegno degli artisti e degli operai, coperti del sajo monastico o del povero vestimento cittadino, si perfezionava, tramandando così attraverso quelle età involte [526] nella tenebra più fitta, i monumenti dell’architettura e della scultura cristiana, e i disegni di musaico, e la pittura a fresco. Ma l’antica Roma con rapidità spaventosa profondava alla massima ruina. Perduta ogni potenza nei publici negozî, la sua cittadinanza era scarsa di numero e misera; il Senato dei suoi patrizî antichi era distrutto. La sollecitudine pietosa per i monumenti dell’antichità s’era estinta in Oriente; ed anzi l’Imperatore nulla cura più volgeva a Roma, il cui Vescovo eccitava la gelosia e l’odio della Chiesa orientale. Noi cerchiamo indarno di rinvenire indicio che si fosse compiuto ciò che Giustiniano aveva promesso alla Città colla sua Sanzione Prammatica. Affinchè si rendesse più facile la restaurazione dei monumenti, egli aveva concessa facoltà alle persone private di restituire a loro spese i monumenti dalla rovina in cui erano caduti[475]. Ma chi era che avesse potenza di provvedere alla conservazione di templi, di terme, di teatri? e dov’erano quelle corporazioni, le quali, come ai tempi di Maioriano, vigilassero con sollecitudine, affinchè i privati non recassero oltraggio ai monumenti dell’antichità usandone come di miniere di materiali da costruzione? La storia della città di Roma dopo la fine della guerra gotica e durante tutto il tempo in cui stette sotto il governo di Narsete è involta in una oscurità impenetrabile, nè ricorda di alcun edificio che a lui andasse debitore di restaurazione. Rimangono due sole iscrizioni a monumento del reggimento di Narsete e della liberazione di Roma. Ambedue trovansi sopra quel ponte Salaro che traghetta l’Anio e [527] che Totila aveva distrutto: e dicono che Narsete dopo la vittoria ottenuta sui Goti e dopo la liberazione di Roma e d’Italia, nell’anno 565 lo riedificò. L’ampollosa gonfiezza, che mal s’addice alla pochezza dell’opera di un piccolo ponte edificato sopra un piccolo fiume, muove a sorriso, ma giova a mettere in mostra l’indole di quell’età. Ecco la prima:
«Sotto l’impero del signor nostro piissimo e sempre vittorioso, Giustiniano, padre della patria ed augusto, nell’anno trigesimo nono di suo regno: Narsete uomo gloriosissimo, antico preposto del sacro Palazzo, antico console e patrizio, disfatti i Goti, dopo di averne con rapidità meravigliosa in campo aperto atterrati i Re, restituita libertà alla Città e a Italia tutta, questo ponte della Via Salara, che Totila tiranno abbominevole fino alla superficie delle acque aveva distrutto, nettato l’alveo del fiume, restituì a migliore condizione e rinnovellò»[476].
Alcuni distici, ai quali era ispirato qualche Poeta romano di quell’età, posti su quel ponte sclamavano al viandante:
Quam bene curvati directa est semita pontis
Atque interruptum continuatur iter.
Calcamus rapidas subiecti gurgitis undas
Et lubet iratae cernere murmur aquae,
[528]
Ite igitur faciles per gaudia vestra Quirites.
Et Narsim resonans, plausus ubique canat.
Qui potuit rigidas Gothorum subdere mentes
Hic docuit durum flumina ferre jugum[477].
Narsete negli ultimi anni di sua vita tenne dimora in Roma, dove pose sua residenza nel palagio antico dei Cesari. Ma gli annali del tempo in cui egli stette in Italia sono involti in oscura incertezza, e porgono poche notizie soltanto delle sue guerre contro i Franchi e contro gli ultimi avanzi dei Goti, e delle pestilenze, che desolando le terre d’Europa dal Giugno dell’anno 542 in poi, mettono fuori continuamente la schifosa loro testa. E l’oscurità deserta in cui giacciono sepolti alcuni decenni scorsi dopo la caduta dei Goti, è resa ancor più triste per gli orrori di cataclismi della natura. Roma e Italia tutta di quando in quando furono afflitte da contagi e da terremoti, da uragani e da inondazioni di fiumi [529] e da insorgimento dei mari. E la fine stessa del glorioso vincitore dei Goti si avvolge nella incerta penombra della Storia; e Narsete, come già Belisario, sparisce nella tenebra della favola.
Sembra che il conquistatore di Roma e d’Italia durante la pace si abbandonasse di troppo a quell’odiosa passione di cumulare tesori che accompagna sovente la vecchiezza. Dicevasi ch’egli avesse ammassato montagne d’oro; e dopo la morte di lui narravasi ch’egli avesse nascosto in una città italiana, entro un pozzo, ricchezze preziose in copia sì grande, che, allorquando furono scoperte, si richiedessero parecchi giorni a trarnele fuori[478]. E si raccontava che quella sua ricchezza sterminata avesse eccitata l’invidia dei Romani immiseriti[479]: egli è però probabile assai più che non già cupidigia li movesse, ben piuttosto gli irritasse la pressura del suo despotismo militare, il quale loro faceva rimpiangere amaramente i tempi passati del regno dei Goti. Eglino non ebbero potenza di rovesciare Narsete finchè visse Giustiniano, ma ne cercarono la perdita tosto che Giustino il giovine fu salito al trono nell’anno 565. Volgendosi allora all’Imperatore ed alla sposa di lui Sofia, i Romani mossero accusa contro le angherie di lui, inviando lettere nelle quali con ardito animo dicevano: «Ben meglio era per noi servire ai Goti piuttosto che ai Greci, se doveva governarci l’eunuco Narsete opprimendoci [530] col giogo della servitù. Il Principe piissimo ne ignora le arti malvage: ch’egli ci liberi dunque dalla mano di costui; se no daremo noi stessi e la città di Roma in mano dei Barbari»[480]. L’imperatore Giustino, nell’anno 567, terzo di suo regno, richiamava Narsete dal governo d’Italia che l’Eunuco aveva tenuto per lo spazio di sedici anni[481]. Tale è il racconto di Agnello, biografo dei Vescovi ravennati, che viveva nel secolo nono. Ma Paolo Diacono narra che Narsete fuggisse di Roma nella Campania all’annunzio che Longino era già stato mandato in Italia a prenderne il governo in sua vece. Nè egli fu oso di tornare a Costantinopoli, nè obbedì al comando, perocchè fossegli detto che l’imperatrice Sofia avesse espresso vanto ch’ella saprebbe costringere l’Eunuco a filare lana colle donne del gineceo. La leggenda racconta che il vecchio rispondesse: «ben volere egli tessere tal tela che ella non potrebbesene di sua vita disimpacciare mai più»: ed aggiunge che di Napoli l’Eunuco mandasse ai Longobardi di Pannonia legati i quali gli eccitassero a scendere in Italia, e che a [531] porgere un saggio della ubertà del bel paese, oltre a parecchi doni preziosi, loro mandasse delle frutta squisite[482].
Partito Narsete per Napoli, da grave trepidazione erano presi i Romani, paurosi della vendetta di quell’uomo, che forse avrà minacciato di dare in balìa ai terribili Longobardi quella Roma medesima ch’egli aveva liberata dai Goti. Eglino pertanto mandarono in tutta fretta papa Giovanni a supplicarlo che fra loro ritornasse. «Che male feci io mai ai Romani, santissimo padre?» esclamava cruciato Narsete. «Io voglio andarmene e gettarmi ai piedi di lui che mi mandò; e Italia tutta conoscerà come io con ogni mia possa mi sia adoperato a pro del paese.» Il Pontefice riusciva ad acchetare la collera del vecchio governatore, e, ricondottolo con sè a Roma, prendeva dimora in una casa situata entro il cimitero dei santi Tiburzio e Valeriano[483], dove rimaneva lungo tempo attendendo alla consecrazione di Vescovi. E Narsete sedette nuovamente in Roma, ma per breve tempo, chè, roso da dolore e da dispetto, morte il rapiva: la salma chiusa entro una cassa di piombo era trasportata coi suoi tesori a Costantinopoli[484]. Così narrano il Libro [532] Pontificale e Paolo Diacono, ma Agnello dice: «Narsete patrizio moriva in Roma dopo avere riportate molte vittorie in Italia, e dopo di avere colle sue depredazioni messo a nudo i Romani: egli spirava nel palazzo d’Italia nel novantesimo quinto anno di età»[485]. La notizia ch’egli fosse pervenuto a sì tarda vecchiezza è certo esagerata, perocchè non si possa credere sì di leggieri che un vecchiardo ottantenne abbia conquistato Italia con tanto ardore di guerra: e perciò egli è duopo fissare al 567 l’anno di sua morte. Difatti, quantunque il Libro Pontificale affermi che uscissero di vita contemporaneamente Narsete e papa Giovanni nell’anno 573, e quantunque anche Agnello convenga in quest’opinione, ella non è cosa probabile che Narsete rimosso dal governo di Roma ivi sedesse tranquillamente per altri sei anni, nè che i Romani già premuti dai Longobardi si opponessero ai comandamenti dell’Imperatore e del novello Esarca, nel tempo stesso in cui tenevano fra sè lui e i suoi tesori[486].
[533]
La verità della narrazione dei Cronisti latini che Narsete abbia appellati i Longobardi, può venire per alcuni motivi posta in dubbio, come fu dal cardinale Baronio, benchè non possa venire decisamente negata. Per certo le più propizie opportunità da sè sole invitavano Alboino a scendere in Italia. Ma non è il primo caso di un tradimento simile, chè già lo dimostra la storia di quel Bonifacio il quale in simili condizioni aveva chiamati i Vandali in Africa: e ben facilmente poteva Narsete dare ascolto alle voci della vendetta, vedendo in sull’ultima sera della vita compensato il suo valore coll’odio dei Romani e coll’ingratitudine della corte di Costantinopoli. Egli era in relazioni d’amicizia coi Longobardi i quali gli avevano prestato ajuto a vincere Totila: nè al suo disegno di torre vendetta chiamandoli in Italia, opponeva forte contrasto nel petto del Bisantino il sentimento dell’amore di patria. Ben maggiormente piuttosto dovevano rattenerlo l’orgoglio di conquistatore di Italia e quel sentimento di amore alla Religione cattolica che tutti gli scrittori dicono lo animasse con sommo fervore[487]. Ed era manifestamente quel sentimento di [534] pietà che lo moveva a cedere alle pressanti istanze di papa Giovanni e a tornare a Roma, anche se forse avesse realmente appellati i Longobardi, oppure se avesse voluto soltanto atterrire i Romani nemici suoi, colla minaccia di prenderne vendetta. Che se egli lo aveva fatto, ei non poteva già più impedire quello che s’era compiuto; e moriva corrucciato seco stesso e dolente dell’opera sua, perocchè già i Longobardi movessero dalle contrade di Pannonia, seguendo il cammino che la forza delle leggi della Storia indiceva ai popoli, traendoli dall’interne contrade del continente verso il mare Mediterraneo, verso la sede della civiltà.
Addì 1 di Aprile dell’anno 568, Alboino re dei Longobardi, traendosi dietro il suo popolo numeroso accresciuto di moltitudini di Gepidi, di Sassoni, di Svevi e di Bulgari, entrava in Italia dove Longino patrizio era giunto a prenderne il governo quale Esarca di Ravenna. Ma prima di continuare a discorrere della storia della Città durante il tempo in cui i Longobardi conquistavano Italia e nell’età successiva, fa duopo che chiudiamo questo libro, gettando un rapido sguardo sulle condizioni che l’erezione dell’Esarcato induceva in Roma.
Longino prendeva le redini del reggimento d’Italia e riceveva titolo di Esarca dal nome che in tempi anteriori era dato al governatore della provincia di Africa. Fu detto ch’egli mutasse interamente il sistema [535] amministrativo d’Italia, e si affermò ch’egli vi desse una forma novella del tutto, abolendo i consolari, i correttori ed i presidi delle province che duravano fino dai tempi di Costantino[488]. Ma la nostra scienza intorno all’ordinamento d’Italia in quel tempo è involta in densa tenebra. Questa contrada, dopo l’età del grande Costantino, era stata divisa in sedici province delle quali ecco i nomi che ci furono tramandati dalla Notitia: Venezia, Emilia, Liguria, Flaminia e Piceno Annonario, Tuscia e Umbria, Piceno Suburbicario, Campania, Sicilia, Apulia e Calabria, Lucania e Abbruzzo, Alpi Cozie, Rezia Prima, Rezia Seconda, Sannio, Valerio, Sardegna, Corsica[489].
Queste province erano amministrate da consolari, da correttori e da presidi: le sette province settentrionali stavano sotto la giurisdizione del Vicario d’Italia, le dieci meridionali invece erano governate dal Vicario della città di Roma; tutte erano soggette al Prefetto del Pretorio d’Italia. I Re goti non avevano alterato l’ordinamento delle province; e Longino non poteva distruggerlo, poichè, se anche sparivano sotto di lui i titoli dei governatori, rimaneva l’organamento delle province. E devesi andar cauti nel discorrere delle riforme [536] amministrative da lui introdotte, chè i mutamenti ebbero importanza soltanto sotto il dominio dei Longobardi. Imperocchè questi nuovi venuti, spingendo qua e là le loro conquiste nell’Italia sottoposta ai Greci, distruggessero per sempre il nesso delle province e rompessero l’unità d’Italia; ed ai possedimenti dell’Imperatore dessero decisamente la forma di ducati disgiunti gli uni dagli altri, come divennero più tardi le Venezie, l’Esarcato nello stretto senso, Roma e Napoli.
Subentrato nella carica del Prefetto d’Italia, l’Esarca aveva il potere supremo in tutti i negozî militari e politici. La separazione della potestà civile dalla militare, ch’era stata introdotta da Costantino e che i Goti avevano conservata, fu da lui mantenuta in vigore[490]. Alle province egli prepose giudici provinciali che erano soggetti ad una certa ispezione dei Vescovi, e comandanti militari che nelle città maggiori erano detti Duces o Magistri militum, e che nei luoghi minori avevano nome di Tribuni. Non si può però dimostrare che Longino distruggesse per intiero l’accentramento provinciale, o che egli dividesse le province in tanti Ducati, ossia in grandi e piccole città coi loro territori che dal nome dei comandanti militari (duces) ricevessero appellazione[491]. Soltanto può accogliersi con sicurezza, che principalmente [537] dall’indebolimento della potestà centrale e dalle conquiste longobardiche le quali frastagliarono le province, le città s’isolassero e si ristringessero a vita politica tutta speciale nella quale cominciava a crescere l’autorità dei loro Vescovi[492].
In quanto poi riguarda alla città di Roma, della cui condizione soltanto qui dobbiamo occuparci, egli è per lo meno certo che Longino nulla mutasse dell’antichissime magistrature civili supreme. Rimaneva come prima il Prefetto della Città. L’opinione del Giannone che Longino togliesse interamente i Consoli ed il Senato i cui nomi s’erano fino a quel tempo conservati, è una affermazione cui nullo argomento sussidia a darne dimostrazione. Infatti gli antichi consoli dell’Impero si erano già estinti, ma il titolo di ex-console in tutto il secolo sesto si era fatto volgare in Roma ed in Ravenna, e persino[493] si comperava: ed il nome senza autorità del Senato esisteva ancora nell’anno 579, in cui è fatta menzione di una legazione di Senatori di Roma antica che andò all’imperatore Tiberio a chiederlo di ajuto contro i Longobardi[494]. È accolta opinione che la città di Roma fosse retta politicamente da un Duce posto dall’Esarca, e che ne ricevesse nome di Ducato romano[495]. Il fatto [538] che di regola l’Esarca e talfiata l’Imperatore stesso eleggesse per Roma un supremo magistrato, che aveva anche l’imperio militare nella Città, non può essere messo in dubbio. L’estensione però della giurisdizione di questo officiale non conosciamo: soltanto supponiamo dall’estensione del titolo usato nelle città e nelle province, che anche in Roma quel magistrato avesse dapprincipio nome di Duce.
Ma durante tutto il secolo settimo non è mai fatta menzione del Duce di Roma, quantunque si parli spesso di Duci di Sardegna, di Napoli, di Rimini, di Narni, di Nepi e di altre città: e persino là dove dovrebbesi trovare quel titolo, nel Libro Diurno ossia nel celebre formulario del Pontefice romano compilato in sulla fine del settimo secolo, non si fa menzione di lui[496]; ma soltanto dopo l’anno 708 il Libro dei Papi parla tutt’a un tratto del Duce e del Ducato romano[497]. Quel Libro [539] però già prima di quest’anno fa cenno dei Judices ossia degli officiali che l’Esarca di Ravenna soleva preporre all’amministrazione della Città: avvegnachè nella vita di papa Conone (686-687) si narri che il suo arcidiacono, giovandosi dell’influenza dei giudici che il nuovo esarca Giovanni aveva mandato a Roma, sperasse di ascendere alla sedia pontificia[498]. E se ne tragge a conseguenza che l’Esarca, forse ad ogni anno, eleggesse per Roma più di un officiale, e che questi giudici imperiali, fra i quali si può supporre che fosse anche il Duce o Magister militum, tenessero il governo nei negozî militari e fiscali. Il tempo poi in cui sia veramente sorto il concetto di un Ducato romano è affatto incerto.
FINE DEL VOLUME PRIMO.
[541]
Prefazione | Facc. V |
LIBRO PRIMO. | |
DALL’INCOMINCIAMENTO DEL SECOLO QUINTO ALLA CADUTA DELL’IMPERO OCCIDENTALE NELL’ANNO 476. | |
Capitolo primo. — § 1. Disegno di quest’Opera. — La città di Roma nell’antichità e nel medio evo | Facc. 1 |
§ 2. Condizioni della città di Roma duranti gli ultimi tempi dell’Impero | 23 |
§ 3. Le prime sette regioni di Roma | 34 |
§ 4. L’ottava Regione di Roma | 45 |
§ 5. Le ultime sei Regioni di Roma | 54 |
Capitolo secondo. — § 1. Esagerazioni dei Padri della Chiesa sulla rovina dei monumenti di Roma. — Descrizione di Roma data da Claudiano. — Editti di preservazione degli Imperatori. — Tentativi di Giuliano a restaurare il culto antico. — Conseguenze | 67 |
[542] | |
§ 2. Contegno di Graziano verso il Paganesimo. — Contese per la statua e per l’altare della Vittoria. — Fervore dell’imperatore Teodosio contro il culto pagano di Roma. — Elemento pagano ancora esistente nella Città. — Caduta della religione antica ai tempi di Onorio. — Templi e monumenti di Roma. — Notizie del loro numero | 75 |
§ 3. Cangiamenti operati in Roma dal Cristianesimo. — Le sette Regioni ecclesiastiche della Città. — Chiese antiche anteriori a Costantino. — Estinzione dell’arte antica. — Architettura delle chiese | 87 |
§ 4. Chiese erette da Costantino. — Basilica Lateranense. — Chiesa antichissima di san Pietro | 96 |
§ 5. Basilica antica di san Paolo. — Antico culto dei Santi. — San Lorenzo e le sue due chiese: S. Lorenzo fuori le mura e S. Lorenzo in Lucina. — S. Agnese. — S. Crux in Hierusalem. — S. Pietro e s. Marcellino. — S. Marco. — S. Maria (Maggiore). — S. Maria in Transtevere. — San Clemente. — Aspetto di Roma nel secolo quinto. — Contrasti nella Città | 108 |
Capitolo terzo. — § 1. Ingresso dell’imperatore Onorio in Roma, verso la fine dell’anno 403. — Egli pone residenza nel palazzo dei Cesari. — Ultimi giuochi di gladiatori nell’anfiteatro. — Onorio ritorna a Ravenna. — Invasione dei Barbari condotti da Radagaiso e loro disfatta. — Caduta di Stilicone | 125 |
§ 2. Alarico s’avanza contro Roma nell’anno 408. — Suo demone. — Presentimento della caduta di Roma. — Primo assedio. — Ambasceria dei Romani. — Paganesimo tusco in Roma. — I Romani ricomprano la loro liberazione dall’assedio | 134 |
§ 3. Alarico s’allontana da Roma. — Onorio rifiuta la pace. — Alarico ritorna una seconda volta su Roma, prende Porto nell’anno 409 e acclama imperatore Attalo. — Questi muove contro Ravenna con Alarico. — È deposto. — Alarico pone campo la terza volta contro Roma | 141 |
[543] | |
§ 4. Dipintura del patriziato e del popolo di Roma di quel tempo, secondo le testimonianze di Ammiano Marcellino e di san Gerolamo. — Pagani e Cristiani di Roma. — Statistica della popolazione della Città | 148 |
Capitolo quarto. — § 1. Alarico prende Roma il giorno 24 di Agosto 410. — Saccheggio della Città. — Una vittoria del Cristianesimo. — Mitezza d’animo dei Goti. — Alarico dopo tre giorni lascia Roma | 163 |
§ 2. I Goti non distrussero i monumenti della Città. — Opinioni degli Scrittori su questo argomento | 173 |
§ 3. Lamentazioni sulla caduta di Roma. — San Gerolamo. — Santo Agostino. — Conseguenze della presa di Roma | 179 |
Capitolo quinto. — § 1. Alarico muore nell’anno 410. — Ataulfo è gridato re dei Visigoti. — Egli parte d’Italia. — Spedizione impresa dal conte Eracliano contro Roma. — Onorio viene a Roma nell’anno 417. — Restaurazione della Città. — Versi di Rutilio a Roma | 187 |
§ 2. Svolgimento della Chiesa romana. — Scisma per la successione alla cattedra vescovile. — Bonifacio è eletto papa. — Onorio muore nell’anno 423. — Valentiniano III diventa imperatore sotto tutela di Placidia. — I Vandali invadono Africa | 193 |
§ 3. Sisto III è eletto papa nell’anno 432. — Egli edifica dalle fondamenta la basilica di santa Maria (Maggiore). — Musaici di questa chiesa e donativi a lei consecrati. — Splendore degli arredi ecclesiastici | 199 |
§ 4. Leone I ascende alla cattedra di san Pietro nell’anno 440. — Roma accoglie i fuggenti d’Africa. — Eresie. — Placidia muore in Roma nel 450. — Fortuna della sua vita. — Avventure di Onoria figlia di lei. — Ella chiama in Italia Attila re degli Unni | 207 |
§ 5. Invasione di Attila. — Battaglia data nei campi Catalaunici. — Attila nel suo cammino devasta [544] l’Italia superiore. — Valentiniano in Roma. — Ambasceria dei Romani ad Attila. — Leone si presenta al Re unno. — Leggenda celebre. — Ritirata e morte di Attila. — Festività in Roma. — Statue di Giove capitolino e di san Pietro in Vaticano | 212 |
Capitolo sesto. — § 1. Ezio cade in disgrazia e muore in Roma. — Episodî da romanzo. — Valentiniano III cade assassinato nell’anno 455. — Massimo è eletto imperatore. — Eudossia chiama Genserico re dei Vandali | 221 |
§ 2. I Vandali arrivano a Porto. — Uccisione di Massimo. — Leone si presenta a Genserico. — I Vandali entrano in Roma nel Giugno dell’anno 455. — Vi danno il saccheggio per quattordici giorni. — Depredazione del Palazzo e del tempio di Giove. — Spoglie antiche del tempio di Gerusalemme. — Loro sorte. — Leggende del medio evo | 228 |
§ 3. I Vandali partono di Roma. — Avventure della imperatrice Eudossia e delle sue figlie. — Basilica di san Pietro ad Vincula. — Leggenda delle catene di san Pietro. — I Vandali non ebbero distrutti i monumenti della Città. — Conseguenze del saccheggio | 235 |
Capitolo settimo. — § 1. Avito è eletto imperatore nell’anno 455. — Apollinare Sidonio indirizza un panegirico a quell’Imperatore: gli è eretta una statua di onore. — Avito è cacciato del trono per opera di Ricimero. — Maioriano è acclamato imperatore nell’anno 457. — Egli promulga un editto per la conservazione dei monumenti di Roma. — I Romani cominciano a rendersi rei di vandalismo. — Maioriano muore nell’anno 461 | 241 |
§ 2. Papa Leone I muore nel 461. — Sua indole. — Sue fondazioni in Roma. — Primo monastero eretto presso al san Pietro. — Basilica di santo Stefano in Via Latina e suo discoprimento verso la fine del 1857. — Ilario papa, Severo imperatore. — Antemio [545] imperatore. — Suo ingresso in Roma. — Doni offerti da Ilario alle chiese | 249 |
§ 3. Condanna di Arvando. — Spedizioni contro Africa riuscite a vuoto. — Ricimero si rivolta contro Antemio. — Assedio di Roma. — Terzo saccheggio nell’anno 472 | 256 |
§ 4. Olibrio sale al trono. — Morte di Ricimero. — Suo monumento: chiesa odierna diaconale di s. Agata in Suburra. — Glicerio e Giulio Nepote imperatori. — Oreste acclama imperatore suo figlio Romolo Augustolo. — Odoacre s’impadronisce di Italia nell’anno 476. — Caduta dell’Impero romano occidentale | 261 |
LIBRO SECONDO. | |
DALL’INCOMINCIAMENTO DEL REGNO DI ODOACRE ALLA EREZIONE DELL’ESARCATO DI RAVENNA NELL’ANNO 568. | |
Capitolo primo. — § 1. Regno di Odoacre. — Simplicio papa (468-483). — Costruzione di novelle chiese in Roma. — San Stefano Rotondo sul monte Celio: santa Bibiana. — Felice III è eletto papa per violenza di Odoacre. — Teodorico scende cogli Ostrogoti in Italia. — Caduta del regno di Odoacre. — Teodorico diventa re d’Italia nell’anno 499 | 271 |
§ 2. Contese in Roma per le feste pagane dei Lupercali, e quel che ne sia derivato. — Scisma sorto in occasione dell’elezione di Simmaco o di Lorenzo. — Sinodo di Simmaco nell’anno 490 | 278 |
§ 3. Basiliche titolari della città di Roma intorno all’anno 499 | 285 |
§ 4. Origine nazionale dei Santi ai quali erano dedicate le chiese titolari. — Ripartizione territoriale di queste chiese. — Titoli esistenti al tempo di Gregorio Magno verso l’anno 594. — Che cosa fossero i Titoli. — I Cardinali. — Le sette chiese di Roma | 295 |
[546] | |
Capitolo secondo. — § 1. Contegno di Teodorico verso i Romani. — Egli viene a Roma nell’anno 500. — Sua orazione al popolo. — L’abate Fulgenzio. — Rescritti tramandatici da Cassiodoro | 303 |
§ 2. Condizione dei monumenti di Roma. — Predoni di statue. — Sollecitudine di Teodorico alla conservazione dei monumenti. — Cloache. — Acquedotti. — Teatro di Pompeo. — Palazzo dei Pinci. — Palazzo dei Cesari. — Foro di Trajano. — Il Campidoglio | 309 |
§ 3. Anfiteatro di Tito. — Spettacoli e mania dei Romani pei giuochi. — Cacce di belve. — Giuochi e fazioni del circo | 318 |
§ 4. Provvedimenti di Teodorico per il popolo di Roma. — Roma Felix. — Tolleranza di Teodorico verso la Chiesa cattolica. — Israeliti di Roma. — Loro sinagoga antichissima. — Il popolo si solleva contro di essi | 329 |
§ 5. Nuovo scisma nella Chiesa. — Sinodo Palmare. — Fazioni entro la Città. — Simmaco abbellisce la chiesa di san Pietro. — Edifica la cappella rotonda di santo Andrea, la basilica di s. Martino e la chiesa di san Pancrazio. — Ormisda è eletto pontefice nell’anno 514. — Giovanni I papa. — Teodorico entra in lotta contro la Chiesa cattolica | 337 |
§ 6. Inquisizione e supplizio di Boezio e di Simmaco. — Papa Giovanni ha il carico di un’ambasceria a Bisanzio: muore in Ravenna. — Teodorico impone l’elezione di Felice IV. — Il Re muore nell’anno 526. — Leggende | 346 |
Capitolo terzo. — § 1. Reggenza di Amalasunta. — Genio di lei: protezione accordata alla Scienza. — Mite dominazione di lei. — Il Vescovo romano ottiene reverenza sempre maggiore | 357 |
§ 2. Felice IV edifica nel Foro una chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano. — Musaici di quella chiesa. — Ragione della venerazione tributata a que’ due Santi | 361 |
[547] | |
§ 3. Bonifacio II è eletto Papa nell’anno 530. — Giovanni II. — Senatoconsulto in argomento di simonia. — Educazione di Atalarico: sua morte. — Teodato è fatto compartecipe al trono. — Sorte della regina Amalasunta. — Disegni e mire di Giustiniano. — Il consolato d’Occidente cessa nell’anno 535 | 369 |
§ 4. Negoziati di Teodato con Giustiniano. — Lettere del Senato a Giustiniano. — Agitazioni in Roma. — I Romani rifiutano di accogliere soldatesca gota entro la Città. — Papa Agapito va ambasciatore a Bisanzio. — Morte di lui. — Rottura delle trattative di pace | 376 |
§ 5. Belisario viene in Italia. — Prende Napoli. — I Goti acclamano Vitige a re. — Fine di Teodato. — I Goti si ritirano in Ravenna. — Belisario entra in Roma addì 9 di Dicembre dell’anno 536 | 383 |
Capitolo quarto. — § 1. Belisario munisce Roma per la difesa. — Vitige muove con tutto l’esercito goto contro la Città. — Primo combattimento. — Apparecchi degli assedianti. — Soldatesca gota. — Apparecchi di Belisario. — Vitige taglia gli acquedotti. — Molini natanti del Tevere. — Disperazione dei Romani. — I Goti impongono a Roma la resa. — S’apparecchiano all’assalto | 392 |
§ 2. Assalimento generale. — Combattimento di porta Prenestina. — Il Murus ruptus. — Assalto del mausoleo di Adriano. — I Greci ne mettono in pezzi le statue. — Gli assalitori sono ributtati d’ogni parte | 402 |
§ 3. Prosecuzione dell’assedio. — Predizioni dell’esito della guerra. — Rimembranze del Paganesimo. — Il tempio di Giano. — I Tria Fata. — Due inni latini di quel tempo. — Vigilanza di Belisario alla difesa di Roma | 411 |
§ 4. Papa Silverio è cacciato in esilio. — La fame desola Roma. — Umanità dei Goti. — Vitige s’impadronisce del porto romano. — Porto ed Ostia. — Soldati [548] di rinforzo entrano in Roma. — I Goti respingono una sortita degli assediati. — Tristi condizioni della Città. — Trinceramenti dei Goti e degli Unni | 419 |
§ 5. Tristi condizioni dei Goti. — Loro ambasceria a Belisario. — Negoziati. — Roma riceve soccorsi di uomini e di vettovaglie. — Armistizio. — Ripigliansi le ostilità. — Scoramento dei Goti. — Eglino partono di Roma nel mese di Marzo del 538 | 429 |
Capitolo quinto. — § 1. Belisario in Ravenna. — Egli rigetta le offerte dei Goti. — Totila è eletto re verso la fine dell’anno 541. — Sue rapide vittorie. — Sua spedizione in Italia meridionale. — Conquista Napoli | 437 |
§ 2. Lettere di Totila al Senato romano. — Effetto di quelle in Roma. — Egli muove contro Roma. — Prende Tivoli. — Secondo assedio dei Goti nella estate dell’anno 545. — Belisario ritorna in Italia. — Porto. — Campo dei Goti | 443 |
§ 3. Papa Vigilio è chiamato a Bisanzio. — I Goti prendono un naviglio carico di grani di Sicilia. — La fame desola Roma. — Ambasceria del diacono Pelagio nel campo dei Goti. — Discorso che i Romani al colmo della disperazione volgono a Bessa. — Condizioni miserrime della Città | 449 |
§ 4. Belisario giunge a Porto. — Il Tevere è chiuso per mezzo di uno steccato di legno. — Belisario tenta di superarlo e di liberare Roma. — Sospensione delle pugne. — Totila entra in Roma addì 17 di Dicembre dell’anno 546. — Aspetto della Città deserta. — Saccheggio. — Rusticiana. — Mitezza d’animo di Totila | 455 |
§ 5. Discorsi di Totila ai Goti ed al Senato. — Egli minaccia Roma della distruzione. — Lettere di Belisario a lui indiritte. — Assurdità delle narrazioni che Totila abbia devastata Roma. — Vaticinio di san Benedetto sopra Roma. — Totila parte di Roma. — La Città rimane deserta | 464 |
[549] | |
Capitolo sesto. — § 1. Belisario entra nella Città. — Ne restaura le mura. — Seconda difesa di Roma sostenuta da Belisario nell’anno 547. — Totila si ritira a Tivoli. — Giovanni conduce seco i Senatori romani ch’erano in Capua. — Totila muove rapidamente nell’Italia meridionale. — Belisario parte di Roma. — Suoi monumenti nella Città | 473 |
§ 2. Belisario va errando senza disegno nell’Italia meridionale, indi parte per Costantinopoli. — Totila ritorna per la terza volta davanti le mura di Roma nell’anno 549. — Condizioni della Città. — Vi entrano i Goti. — I Greci si ritirano nel sepolcro di Adriano. — Roma ridiviene popolata. — Ultimi giuochi circensi. — Totila abbandona la Città. — I Goti sul mare | 482 |
§ 3. Narsete prende il comando dell’esercito nella guerra d’Italia. — Presagio romano intorno a lui. — Notizie dei monumenti di Roma tratte da narrazioni di quel tempo. — Foro della Pace. — Vacca di Mirone. — Statua di Domiziano. — Nave di Enea. — Narsete s’avanza fino alle falde dell’Apennino. — Totila combatte la sua ultima battaglia, e muore presso Tagina nell’estate dell’anno 552 | 487 |
§ 4. Teja ultimo re dei Goti. — Narsete prende Roma. — I Goti cedono la mole d’Adriano. — Ruina del Senato romano. — I Greci prendono le castella dei Goti. — Narsete invade la Campania. — Eroica morte di Teja nella primavera dell’anno 553. — I Goti dopo una battaglia data alle falde del Vesuvio scendono a patti. — Mille Goti partono guidati da Indulfo | 494 |
§ 5. Uno sguardo all’indole della dominazione gota in Italia. — Fole spacciate dai Romani intorno ai Goti, e loro ignoranza della storia delle rovine della Città | 502 |
Capitolo settimo. § 1. Scendono in Italia le orde di Bucelino e di Leutari e sono disfatte. — Ingresso [550] trionfale di Narsete in Roma. — I Goti in Compsa scendono a patti. — Condizioni di Roma e d’Italia dopo la guerra | 510 |
§ 2. Sanzione Prammatica di Giustiniano. — Il Vescovo romano sale ad alta onoranza. — Il Senato. — Provvedimenti dati per la protezione alle lettere e per la conservazione dei monumenti publici. — Relazioni di Bisanzio colla Chiesa di Roma. — Papa Vigilio muore tornando in patria. — Pelagio è eletto papa nell’anno 555. — Egli presta giuramento di purgazione | 516 |
§ 3. Pelagio e Giovanni III edificano la chiesa dei santi Apostoli nella Regione Via Lata. — Decadimento della città di Roma. — Due iscrizioni, monumenti di ricordanza di Narsete | 522 |
§ 4. Narsete cade in disgrazia. — Va a Napoli ed è indi ricondotto a Roma da papa Giovanni. — Muore nell’anno 567. — Uno sguardo alla opportunità di una calata dei Longobardi in Italia | 528 |
§ 5. I Longobardi scendono in Italia nell’anno 568. — Erezione dell’Esarcato di Ravenna sotto Longino. — Province d’Italia. — Mutamenti amministrativi. — Governo di Roma | 534 |
[553]
VOLUME PRIMO[499] | ||||||
ERRATO | CORREGGI | |||||
Pag. | 26 | testo, | lin. | 18 e 19, | di Nerva, di Domiziano | di Nerva e di Domiziano |
» | 27 | testo, | » | 14, | turrito | torreggiante |
» | 28 | testo, | » | 6, | un piccolo borgo destinato a ogni genere di piaceri | un vero mondo di delizie |
» | 29 | testo, | » | 9, | simili a quei colossi di marmo | quasi che formassero una cornice di pietra |
» | 30 | nota, | » | 5, | furono murate | si trovano murate |
» | 35 | testo, | » | 1, | perchè esso formava un sobborgo che metteva capo | perchè vi era probabilmente un sobborgo, traversando il quale si giungeva |
» | 35 | testo, | » | 17, | piccola città sotterranea | necropoli |
» | 36 | testo, | » | 8, | fino al lato posteriore del Colosseo | dietro il Colosseo |
» | 37 | testo, | » | 22 e 23, | conservava... era | conserva... è |
» | 38 | testo, | » | 24, | figure coniche | figura conica |
» | 39 | testo, | » | 10, | consecrata al culto | inaugurata |
» | 40 | testo, | » | 14, | Palla | Pallante |
» | 43 | nota, | » | 8, | devono essere stati | stavano |
» | 44 | testo, | » | 8 e 9, | di rimpetto a... ed a | nella direzione della... e della |
» | 44 | testo, | » | 13 e 14, | lungo quei cumuli di rovine avesse | prima vi avesse |
» | 44 | testo, | » | 26 e 27, | eretto nello stile sontuoso d’Oriente | di magnificenza orientale |
» | 47 | testo, | » | 20, | sull’arco | presso l’arco |
» | 49 | testo, | » | 2, | san Martino | santa Martina |
» | 49 | nota, | » | 7, | palazzo del Senato | Senatus |
» | 50 | testo, | » | 28, | due | tre |
» | 51 | testo, | » | 17, | Costantino | Costanzo |
» | 51 | testo, | » | 30, | degli emblemi | delle statue |
» | 53 | testo, | » | 18, | Costantino | Costanzo |
[554] | ||||||
» | 55 | testo, | » | 11 e 12, | di cui rimangono oscuri e giganteschi massi di marmo a testimonianza della magnificenza antica | la cui negra e gigantesca mole tuttora oggi lascia in parte riconoscere l’antico splendore |
» | 59 | testo, | » | 25, | Costantino | Costanzo |
» | 60 | testo, | » | 1 e 2, | sul Clivus Publicus, verso l’Aventino alzavasi la Porta Trigemina | la Porta Trigemina conduceva su pel Clivo Publicio all’Aventino |
» | 60 | testo, | » | 12, | ed i bagni | od i bagni |
» | 62 | testo, | » | 11-13, | Il primo unisce alla città un’isola quadrangolare detta de’ quattro capi | Il primo, oggi da un’erma quadrifronte chiamato de’ quattro capi, conduce alla Città |
» | 63 | testo, | » | 12, | scambiare il circo di Cajo | intendere sotto il nome di circo di Cajo |
» | 81 | nota, | » | 7 e 8, | collocate ov’erano gli Dei Lari | come un tempo solevasi innanzi gli Dei Lari. |
» | 83 | testo, | » | 11, | ancora perfetto | ancora ben conservato |
» | 84 | nota, | » | 1, | era considerata ente portentoso | potrebbe chiamarsi ente misterioso |
» | 84 | nota, | » | 2, | ebbe | avrebbe |
» | 88 | testo, | » | 20 e 21, | fu formato ecc. | fu creduto essersi formato dall’unione di queste ultime due a due, o fu messo in corrispondenza |
» | 91 | nota, | » | 5, | delle descrizioni dei gesta pontificium | e dei Gesta pontificum |
» | 97 | nota, | » | 6, | deve avere | si dice avere |
» | 107 | testo, | » | 3 e 4, | uno posto sopra dell’altro | il più alto, e il più basso |
» | 127 | testo, | » | 22, | mise piede a terra non permettendo | non permise |
» | 130 | testo, | » | 1, | tigri che conservavansi nell’anfiteatro | tigri nell’anfiteatro |
» | 136 | testo, | » | 2, | rinvenuti | composti |
» | 165 | nota, | » | 15 e 16, | non avendosi saputo o non avendosi osato di porre iscrizioni sulle tombe dei Consoli | non avendosi saputo quali nomi di Consoli porre nelle iscrizioni sepolcrali |
[555] | ||||||
» | 170 | nota, | » | 7, | caduti di potenza | morti |
» | 181 | nota, | » | 4 e 5, | da non prendersi a modello | che non rende bene la nostra lingua |
» | 181 | nota, | » | 6, | alcune citazioni | alcuni passi |
» | 251 | nota, | » | 7, | dandone la forma ad un’antica villa | sopra un’antica villa |
» | 298 | nota, | » | 9, | tra le due di S. Balbina e di S. Ciriaco | tra s. Balbina e s. Ciriaco |
» | 307 | nota, | » | 8, | di piazza s. Pietro | nel s. Pietro. |
» | 325 | testo, | » | 15 e 16, | le quali, finite le corse, servivano al giuoco delle | sulle quali, finita la corsa, si mettevano le |
» | 335 | nota, | » | 10, | cortile della sinagoga antica | il cimitero antico degli Ebrei |
» | 336 | testo, | » | 24, | fiori sparsi di granate preziose | fiori di melagrano |
» | 353 | nota, | » | 6, | Nei tempi posteriori | Più tardi |
» | 356 | nota, | » | 10, | quantunque gli dia | dandogli |
» | 356 | nota, | » | 10 e 11, | divus | dirus |
» | 417 | nota, | » | 7, | lo scrittore del Mitografo | lo stesso Mitografo |
» | 498 | testo, | » | 4, | poneva in fiamme | faceva assediare |
» | 518 | testo, | » | 3, | dello accrescimento | del fondamento |
» | 518 | testo, | » | 6, | ma per lo meno può | per nessun modo può |
» | 518 | testo, | » | 16-18, | finché decadde nella condizione di curia o di ceto senza potenza, sottomettendosi | finchè, puranco come curia ossia ordo, si estinse facendo luogo |
» | 523 | testo, | » | 8, | meravigliosa | grande |
» | 531 | testo, | » | 16, | cortile della chiesa | cimitero |
» | 531 | nota, | » | 7, | cortili delle chiese | cimiteri |
» | 538 | testo, | » | 6 e 7, | nelle borgate di campagna | nelle province |
1. L’estremo monumento romano nelle regioni meridionali fu scoperto dal dott. Barth innanzi alla città di Murzuk. Vedi vol. I, pag. 164, Viaggi e scoperte nell’Africa settentrionale e centrale (1849-1855).
2. Claudiano, Panegir. in VI Cons. Honor., v. 39-52. Sulla grandezza di Roma ha una pomposa apostrofe, De cons. Stilich. III, v. 130 e seg.
3. Voglio qui accennare al libro degno di nota: Historiæ de Varietate Fortunæ, libri II (Paris 1723), che Poggio scrisse poco prima della morte di Martino. Con quest’opera, che è una triste descrizione delle rovine della città, incominciano gli studî archeologici su Roma.
4. L’Autore publicò il primo volume della sua Storia nell’anno 1859 (Nota dell’Editore).
5. Fu questi Ammone, che viveva nel tempo dell’assedio della città fatto dai Visigoti. Così Olimpiodoro in Fozio, p. 198, dice: εἴκοσι καὶ ἑνὸς μιλίου. Per la qual cosa è esagerata la notizia dataci da Vopisco, che il circuito della città fosse di cinquanta miglia, oppure, come afferma il Piale, fu errore degli amanuensi. Secondo il Piale (Dissertazione delle mura Aureliane di Roma), la circonferenza della città sarebbe stata di tredici miglia al più. Si confronti il Canina: Indicazione topografica di Roma antica, p. 19 ec., e la descrizione della città data dal Platner e dal Bunsen, I, p. 646 ec. Della riedificazione delle mura ai tempi di Arcadio e di Onorio, conservano ricordanza le iscrizioni poste sulla porta di s. Lorenzo e sopra la P. Maggiore. Una terza iscrizione, collocata sulla P. Portuensis, che ne parlava, andò perduta quando quell’antica porta fu fatta abbattere da Urbano VIII.
6. Queste porte antiche erano: P. Flaminia, Pinciana, Salara, Nomentana, Tiburtina, Praenestina, Labicana, Asinaria, Metronis o Metronia, Latina, Appia, Ostiensis, Portuensis, Janiculensis (Aurelia), Septimiana, Aurelia situata al ponte di Adriano. Di esse oggi si trovano murate la porta Metronia e la Latina, e cadde distrutta l’Aurelia situata al ponte dell’Angelo. Il Breviarium numera trentasette porte, per la qual cosa il numero che eccede le nominate dev’essere stato nelle mura serviane o aver formato altri fori di uscita.
7. Ai tempi di Belisario, Roma possedeva quattordici acquedotti (così Procopio, De bello Goth. I, 19). Ed erano i nove, di cui ci dà notizia Frontino, ossia: Appia, Anio vetus, Marcia, Tepula, Julia, Alsietina, Virgo, Claudia, Anio novus e di più l’Acqua Augusta, colla quale Augusto aveva fortificato la Marcia, la Trajana aggiunta da Trajano, l’Antoniniana di Caracalla, l’Alexandrina di Alessandro Severo, la Iovia di Diocleziano. Il Sommario aggiunto al Curiosum ed alla Notitia numera diecinove acquedotti, cinque dei quali non possono essere stati che ramificazioni degli altri. Al dì d’oggi Roma ha tre soli acquedotti: l’Acqua di Trevi, meschina restaurazione dell’A. Virgo, l’A. Felice che è in parte l’antica Marcia, e l’A. Paola che Paolo V edificò giovandosi delle acque della Trajana.
8. Inclyta ac celebris Roma immensum est, atque omni oratione majus pelagus pulchritudinis. Themist., Orat. 13, amat. in Gratian., p. 177. Si veda la Dissertaz. sulle rovine di Roma di Carlo Fea, che può reputarsi il primo saggio formale di una storia delle rovine di Roma fino ai tempi di Sisto V (nel III Vol. della traduzione da lui fatta della Storia dell’Arte del Winkelmann, Roma, 1784). Di quanta utilità riesca per la storia lo studio locale dei monumenti di Roma, cel mostrò la Histoire romaine à Rome, che J. J. Ampère, per una serie di anni andò inserendo nella Revue des deux Mondes, e fu splendido ornamento di quel giornale. Quella Storia si stenderà anche all’età di mezzo. Mi è grato dovere il riconoscere che l’interessamento onde l’erudito e spiritoso Francese confortò sempre l’opera da me impresa, mi è vivissimo eccitamento alla prosecuzione del mio lavoro.
9. Intorno al Curiosum Urbis ed alla Notitia, ci furono di grande giovamento i lavori del Sarti, del Bunsen e del Preller. Io ho seguito il testo di quest’ultimo (Die Regionen der Stadt Rom, Jena, 1846), che confrontai con quelli del Panciroli, del Labbe, del Bianchini e del Muratori.
10. S. Gregor., Ep. III, 30, p. 568: ad secundum urbis milliarium, in loco qui dicitur ad Catacumbas. Il De Rossi che alla gloria del Bosio associò gl’illustri meriti suoi, ha sparso luce novella su quelle catacombe di san Calisto, ed il suo grande lavoro intitolato Corpus Inscriptionum, di cui s’è ora incominciata la publicazione, deve salutarsi come un felice avvenimento per la storia della Città nei tempi di mezzo. Le cognizioni del De Rossi intorno alla topografia di Roma nel medio evo, sono le più fondate e le più vaste che erudito possa avere, ed è mio ardente desiderio che l’illustre Romano voglia presto diffondere quel suo tesoro in un’opera topografica.
11. L’antica Porta Capena vogliono i Topografi che fosse collocata al di sotto dell’odierna Villa Mattei. Si vegga il Canina, R. Antica. Intorno ai limiti della prima Regione si agita controversia: l’indicazione però del ruscello Almo (oggi Acquataccio), dimostra che la Regione si stendesse al di là delle mura Aureliane. Intorno all’antico tempio di Marte, onde era illustre questa Regione che non comprendeva altri grandi monumenti, sappiamo di certo ch’era situato extra portam Capenam.
12. L’Anonimo di Einsiedeln del secolo ottavo enumera: Arcus Constantini, Meta Sudante, Caputo Africae, Quatuor Coronati. Una qualche statua avrà dato probabilmente il nome a questa via. Nella Notitia non è fatto cenno del Clivus Scauri ch’era situato innanzi al M. Coelius e che si conservò nel corso dei tempi.
13. Il gruppo del Laocoonte fu trovato nell’anno 1506, e l’inventore Felice de Fredis n’ebbe argomento all’immortalità del nome. Ne parla l’iscrizione della sua tomba posta in S. Maria in Araceli a poca distanza dal coro. È monumento pregevole dell’epoca di Giulio II.
14. Il Templum Pacis era stato eretto da Vespasiano, dopo la guerra contro gli Ebrei. Procopio ne vide ancora i ruderi in vicinanza della basilica di Massenzio: la piazza vicina era chiamata Forum Pacis: ἣν φόρον Εἰρήνης καλοῦσι Ῥωμαῖοι. ἐν ταῦθα γάρ πη ὁ τῆς Εἰρήνης νεὸς κεραυνόβλητος γενόμενος ἐκ παλαιοῦ κεῖται. Procop., De bello Goth., IV, 21, p. 570 (Ediz. di Bonna). L’ordine in cui è disposta la descrizione della Notitia è il seguente: Aedem Jovis Statoris, Viam Sacram, Basilicam Constantinianam, Templum Faustinae, Basilicam Pauli, Forum Transitorium.
15. Dal Nymphaeum Alexandri, situato in vicinanza di santa Croce in Gerusalemme, è forza distinguere il monumento dei Trofei di Mario, che l’Anonimo di Einsiedeln chiama erroneamente Nymphaeum, ponendolo in questa serie: Sanctus Vitus, Nymphaeum, Sancta Biviana. Il Piale (Della subura antica, verso la fine) dice, parlando dei Trofei di Mario: Ninfeo da non confondersi però col Nymphaeum Alexandri etc. Le rovine appartengono alla fontana dell’Acqua Julia.
16. Olimpiodoro (in Fozio, p. 198) scrive che le terme di Antonino comprendevano milleduecento bacini di bel marmo, e che quelle erette da Diocleziano ne comprendevano un numero quasi doppio. Gli eruditi sono discordi nel determinare la posizione di queste terme che alcuni vogliono edificate sul Viminale ed altri sull’Esquilino o sul Quirinale. Il vero si è che la direzione di tutti e tre questi poggi si volge verso il punto ove stavano questi bagni. Fin dai primi tempi, nel luogo ove si elevavano le terme fu eretta una chiesa ad onore di san Ciriaco, che, unitamente a santo Sisinnio, si trovava fra i Cristiani condannati a lavorarvi. La leggenda li farebbe ascendere a quarantamila. (Vedasi Pompeo Ugonio, Historia delle stationi di Roma, Roma, 1588, c. 197, e Florav. Martinelli, Roma ex ethnica sacra. Quest’ultimo ai quarantamille Martiri aggiunge generosamente altri centomille). Al tempo di Pio IV fu eretto nelle terme il convento dei Certosini, e la chiesa magnifica di santa Maria degli Angeli è racchiusa sotto le alte arcate di un’antica sala del bagno.
17. Il Fea (Sulle rovine di Roma, p. 302), dice che questo tempio era caduto in rovina già fin dal principio del secolo VI, imperocchè una vedova che possedeva otto delle colonne di porfido le quali aveano già ornato quel tempio, ne facesse dono all’imperatore Giustiniano per la nuova chiesa di s. Sofia in Costantinopoli. Egli cita Codinus, De orig. Const., p. 65, e l’Anonym., De structura temp. magnæ Dei Eccles. s. Sophiæ presso il Combefis, Origin. rerumque Constantin., p. 244, con cui io ebbi cura d’istituire confronti. Nel testo è detto erroneamente Valeriano edificatore del tempio del Sole invece di Aureliano.
18. Scrive Zosimo, V, c. 38: allorquando Stilicone rubò le porte delle lamine d’oro massiccio che le ricoprivano, apparve quest’iscrizione: misero regi servantur, ed infatti quel profanatore miseramente perì. Quel ladroneccio non può essersi consumato che dopo il trionfo di Onorio, perchè in quel tempo ancora Claudiano parla dei bassi rilievi delle porte:
Juvat infra tecta Tonantis
Cernere Tarpeja pendentes rupe gigantes
Caelatasque fores
(de VI Cons. Hon., v. 44 sg.).
Stilicone deve aver fatto abbruciare i libri sibillini soltanto dopo l’anno 403. Ciò appare chiaro da un passo di Claudiano, De bello Goth., v. 230, in cui parla di quei libri come se ancora esistessero:
Quid carmine poscat
Fatidico custos Romani carbasus aevi.
19. Scrive il Fea, p. 410 e seg., che la statua equestre di Marco Aurelio era stata scambiata per quella di Costantino e che andava debitrice a quest’errore della sua conservazione durante il medio evo. Egli è possibile che quest’errore avvenisse ai tempi della barbarie; non posso credere però che al momento in cui fu compilata la Notitia non si sapesse distinguere la figura di Costantino da quella di Marco Aurelio. La iscrizione posta sotto l’Equus Constantini, copiata e tramandata dall’Anon. di Einsiedeln era: D. N. Constantino maximo pio felici ac triumphatori, etc. etc. Io ammetto che la statua di Costantino rovinasse dopo il secolo VIII e che quella di Marco Aurelio passasse tosto sotto il nome di quella di Costantino, dando origine al famoso Caballus Constantini delle cui meraviglie sono piene le cronache di Roma del secolo XII. Ne parlerò in uno dei volumi successivi.
20. Salvis dominis nostris Honorio et Theodosio victoriosissimis principibus Secretarium amplissimi senatus quod vir illustris Flavianus instituerat et fatalis ignis absumpsit Flavius Annius Eucharius Epifanius V. C. Praef. vice sacra. Jud. reparavit et ad pristinam faciem reducit. Gruter, 170. Canina, R. ant., p. 167. Nardini, II, p. 230. Sappiamo che la Curia Hostilia, che era l’antichissimo Senatus, fu distrutta da un incendio ai funerali di Clodio. Essa non venne più riedificata, ed il Senato congregavasi nella Curia Julia compiuta sotto Augusto, dove anche doveva essere il celebre altare della Vittoria.
21. Ammian. Marcell., XVI, p. 14 e seg. Id tantum sibi placuisse, aiebat, quod didicisset, ibi quoque homines mori. Il Gibbon legge displicuisse, ma la dizione placuisse asconde un senso assai più arguto, e riceve chiara spiegazione se si pensi all’animo con cui il Re straniero parlava.
22. Claudiano parla della statua eretta a suo onore nella Praef. de bello Goth.:
Sed prior effigiem tribuit successus ahenam,
Oraque patricius nostra dicavit honos.
Venanzio Fortunato (morto nei primi anni del secolo VII) cantava, Carm. III, c. 23:
Vix modo tam nitido pomposa poemata cultu
Audit Trajano Roma verenda foro.
E al lib. VIII, c. 8:
Si sibi forte fuit bene notus Homerus Athenis:
Aut Maro Trajano lectus in urbe foro.
23. Quest’antica Corografia latina vide la luce per la prima volta ad opera del cardinale Angelo Mai, che la trasse da un Codice esistente nel Convento della Cava, e che sotto titolo di: Liber Junioris Philosophi in quo continetur totius orbis descriptio, la stampò nel Tom. III classicor. auctor. e vatican. Codicib. editor., p. 387. — Super hoc maximum possidet bonum ROMAM splendoribus divinorum aedificiorum ornatam etc.
24. Il Curiosum trasporta nella Regione undecima l’Arcum Constantini: la Notitia dice Arcum Divi Constantini. Il Bunsen (III, 1, pag. 663), opina che quest’arco fosse il noto Janus quadrifrons posto sul Velabrum, e che non potesse essere l’arco trionfale di Costantino che le due Descrizioni avrebbero pur dovuto porre entro la Regione decima. L’ordine della citazione seguito nel Curiosum, cioè: Herculem olivarium, Velabrum, Arcum Constantini, appoggia senza dubbio questa opinione.
25. Il Piale, Degli antichi arsenali detti Navalia (Pont. accad. di Arch., I, Aprile 1830), sostiene che l’Emporium fosse situato sotto il monte Aventino e che la posizione dei Navalia fosse presso la Ripa Grande. Questa ultima supposizione fu combattuta dal Becker, il più erudito tra gli Archeologi, che dice situati i Navalia in un qualche punto del campo di Marte (Manuale, I, p. 158, ec.).
26. Sembra che timore rattenga gli Archeologi dal camminare sui ponti di Roma, perchè le notizie che ne danno sono le più discordi. Vedasi il Piale, Degli antichi Ponti di Roma al tempo del sec. V, Roma 1834; il Preller ed il Becker I, p. 692, ec. Nelle due Descrizioni antiche delle Regioni troviamo: Pontes VIII, Aelius, Aemilius, Aurelius, Mulvius, Sublicius, Fabricius, Cestius et Probi. Il Pons Milvius, già appellato da Livio con questo nome ed oggi detto P. Molle, nella serie è collocato all’ottavo posto. Cadrà spesso occasione di far menzione dei molti nomi e talvolta oscuri che nel medio evo davansi a questo od a quel ponte: ci saranno allora a guida i Mirabilia, ai quali ci riferiremo.
27. Sui nomi dell’isola si veda il Visconti: Città e famiglie nobili e celebri dello Stato pontificio. Monumenti antichi, Sez. II, p. 25. Claudiano (In Prob. et Olyb. Cons., v. 226 sq.) dice:
Est in Romuleo procumbens insula Tibri,
Qua medius geminas interfluit alveus urbes
Discretus subeunte freto, pariterque minantes
Ardua turrigerae surgunt in culmina ripae.
Da questo squarcio può trarsi notizia che le mura di Aureliano procedessero lunghesso la sponda interna del fiume sino al ponte Fabricio, e che al di là, nella regione trasteverina, sorgesse loro di contro la muraglia di Settimio.
28. Veggansi i Breviarî del Curiosum urbis e della Notitia, e il Breviario di Zaccaria di Armenia del sec. VI. Qua e colà vi hanno discrepanze nelle notizie numeriche. Intorno agli obelischi di Roma mi occorse la seguente osservazione. Al tempo in cui Sisto V restituì in piedi gli obelischi, il Mercati scrisse la sua opera erudita intitolata: Degli obelischi di Roma, in cui dice che, degli antichi obelischi, quarantotto fossero stati portati a Roma d’altri paesi. Le Descrizioni delle Regioni da noi seguite parlano invece di sei soli, che sono naturalmente i maggiori: In Circo Max. duo, minor habet pedes LXXXVIII, major vero pedes CCXXII. In Vaticano unus altus pedes LXXV. In Campo Martio unus altus pedes LXXV. In Mausoleo Augusti duo, alti singuli pedes XLII. Tutti questi obelischi durano ancora, ornamento di Roma odierna.
29. S. Augustin., Sermon. CV. de verb. evang. Luc. XI, p. 13, T. V, 1, p. 546: mementote fratres, mementote: non est longum, pauci anni sunt, recordamini. Eversis in urbe Roma omnibus simulacris, Rhadagaysus rex Gothorum cum ingenti exercitu etc.
30. S. Hier., Lib. II, adv. Jovinianum verso la fine: Squalet Capitolium, templa Jovis et caeremoniae conciderunt. Il Nardini (R. Ant., II, p. 332) ne conclude con troppa precipitazione che il tempio di Giove ai tempi di san Girolamo già fosse caduto in rovina, e ne attribuisce la distruzione ai Goti. Il passo da lui citato non è che rettoricume poetico, come usa lo stesso Hieronim., Ep. CVII ad Laetam (dell’anno 403), (Ed. Verona I, p. 672): auratum squalet Capitolium. In senso simile trovo usata la frase squalere in Claudiano (De VI cons. Honor., v. 410), allorchè parla del Palatium che gl’Imperatori avevano abbandonato:
Cur mea quae cunctis tribuere Palatia nomen
Neglecto squalent senio?
Anche nel Proemio del Libro II del Commento alla lettera ai Galati, dice S. Girolamo: vacua idolorum templa quatiuntur.
31. S. Hieronim., Ep. CVII, ad Laetam de institutione filiae, T. I, p. 642. In questa lettera rettorica sono dati precetti ad una pia dama di Roma sul modo di educare una figlia.
32. Claudian., De VI cons. Honor., v. 42 sq. Sotto il nome di Regia, il Poeta significa il palazzo dei Cesari, e pei Rostra intende il Foro, com’è voluto dal senso di tutta la descrizione presa in generale. È pars pro toto.
33. Procop., De bello Goth., IV, 22.
34. Gruter, p. 100-6. Beugnot, Histoire de la destruction du Paganisme en Occident, I, p. 106.
35. Cod. Theodos., Lib. XV, tit. I, De operib. publicis. Tit. I, n. 11. — Impp. Valentinianus et Valens etc. etc. ad Symmachum P. U., n. 19. — Impp. Valens, Gratiannus et Valentinianus ad Senatum, n. 15. — Impp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius Proculo P. U. Constant. — Altri Editti promulgarono Onorio ed Arcadio. — Cod. Justin., VIII, Tit. X, De aedif. privatis. Tit. XII, De operib. publicis. Tit. XVII, De sepulchris violatis.
36. De Paganis sacrificiis et templis, Lib. XVI, Tit. X, n. 2. Imp. Constantinus etc. ad Catullium P. U. I piaceri furono l’ultima molla della potenza politica di Roma.
37. Marangoni, Cose gentilesche ec., p. 227 e seg.
38. Relatio Symmachi, L. X, ep. 54. Il Beugnot ha un bel capitolo su questo triste episodio di storia, Liv. 8, chap. 6. Si veda anche il Gibbon, Cap. 28. In risposta alla relazione di Simmaco s. Ambrogio scrisse la sua epistola a Valentiniano (ann. 384). I due documenti veggonsi nel Tom. I di Prudenzio, (Parma 1788). Ed anche Prudenzio si fè, nell’anno 403, a confutare Simmaco con due libri di poesie adversus Symmachum. Ben dice s. Ambrogio con sobrio discorso: Quid mihi veterum exempla proferitis? odi ritus Neronum. — Non annorum canities est laudanda sed morum.
39. Zosimus, V. c. 38.
40. Claudian., De Cons. Stilich., III, v. 201. sq.:
O palma viridi gaudens et amicta tropaeis
Custos imperii virgo etc.
De VI cons. Honor., v. 597, sq.:
Adfuit ipsa suis ales victoria templis
Romanae tutela togae etc.
41. Prudentius, Advers. Symmach., II, v. 443-446:
Quamquam cur Genium Romae mihi fingitis unum? etc.
S. Hieron. Comment., in Isaiam, IV, p. 672. — Beugnot, II, p. 139: «on a donc raison de dire, que pendant le jour comme pendant la nuit, l’aspect de Rome devait être celui d’une cité où l’ancien culte dominait.» Oggidì è la costumanza di accendere lampade dinanzi le imagini della Vergine come un tempo solevasi innanzi gli Dei Lari.
42. Già nell’anno 399, Arcadio ed Onorio avevano promulgato per le province d’Africa l’Editto: Aedes inlicitis rebus vacuas nostrarum beneficio sanctionum ne quis conetur evertere, decernimus enim, ut aedificiorum quidem sit integer status. De Pagan. sacrif. et templis, Lib. XVII, Tit. X, n. 18. — Al n. 19, segue l’Editto degno di nota di Onorio e di Teodosio II, dato nell’anno 408, sotto il consolato di Basso e di Filippo: Templorum detrahantur annonae, etc.
43. Si veda l’Editto: Omnibus sceleratae mentis paganae exsecrandis, e i commenti di Gotofredo alla parola destrui.
44. Prudent., Cathemerinon Hymn., XII, v. 201.
45. La ragna (che in Roma era considerata ente portentoso), avrebbe meritato l’onore di un tempio sotto Eliogabalo. Mi ricorda di aver veduto nelle terme di Caracalla una bellissima testa di Apollo intorno alla quale uno di quegli insetti aveva ordito la sua tela, in modo che sembrava che vi si fosse gettato sopra un velo d’argento.
46. Incerti Tempor. demonstrationes, seu originum Constant. in Combefis, Orig., p. 29. Codinus, De origin., p. 51, narra che Costantino tolse dal Palatium di Roma la statua della Fortuna.
47. Prudent., Contra Symmachum, I, v. 502 sq. Il Fea (Sulle rovine di Roma, p. 279) cita S. Ambros., Epist. 18, n. 31, T. III, p. 886 B, ove quel Padre dice a Valentiniano: non illis satis sunt lavacra, non porticus, non plateae occupatae simulacris?
48. Zacharia scrisse in lingua siriaca un catalogo dei monumenti di Roma, di cui Angelo Mai publicò la traduzione latina: Script. vet., T. X, praef., p. XII-XIV. Zacharia attinse lumi da relazioni più antiche, e dal catalogo aggiunto alle Descrizioni delle Regioni. La notizia del numero delle statue merita fede se si paragoni con quanto scrive Cassiodoro. Zacharia enumera: Fontes aquam eructantes MCCCLII, e signa aenea MMMDCCLXXXV imperatorum aliorumque ducum. Di più parla di XXV statue di bronzo, che, dice il cronista, riferivansi ai tempi di Abramo e di Davide, e che erano state recate a Roma da Vespasiano. Questa fola mi persuade che lo scrittore vivesse ai tempi di Belisario.
49. Anastasius Bibl. in vita s. Clementis: hic fecit septem regiones dividi notariis fidelibus ecclesiae, qui gesta martyrum sollicite, et curiose unusquisque per regionem suam diligenter perquirerent. — Vita s. Evaristi: hic titulos in urbe Roma divisit presbyteris, et septem diaconos constituit, qui custodirent episcopum praedicantem propter stylum veritatis. Verso l’anno 238, Fabiano deve avere aggiunti sette Suddiaconi, e dopochè, nei tempi posteriori al vescovo Cajo, fu cresciuto il numero dei Diaconi, san Silvestro deve avervi preposti i sette Cardinali diaconi. Martinelli, Roma ex ethnica sacra, c. 4.
50. Ciò è confermato da una iscrizione della Roma Subterranea, II, lib. IV, c. 25.
51. Il Nardini (Roma Ant., I, p. 125, sq.) tentò di determinare i confini delle sette Regioni ecclesiastiche. Egli crede che ricevessero l’organamento da san Silvestro. Il Bianchini nel II Vol. della sua erudita edizione di Anastas. Bibl., appendix de regionibus urbis Romae (p. 137-140), tenta di trarre la notizia delle sette Regioni principalmente da un passo importante della vita di san Simplicio (intorno l’anno 464), dal quale traggo questo cenno: Regionem III ad s. Laurentium, Reg. I ad s. Paulum, Reg. VI et VII ad s. Petrum.
52. Anastas. Bibl., vita s. Pii. A torto le antiche Vitae dei Papi sono attribuite ad Anastasio, bibliotecario del tempo di Nicolò I. Questo libro prezioso (Liber Pontificalis), composto delle notizie desunte dagli antichi Archivî ecclesiastici, e dei Gesta pontificum, si stendeva fino al secolo nono con differenti recensioni. Il Liber Pontific. comprende i tempi da s. Pietro a Nicolò I (morto nell’anno 867): i gesta di Adriano II e di Stefano VI vi furono aggiunti dal Bibliotecario Guglielmo (vedi le osservazioni del Panvinius al Platina, sulla fine della vita di Nicolò I). I più eruditi editori del Liber Pontific. sono i veronesi Francesco e Giuseppe Bianchini, che, dietro le orme dell’Holstenius e dello Schelestrate, lo trassero alla luce compulsando parecchi cataloghi e recensioni. Le loro annotazioni sono di alto pregio anche per la topografia di Roma (II ediz., Roma, 1731). Non parlo dell’edizione di Magonza dell’anno 1602, nè di quella di Parigi fatta dal Fabrotto nel 1647. L’edizione più corretta fu quella curata da Giovanni Vignoli (Roma 1724, 3 Vol. in 4.º).
53. Il Davanzati (Notizie della basil. di s. Prassede, Roma 1725), sostiene fermamente che san Pietro ponesse sua prima dimora nella casa di Pudente, che colà egli fondasse la chiesa del titolo Pudentis, e che questa sia l’odierna chiesa di santa Prassede. — Santa Pudentiana sarebbe stata innalzata più tardi da Pio I, nelle terme di Novato. Afferma invece il Martinelli (Primo trofeo della Croce), che l’antichissima chiesa di Roma edificata da s. Pietro sia quella di santa Maria in via Lata. Devo osservare con rammarico che una delle difficoltà massime del mio lavoro consista nella fatica di leggere sì grande numero di monografie, le quali nulla contengono di sodo in mezzo a un viluppo di gonfie frasi e di vane ricerche che costringono lo Storico a gettarle con dispetto da sè.
54. In questa descrizione io seguii il Liber Pontificalis messo a paragone cogli scritti dell’Ugonio, del Martinelli, del Marangoni, del Severano, del Panciroli, del Panvinio ec.
55. Nel 1595 si trovarono in prossimità del Laterano, due tubi di piombo coll’iscrizione: Sexti Laterani. — Sexti Laterani M. Torquati et Laterani. Vedasi Marangoni, Istoria della cappella Sancta Sanctor. di Roma, c. I, p. 2.
56. Intorno alla storia della chiesa di s. Giovanni in Laterano si veda Anastas., vita s. Silvestri. San Silvestro si dice avere consecrato addì 9 di Novembre quella chiesa. Non è fatta descrizione della sua forma nel Liber Pontif. Nel Mabillon, Museum Ital. T. II, p. 560 sq., è data dal diacono Giovanni la descrizione della basilica, ma qual era nell’anno 1260. Per la storia di tutti gli edificî eretti da Costantino può consultarsi il Ciampini, De sacris aedificiis. Si veda anche A. Valentini, Basilica Lateranense descritta ed illustrata (Roma 1839).
57. Alcune iscrizioni riferentisi a taurobolii ed a criobolii, che usavansi pel culto di quella Divinità, furono trovate negli scavi praticati nel secolo decimosettimo nei lavori della basilica. La più recente di quelle iscrizioni è dell’anno 390. Vedi il Beugnot, I, p. 159 e seg. — Prudenzio (nato verso il 348), in un suo inno a san Romano, descrive gli orribili sacrificî di vittime umane, che celebravansi ancora a quel tempo.
58. La descrizione più antica del san Pietro si trova nel codice vaticano 3627 del canonico Pietro Mallio (della seconda metà del secolo duodecimo), intitolato: Historia Basilicae antiq. s. Petri; scritto pregevolissimo per la storia di Roma nel medio evo, che l’autore dedicava ad Alessandro III e che fu edito dal De Angelis in Roma nel 1646, e più correttamente nei Bollandisti, Acta Sanctorum, T. VII, Junii, p. 37-56. Dopo quello scritto, è degno di nota l’altro di Maffeo Vegio, che fu pur canonico in s. Pietro (morto nel 1457), intitolato: De rebus antiquis memorabil. Basil. s. Petri, in quattro libri, stampato nell’istesso volume dei Bollandisti, V. p. 61 e seg.
59. Il piano e la misura dell’antica basilica sono dati dal Bonanni, p. 12 e seg., dietro le notizie dell’Alfarano, del Severano, dell’Oldini ec. La chiesa odierna è lunga ottocentoventinove palmi e mezzo, e la sua altezza massima fino alla estremità della croce è di cinquecentonovantatre palmi.
60. Antiquae vatican. Basil. a Constantino Max. fabrefactae facies exterior, apsis, et muri extremi, ac illi super columnis surgentes, qui tecta gravi pondere sustinebant e laterum, tophorumque fragmentis, circo, adjacentibusque aedificiis eversis, celeri opera, rudique arte aedificati fuerunt etc. Compendio del Grimaldi nel Martinelli, p. 345, e nel Nardini, III, p. 355. Il Severano riporta un’iscrizione dei tempi di Trajano che deve essere stata sopra una delle grandi colonne dell’arco trionfale, e il Torrigio (Le sacre grotte Vat., p. 111), narra, che sulla base di marmo della grande croce posta sulla fronte del tempio, fosse scritto in greco il nome di Agrippina. Nel secolo nono, Leone IV fece collocare a ornamento di una finestra della torre una piccola colonna sulla quale era iscritto in lingua greca il memorabile voto a Serapide, che il Torrigio trascrisse (pag. 110).
61. Varianti dei testi: regalem e regalis. La lezione regalis è da preferirsi ad ogni modo all’altra regali. Si paragoni la bellissima spiegazione del Bunsen, a. a. O., pag. 88. Domus è l’arca oppure la cella mortuaria, e aula è la basilica stessa.
62. Egli è incerto se questo epigramma fosse sotto il musaico antico, oppure sotto quello più recente, del tempo di Adriano I. Andrea Fulvio (III, p. 84, trad. ital. del Rossi), lo trascrisse quando rovinava la tribuna antica.
63. Prudentius, Peristeph. XII, Passio Beator. Apostolor. Petri et Pauli, v. 31-44.
64. S. Paulin., Epist. XXXIII, ad Alethium (ediz. di Anversa, p. 289).
65. Ammian. Marc., XXVII, c. 11, scrive di Probo: Claritudine generis et potentia et opum amplitudine cognitus orbi Romano, per quem universum paene patrimonia sparsa possedit, juste an secus non judicio est nostri — E: marcebat absque praefecturis. Il sarcofago di G. Basso è nelle grotte vaticane; quello di Probo presso la cappella della Pietà nella chiesa odierna di san Pietro. Maffeo Vegio vide ancora il Templum Probi, prima che Nicolò V ordinasse che fosse distrutto, e potè conservare memoria delle iscrizioni di Probo e di Proba. Vedi la sua Histor. Bas. Ant. S. P. IV, 109, 110.
66. Prudent., Hymn. XII:
Ibimus ulterius, qua fert via fontis Hadriani,
Laevam deinde fluminis petemus.
67. Baron., Annal. Eccl., a. 386, riporta il rescritto, tratto da un Codice vaticano.
68. La iscrizione posta sul musaico dell’arco trionfale diceva:
Theodosius cepit, perfecit Honorius aulam
Doctoris mundi sacratum, corpore Pauli.
69. Ugonio, etc., p. 235.
70. Sopra l’arco leggesi questo epigramma:
Placidiae pia mens of eris decus Homn.... (omne paterni)
Gaudet Pontificis studio splendore Leonis.
71. Prudent., Peristephan., Hymn. XII, v. 45-54. Per avere notizie generali intorno la basilica si veda: N. M. Nicolai, Della basilica di s. Paolo, Roma 1815. La bella chiesa aveva conservato la sua forma antica fino al 17 di Luglio 1823, in cui per incendio rovinò. Dopo di Leone XII, si diè opera alla sua riparazione conservandosene il disegno nella parte essenziale, ma variando sempre negli accessorî. Mentre io scrivo, si attende ad ornare dei loro fregi i soffitti interni. Sono di forma più elegante, ma non così elevata e ricca com’era la forma di quelli celebrati da Prudenzio. Nel complesso tutto vi è freddo e scipito come il nostro tempo.
72. Prudent., Peristephan., Hymn. XI, v. 195, sq.
73. Anast. Bibl. in Damaso: Hic fecit basilicas duas: unam juxta theatrum sancto Laurentio. Lorenzo Fonseca vescovo di Jesi, scrisse la storia di questa mirabile chiesa: De basilica s. Laur. in Dam. libri tres, Fani 1745. Durante il sacco di Roma (1527), le soldatesche del Borbone misero a ruba l’antico archivio della chiesa, per la qual cosa pochi libri ne rimasero. Non ne potei trarre che ben poco, all’infuori della iscrizione per la consecrazione di Damaso.
74. Anast. in vita Sixti III: Fecit autem basilicam beato Laurentio, quam et Valentinianus Augustus concessit.
75. Questo fatto notabile scoperse il Bottari (Vedi Bunsen ec. III, 2, pag. 452). — Giovanni Ciampini, De sacris aedif. a Constant. costructis., c. 10, accoglie l’opinione che la Rotonda fosse un tempio di Bacco che Costantino tramutò in cappella cristiana. Il Laderchi se ne fece oppositore nella sua Storia della Basilica dei santi Marcellino e Pietro.
76. Vedi l’annotazione del Nibby al Nardini, R. A., II, 12. — Don Raimondo Besozzi (Storia della Basil. di s. Croce in Gerus.) sostiene che il nome di Gerusalemme vi derivasse perchè s. Elena vi aveva fatto trasportare alcuni cumuli di terra dal monte Calvario (p. 26). Questa monografia è priva d’importanza.
77. Jacobi Laderchii, De Sacris Basil. ss. Martyr. Marcellini Presb. et Petri Exorcista Diss. Hist. Rom., 1705.
78. Juxta Pallacinas, è la lezione da preferirsi nel Lib. Pontif., in Vita s. Marci. Il Platina legge ad Palatinas, e l’Ugonio (p. 156 sq.), crede che si accenni al portico del Palatium. Afferma il Vignoli, che se n’abbia a trarre il nome dal circo Flaminio, che nei primi tempi barbarici era detto erroneamente Palatium. Dalla iscrizione 97 che trovasi nel De Rossi, ricavasi che in quella regione fosse un luogo appellato Pallacina.
79. Anastas., Vita s. Liberii: hic fecit basilicam nomini suo juxta macellum Liviae. E nella Vita s. Sixti III: hic fecit basilicam s. Mariae, quae ab antiquis Liberii cognominabatur, juxta macellum Liviae.
80. Anast., in vita s. Calixti: Hic fecit Basilicam trans Tiberim. Il nome addiettivo s. Mariae, che trovasi nel Vignoli, manca nei codici migliori. Il Martinelli, Roma ex ethn. sacr., p. 247, nega che la basilica fosse edificata da Calisto. Lo afferma invece senza provarlo l’Ugonio, p. 136, e dice, che è la più antica delle chiese di Roma dedicate alla Vergine. Potrà essere. Nella Vita s. Julii dice il Liber. Pontif.: fecit basilicam Juliam, juxta forum divi Trajani, basilicam Transtiberina regione XIV, juxta Callistum. Dal Titulus Julii deve distinguersi la Basilica Julia, che troveremo più tardi nel Laterano.
81. Hieron., De viris Illustr., c. 15: obiit tertio Trajani anno, et nominis ejus memoriam usque hodie Roma extructa Ecclesia custodit. La storia di questa celebre basilica scrisse Rondininus: De s. Clemente Papa et Martire, ejusque Basilica in urbe Roma, libri duo. Romae, 1706.
82. Claudian., De VI, Cons. Honor.
83. Cod. Theodos., Lib. XV, Tit. 12, n. 1. Cruentia spectacula in otio civili et domestica quiete non placent etc. — La narrazione del Baronio che Onorio restituisse i giuochi di gladiatori con tutta la pompa, fu contraddetta dal Muratori e dal Pagi, ad ann. 404. Del sacrificio di Telemaco e della proibizione dei giuochi parla Theodoret., Eccl. Hist., V, c. 26.
84. Cassiodor., Var., Lib. V, 24.
85. Il cippo della statua di Stilicone, fu rinvenuto negli scavi fatti non lungi dal tempio della Concordia. Lucius Faunus, De antiq. urb. R. cart. 40, ne riporta la iscrizione pomposa. La iscrizione posta sull’arco trionfale trovasi nel Gruter, p. 287, tratta dal Cod. di Einsiedeln; e colle correzioni del De Rossi, leggesi nello scritto di quest’ultimo intitolato: Le prime raccolte d’antiche iscrizioni compilate in Roma etc. Roma, 1852, p. 121. È opinione del De Rossi, che l’arco di trionfo fosse eretto non lungi del ponte di Adriano. Nessuna notizia ci pervenne della sua posizione: è possibile però che esso fosse colà, imperocchè ivi si trovasse anche un arco eretto ad onore degli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio. Era ormai abbastanza ridicola la superba frase: ad perenne indicium triumphorum quib. Getarum nationem in omne aevum domuere extinctam.
86. Claudian., De laudib. Stilichonis, lib. III, ne lo loda.
87. Non est ista pax, sed pactio servitutis. Zosimus, V, c. 29.
88. Theophan., Chronogr., p. 69: τούτῳ τῷ ἔτει ἐν Ῥώμῃ ἐμυκήθη ἡ γῆ ἐπὶ ἡμέρας ἐπτὰ. Il Gibbon racconta tutte le circostanze della caduta di Stilicone coll’ingegno d’un tragedo, ma che toglie imparzialità allo storico. All’eroe di guerra mancava il genio dell’uomo politico.
89. Con acre livore dice Rutilio poeta pagano (v. 41):
Quo magis est facinus dire Stilichonis acerbum
Proditor arcani quod fuit imperii etc.
90. Claudian., De bello Getico, v. 549, sq. Sozomen., IX, c. 6. Baronius, ad ann. 409. Socrates, Hist. Eccl., VII, c. 10: ἄπιθι τὴν ῥωμαίων πίρθησον πόλιν.
91. Lactantius, Divinar. Institut., VII, c. 25.
92. Claudian., De bello Get., v. 265:
Tunc reputant annos, interceptoque volatu
Vulturis, incidunt properatis saecula metis.
93. Zosimus, V. c. 41. Sozomenus (greco e novaziano), V. c. 7.
94. Zosimus, V, 50.
95. Il Vaillant, Numismata, III, p. 154, dà il disegno della grande moneta d’argento di Attalo, colla iscrizione: Invicta Roma Aeterna. Roma seduta sul leone tiene sulla destra mano la Vittoria, e colla sinistra impugna la lancia. Anche nelle monete di Graziano è incisa l’imagine di Roma senza il Labaro, colla Vittoria e colla lancia.
96. Ammian. Marcell., XIV, VI, 4, sq. e XXVIII, IV, 6, sq.
97. Εἷς δόμος ἄστυ πέλει: πόλις ἄστεα μυρία τεύχει. Olimpiodoro scriveva dopo che Alarico ebbe saccheggiata Roma. Fozio diede un compendio dei 22 libri delle sue Storie, che dal settimo consolato di Onorio si stendono fino ai tempi di Valentiniano (p. 198, sq.).
98. Vedi Gibbon, c. 31.
99. De Civitate Dei, I, c. 32.
100. Baron., Annal. a quell’anno.
101. Ammian. Marcell., XXVII, c. 3. — Sordidae vestes candidae mentis indicia sunt, dice san Gerolamo animato da zelo monacale (ad Rusticum, ep. 123, c. 7).
102. Si legavano i libri della Sacra Scrittura in pelle babilonese, ricca di bei fregi. Così Hieron., Ad Laetam, ep. 107, n. 17, dice: Codices amet, in quibus non auri et pellis Babylonicae vermiculata pictura placeat.
103. Veredarius urbis — et altili geranopepa, quae vulgo pippizo nominatur. Ep. 22, ad Eustochium, c. 28. I diaconi avevano in Roma grande parte nelle faccende mondane perchè erano gli amministratori dei beni ecclesiastici. Si legga il Baronio, ad ann. 402, dov’è costretto a mostrarne il lato cattivo.
104. Ep. 123, c. 10, ad Ageruchium.
105. Questi tratti ho ricavato da parecchie lettere di san Gerolamo, quali Ep. 22, ad Eustochium; Ep. 123, ad Ageruchium, che è la più importante; Ep. 125, ad Rusticum; Ep. 147, ad Sabinianum (ch’era un Don Giovanni tonsurato) ecc.
106. Il breviario del Curiosum Urbis, dice: Insulae per totam urbem XLVIDCII, Domos MDCCXC. Il breviario della Notitia: Insulae XLVI milia sexcentae duae e domos mille septingentae nonaginta VII. Il breviario di Zacaria numera: Dom. 46603, palat. 1797.
107. Il Dureau de la Malle da confronti con Atene, con Parigi e con Roma, ha stabilito che la capitale del mondo sotto gl’Imperatori, fino al tempo di Aureliano, comprendesse una popolazione di 576,738 anime al massimo. Per la qual cosa le narrazioni del Vossio, del Lepsius, del Gibbon, sono cacciate tra i racconti delle Mille e una notti. Vedi Économie politique des Romains (Paris, 1840), I, liv. 2, c. X, sq.
108. Procop., De bello Vandal., I, 2. Da quel passo possiamo dedurre che a’ tempi di Procopio i Senatori fossero trecento.
109. La Historia Miscella dice: captaque est Roma IX Kal. Septemb. anno MCLXIV conditionis suae. — Theophan., Chronogr., p. 70: Πρὸ θ’, καλανδῶν Σεπτεμβρίου. — Il Pagi, che il Muratori segue ciecamente, tenta di dimostrare che la presa di Roma avvenisse nell’anno 409. Al 410 s’attengono il Baronio, il Gotofredo, il Sigonio, il Tillemont, il Gibbon ed i più recenti. Al signor De Rossi vo debitore di un argomento che mi fa accogliere come vero l’anno 410. Dai suoi materiali per una raccolta d’iscrizioni cristiane abbiamo ricavato: che dai tempi di Costantino fino al 409, si trovano ad ogni anno iscrizioni consolari, e, ad esempio, all’anno 405 si trovano 18 iscrizioni; al 406, 11; al 407, 9; al 408, 7; al 409, 6. All’anno 410, neppur una; e ciò dimostra che quello deve essere stato l’anno dei torbidi interni e della caduta della Città, non avendosi saputo quali nomi di Consoli porre nelle iscrizioni sepolcrali. La progressiva restaurazione dell’ordine conosciamo mirabilmente dalle iscrizioni consolari che di nuovo si rinvengono. Infatti all’anno 411, se ne trova 1; al 412, 1; al 413 ed al 414, nessuna; al 415, 1; al 416, nessuna; al 417, forse una; al 418, 1; al 419, 3; al 420, 2; al 421, nessuna; al 422, 3; al 423, 4; al 424, 5; al 425, 4; al 426, 6; al 427, 4; al 428, 4.
110. Hieronim., Ep. 127, ad Princip., p. 953: Nocte Moab capta est, nocte cecidit murus ejus.
111. Tacitus, Hist., c. 82, dove descrive la pugna dei soldati di Vespasiano coi Vitelliani: qui in partem sinistram Urbis ad Sallustianos hortos per angusta et lubrica viarum flexerant.
112. Una prima traccia di tali leggende troviamo già nel Curiosum Urbis, Regio XIV, dove è detto: Herculem cubantem sub quem plurimum aurum positum est.
113. In Fozio, pag. 180.
114. Orosius, V, c. 39.
115. Hieron., Ad Principiam, Ep. 127, n. 12: caesam fustibus flagellisque ajunt non sensisse tormenta: sed hoc lacrymis, hoc pedibus eorum prostratam egisse, ne te a suo consortio separarent. Marcella morì pochi giorni dopo l’assedio. San Gerolamo esclama con Virgilio:
Quis cladem illius noctis, quis funera fando
Explicet, aut posset lacrymis aequare dolorem?
Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos;
Plurima perque vias sparguntur inertia passim
Corpora, perque domos; et plurima mortis imago.
116. Nicephorus, Eccl., Hist. XIII, c. 35.
117. Orosius, V, c. 39. S. Agostino (De Civitate Dei, nel primo Capitolo) tributa lodi ai Goti, e con gran fervore parla del trionfo di Cristo di cui tiene discorso anche Cassiodor., Variar., Lib. XII, ep. 20. Il Baronio difende il pio Onorio dell’accusa che per sua colpa Roma cadesse, e si scaglia in quest’occasione contro gl’idolatri che già da lungo tempo erano morti.
118. Procop., I, 2, De bello Vandal.: Ῥωμαίων τοὺς πλείστους διαφθεῖραντες, locchè è troppo esagerato. Isidorus, Chronic. Gothor.: sicque Roma irruptione atque impetu magnae cladis eversa est. — Philostorg., Hist. Eccles., XII, c. 3, dice che la Città fu messa a ferro e a fuoco, e che i cittadini furono tratti in ischiavitù. Similmente Hieronim., Ad Principiam; August., De Civit. Dei, I, c. 3, 12, 13.
119. August., De Civit. Dei, III, c. 29. Orosius, II, c. 19. Questo scrittore fa allusione alla Civitas Dei, nello scritto in cui si propone lo scopo istesso del libro di santo Agostino. Solo Socrate, Hist. Eccles., VII, c. 10, parla di «molti» Senatori martoriati ed uccisi, e la Historia Miscella lo ripete sulla fede di lui.
120. Isidor., Chron. Gothor.: post tertium diem quo Romam ingressi sunt, nullo hoste cogente, sponte discedunt. Orosius, II, c. 19 e VII, c. 39. Histor. Misc. Il solo Marcellinus, Chronic. apud Sirmond., II, p. 356, parla di sei giorni, e questa versione segue Benedetto da Soratte: Alaricus trepidam urbem Romam invasit — sextoque die quam ingressus fuerat depraedata urbe egressus est. Che Alarico traesse con sè prigioni romani, è dimostrato dall’iscrizione esistente sulla tomba di Dionisio diacono e medico, che leggesi nel Gruter, 1173, n. 3:
Hic Levita jacet Dionysius artis honestae
Functus et officio quod medicina dedit ec. ec.
Postquam romana captus discessit ab urbe
Mox sibi jam Dns subdidit arte getas ec. ec.
121. Procop., De bello Vandal., I, 2: ἔν αἶς ἧν καὶ ἡ Σαλουστίου — ᾗς δὴ τὰ πλεῖστα ἠμίκαυτα καὶ ἔς ἑμὲ ἕστηκε.
122. Socrates, Hist. Eccles., XII, c. 10: Τὰ μὲν πολλὰ τῶν θαυμαστῶν ἐκεινῶν θεαμάτων κατέκαυσαν. Ciò è ripetuto anche nella Histor. Miscella, e in Cassiodor., Hist. Eccles. tripart., II, c. 9. (T. I, p. 368, Opera). Philostorg., Hist. Eccl., XII, C. 3: ἐν ἐρειπίοις δὲ τῆς πόλεως κειμένης. S. Hieron., Ep. XVIII, ad Gaudent., p. 959 (ediz. di Verona): Urbs inclyta, et Romani imperii caput, uno hausta est incendio. Questa lettera fu scritta nell’anno 413.
123. Jornand., De reb. Get., c. 30. Alarico jubente spoliant tantum: non autem, ut solent gentes, ignem supponunt. Un passo che trovasi in Marcell., Com. Sirmond., T. II, p. 356, dice con espressione più moderata e più giusta: Alaricus trepidam urbem Romam invasit, partemque ejus cremavit incendio. Ancor più mite è l’opinione di Battista Ignazio, sulla fine della storia di Zosimo: Intromissus Gothus majori ignominia quam damno urbem omnem depopulatur.
124. Orosius, Hist., II, c. 19, p. 143.
125. Facto quidem aliquantarum aedium incendio, sed ne tantum quidem etc. Orosius, ultimo lib., c. 39. Si veda anche il Sigonio, De occid. Imper., X, verso la fine.
126. Pietro Barga, nel 1656, publicava uno scritto intitolato: De Privatorum publicorumque aedificiorum urbis Romae evasoribus, in cui egli cercava di distruggere le accuse lanciate contro i Barbari. Egli tributa grandi lodi ad Alarico (p. 15). In quello però che risguarda l’arte, il Barga è più barbaro dei Vandali. Il Tiraboschi, Storia della Letteratura, Tom. III, non è meno caldo difensore dei Barbari, ed il Fea è più profondo dei due. Può ben provarsi, egli dice, che non s’abbiano portata quella devastazione che crede il volgo (p. 268).
127. Rutilii Claudii Numatiani, Itinerarium ad Venerium Rufium. Il Poeta abbandonava il carico di prefetto della Città nell’anno 417, e se ne tornava nelle Gallie sua patria. Quell’inno sgorgando dal suo animo commosso, è simile alla voce d’un cigno che lamentoso abbandona le sponde del Tevere e batte le ali al suo viaggio di migrazione:
Exaudi regina tui pulcherrima mundi
Inter sidereos Roma recepta polos.
Exaudi genitrix hominum, genitrixque deorum,
Non procul a coelo per tua templa sumus.
128. Hieron., T. V, Op. ad Eustochiam, che serve d’introduzione ai suoi Commenti su Ezechiello.
129. Haeret vox et singultus intercipiunt verba dictantis. Capitur Urbs quae totum cepit orbem — è rettoricume che non rende bene la nostra lingua. Ep. 127, ad Princip., I, p. 953. — Nel concitamento del suo discorso egli congiunge alcuni passi d’Isaia colla descrizione di Virgilio della caduta di Troja. Vedi anche Ep. 130, ad Demetriadem, p. 973, sq.: Urbs tua, quondam orbis caput, Romani populi sepulchrum est, ed a pag. 974 egli parla con amplificazione da retore di Romanae urbis cineres. Prospero Tiro, contemporaneo, dice nel Chron. che leggesi nel Canisio, T. I: Roma, orbis quondam victrix, a Gothis, Halarico duce, capta.
130. Procopio narra questo aneddoto caratteristico nella sua storia De bello Vand., I, 2.
131. Augustin., De urbis excidio. Opera, T. V, p. 622-628. Ediz. di Venezia, 1731.
132. S. August., De Civitate Dei, I, c. 7: quidquid ergo vastationis, trucidationis, depraedationis, concremationis, afflictionis in ista recentissima Romana clade commissum est, fecit hoc consuetudo bellorum. E il Serm. 107, de verb. Ev. Luc., 10, n. 13; 11, n. 12.
133.
Unum, mira fides, vario discrimine portum
Tam prope Romanis, tam procul esse Getis, v. 335.
134. Jornand., De reb. Get., c. 81. Qui suscepto regno revertens iterum ad Romam, si quid primum remanserat, more locustarum, erasit.
135. Narrano con qualche esagerazione dello sbarco e della sconfitta di Eracliano Orosius, VII, c. 42 e Idacius, Chron. apud Sirmond, ed anche Marcellinus Comes.
136. Prosper Aquit. Chron.: Honorius triumphans Romam ingreditur, praeeunte currum ejus Attalo, quem Lyparae vivere exulem jussit. Degna di lode è questa mitezza d’animo.
137. Vi si riferisce la Descriptio urbis Romae, quae aliquando desolata nunc gloriosior piissimo Imperatore restaurata, che trovasi nel Labbe e nel Panciroli. — Philostorg., XII, n. 5: Μετὰ ταῦτα δὲ καὶ ἡ Ῥώμη τῶν πολλῶν κακῶν ἀνασχοῦσα συνοικίζεται καὶ. ὅ βασιλεὺς αὐτῇ παραγεγονὼς, χειρὶ καὶ γλώττῃ τὸν συνοικισμὸν ἐπικρότει. — Nicephorus, Eccl. Hist., XIII, c. 35. — Orosius, VII, c. 40, dice che la Città in breve fu restituita in isplendore: irruptio urbis per Alaricum facta est: cujus rei quamvis recens memoria sit, tum si quis ipsius populi Romani et multitudinem videat et vocem audiat, nihil factum, sicut etiam ipsi fatentur, arbitrabitur, nisi aliquantis adhuc existentibus ex incendio ruinis forte docentur. È passo degno di nota.
138. Olimpiodoro in Fozio, pag. 187.
139. Rutilius, V, 115-165. Egli chiude quella calda apostrofe con questi versi pieni d’affetto.
His dictis iter arripimus, comitantur amici:
Non possum sicca dicere luce: vale!
140.
Sedes Roma Petri: quae pastoralis honoris
Fucat caput mundo, quicquid non possidet armis,
Relligione tenet.
Versi di Prospero d’Aquit., Bibl. Max., VIII, 106. a, nel Beugnot, II, pag. 115 in nota.
141. Secondo Eusebio, san Pietro sarebbe venuto in Roma nel secondo anno di regno dell’imperator Claudio, ma gli Atti degli Apostoli contraddicono a questa asserzione, e il Liber Pontificalis e Lattanzio narrano ch’egli venisse nella Città ai tempi di Nerone. Si crede che l’Apostolo abbia tenuto il seggio vescovile da lui fondato, per un periodo di 25 anni, ma la sana critica rigetta questo fatto, imperocchè essa attribuisca al primo pontefice di Roma 10 anni al più, cioè il periodo dall’anno 55 al 65, nel quale, morto l’Apostolo, succedette Lino. Vedasi Francesco Pagi, Breviar. Gestor. Pontif. Roman., dove parla di san Pietro.
142. Baronius, Annal., Muratori, Annal., e Pagi, Critica a quell’anno.
143. Muratori, Annal., ad ann. 425.
144. Il Gruter, 1170, n. 7, riporta l’antica iscrizione che leggevasi sulla porta maggiore della Chiesa:
Virgo Maria tibi Sixtus nova tecta dicavit
Digna salutifero munera ventre tuo.
Tu genitrix ignara viri; te denique foeta
Visceribus salvis edita nostra salus.
Ecce tui testes uteri sibi praevia portant
Sub pedibusque jacet passio cuique sua.
Ferrum, flamma, ferae, fluvius, saevumque venenum
Tot tamen has mortes una corona manet.
La chiesa era, nel secolo sesto, chiamata Basilica s. Dei Genitricis ad Praesepe, come apprendo da una narrazione degna di nota (di cui il De Angelis non si giovò), che, scritta verso la metà del secolo sesto, leggesi nel Marini, Papiri diplomatici, n. XCI, p. 142. Il Valentini (La Patriarcale Bas. Liberiana descritta ed ill., Roma, 1839) ne trasse la notizia che essa ricevesse questo titolo soltanto allora che vi venne deposta la mangiatoja del presepe dove nacque Cristo, che fu trasportata di Gerusalemme dopo l’anno 642. La critica sdegna occuparsene.
145. Nella cronologia dei musaici delle chiese io seguo Giovanni Ciampini: Vetera Monumenta in quibus praecipue Musiva opera etc., Romae, 1690. Che i musaici in santa Maria M. appartengano all’epoca di Sisto III, dimostra l’iscrizione posta sull’arco trionfale: Xystus Episcopus Plebis Dei. Non vi furono condotti restauri troppo rozzi.
146. Si trovano le descrizioni di quei musaici nella Dissertazione II di Francesco Bianchini, pag. 123 e seg., vol. I, della sua ediz. di Anastas., e nella Basilica Liberiana descr. ed illustr., Roma, 1839. Nove quadri che andarono distrutti furono sostituiti nel secolo decimosesto da pitture che imitano lo stile dei musaici.
147. Alcune di queste figure subirono più tardi alcuni mutamenti, e spetta alla storia dell’arte farne osservazione e spiegarne il fatto. Nel Manuale della Storia dell’Arte del Kugler si osserva erroneamente che i musaici dell’arco trionfale rappresentano «di preferenza argomenti tratti dall’Apocalisse», pag. 380, della bella versione italiana che ne ha publicato il valoroso Ab. Pietro dott. Mugna. Venezia, 1852.
148. Questo bel concepimento vidi espresso in un affresco della chiesa del Convento di s. Benedetto in Subiaco con felice imitazione del musaico. Sembra che appartenga al secolo duodecimo od al decimoterzo, in quell’epoca in cui vi dipingevano Consolo ed altri artisti.
149. Anastas., in s. Sixto III. Fastigium argenteum in basilica Constantiniana, quod a barbaris sublatum fuerat.
150. Hieron., Epist. 52 ad Nepotianum, c. 10. L’Agincourt nella sua Storia dell’arte si prese la cura di raccogliere un catalogo delle opere artistiche donate alle chiese dai Papi e dagli Imperatori dal quarto al nono secolo. Alla fine del Vol. I.
151. Prosper., Chron. ad ann. 443.
152. Gibbon, c. 35. Muratori, Annal. ad ann. 450.
153. Jornand., De Regnor. success., nel Muratori, T. I, P. I, p. 239, e De Reb. Get., 42. Prisco, scrittore contemporaneo (Excerpta de Legat., p. 39, 40) e Marcell. Com. narrano la storia di Onoria e delle relazioni di lei con Attila.
154. Negli Italiani moderni spira talvolta quell’odio puerile, ed anche uomini illustri quali il Ranieri (Storia d’Italia dal V al IX secolo, Brusselles, 1841), ed il Nicolini non ne sono del tutto scevri. Eglino avrebbero dovuto informarsi piuttosto all’imparziale discernimento del Muratori (V. Annal. ad ann. 482 verso la fine, ed in altri luoghi).
155. Hist. Misc., XV. In Cassiodor., Variar., Lib. I, ep. 4, è detto che fra i legati furono anche il padre di Cassiodoro e Carpilione figlio di Ezio. Jornand., De reb. Get., c. 42. Prosper., Chronic. ed il Liber Pontif. parlano dell’ambasceria.
156. Jornand., De reb. Getic., c. 42.
157. I Padri della Chiesa venerano gli Apostoli quali patroni di Roma: ad esempio s. Paolinus, Natal. XIII, Fragm. de Gothorum exercitus cum suo Rege interitu. Numi tutelari di Roma li chiama anche Cassiodor., Varior., XI, 13. — Quella leggenda è di origine assai più recente. Gli editori delle opere di Leone (Lugdun., 1700) asseriscono che la leggenda sia stata inserita nel Codice della Hist. Misc. edito da Giano Gruter, perocchè i Codici più antichi non la contengano. Si veda Dissert. I, de vita et reb. gestis s. Leonis M., p. 165 sq. nell’Appendice.
158. Marangoni, Cose Gentilesche, c. XX, p. 68. Torrigius, De Cryptis Vat. etc., p. 126, e Sacri Trofei Romani, p. 149. Bonanni, Templi Vaticani Historia, p. 107. Della statua del san Pietro avrò occasione di parlare nel Vol. II.
159. S. Leo. M., Sermon. in octava Apost. Petri et Pauli LXXXI. Il Muratori (ad ann. 455) afferma che s’incominciò a celebrare la festività dopo la ritirata dei Vandali. Quantunque gli Editori delle opere di san Leone asseriscano la stessa cosa, mi sembra più esatta la opinione del Baronio, che quel sermone si riferisca ad Attila. Io non credo che Leone dipingesse il terribile saccheggio dato dai Vandali colle semplici parole: qui corda furentium Barbarorum mitigare dignatus est, nè in quel caso egli avrebbe parlato di Roma salva dalla servitù. Il Papencordt (Geschichte der Vandal. Herrsch. in Afrika, Berlin, 1837) opina persino che quella predica fosse stata tenuta subito dopo la ritirata dei Vandali. Or come avrebbe potuto una città caduta in tanto squallore pensare ai giuochi del circo?
160. Questo Vescovo è Salviano di Marsiglia: De vero Judicio et provid. Dei, VII, p. 78. Gli oratori sacri di quel tempo ricavavano alti argomenti dalla storia politica. Ammiro l’ingegno del Gallo dove parla del riso sardonico dei Romani in mezzo a quel decadimento terribile: Sardonicis quodammodo herbis omnem Romanum populum putes saturatum. Moritur et ridet. — Procop., De bello Goth., IV, 24, fa alcune osservazioni sulle erbe sardoniche e sul riso. Salviano era di cuore più romano che l’africano Agostino, e la sua eloquenza scorre rapida e talvolta è anche elevata.
161. Della uccisione di Ezio parlano Victor Tunun. in Canisius, T. I; Prosper. Tiro; Prosper., Chron. Pithoean. ibid.; Procop., De bello Vand., I, c. 4; Idatius, Chron., in Sirmond., T. II.
162. Idatius, Chron.; Cassiodor., Chron.
163. Procop., De bello Vand. I, 4; Marcell. Com., Chron.; Nicephor. Callist., Hist. Eccl., XV, c. 11; Evagrius, Hist. Eccl., II, c. 7.
164. Cassiodoro narra che l’assassinio fu commesso nel campo di Marte, ma invece Prospero Tirone afferma essere avvenuto nel luogo appellato ad duas Lauros, ch’era situato innanzi a porta Nomentana. Oltre a quei cronisti sta scritto nella Hist. Misc., XV, e in Marcell. Com. Idatius, Chronic.: occiditur in campo, circumstanti exercitu — e similmente Vittore Tunun.: in campo Martio.
165. Fonti dalle quali si trae la narrazione di questi fatti sono: Procop., De bello Vand., I, c. 4; Evagrius, II, c. 7. — Nicephor., XV, c. 11, segue Evagrio ch’egli trascrive. — Marcell. Comes, Chronic.; Jornand., De Regni success., p. 127.
166. Prosper., Chron., ad ann. 455.
167. Hist. Misc., XV; Prosper., Chron.
168. Secondo la cronaca di Mariano Scoto, fu nel IV Idus Julii Feria III, ossia addì 12 di Luglio; e, seguendo questa opinione, il Muratori corregge il Pagi. Il Papencordt raccolse con somma diligenza tutte le varie opinioni degli Storici sul giorno in cui i Vandali presero Roma, ed accoglie come epoca presso a poco esatta quella dei 2 di Giugno. Vedi il supplemento IV della sua Storia dei Vandali.
169. Procop., De bello Vand., I, 5.
170. Che quei disegni esistenti sull’arco di Tito e principalmente la figura del candelabro non sieno stati tratti esattamente dagli originali, si pare da ciò che la prima e la settima asta del candelabro sono disuguali e le braccia sono troppo grosse, e finalmente dal fatto che sulla base sono disegni rappresentanti animali, mostri marini ed aquile, simboli che il giudaismo non aveva accolti. Ciò è dimostrato in una memoria di Adriano Reland, De spoliis Templi Hierosolim. in arcu Titiano Romae conspicuis. Nel cap. 13 narrasi la storia di quelle spoglie.
171. Josephus, Lib. VII, c. 24.
172. Procop., De bello Goth., I, c. 12: ἔν τοῖς ἦν καὶ τὰ Σολόμωνος τοῦ Ἑβραίων βασιλέως κειμήλια, ἀξιοθέατα ἔς ἄγαν ὄντα. πρασία γὰρ λίθος αὐτῶν τὰ πολλὰ ἐκαλλώπιζεν, ἅπερ ἔξ Ἱεροσολύμων Ῥωμαῖοι τὸ παλαιὸν εἷλον.
173. Theophan., Chronogr., p. 93, e Giorgio Cedreno, Histor. Comp., T. I, p. 346: ἔν οἷς ἦσαν κειμήλια ὁλόχρυσα καὶ διάλιθα ἐκκλησιαστικὰ καὶ σκἐυη Ἑβραϊκὰ, ἅπερ ὄ Οὐεσπασιανοῦ Τῖτος ἔξ Ἱεροσολύμων ἀφείλετο.
174. Procop., De bello Vandal., II, c. 4.
175. Breviar. Zachar.: Similiter alia aenea XXV, referentia Abrahamum, Saram regesque de stirpe Davidis, quae Vespasianus imperator Romam detulit post deletam Hierosolymam cum ejusdem Urbis portis aliisque monumentis. Si vede che tali leggende furono create di buon’ora. La compilazione dei Mirabil. urbis Romae, che si conosce sotto il titolo: Graphia aureae urbis Romae conservata nella Bibl. Laurent., Plut. 89, cod. 41, e publicata da Ozanam, Docum. inédits etc., p. 160, aggiunge: In templo Pacis juxta Lateranum (sic!) a Vespasiano imperatore et Tito filio ejus recondita est archa testamenti, virga anû (forse Aaronis), urna aurea habens manna, vestes et ornamenta Aaron, candelabrum aureum cum VII lucernis tabernaculi, septem cath. argentee, etc. Segue un catalogo di altre reliquie conservate nella Basilica lateranense, tra le quali si celebra l’arca foederis e la virga Aaronis.
176. Theophan., Chronogr., p. 102. Delle avventure della bella Atenaide, ossia Eudocia, imperatrice di Bisanzio, narra Niceforo, XIV, c. 23.
177. Questa leggenda è narrata dall’Ugonio, p. 58 e seg. Oggidì ancora si celebrano in quel giorno le Feriae Augusti, e in linguaggio popolare dicesi: ferrare Agosto.
178. Anast., in Vita s. Leonis: Hic renovavit post cladem Vandalicam omnia ministeria sacrata argentea per omnes titulos de confiatis hydriis sex argenteis; basilicae Constantinianae duabus, basil. B. Petri duabus, basil. B. Pauli duabus quas Constantinus Aug. obtulit, quae pensabant singulae libras centum. Quae omnia vasa renovavit sacrata.
179. Evagrius, Eccl. Hist., II, C. 7: ἀλλὰ τὴν πόλιν πυρπολήσας, πάντα τὲ μὲν ληϊσάμενος. Nicephor., Eccl. Hist., XV, C. 11: ἀλλὰ τὰ μὲν πολιορκήσας (ciò manca affatto di senso), τὰ δὲ τῶν τῆς πόλεως πυρπολήσας. Parlano però il vero: Prosper, Chronic.: per quatuordecim igitur dies secura et libera scrutatione omnibus opibus suis Roma vacuata est. Isidorus, Chronic.: direptisque opibus Romanorum per quatuordecim dies. Jornand., De rebus Get., c. 45: Romamque ingressus cuncta devastat, e de Regni succ., p. 127: urbe rebus omnibus exspoliata.
180. Fea, Sulle rovine di Roma, p. 270. E lo scritto del Bargeo.
181.
Sistimus portu, geminae potiti
Fronde coronae:
Quam mihi indulsit populus Quirini
Blattifer, vel quam tribuit Senatus:
Quam peritorum dedit ordo consors
Judiciorum:
Cum meis poni statuam perennem
Nerva Trajanus titulis videret
Inter auctores utriusque fixam
Bibliothecae.
Apollin. Sidon., Ep. XVI, ad Firmianum, Lib. IX, p. 284.
182. Nam patre Suevus, a genetrice Gethes, dice Sidonius, Panegir. Anthemii (carm. II, v. 361). Con espressioni ancor più ampollose di quelle usate da Claudiano, Sidonio tributa lodi a Ricimero che paragona a Stilicone. Con panegirici succedentisi l’uno all’altro, Sidonio lodò gl’imperatori Avito, Majoriano ed Antemio. Tutti quegli scritti pervennero sino a noi.
183. Gregor. di Tours, Hist. Franc., II, c. 11.
184. Sidon. Apoll., nel Panegyr. Maioriani, Carmen V, 385 e seg.
Postquam ordine vobis
Ordo omnis regnum dederat, plebs, curia, miles
Et collega simul.
Che il Senato concorresse a quest’elezione si ricava da quel passo del Rescritto di Majoriano stesso ove dice: favete nunc Principi, quem fecistis. Novell. Maior. nel Cod. Theodos. Ved. Curtius, Commentarii de Senatu Rom. post tempora Reipublicae etc., V, c. 1, p. 130.
185. Legum Novell. Liber alla fine del Cod. Teodos., Tit. VI, 1. De aedif. publ. L’Editto è dato: VI Idus Jul. Ravennae, sotto il consolato degl’imperatori Leone e Majoriano, ed è indiritto al Praef. Praet. Aemilianus.
186. Procop., De bello Vand., I, 7.
187. La iscrizione di stile barbarico, che ha per oggetto la costruzione del campanile e che dev’essere stata scritta tra l’anno 844 e l’847, fu da me trascritta da un avanzo delle balaustrate del coro: Canpaa Expensis mei feci temp. Dn Sergii ter beassim et coangelico Junioris Pape Amen. Dall’altro lato: Stephani Primis Martiri ego Lupo Gricarius. La basilica fu edificata sopra un’antica villa che sembra essere nei tempi antichi appartenuta a Domiziano, e dopo di lui alla famiglia Sulpicia oppure alla famiglia Servilia. Questa scoperta importante ci fa conoscere che allora nella Campania si edificavano basiliche, trasformando alcuni palazzi di campagna. Ora l’attenzione degli studiosi dell’antichità è risvegliata dalla scoperta preziosa di due celle mortuarie pagane adorne di belle scritture e di sarcofaghi. — Sembra che Demetria fosse quell’amica di santo Agostino a cui Pelagio indirizzò la Epistola ad Demetriadem, che sta fra le lettere di san Gerolamo.
188. Apoll. Sidon., I, Ep. 9, p. 22: seposita praerogativa partis armatae, facile post purpuratum Principem, principes erant.
189. Cassiod., Chronic. Sulla entrata di Antemio in Roma vedasi Idatius, Chron.: cum ingenti multitudine exercitus copiosi.
190. Apoll. Sidon., Ep. I, 5, p. 12: vix per omnia theatra, macella, praetoria, fora, templa, gymnasia, talassio fescennius explicaretur. — Jam quidem virgo tradita est, jam corona sponsus, jam palmata consularis, jam cyclade pronuba, jam toga senator honoratur, jam penulam deponit inglorius, etc. Nel Carm. II, Panegyr. Anth., verso la fine finge che Roma, sotto aspetto di Dea, si volga alla città di Costantinopoli, da lui dipinta sotto la figura dell’Aurora, offerendo la corona imperiale ad Antemio. Quest’allegoria è la parte più originale di quella apologia ampollosa.
191. Apoll. Sidon., Epist. I, 6.
192. Qui adhuc in eo semifumantem praefecturae nuper extortae dignitatem venerabatur. Sidon., I, Ep. 7.
193. Reus noster aream Capitolinam percurrere albatus: — modo serica et gemmas et pretiosa quaeque trapezitarum involucra rimari, et quasi mercaturus inspicere.
194. Sidonio chiama quell’isola ancora: Insula serpentis Epidaurii.
195. Una energica descrizione dei delitti di lui è data da Sidonius, Ep. II, 1, V, 13. Della sua morte racconta nell’Ep. VII, 7.
196. Ennodius, Vita s. Epiphan. Ticin. Episcopi, nel Sirmond., II.
197. Hist. Misc., XV. Sigonius, De Occid. Imp., XIV, p. 385.
198. Theophan., Chronogr., p. 102.
199. Anche di questo saccheggio dice il Fea: Si contentò di darle il sacco (p. 274). Ed il Bargeo. Sic tamen, ut praeda contentus aedificiis pepercerit.
200. Hist. Misc., XV: praeter famis denique, morbique penuriam, quibus eo tempore Roma affligebatur, insuper etiam gravissime depraedata est, et excepto duabus regionibus, in quibus Ricimirus cum suis manebat, caetera omnia praedatorum sunt aviditate vastata.
201. Baron., Annal., ad ann. 472. Muratori, Annal., ad ann. 472. Il Ciampini, Vet. Mon., I, c. 38, dà un cattivo disegno del musaico che nell’anno 1592 cadde intieramente. Vi era l’iscrizione: Fl. Ricimer V. J. Magister Utriusq. Militiae Patricius Et Exconsul Ord. Pro Voto Adornavit. Un’iscrizione sopra una lamina di bronzo con lettere d’argento diceva: Salvis DD. NN. Et Patricio Ricimere Eustatius VC Urb. P. Fecit: leggasi nel Muratori, Thesaur. Nov. Inscr., p. 266, e Annal., ad ann. 472. La memoria di Ricimero, di Giovanni Lascari, che ivi ha sepoltura, e di O’ Connel, di cui fu colà deposto il cuore, rende illustre quella chiesa la quale adesso è unita al Collegio degli Irlandesi.
202. Cassiodor., Chron.
203. Jornand., De reb. Get., c. 45. Chronologus Cuspiniani. Anonym. Valesii o Excerpta alla fine di Ammian. Marc.
204. Anon. Vales.: Augustulus, qui ante regnum Romulus a parentibus vocabatur, a patre Oreste patricio factus est imperator.
205. Procop., De bello Goth., I, 1, nell’incominciamento.
206. L’Anon. Vales. lo narra nella vita di san Severino.
207. Cassiodor., Chron.: nomenque regis Odoacer adsumpsit, cum tamen nec purpura, nec regalibus uteretur insignibus. Theophan., Chronogr., p. 102, 103.
208. La fine dell’Imperium Romanum pone anche il Pagi all’anno 476 e non al 479, come farebbe credere la notizia datane da Jornand., De bello Goth., c. 46.
209. Dell’ambasceria del Senato è data narrazione negli Excerp. della smarrita Storia di Malchus in Fozio (Corp. Scriptor. Hist. Byz., ed. Bonn. P. I, p. 235, 236). Con poche parole n’è fatto cenno negli Excerp. di Candidus, ibid., p. 476. E queste sono le meschine bricciole che possiamo raccogliere dalla tavola di Fozio in argomento sì importante. L’Anon. Vales. ne tace.
210. Salvian., De vero judicio et providentia Dei, V, 32, p. 53: Itaque nomen civium Romanorum aliquando non solum magno aestimatum, sed magno emptum, nunc ultro repudiatur ac fugitur; nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur. E ne alza lamento alla fine dei Libro VI: vendunt nobis hostes lucis usuram, tota admodum salus nostra commercium est. O infelicitates nostrae, ad quid devenimus! — quid potest esse nobis vel abjectius, vel miserius!
211. Il Sigonio, De occid. Imperio, XV, dice di Odoacre senza alcun fondamento: Romani Senatus auctoritas, et consulum dignitas ad feroces contundendos spiritus dempta. Il Vendettini (Del Senato Rom., Roma, 1782, p. 10) accoglie senza lume di critica quest’opinione, ma la combatte l’Olivieri nel suo libro: Il Senato Romano nelle sette epoche di svariato governo ec., Roma, 1840, p. 9.
212. Il Bunsen (III, 1, pag. 496), afferma che l’edificio sia stato eretto nei tempi cristiani. Gli Archeologi italiani tengono l’opinione opposta, e questa è anche sostenuta dall’Agincourt (Storia dell’arte ital., Traduz. del Ticozzi, Vol. II, p. 120). Dopo il pontificato di Gregorio XIII, le pareti di questa Rotonda furono bruttate da affreschi del Tempesta e del Pomerancio, i quali rappresentano storie di Martiri, e nei quali la musa della pittura non apparisce nella gentilezza della vedova di Raffaello, ma piuttosto sotto laida figura di beccajo.
213. Si veda la spiegazione dell’Ursus Pileatus, data dal Niebuhr nella Descrizione della Città, nel Platner e nel Bunsen, III, 2 Parte, p. 332. Donatus, De urbe Roma, III, p. 210. Ed intorno all’ignoto palazzo si consulti il Nardini, II, 23.
214. Sigonius, De occid. Imp., al punto relativo.
215. Anon. Valesii, 53: Fausto et Longino Coss., cioè nell’anno 490.
216. Anon. Valesii, 64: Facta pace cum Anastasio imperatore per Festum de praesumptione regni, et omnia ornamenta palatii, quae Odoacher Constantinopolim transmiserat, remittit.
217. Quid Tuscia, quid Aemilia, caeteraeque provinciae, in quibus hominum prope nullus existit. Così, quantunque non devasi accogliere litteralmente, si esprime papa Gelasio nella sua Apologia adversus Andromach., nel Baronio, Annal., ad ann. 496.
218. Questa sentenza dava Andrea Fulvio, Antiq. Rom., II, c. 51. Al tempo suo, in sull’incominciamento del sec. XVI, quel gruppo ergevasi innanzi al palazzo dei Conservatori, dov’era stato trasportato, tolto al Laterano.
219. Salvian., De vero judicio, VI, 49, p. 62: Quid enim? numquid, non consulibus, et pulli adhuc gentilium sacrilegiorum more pascuntur, et volantis pennae auguria quaeruntur, ac paene omnia fiunt, quae etiam quondam pagani veteres, frivola atque irridenda duxerunt?
220. Gelasius papa, Adv. Andromachum Senatorem, ceterosque Romanos, qui Lupercalia secundum morem pristinum colenda constituebant, apologeticus Liber, nel Baron., Ann., ad ann. 996. Questo scritto degno di nota appartiene alla serie delle opere apologetiche di Agostino, di Orosio, di Salviano, ed in qualche parte continua a svolgere le idee di quegli autori: Numquid Lupercalia deerant, cum urbem Alaricus evertit? Et nuper, cum Anthemii et Ricimeris civili furore subversa est, ubi sunt Lupercalia, cur istis non profuerunt. — Postremo, quod ad me pertinet, nullus baptizatus, nullus Christianus hoc celebret, sed soli Pagani, quorum ritus est, exequantur. Me pronunciare convenit, Christianis ista perniciosa et funesta indubitanter existere. E intorno alla causa della caduta dell’Impero, egli dice: Ideo haec ipsa Imperia defecerunt: ideo etiam nomen Romanum, non remotis etiam Lupercalibus, usque ad extrema quaeque pervenit. — Dei Lupercali di Roma fa cenno una volta Prudenzio nel suo inno a san Romano.
221. Marangoni, Cose gent., c. 26, p. 99 e seg. Intorno alla trasformazione di alcune feste pagane in festività cristiane si veda il c. 23 e seg., e il Baronio, Annal., ad ann. 44: Gentilicii ritus in ecclesiam aliquando translati.
222. Synodus Romanus I, ann. 499, de tollendo ambitu in comitiis pontificiis, nel Tom. V, Concil. del Labbé, secondo la correzione del Baluzio, p. 446. Le sottoscrizioni dei Prevosti sono date anche dal Panvinius, Epitome Pontif. Rom., p. 19, sq., e nel Mabillon, Mus. It., T. II, nel Comment. all’Ordo. Roman., p. XIII, sq., sennonchè havvi errore nel numero dei Titoli dei quali si numerano trenta in vece di ventotto.
223. S. Hieron., Ep. 66, ad Pammachium.
224.
Culmen Apostolicum cum Coelestinus haberet,
Primus et in toto fulgeret episcopus orbe,
Haec quae miraris fundavit Presbyter urbis
Illyrica de gente Petrus, vir nomine tanto
Dignus, ab exortu Christi nutritus in aula,
Pauperibus locuples, sibi pauper, qui bona vitae
Praesentis fugiens meruit sperare futuram.
Sarebbe bellissimo argomento di studio l’indagine se sia da accogliere l’opinione degli Archeologi che questa bella chiesa si edificasse là dove anticamente s’ergeva il tempio di Diana, in cui entrò Cajo Gracco a cercar qualche riposo mentre fuggiva.
225. Si consulti il Ristretto di tutto quello che appartiene all’antichità e venerazione delle chiese dei santi Silvestro e Martino (Roma, 1639), ed il Pougard, Monumenti esistenti in san Martino (Roma, 1806).
226. Secondo il Niebuhr (Descriz. della Città del Platner e del Bunsen, III, 2.ª parte, p. 304), l’antica chiesa parrocchiale di san Matteo in Merulana sarebbe stata edificata intorno all’anno 600. Tuttavolta il Liber Pontif., alla vita di Gregorio I, ne tace.
227. Severanus, Memorie sacre delle sette chiese di Roma, p. 473. L’Ugonio, cart. 167, dà a questa chiesa il nome di san Sisto in Piscina. Egli si sforza di dimostrare che quivi sorgesse il tempio di Marte.
228. Anast. Bibl., In Anast.: Hic fecit basilicam, quae dicitur Crescentiana in regione II via Mamertina.
229. San Nicomede fu prete romano. Dopo di essere stato ucciso a colpi di mazza, il corpo di lui fu dall’alto del Pons Sublicius gettato nel fiume. Ved. Emerologio sacro di Roma cristiana del Piazza, II, p. 161, ai 15 di Settembre.
230. Al tempo di Sidonio erano adoperate ad uso publico non soltanto queste terme, ma anche quelle di Nerone e di Alessandro:
Hinc ad balnea non Neroniana,
Nec quae Agrippe dedit, vel ille cujus
Bustum Dalmaticae vident Salonae:
Ad thermas tamen ire sed libebat
Privato bene praebitas pudori
(Carmen 23, ad Consentium, scritto nell’anno 466).
Si consulti il Fea, p. 271.
231. Ugonio, cart. 197, sq. Il Nardini (R. A., II, p. 91), afferma di aver veduto i ruderi della chiesa di san Ciriaco, della casa del Santo e del battistero, che esistevano nella vigna del convento dei Certosini, in prossimità del granaio di Urbano VIII. Lo stesso dice degli avanzi della chiesa il Martinelli ec., p. 354. Io mi restringo all’osservazione che Ciriaco, diacono della Chiesa romana, era stato condannato a lavorare nella costruzione delle terme di Diocleziano. La curiosa leggenda sta registrata nei Bollandisti al giorno 8 di Agosto.
232. Ugonio, cart. 190, sq. Il Piazza (La gerarchia cardinalizia. — Titoli distrutti ovvero soppressi), crede che i due Titoli sieno stati disgiunti dopo di papa Gelasio I. Ma tutte le opinioni intorno a questo argomento sono le più incerte, ed il Panvinio, a cui tutti gli scrittori ecclesiastici del secolo XVIII s’inchinano reverenti, non ha pregio di opinioni sicure e fondate.
233. Martinelli, p. 387. Il Piazza passa in silenzio su questo Titolo.
234. Il Severano, p. 443, riporta un’iscrizione esistente nella chiesa di san Sebastiano, la quale dice: Temporibus Innocentii Episcopi, Proclinus et Ursus Presbyt. Tituli Byzantis s. Martyri ex voto fecerunt. Il Panvinio accoglie opinione che questo Titolo appartenesse alla chiesa di santa Sabina. Il Bosio (Roma subt., III, c. 12) lo attribuisce a quella di santa Susanna.
235. Intorno alla storia di questa chiesa scrissero il Crescimbeni, Historia della Basil. di s. Anastasia (Roma, 1722) e Filippo Cappello, Brevi notizie dell’antico e moderno stato della chiesa Collegiata di santa Anastasia (1722).
236. Martinelli, p. 65.
237. Il Severano (p. 470), riporta la leggenda triviale della fasciola ossia della benda che Pietro aveva tenuto intorno ad una gamba ferita. Allorchè l’Apostolo uscito di carcere s’apprestava a fuggire di Roma, depose la benda sopra una siepe degli orti della via Appia. La leggenda narra che si ergesse una chiesa a ricordanza dell’avvenimento. Affè di Dio ne sarebbe stato ben degno! — Fasciola sarà piuttosto il nome di una qualche dama romana: ed è forse il corrompimento del nome di Fabiola ch’era amica di Gerolamo.
238. Il nome Palisperna o Panisperna dev’essere derivato o da quello del prefetto Perperna Quadratus, oppure dalle due voci pane e perna, pane e prosciutto. Ella è cosa curiosa prestare attenzione alla fantasia degli Archeologi romani, i quali affermano che nelle festività di Giove Fagutale, che celebravansi sul monte Viminale, si sacrificassero alcuni majali, dei quali distribuivansi i prosciutti a eccitare la baldoria della plebaglia, come oggidì si suol fare nella festa della Grotta Ferrata sul monte Latino. Io però rinvenni nel giardino della chiesa, che è tutto coperto di ruderi di marmi, una iscrizione sulla quale leggesi distintamente il nome Perperna.
239. Il Panvinio nella sua opera: Le sette chiese di Roma. Il Mabillon cita trenta Titoli con erronea enumerazione.
240. Io trovo che di questa chiesa si fa menzione quale Titolo per la prima volta nella biografia di papa Leone III (795-816) del Liber Pontif. Nè havvi argomento che sussidii l’opinione di alcuni scrittori ecclesiastici che Leone I la elevasse a Titolo.
241. Labbé, Concil., Tom. VI, p. 917. Tra le Epistole di Gregorio (IX., 22) leggesi un documento, a cui è apposta la sottoscrizione dei Parrochi di nove delle chiese su nominate.
242. Opina il Panvinio ch’esse sieno perite oppure che sieno state soppresse: egli erra però allorchè asserisce che ai tempi di Gregorio non esistesse più la basilica Aemiliana, se di questo Titolo faccia ancor cenno Anastas. (Vita Leonis III, n. 403), il quale anzi ci fa conoscere che quella chiesa si elevava tra s. Balbina e s. Ciriaco. Anche il Piazza (La gerarchia card., p. 531) mancò di fare attenzione a quel passo.
243. Il Panvinio afferma che Gregorio I istituisse in luogo degli estinti questi cinque Titoli novelli: S. Balbina, ss. Marcellinus et Petrus, s. Crux in Hierusalem, s. Stephanus sul monte Celio e ss. Quatuor Coronatorum. Non mi fu dato di trovare nè tra gli Atti dei Sinodi, nè in Anastasio alcuna notizia intorno all’erezione a Titoli del s. Stefano e della santa Croce. È argomento pieno d’incertezze e di difficoltà.
244. Anast., in Vita Marcelli: et XXV Titulos in urbe Romana constituit, quasi Dioeceses, propter baptismum et poenitentiam multorum, qui convertebantur ex paganis, et propter sepulturas martyrum.
245. Intorno all’origine del Titolo cardinalizio si veda il Panvinio, l. c., c. 2. — De presbyt. Cardinal. orig. et 28 ipsor. Titulis et 21 novis. — Secondo l’opinione di lui, il Titolo di Cardinale compare già prima del tempo di Silvestro. Il Macer nel Hierolexicon afferma, che esso compaia per la prima volta ai tempi di Stefano I (257). Il nome Cardinalis deriva da incardinare, che significa addicere alicui Ecclesiae. Io rimetto il leggitore ai Lessici del Ducange e del Macer, al Piazza (La Gerarchia cardinal., p. 351, sq.), al Cardella (Delle memorie stor. dei Cardinali, Roma, 1793, nell’Introd.), ed alla Dissertaz. 61 del Muratori. — In tempi posteriori ebbero titolo di Cardinale anche i sette Vescovi del Laterano, i quattordici Diaconi delle Regioni ecclesiastiche, i quattro Diaconi Palatini, e gli Abati di san Paolo e di san Lorenzo. Sisto V pel primo fissò a 70 il numero dei Cardinali, (Const. 50, Bullar. 2). Di questi sono 51 Cardinali preti, imperocchè oltre ai 28 Titoli antichi egli ne confermasse 13 di novelli e 10 ne creasse. Egli determinò a 14 il numero dei Diaconi, e confermò i Cardinali vescovi lateranensi che di sette erano stati ridotti a sei. Benchè tutti questi Cardinali sommino a 71, il numero complessivo è pur di 70, perchè il Titolo in Damaso fu sempre congiunto alla dignità di Cardinale Vice-cancelliere. Oggidì sono 48 Titoli di Cardinali preti, 15 di Cardinali diaconi; ad essi si aggiunge la Commenda di san Lorenzo in Damaso, ed i 6 Vescovati. Così è formato il numero di 70 Cardinali componenti il Sacrum Collegium.
246. In Joh. Diacon., De eccl. Later. (Mabillon, Mus. Ital., II, 560, sq.), che viveva alla metà del secolo XIII, sta scritto: Septem episcopis cum XXVIII Cardinal. totidem in ecclesiis infra muros urb. Romae praesidentibus (p. 567).
247. Intorno a questi sette antichi Titoli cardinalizî si veda l’Ughelli, Italia Sacra, T. I. Intorno l’anno 1150, Ostia congiungevasi a Velletri, e, intorno al 1120, Porto univasi a Silva Candida, ossia a s. Rufina. La diocesi di Porto è resa infelice dalla mal’aria: Pecudibus potius quam hominibus pascendi apta. Silva Candida era un Vescovato antico: era altra volta appellata ad Silvam Nigram, ed era situata sulla via Aurelia a dieci miglia di distanza da Roma. Due sorelle, Rufina e Seconda morirono colà, verso l’anno 260, della morte dei Martiri e per questo fatto vi fu eretto un Vescovato. Un casale che ivi esiste oggidì ancora ha nome di santa Rufina. I Saraceni nelle loro invasioni distrussero ogni traccia di quei monumenti della Chiesa.
248. Mabillon, Mus. Ital., II, p. XVI.
249. Si vedano gli scritti del Panvinio e del Severano, che ne trattano diffusamente.
250. Si legga il primo Rescritto indiritto al Senato di Roma, in cui annuncia la elezione di Cassiodoro a patricio: Var. lib. I, ep. 4, ed ep. 13: quicquid enim humani generis floris est, habere curiam decet; et sicut arx decus est urbium, ita illa ornamentum est ordinum caeterorum, e lib. III, ep. 6. Nel panegirico di Ennodio è detto: Coronam curiae innumero flore velasti, p. 28, in Cassiodoro, Op., Paris, 1759. La maggior parte delle diciassette lettere sono a raccomandazione di candidati.
251. Anonim. Valesii: Venit ad Senatum et ad Palmam populo alloquutus. Fulgenzio o meglio il suo Biografo (Vita B. Fulgentii, c. 13, T. IX, della Max. Bibl. Veter. Patr., Lugduni, 1677) dice: In loco, qui Palma aurea dicitur, memorato Theodorico rege concionem faciente. Il Muratori avrebbe dovuto perciò persuadersi che il luogo ricordato non fosse già una sala del Palatium, ma piuttosto dovesse essere uno spazio aperto, dove ascoltassero, insieme uniti, Senato e popolo. E Cassiodoro (Var., IV, ep. 30), dice espressamente: Curiae porticus, quae juxta domum Palmatam posita. — Deve però distinguersi dalla porticus palmaria nel s. Pietro. Anastas., Vita Honorii: in Portica b. Petri Apos., quae adpellatur Palmata (al. Palmaria). Nella biografia di Sisto III invece sta scritto: Domum Palmati intra urbem. Il Preller, (l. c., p. 143, nella nota) riporta un passo tolto dagli Acta ss. Mai., T. VII, p. 12, che dice: Juxta arcum triumphi ad Palmam. L’arcus triumphi non può essere se non se l’arco di Trajano.
252. Vita B. Fulgentii, l. c., e nel Baronio, Annal., VI, p. 538, ad ann. 500: quam speciosa potest esse Hierusalem coelestis, si sic fulget Roma terrestris.
253. L’appellazione di «Barbaro» era usata in quel tempo senza malo intendimento. Leggonsi alcuni Rescritti di Teodorico indiritti ai Romani ed ai Barbari, ossia a coloro che non erano d’origine romana. Quel nome ci si presenta spesse fiate nei documenti del secolo VI; e spesso dopo la caduta dei Goti, con ingenua dizione, si dà alla guerra nome di barbaricum tempus che si contrappone a pace (pax). Vedasi il Marini, Papiri Diplom., Annot. 7, p. 285, ed il Glossario del Ducange. Così nel linguaggio del diritto civile sotto nome di Sors barbarica s’intende la terza parte del territorio conceduta in proprietà ai Goti. Nel secolo VIII troviamo ancora usata l’espressione campus barbaricus.
254. Cassiod., Var., Lib. VIII, 13: nam quidam populus copiosissimus statuarum, greges etiam abundantissimi equorum, tali sunt cautela servandi.
255. Var., Lib. VII, 15.
256. Var., Lib. VII, 15: quas amplexa posteritas pene parem populum urbi dedit quam natura procreavit.
257. Var., Lib. VII, 13: statuae nec in toto mutae sunt: quando a furibus percussae custodes videntur tinnitibus admonere. Di qui mi è dato di trarre l’origine di una leggenda meravigliosa, registrata nei Mirabilia di Roma, la quale narra che le statue che rappresentavano le province e che s’ergevano in Campidoglio, mettessero un suono quale di campana, tostochè scoppiava un rivolgimento in taluna di esse. Il Comes romanus ai tempi degl’Imperatori era appellato Curator statuarum. Vedasi il Panciroli, Notitia etc., c. 16, p. 122.
258. Var., Lib. II, 35, 36.
259. Variar., Lib. VI, 6.
260. Universa Roma — miraculum. Var., lib. VII, 15.
261. Var., Lib. VII, 15. Al tempo degl’Imperatori questo offiziale aveva nome di Curator operum publicorum. Vedi il Panciroli, Notit., c. 14, 15, p. 122. Ai tempi imperiali eravi anche un Tribunus rerum nitentium, che attendeva alla mondezza publica: di un offiziale simile avrebbe somma necessità anche Roma odierna.
262. Ut ornent aliquid saxa jacentia post ruinas. Var., Lib. II, 7. Si riferiscono alla costruzione delle mura di Roma i passi seguenti: I, 21, 25; II, 3, 4; VII, 17. Cassiod., Chron., Anon. Val., 67. In quell’oscuro e barbarico Panegirico, che Ennodio volgeva a Teodorico, è detto delle opere di lui volte alla restaurazione dei monumenti: date veniam Lupercalis genii sacra rudimenta: plus est occasum repellere, quam dedisse principia. — Il Marangoni (Delle Memorie sacre e profane dell’Anfiteatro romano, p. 44) appunta Fiorav. Martinelli e Fl. Blondo (Roma instaur. I, c. 3) di grave errore, allorquando, citando un Editto di Teodorico, affermano che egli pel primo abbia usato delle pietre del Colosseo per i lavori delle mura. Il Colosseo in quel tempo era ancora illeso da ogni danneggiamento.
263. Variar., Lib. III, 30: Videas structis navibus per aquas rapidas non minima sollecitudine navigari, ne praecipitato torrenti marina possint naufragia sustinere. L’esagerazione è spinta troppo oltre.
264. Var., Lib. VII, 6.
265. Intorno al Comes Formarum, si veda la Notitia, c. 7, p. 121.
266. Var., Lib. IV, 51: quid non solvas, o senectus, quae tam robusta quassasti?
267. Marmora quae de domo Pinciniana constat esse deposita. Var., Lib. III, 10.
268. Trajani Forum vel sub assiduitate videre miraculum est. Capitolia celsa conscendere, hoc est humana ingenia superata vidisse. Var. VII, 6.
269. Ciò si pare dalle Var., III, 51.
270. Salvian., De vero jud., VI, p. 62. Egli dice a somiglianza di un teologo ginevrino: Spectacula et pompae — opera diaboli. Ciò che sulle scene del secolo VI si osasse di rappresentare, narra Procopio (Anecdot., c. 9), allorchè descrive in qual maniera Teodora, futura imperatrice, apparisse per la prima volta sul palco teatrale dinanzi al popolo di Bisanzio. Il Gibbon non ardì di volgarizzare il testo greco di quel passo. Salviano enumera le specie degli spettacoli abbominevoli in tale maniera: Est nunc dicere de omnibus, amphitheatris scilicet, odeis, lusoriis, pompis, athletis, petaminariis, pantomimis etc. — Petaminarii da πετάμενοι, qui more avium sese ejaculantur in duras, uomini volanti. Vedi il Glossarium del Ducange.
271. Var., Lib. III, sulla fine: ut aetas subsequens miscens lubrica, priscorum inventa traxit ad vitia: et quod honestae causa delectationis repertum est, ad voluptationes corporeas praecipitatis mentibus impulerunt.
272. Var., Lib. VII, 10: Teneat scenicos si non verus, vel umbratilis ordo judicii. Temperentur et haec legum qualitate negocia, quasi honestas imperet inhonestis. Trovo un’iscrizione di un Tribunus Voluptatum, dell’anno 523:
FL. Maximo VC
Concessum locum Petro
Rome ex Trib. Volupt
Et conjugi ejus Johan
Papa Hormisda et Tra(nsmundo)
Praepst Basc. Beati Petr.
(Nelle cripte del Vaticano, nel Dionysius, t. XXV).
273. Variar., V. 42. Rescritto dato ad una supplica di un cacciatore. I modi di questi combattimenti di animali erano sì varî che Cassiodoro diceva, il loro numero essere tanto grande quanto quello dei tormenti che Virgilio descrive nel suo inferno.
274. Dopochè Europa si coperse dell’onta dell’ultima guerra di Crimea, gli statisti ebbero agio di formare un computo, secondo il quale, la moneta che ivi fu spesa a distruggere con ordine di scienza uomini e città, sarebbe stata sufficiente a sanare la piaga del pauperismo in Inghilterra ed in Francia: Heu mundi error dolendus! si esset ullus aequitatis intuitus, tantae divitiae pro vita mortalium deberent dari, quantae in mortes hominum videntur effundi.
275. Var., Lib. III, 51.
276. Turcius Rufius Aspronian. Asterius, console nell’anno 444, scrisse nel suo celebre codice dei poemi di Virgilio (che si conserva nella Laurenziana di Firenze) un epigramma che parla dei giuochi dati sotto il suo reggimento, e che leggesi nel Tiraboschi, Storia etc.. III, 1, c. 2, e nel Mabillon, De Re Dipl., p. 354, ed è il seguente:
Tempore, quo penaces Circo subjunximus, atque
Scenam Euripo extulimus subitam,
Ut ludos currusque simul, variarumque ferarum
Certamina junctim Roma teneret ovans.
Da questi versi si pare che nel Circo nel tempo stesso si dessero corse, danze pirriche, balli pantomimi e cacce di fiere.
277. Variar., Lib. III, 51: nostri sedes fovere delegit imperii. E fovere è qui posto nel senso quasi di «rendere onore».
278. Var., Lib. I, 27, 30, 31, 32, 33.
279. È il celebre motto: Ad Circum nesciunt convenire Catones. — Var., Lib. I, 27. Nel Circo godevasi di una libertà quasi carnascialesca: Locus est, qui defendit excessum.
280. Expedit interdum desipere, ut populi possimus desiderata gaudia continere. Var., Lib. III, 51.
281. Anon. Val., 67. Il Gibbon a questo proposito con suo computo riduce le 120000 moggia a 4000 staia, e ne tragge a conseguenza che la popolazione fosse diminuita.
282. Procop., Hist. Arcana, 26: τοῖς τε προσαιτηταῖς οἳ παρὰ τὸν Πέτρου τοῦ ἀποστόλου νεὼν διαιτὶαν εἶχον.
283. La formula dell’investitura del prefetto dell’annona trovasi nei Var., Lib. VI, 18. Il passo citato leggesi in Boethius, De Consolat., III, prosa 4.
284. Anon. Valesii. — Il solidus corrispondeva ad 1⁄72 di una libbra d’oro. — Il Liber Junioris Philos., edito da Angelo Mai, T. III, Class. Auctor. e Vatican. Cod., n. 30, scrittura del secolo IV, celebra i vini degli Abbruzzi, del Piceno, del Sabino, di Tivoli, del paese tusco, che ancora sono tenuti in alto pregio, e loda i prosciutti e le grasce di Lucania: Lucania regio optima, et omnibus bonis habundans, lardum multum aliis provinciis mittit; quoniam montes escis et variis habundant animalibus et pluribus pascuis.
285. Cassiodoro descrive con colori poetici le bellezze di alcuni paesi della sua patria, il mercato di Leucotea in Lucania (Var., VIII, 33), Baja (IX, 6), il Mons Lactarius (XI, 10), e Squillace (XII, 15). Genti di Lucania, delle Puglie, degli Abbruzzi, delle Calabrie, traevano alla fonte di Leucotea a udirvi la messa, come oggi accorrono a Nola: e in Cassiodoro si legge che i preti di quel tempo vi chiamavano il popolo spargendo fama di portenti compiuti dall’acqua miracolosa. Il sangue di santo Gennaro non era stato ancora trovato.
286. Felix Roma: Var., Lib. VI, 18. Fabretti, Iscriz., c. VII, p. 521: Regn. D. N. Theodorico Felix Roma. Il signor Dott. Henzen dai materiali da lui raccolti per un novello Corpus Inscr., mi ha favorito di copie delle iscrizioni appartenenti ai tempi di Teodorico. Fra tutte sono dodici, delle quali sei portano il motto Roma Felix, e cinque recano a motto: BONO ROMAE (n. 149-160, della sua raccolta). Di Atalarico sono due sole iscrizioni, sulla prima delle quali (n. 161) sta scritto: ROMA FIDA.
287. Il fac-simile della iscrizione trovasi nel Bonanni, Templi Vatic. Hist., p. 54. Di tali pietre si trovarono nel tempio di Faustina, nella Via Labicana, sul tetto del san Pietro, sul tetto della chiesa di santo Stefano degli Ungari, tra i ruderi del Secretarium del Senato, nella chiesa di san Gregorio, in un acquedotto antico situato presso il Collegio germanico, in san Giovanni e Paolo, sui tetti delle chiese di san Paolo, di santa Costanza, di santa Martina, di san Giorgio in Velabro, sul tetto della cappella di Giovanni VII in chiesa di s. Pietro.
288. Agli Israeliti di Genova scriveva: Religionem imperare non possumus, quia nemo cogitur, ut credat invitus. Var., Lib. II, 27. — Var., V, 97: concedimus — sed quid Judaee supplicans temporalem quietem quaeris, si aeternam requiem invenire non possis?
289. Probabilmente questo strale satirico è lanciato anche contro i Cristiani, che avevano posta dimora permanente in Faleria:
Namque loci quaerulus curam Judaeus agebat.
Humanis animal dissociale cibis — —
Quae genitale caput propudiosa metit — —
Atque utinam numquam Judaea subacta fuisset
Pompeii bellis, imperioque Titi.
Latius excisae pestis contagia serpunt,
Victoresque suos natio victa premit.
(Itiner., v. 383, sq.)
Il Basnage (Histoire des Juifs, la Haye, 1716) si occupa, nel capit. 8 del Lib. VII, della storia del popolo israelita in Roma dai tempi di Pompeo a quelli di Nerone; però è indotto spesse fiate in gravi errori. Con maggiore ampiezza discorre intorno a questo argomento bellissimo la Roma subterranea del Bosio e dell’Aringhi. Tom. I, lib. II, c. 22 (23).
290. Io non convengo nell’opinione del Basnage, che il quartiere dove gli Ebrei avevano stanza si stendesse fino al ponte di Adriano. Egli reputa erroneamente che avessero dimora anche nell’isola del Tevere, poichè non pone mente alla situazione del Ghetto dei tempi posteriori. Sappiamo che ai tempi di Domiziano gli Ebrei avevano elevate loro case nella valle d’Egeria, ed a quel tempo rimonta la costruzione del loro mirabile cimitero, il quale fu scoperto, or fanno alcuni anni, presso la Via Appia. Gli Autori della Roma subterranea hanno fatto conoscere inoltre il cimitero antico degli Ebrei posto fuori di porta Portuense. Seguendo la costumanza della loro età, gl’Israeliti ponevano iscrizioni in lingua greca sulle tombe dei loro defunti.
291. Var., Lib. IV, 43. Dall’espressione: Ad eversiones pervenerint fabricarum, ubi totum pulchre volumus esse compositum, credo di poter trarre a conseguenza che quell’edificio non fosse privo di bellezza artistica. Intorno alle condizioni degl’israeliti di Roma in quel tempo il Basnage (VIII, c. 7) non dà che notizie meschine.
292. Il Pagi afferma che il secondo scisma scoppiasse nell’anno 503; il Baronio invece lo riferisce all’anno 502. Il Synodus Palmaris, che fu il quarto dei Concilii tenuti da Simmaco, pare similmente che avvenisse nell’anno 503. Il Muratori è incerto fra queste notizie cronologiche. Nulla di certo ricavasi dal Liber Pontificalis.
293. Francesco Pagi, Breviar., p. 131, X. — Acta Syn. III Symmachi nel Labbé.
294. Che Teodorico stesso, colla approvazione del Pontefice, convocasse il Concilio, dimostra Francesco Pagi (p. 131, XIII) con notizie ricavate dagli Atti del Sinodo.
295. Anastas., Vita s. Symmachi. — Theod. Lector, Hist. Eccles., II, c. 17. Hist. Misc., XV, ed il prezioso frammento della Vita Symmachi che leggesi nel Muratori, Script., III, p. 2, in cui si narra che Roma fosse funestata da terribili tumulti per lo spazio di quattro anni. — Theoph., Chronogr., p. 123: ἔνθεν λοιπὸν ἀταξίαι πολλαὶ καὶ φόνοι καὶ ἁρπαγαὶ γεγόνασιν ἐπὶ τρία ἔτη. Egli è probabile che questi torbidi sieno avvenuti nel secondo scisma piuttosto che nel terzo.
296. Il Bunsen II, 1, p. 25, 65, afferma con certezza questo fatto. Il passo che si legge in Anastasio: Ut cum gloria apud beat. Petrum sederet praesul, sembrommi da principio che valesse a sostenere quell’argomento, ma come v’ebbi per poco meditato, fui costretto a rigettarlo. — Petrus Mallius, c. 7, n. 127, narra la favola che Simmaco ornasse il pozzo di quella palla di bronzo quae fuit coopertorium cum sinino aeneo et deaurato super statuam Cybelis matris deor. in foramine Pantheon (!).
297. Una descrizione completa di questa cappella è data dal Cancellieri, De secretariis novae Basil. Vatican., Roma, 1786, Cap. II, p. 1153, sq.
298. Muratori, Annal., ad ann. 524.
299. Item ut nullus Romanus arma usque ad cultellum uteretur vetuit. Anon. Vales., 83. Proibizione che nei tempi posteriori la tirannia degli stranieri impose alla sventurata Lombardia.
300. Giannone, Storia Civile del Regno di Napoli, Vol. I, III, § 6.
301. Qui accepta chorda in fronte diutissime tortus, ita ut oculi ejus creparent, sic ut tormenta ad ultimum cum fuste occiditur. Anon. Vales. I soli filosofi dell’Antichità finirono con bella morte: Giordano Bruno, seguace del platonismo come Boezio, morì della morte della fenice, la quale ad un filosofo è sempre più accettabile di quella che gli è data dalla scure del carnefice.
302. L’abbigliamento di lei, dice il povero Platonico, era alquanto dimesso ed era un po’ bruno per vecchiezza: caligo quaedam neglectae vetustatis obduxerat. De cons. phil. Prosa I. L’allegoria intera è toccante nella sua semplicità puerile.
303. De consolat. philos., II, prosa 3.
304. De consolat. I, prosa 4.
305. Quibus libertatem arguor sperasse Romanam. De consol., I, prosa 4. E pure si svela l’animo ardente di libertà del Romano allorquando esclama: nam quae sperari reliqua libertas potest? atque utinam posset ulla! — Il Gibbon gli pone in bocca le parole di Canio: Si ego scissem, tu nescisses, ma è errore; imperocchè Boezio dica ciò solo che avrebbe risposto come Giulio Canio, se egli avesse accolta una qualche speranza.
306. Le due testimonianze più valide sono date dall’Anon. Val., p. 87: inaudito Boethio, protulit in eum sententiam e da Procop., De bello Goth., I, 1, sulla fine: ἀδίκημα — ὅτι δὴ οὔ διερευνησάμενος, ὥσπερ εἰώθει, τὴν περὶ τοῖν ἀνδροῖν γνῶσιν ἤνεγκε.
307. Anast., Vita Johann. I; Anon. Vales., Histor. Misc.
308. Il Rescritto di Atalarico al Senato (Var., lib. VIII, 15) dice: oportebat enim arbitrio boni principis obediri, qui quamvis in aliena religione, talem visus est pontificem delegisse. Anche il Muratori, il quale timidamente condanna l’usurpazione di Teodorico, a quell’elezione del Pontefice dà nome di comandamento. Più tardi, i Pontefici, come i Vescovi tutti, dovevano pagare una certa somma per ottenere la conferma della loro dignità: così si pare dai casi di elezioni controverse in cui la causa era decisa dal Principe. Il Papa pagava 3000 solidi, altri Patriarchi 2000, i Vescovi delle città minori 500 solidi. Var. lib. IX, 15.
309. Anon. Vales., verso la fine.
310. Procop., De bello Goth., I, 1.
311. Jornand., De reb. Get., verso la fine.
312. S. Gregor., Dial., IV, c. 30.
313. Il patrizio Decio ai tempi di Teodorico, diè opera all’asciugamento delle paludi Decemnoviche. Si vedano in tale proposito i Rescritti, Var., lib. II, 32, 33. Ma i meriti di Teodorico furono superati da Pio VI colla costruzione della Linea Pia. Le iscrizioni furono rinvenute in due esemplari, nell’anno 1743, presso a Terracina lungo la Via Appia. Leggonsi nel Gruter a pag. 152. Le estensioni sono indicate colle parole: Decemnovii Viae Appiae id est a trib (sc. tribus tabernis) usq. Terracinam, etc., per la qual cosa ascendevano, secondo il computo del Cluver, a trenta miglia circa. Si consulti il Bergier, Histoire des grands chemins etc., L. II, c. 26, p. 214. Il Contatore (de Histor. Terracinensi, Roma, 1706), fa a pag. 11 un cenno storico degli asciugamenti di quelle paludi Pontine.
314. Il Giannone, nella sua Storia di Napoli, gli tributò lode più alta che non abbiano fatto il Vescovo di Pavia e Cassiodoro. È degno di nota ciò ch’egli dice al Lib. III, § 3: «Ai Goti e non già ai Romani noi andiamo debitori della costituzione di alcune magistrature che esistono ancora nel nostro reame, come della costumanza di spedire in ogni città governatori e giudici». — Anche il Baronio tributa lodi al Re goto, dandogli nome di: Saevus barbarus, dirus tyrannus, et impius Arianus. Per quello che si riferisce all’amore di Teodorico per le arti, leggesi una dissertazione erudita nell’Agincourt, l. c., I, c. 8.
315. Procop., De bello Goth., I, 2; Cassiod., Var., XI, 1: Jungitur his rebus, quasi diadema eximium, impretiabilis notitia litterarum.
316. Gothorum laus est civilitas custodita. Var., lib. IX, 14.
317. Var., lib. IX, 21.
318. Var., lib. X, 7.
319. Teodorico diceva: Romanus miser imitatur Gothum: et utilis Gothus imitatur Romanum, Anon. Val., 61. L’illustre Cesare Balbo, mosso da carità di patria, altera il senso chiarissimo di questo passo traducendolo di questa guisa: un Romano povero s’assomiglia ad un Goto, ed un Goto ricco a un Romano. Storia d’Italia, I, c. 11, p. 89.
320. Convenit gentem Romuleam Martios viros habere collegas. Var., VIII, 10.
321. Ciò si pare manifestamente dalla lettera di Atalarico a Giustino, in cui annuncia il suo avvenimento al trono (Var., lib. VIII, 1), e lo confermano le monete di quell’epoca, avvegnachè quelle coniate sotto di Atalarico, di Teodato, di Vitige e di Totila portino da un lato la imagine di Giustiniano e dall’altro la sola scritta D. N. ATHALARICUS REX, D. N. THEODATUS REX, ec. Si consulti il Muratori, Dissertaz. 27.
322. Var., VIII, 24. Il Muratori pone questa legge all’anno 528. Il Saint Marc (Abregé chronologique de l’histoire d’Italie, p. 62) dice a tale proposito: c’est sur cette condescendance des grinces pour un État infiniment respectable en lui même, que dans la suite les Ecclésiastiques ont prétendu qu’ils étaient de Droit divin exemts de la jurisdiction séculaire.
323. Anast., Vita s. Felicis IV: hic fecit basilicam SS. Cosmae et Damiani martyrum in urbe Roma, in loco qui appellatur Via Sacra juxta templum urbis Romae (e la lezione di un Codice aggiunge vel Romuli).
324. Prudent., In Symm., I, 219. La storia di questa illustre chiesa fu scritta da Bernardino Mezzardi monaco francescano: Disquisitio historica de s. martyr. Cosma et Damian. etc., Roma, 1747. Merita di essere letta quantunque sprovveduta di lume di critica. L’autore accoglie opinione che fosse tempio di Romolo e di Remo. Nei Mirabilia è detto: s. Cosmatis ecclesia, quae fuit templum Asyli.
325. Nel catalogo delle chiese di Roma che furono di templi pagani volte a culto cristiano, dato dal Marangoni (Cose gentil. ec., c. 52), la chiesa dei santi Cosma e Damiano è la seconda, laddove il primo posto sia attribuito a quella di santo Stefano. La chiesa è contigua alle ruine di un antico edificio, e posteriormente all’oratorio della Via Crucis trovasi una bellissima muraglia di marmo peperino. Ora apparteneva questo muro ad un qualche tempio? oppure si stendeva intorno al foro di Cesare? Sarebbe utile cosa che qui si facessero degli escavi. Giova far cenno che nell’antico tempio rotondo una parete era rivestita di un basso rilievo in marmo che rappresentava la pianta antica della Città: oggidì quello è infitto nella parete della scala del Museo capitolino.
326. Dei Seniori non si vedono oggidì che due sole figure in parte cancellate all’estremità dell’arco, e degli Evangelisti mancano le due figure estreme. Se ne vede la copia nel Ciampini, Vet. Mon., II, 7.
327. La mano che tiene la corona d’alloro oggidì è scomparsa.
328. La figura di Felice IV appartiene ai tempi di Alessandro VII che operò dei restauri in quei musaici: è probabile che si compiesse dietro una copia della figura originale. All’antico disegno, cancellatosi ai tempi di Gregorio XIII, erasi sostituita la imagine di Gregorio Magno, finchè finalmente il cardinale Francesco Barberini ripose al suo posto quella di Felice IV. Si consulti l’Ugonio, p. 178, e la Descriz. della Città del Bunsen e del Platner, III, 1, p. 366.
329. L’erudito Giovanni Marangoni (canonico di Anagni, che viveva verso la metà del secolo XVIII, e che insieme al Boldetti ha merito di diligente illustratore delle catacombe di Roma) nella sua opera: Delle cose gentilesche etc., parla in un bel capitolo (nel XXXV) dell’aureola dei Santi. Egli ci fa conoscere che quell’emblema di gloria ch’era attribuito ad Apollo ed agli Imperatori deificati, era dato nelle catacombe ai Martiri già prima dei tempi di Costantino.
330. Nelle monete di Faustina senior e di Faustina junior, è rappresentata una figura di donna che nella destra tiene un globo su cui posa la fenice coronata di una stella (Vaillant, Numismata, II, 175 e III, 132). In una bella moneta, coniata sotto di Costantino, mirasi Crispo, figlio di lui, che sta innanzi al padre seduto, e che gli porge il globo colla fenice. Una moneta di Costantino il giovane rappresenta l’Imperatore che tiene il globo colla fenice nella destra mano, e il labaro col monogramma di Cristo nella sinistra (Vaillant, III, 247).
331. La iscrizione suona così:
Aula Dei claris radiat speciosa metalli
In qua plus fidei lux pretiosa micat.
Martyribus medicis populo spes certa salutis
Venit, et ex sacro crevit honore locus.
Obtulit hoc donum Felix antistite dignum
Munus ut aetherea sumat in arce poli.
332. Var., Lib. IX, 16. Epistola di Atalarico a papa Giovanni, IX, 5.
333. Var., Lib. IX, 17.
334. Lettere di Amalasunta e di Teodato, che annunciano l’avvenimento al trono: Var., Lib. X, 1, 2.
335. Procopio narra di tutti questi avvenimenti nell’incominciamento della sua Storia della guerra gotica.
336. Muratori, Annal., ad ann. 534, 541, 566. — Baronio e Pagi, ad ann. 541. — Pagi, Dissertatio Hypatica, Lugdun., 1682, p. 301. — Procop., Hist. Arcan., c. 26. — Onuph. Panvinii, Commentar. in lib. III fastor., p. 310. — Dal 541 al 566, quei venticinque anni furono designati dal loro numero post consul. Basilii.
337. Procop., De bello Goth., I, 6: ἔν Ἀλβανοῖς. Siccome qui non può essere altro che Albano, si pare che Teodato fosse allora in Roma, nè già, come afferma il Muratori, in Ravenna: imperocchè la via che di qui conduce a Bisanzio non passi per Albano. Anche il Gibbon cadde nello stesso errore. — Dell’antica Alba Longa rimanevano ai tempi di Plinio alcuni ruderi. In qual tempo Albano (che sorge là dov’era la villa di Pompeo) fosse edificata, non sappiamo. Ebbe origine da una stazione militare. I suoi Vescovi cardinali rimontano ad epoca remota. Vedi l’Ughelli, Italia Sacra, I, p. 248, sq.
338. La narrazione che dà Procopio di quella conferenza è così ingenua che reca in sè l’impronta della verità.
339. Var., Lib. XI, 13.
340. Habui multos Reges sed neminem hujusmodi litteratum. Lode ben meravigliosa, se si pensi che Roma la indirizza ad un barbaro!
341. Liberato, diacono di Cartagine, nel Breviar., c. 21.
342. Ciò desumo dalle Var., lib. X, 13: quod praesentiam vestram expetivimus, non vexationis injuriam.... tractavimus. Certe munus est, videre principem, etc.
343. Così traduco, perocchè sieno da intendersi i Goti sotto nome di gentis. — Numquid vos nova gentis facies ulla deterruit? Cur expavistis, quos parentes hactenus nominastis? Var., lib. X, 14.
344. Var., lib. X, 13. Sed ne ipsa remedia in aliqua parte viderentur austera, cum res poposcerit aliquos ad nos praecipimus evocari: ut nec Roma suis civibus enudetur, et nostra concilia viris prudentibus adjuventur.
345. È il seguente passo importante che leggesi nelle Var., lib. X, 18: quos tamen locis aptis praecipimus immorari: ut foris sit armata defensio, intus vobis tranquilla civilitas; e più in là: defensio vos obsidet, ne manus inimica circumdet.
346. Anast., Vita s. Agapeti: e di questa ambasceria si trae notizia anche dalle Var., lib. XII, 20. Gravi difficoltà si sollevano soltanto intorno alla cronologia.
347. Var., lib. XII, 20. Cassiodoro ordinava agli arcarii, Tommaso e Pietro, di restituire al tesoro del san Pietro gli arredi avuti in pegno, e ne dava lode alla liberalità del Re. Il Principe ariano non reputava che fosse necessario di dare al Pontefice suo legato la moneta necessaria alle spese di viaggio. — È prezzo dell’opera che si leggano le lettere di pace che Teodato e Gudelinda, moglie di lui, indirizzavano a Giustiniano ed a Teodora: la loro viltà muove schifo oggidì ancora nell’animo del leggitore.
348. Procopio riporta le lettere di Teodato e di Giustiniano, le quali sono ambidue degne di nota.
349. πόλιν τὲ μικρὰν οἰκοῦμεν, diceva il napoletano Stefano a Belisario. Procopio dà una bella descrizione del saccheggio e della presa di Napoli, ma egli mitiga il racconto delle stragi avvenute dopo la sua caduta.
350. Γότθοις δὲ ὅσοις ἀμφί τὲ Ῥώμη καὶ τὰ ἐκείνη χωρία. Procop., De bello Goth., I, 11.
351.
qua limite noto
Appia longarum teritur regina viarum.
Statius, Silv., II, 2, v. 11.
352. De bello Goth., I, 44.
353. Procopio dice chiaramente che la Via Appia si stendeva fino a Capua; eppure quella strada continuava fino a Brindisi. Si consulti la profonda dissertazione del Nibby (Delle vie degli antichi) che forma la maggior parte del volume IV dell’opera del Nardini.
354. L’Itinerarium Antonini fa menzione delle seguenti Stazioni della Via Appia: Ariciam M. P. XVI. — Tres Tabernas M. P. XVII. — Appi Forum M. P. XVIII. — Terracinam M. P. XVIII. — Fundos M. P. XVI. — Formiam M. P. XIII. — Minturnas M. P. IX. — Capuam M. P. XXVI. — Ai tempi di Teodorico esistevano sulle strade principali le poste già istituite dagli Imperatori, come si pare dalle Var., lib. I, 29; V, 5. Ed erano emanate leggi a vietare il malo trattamento ai cavalli, che è pure onta degl’Italiani d’oggidì.
355. Intorno a Regeta ed al canale, si consulti il Capo XII della Descrizione della Campagna romana del Westphal, tedesco dei nostri tempi erudito negli studî topografici, il quale, simile ad un guerriero d’animo fervente nella sua missione, moriva sopra una strada di Sicilia. — Procopio, parlando di Terracina fa menzione del capo di Circe e della sua figura onde appare simile ad isola: io penso con dolcissima ricordanza al momento in cui da Astura godei della vista di quel promontorio.
356. ἔς ἔδαφος τὲ ὕπτιον ἀνακλίνας ὥσπερ ἱερειόν τὶ ἔθυσεν. Procop., I, 11.
357. Universis Gothis Vitiges Rex. Var., lib. X, 31.
358. Var., lib. X, 32, 33, 34.
359. La Via Latina, a cagione della contrada ch’essa percorreva tra i monti Volsci e gli Abruzzesi, era la più bella strada della Campania. Innanzi a porta Capena essa si staccava dalla Via Appia, e passando da porta Latina, si stendeva al di sotto di Anagni, di Ferentino, di Frosino, e, traghettato il Liri, giungeva a Capua dopo di avere riunite a sè la Via Labicana e la Via Prenestina. Per uno spazio di nove miglia dalla porta è oggidì affatto distrutta: più in là se ne scoprono alcuni avanzi.
360. Vedonsi oggidì ancora i begli avanzi della porta Asinaria, presso porta san Giovanni. Una via laterale che si volgeva a diritta conduceva dalla porta alla grande Via Latina.
361. Marcell. Comes dice che la Città fu presa dai Barbari sotto il consolato di Basilisco e di Armato (anno 476): essa fu ripresa nell’anno 536: se si creda ad Evagrio, addì 9 di Dicembre (Vedi Cardin. Noris, Dissertatio Histor. de Synodo quinta, p. 54. Patavii 1673).
362. Il Gibbon fu indotto in errore da Procopio allorchè dice, che i Goti passassero da ponte Milvio. Il Greco non iscambia in questo passo soltanto (I, c. 17) il Tevere per l’Anio. Ma siccome Vitige, lasciato Narni da un lato, passava da Sabina, egli si pare ch’egli movesse sulla sponda sinistra del Tevere e lo traghettasse da ponte Salaro.
363. Procop., De bello Goth., 18. I Greci, dic’egli, chiamavano il cavallo Phalion, i Goti Balan.
364. Così spiego la frase: ἔς τίνα γεώλυφον. È il territorio montuoso su cui s’alzano oggi la Villa Borghese e la Villa Poniatowsky, e che si stende fino all’Aqua Acetosa.
365. Βανδαλάριος: ancora nel medio evo i Romani usavano del nome di Banderario.
366. Nessuna dubbiezza s’eleva sulle prime tre porte: la Nomentana fu fatta abbattere da Pio IV che vi eresse invece la porta Pia. È controverso se le porte Tiburtina e Prenestina, corrispondano alle odierne porte di san Lorenzo e Maggiore: i Topografi hanno avviluppata questa ricerca in un labirinto di ipotesi.
367. Procop., De bello Goth., I, c. 19, dice: τήν τε Αὐρηλίαν (ἤ νῦν Πέτρου ecc.) καὶ τὴν ὑπὲρ τὸν ποταμὸν Τίβεριν, donde si pare manifestamente che porta Aurelia era al di qua del ponte. A c. 18, egli aveva già fatta menzione della porta Transteverina: ἤ ὑπὲρ ποταμὸν Τίβεριν Παγκρατίου ἀνδρὸς ἁγίου ἐπώνυμος οὖσα. Già prima del tempo di Procopio la costumanza cristiana del popolo aveva private dell’antico nome le porte di Roma, appellandole da quello delle basiliche erette in vicinanza. Me ne persuade la Cosmographia del così detto Aethicus (ed. Gronov., Lugdun., 1696), che appartiene agli ultimi tempi dello Impero. Egli chiama già: divi Apostoli Petri portam, e dice: intra Ostiensem portam quae est divi Pauli Apostoli (p. 40, 41).
368. τραγῳδοὺς καὶ μίμους καὶ ναύτας λωποδύτας: bel rimprovero in bocca d’un rozzo duce goto di nome Vacis. Leggesi in Procop., I, c. 18.
369. Io numerava jeri cinque molini natanti sul Tevere tra ponte Sisto e il ponte dell’isola Cestia. Il Fabretti (de aquis et aquaed., diss. III, p. 170) mosse un’acuta critica a Belisario ed a questi molini, dimostrando le ragioni del danno che recano. Io posso narrare che nella primavera dell’anno 1856, in una piena impetuosa del fiume, un molino era trascinato contro il ponte Cestio e ne recava grave danneggiamento al parapetto.
370. Il Nardini (II, p. 17) afferma che il luogo ove fu dato l’assalto e dove era il Vivario fosse in vicinanza all’Anfiteatro castrense, accosto a porta Maggiore. Il Niebuhr invece (in Bunsen, I, 658) difende l’opinione del Piale contro il Nibby, sostenendo cioè che all’antica porta Prenestina corrisponda oggidì porta san Lorenzo. Egli ne trae argomento dal fatto, che Flaminio Vacca dà nome di Prenestina ad una via che parte di porta san Lorenzo. Ed io trovo che Flaminio determini porta san Lorenzo per l’antica Prenestina, avvegnachè egli narri (n. 15 delle Memorie), che presso a porta san Lorenzo furono rinvenute parecchie urne sepolcrali gotiche, e dica di aver letto che in quel luogo i Goti avevano tocca una grave sconfitta. Le notizie date dai Romani di quei tempi che s’appoggiavano alla tradizione, mi sembrano meritevoli di fede. Primo di tutti l’Anonimo di Einsiedeln determinò che porta Maggiore fosse l’antica Prenestina.
371. Procop., I, 23. A cagione di questa credenza, egli aggiunge, quel muro è lasciato anche oggidì nella sua condizione antica senza restauro. — Non v’ha dubbio che il Muro Torto corrisponda all’antico Murus ruptus: il Padre Eschinardi (Dell’agro Romano, p. 286) accoglie la giusta opinione che fosse così malconcio per opera di un terremoto. Pio IX fè restaurare bellamente le mura che s’alzano sotto monte Pincio, ma il Muro Torto non fu tocco.
372. La porta Janiculense è già da Procopio appellata Pancraziana, ma nel secolo IX l’Anonimo di Einsiedeln la chiamava Aurelia dal nome dell’antica via. Egli dice: a Porta Aurelia usque Tiberim, etc.
373. Il Bunsen dice che il diametro della torre fosse di 329 palmi, e la periferia di 1033 palmi: la base deve essere stata alta 15. Dopo la descrizione di Procopio è importante quella che ne dà, quantunque si abbandoni a fantasticherie, il canonico Pietro Mallio nella sua Hist. Bas. s. Petri, c. 7, n. 131, che trovasi nei Bollandisti, Acta ss. Junii, T. VII, p. 50. — Il Labacco, il Piranesi, l’Hirt, il Canina, nelle loro investigazioni danno soltanto delle belle dipinture. La storia del Castello fu scritta dal Fea, Sulle rovine di Roma; dal Donato, Roma vetus ac recens, IV, c. 7, e dal Visconti, Città e famiglie antiche, Sec. II, p. 220, sq. — Quest’ultimo avrebbe dovuto giustificare la sua asserzione priva di fondamento che Alarico saccheggiasse il mausoleo e distruggesse l’urna sepolcrale di Adriano. Avrò spesse volte occasione di tornare a discorrere di questo sepolcro, della memoria di Adriano nel medio evo: e mi converrà annodare la narrazione delle sorti di quell’edificio ai tempi che è mio cómpito di descrivere.
374. Ecco nell’originale questo passo importante di Procopio, I, 22: τοῦτον δὴ τὸν τάφον οἴ παλαιοὶ ἄνθρωποι (ἐδόκει γὰρ τῇ πόλει ἐπιτείχισμα εἶναι), τειχίσμασι δύο ἔς αὐτὸν ὑπὸ τοῦ περιβόλου διήκουσι μέρος εἶναι τοῦ τείχους πεποίηνται.
375. Il Fea (p. 385) accoglie senza fondamento opinione che Teodorico comprendesse il sepolcro di Adriano entro le fortificazioni. Teodorico di Niem (De Schism. Papistico, lib. III, c. 10, p. 63) dice che a’ tempi di Ottone il grande, il Castello carcer Theodorici vocabatur. — Esso è chiamato: Domus Theodorici dall’Annalista Saxo, ad ann. 998.
376. Il Panvinio (Resp. Rom., C., p. 113, sq.) afferma erroneamente che s’alzassero mura nel Borgo, alle quali si unissero le due muraglie di congiunzione. Anche l’Alveri (Roma in ogni stato, II, p. 114) pone la porta Aurelia presso il portico del san Pietro. Il Nardini, I, p. 90, ammette che esistesse la congiunzione delle mura col sepolcro. Ma tutte queste cose sono involte in tanta oscurità nel racconto di Procopio, che mettono a disperazione gli Archeologi. Cfr. Becker, I, p. 196, e Nibby, Mura di Roma, c. VII.
377. L’Anonimo di Einsiedeln appella tutt’insieme questa porta, la mole di Adriano e la sua fortezza col nome di porta sancti Petri in Hadrianeo, e ne enumera 6 torri, 164 propugnacula ossia parapetti, 14 grandi feritoie e 19 feritoie minori. Procopio non fa cenno di questa porta; ma egli s’è dimenticato di parlare del ponte, ed appena è che si ricordi del fiume. Egli non parla neppure del ponte trionfale, perchè esso era già distrutto.
378. Procop., I, 22. Dovremo farne ancora menzione parlando di Adriano I. Nel medio evo tutto il borgo aveva nome di Porticus o Portica s. Petri.
379. Allorquando, a’ tempi di Alessandro VI e di Urbano VIII, si tramutò interamente il mausoleo in castello, negli escavi delle fosse si rinvenne il celebre Fauno dormente guasto da parecchie mutilazioni, ed il busto colossale di Adriano. — Narra Tacito che Sabino, fratello di Vespasiano, difese sè stesso sul Clivo Capitolino dai Vitelliani, dietro un paratio formato di statue: Sabinus — revulsas undique statuas, decora Majorum, in ipso aditu vice muri objecisset (Hist., III, 71). È questo il primo esempio di vandalismo di simil genere, e lo compierono Romani antichi.
380. Le canzoni che i Goti cantavano innanzi a Roma, morirono sventuratamente col loro popolo. Una sola di quelle avrebbe ai dì nostri inestimabile pregio.
381. Procopio (I, 24) esprime quella profezia colle parole: ἦν τὲ υἴοιμεν ζὲ καὶ ιβένυω, καὶ κατένησι γῤ σοενιπιήυ ἔτι σὸ πιαπίετα. Egli opina però che gli oracoli sibillini trovassero conferma e spiegazione soltanto dall’esito degli avvenimenti. Non mi fu dato di ricavare notizie dai frammenti degli oracoli sibillini dell’Opsopeo, che a pag. 483 riporta il passo antedetto.
382. Procop., I, 25: ἔχει δὲ τὸν τεὼν ἐν τῇ ἀγορᾷ πρὸ τοῦ βουλευτηρίου ὀλίγον ὑπερβάντι τὰ τρία φᾶτα. οὖτω γὰρ Ῥωμαῖοι τὰς μοίρας νενομίκασι καλεῖν.
383. Tale spiegazione è data dietro un passo di Plinio (34, 5) da Carlo Sachse: Gesch. und Beschr. der alten Stadt Rom., Hann., 1824, I, p. 700, n. 775. — Lo segue il Bunsen, III, 2, p. 120. — Il Nibby (nelle sue annotazioni al Nardini, II, p. 216, il quale ne dà una spiegazione poco soddisfacente) determina giustamente che il tempio di Giano fosse collocato presso il Secretarium del Senato. Il Giano Gemino era in origine la porta Januale che aprivasi nelle mura antiche della Città. Se ne vede la figura sopra una moneta coniata ai tempi di Nerone coll’iscrizione: S. C. Pace Pr. Terra Mariq. Parta. Janum. Clausit. L’antica costumanza romana si svela sotto altra forma in Roma cristiana, nell’usanza di aprire e di chiudere le porte sacre di alcune basiliche in occasione del Giubileo.
384. Ne trovo conferma in un antico litografo romano del secolo V (Tom. III, Classicor. Auctor. e Vat. Cod., editi dal cardinal Mai, Mythographus, I, p. 40). Dopo di aver dato spiegazione «de tribus furiis vel Eumenidibus» prosegue:
110. de tribus fatis.
Tria fata etiam Plutoni destinant. Haec quoque destinant. Haec quoque Parcae dictae fer antiphrasin, quod nulli parcant. Clotho colum bajulat, Lachesis trahit, Atropos occat. Clotho graece, latine dicitur evocatio; Lachesis, sors; Atropos, sine ordine.
385. I due inni furono letti dal Niebuhr in un manoscritto della biblioteca Vaticana, e furono da lui publicati nel Rhein. Mus., III, p. 7, 8. Egli ne riferisce l’origine agli ultimi tempi dello Impero. La glossa de tribus fatis riportata di sopra si accorda mirabilmente col primo inno. Essa contiene l’istessa frase: Clotho colum bajulat, ed io credo che, se non ne sia autore lo stesso Mitografo, sieno almeno ambedue scritture dello stesso tempo, del secolo V. — L’inno mondano sembra che fosse indiritto ad una statua di Venere: nel verso «Furis ingenio non sentias dolum» credo di vedere espresso il timore di predoni di statue, ed imagino che fosse un inno di duolo che un Romano volgesse ad un simulacro suo diletto. Assai oscura è l’ultima strofa. Del resto eranvi Pagani ai tempi ancora di Teodorico (Edictum Theodorici Regis CVIII, nelle Op. Cassiodori). Nè havvi dubbio che fossero alcuni Pagani anche in Roma, quando pure il tentativo di aprire le porte del tempio di Giano possa essere stata opera di alcuni giovani, la cui fantasia fosse accesa di rimembranze dalla pugna combattuta.
386. στρατιώτας τε καὶ ἰδιώτας ξυνέμιξε. Egli è questo il titolo onorevole accordato ai Romani. Procop., I, 24.
387. Sonavansi alcuni organi sulle mura. Doveva essere uno spettacolo meraviglioso. Nè saranno mancati inni con rimembranze antiche cantati dalle genti di guardia. — Nell’anno 924 quando il popolo di Modena vegliava in armi contro gli Ungheri assalitori, i cittadini cantavano un loro bell’inno in buon latino:
O tu, qui servas armis ista moenia
Noli dormire, moneo, sed vigila.
Dum Hector vigil extitit in Troja
Non eam cepit fraudulenta Graecia ec.
Muratori, Dissert. 40, e Ozanam, Docum. inédits etc., p. 68, 69. La purezza della lingua induce a credere che quell’inno sia assai antico, e nel ritmo e nel suono è simile ai due canti del Niebuhr.
388. Il testo di Anastas., Vita s. Silverii narra con ingenuo discorso: Et ingresso Silverio cum Vigilio solo in Manseolum, ubi Antonina patricia jacebat in lecto, et Belisarius patricius sedebat ad pedes ejus etc.
389. Liberatus Diac., nel Breviar., c. 22, narra distesamente la storia di Silverio. Egli racconta che la morte di lui avvenisse in Palmarola (secondo altri in Ponza) e che ne fosse reo Vigilio. Intorno alla Cronologia si consulti il Jaffé, Regesta Pontif. Rom., p. 75, 76.
390. Il Nibby (della Via Portuense e dell’antica città di Porto, Roma, 1827) ha sul porto dei Romani un erudito lavoro che io ho seguito. Si consulti anche il suo Viaggio di Ostia, e le ricerche del Fea e del Rasi, intorno al porto di Ostia e di Fiumicino.
391. Così ne scrive l’appellato Aethicus (ed. Gronov., p. 41): Insula vero, quae facit intra urbis portum et Ostiam civitatem, tantae viriditatis amoenitatisque est, ut neque aestivis mensibus neque hyemalibus pasturae admirabiles herbas dehabeat. Ita autem vernali tempore rosa, vel caeteris floribus adimpletur, ut prae nimietate sui odoris et floris insula ipsa Libanus almae Veneris nuncupetur.
392. Quest’importante descrizione di Ostia e di Porto è data da Procopio, I, c. 26. Giova consultare Cassiodoro, Var., lib. VII, 9. La Tor’ Bovaccina, che è una torre del medio evo la quale s’alza sulla sponda del fiume, determina oggidì l’estremo confine dell’antica Ostia. Tutto il territorio è una regione selvaggia e deserta, di stile grandioso, che inondata dalle acque induce tristezza nell’animo. — Si veda anche Cluver, Ital. Antiqua, III, p. 870, sq.
393. Procopio narra che durante l’assedio si dessero sessantanove combattimenti.
394. I nomi di quegli acquedotti non ci furono conservati da Procopio. Dalle carte del Fabretti, De Aquis et Aquaed., Tav. I, si pare che ivi potessero incontrarsi l’acquedotto Claudio ed il Marcio.
395. Il san Paolo non era allora peranco difeso dalla fortezza che vi fu eretta soltanto nel secolo IX. Procop., II, 4: ἐνταῦθα ὀχύρωμα μὲν οὐδαμῆ ἔστι, στοά δέ τὶς ἄχρι ἔς τὸν νεὼν διήκουσα ἔκ τῆς πόλεως, ὄλλαι τὲ πολλαὶ οἰκοδομίαι ἁπ’ αὐτῶν οὗσαι οὔκ ἒυφοδον ποιοῦσι τὸν χῶρον.
396. Esiste un Editto di Teodorico in 154 articoli, che è un cattivo riassunto degli ordinamenti legislativi romani, come narra il Savigny.
397. La Cronologia di Procopio è inesatta nella parte che riguarda il secondo ed il terzo anno della guerra. Laddove secondo il suo computo dovrebbe accogliersi il dato della primavera ossia dell’Aprile dell’anno 535, è manifesto che Vitige partisse nella primavera del 538, ossia dopo la fine del terzo anno della guerra. Il cardinal Noris (Dissert. hist. de Syn. V, p. 54) rimprovera a Procopio di aver confuso insieme il secondo col terzo anno di guerra: io trovo però che dopo il terzo anno egli si restituisce nell’esattezza coi suoi computi.
398. Il Muratori sostiene con sana opinione contro il Pagi che questo avvenimento succedesse verso la fine dell’anno 539. Annal., ad ann. 340. — Dissert. 32.
399. Anastas., Vita Vigilii. — Il Mabillon (Iter. Ital., III, p. 77) vide nel Museo Landi in Roma, nell’anno 1685, uno scudo votivo in bronzo di Belisario, Vitigem regem supplicem exhibens.
400. Il cognome di Totila era Baduela, come si pare anche dalle monete coll’iscrizione: D. N. BADUILA REX, e come lo chiamano anche la Histor. Misc. e Giornande. — Anastasio scrive Badua o Badiulla.
401. Multa mala facis, multa fecisti, jam ab iniquitate compescere. Equidem mare transiturus es, Romam ingressurus, novem annis regnabis, decimo morieris. Hist. Misc., XVI, p. 458, e Annal. Benedict., nel Mabillon, ad ann. 541, T. I, p. 97.
402. Procop., Hist. Arcana, c. 26.
403. Gravi difficoltà s’incontrano nella cronologia, poichè il continuatore della Cronica di Marcell. Com., sembra accogliere l’anno 544 per la caduta di Napoli. Ma il Muratori sostiene invece che avvenisse nel 543, e anche il Pagi afferma che Totila in quest’anno movesse contro Roma.
404. Procop., III, 9.
405. Procop., III, 10.
406. Nella cronologia io seguo il Muratori, il Pagi e Procopio, nè mi vi sconforta il cardinal Noris (Dissert. Hist. de Syn. V, p. 54). Procopio narra che Roma fosse cinta d’assedio nell’undecimo anno della guerra (quindi 545-546). Il Gibbon pone il Maggio dell’anno 546, ma non riesce a dimostrare che avvenisse in quel mese. Il Baronio, sulla fede del continuatore di Marcellino, di Mario Aventic. e di Teofanio, accoglie l’anno 547, ma il Muratori ne combatte l’opinione.
407. Ricavo questa notizia dal Dial. III, c. 5, di s. Gregorio dove dice di Totila: Ad locum, qui ab octavo hujus urbis milliario Merulis dicitur, ubi tunc ipse cum exercitu sedebat. Oggidì ancora quel luogo ha nome di Campo di Merlo. Narra Gregorio che Totila vi avesse fatto venire Cerbonio vescovo di Populonium, il quale aveva celati alcuni soldati greci, e che poi in uno spettacolo (probabilmente dopo la presa di Roma) lo avesse dato in balia di un orso, il quale vi passò innanzi sprezzandolo.
408. Procop., Hist. Arcana, c. 1, e Liberat. Diacon., Breviar., c. 22.
409. Dovevano essere condannati Teodoro di Mopsuestia, i libri di Teodoreto di Ciro contro i XII Capitoli di san Cirillo, e una lettera di Iba di Edessa.
410. Anastas., Vita Vigilii.
411. Anastas., in Vigilio: videntes Romani, quod movisset navis, in qua sedebat Vigilius, tunc populus coepit post eum jactare lapides, fustes et cacabos, et dicere: fames tua tecum, mortalitas tua tecum: male fecisti cum Romanis, male invenias ubicumque vadis. Avvenimento straordinario, a cui fu somigliante come copia a originale l’altro succeduto ai tempi di Eugenio IV, novecento anni più tardi. Ne dubitano il Baronio, il Pagi, il Muratori, non già il Platina. È impossibile al Cronista di trovare notizie delle circostanze particolari del fatto. Si paragoni anche la Vita Vigilii ex Amalrico Augerio (Muratori, Script., III, 2, p. 51).
412. Continuat. Marcell. Com., ad ann. 547: Totila dolo Isaurorum ingreditur Romam die XVI Kal. Januarii. — Anast., in Vigilio, afferma che i Goti penetrassero per porta san Paolo (tuttavia Procopio è testimonio che merita fede maggiore): Die autem tertiadecima introivi in civitatem Romanam indict. 14 per portam s. Pauli; e questo deesi riferire alla seconda presa di Roma al tempo di Totila. — Gli argomenti pei quali il cardinal Noris, p. 54, afferma che Roma cadesse nell’anno 547, sono a ragione rifiutati dal Muratori e dal Pagi. Le narrazioni dei Cronisti sono di molto discordi: così, secondo i Fragm. Cuspiniani, Totila avrebbe distrutte le mura di Roma soltanto nell’anno 548.
413. Questo tratto di umanità è narrato da Anast., in Vigilio: tota enim nocte fecit buccina clangi, usque dum cunctus populus fugeret, aut per ecclesias se celaret, ne gladio Romani vitam finirent.
414. Anastasio ricorda i nomi di tre patrizi, Cetego, Albino e Basilio, che altra fiata avevano tenuto il consolato. Flavio Basilio juniore era stato l’ultimo console nell’anno 541. Gli anni seguenti furono segnati dal loro numero post consulatum Basilii.
415. Procop., III, 20.
416. Ingressus autem Rex habitavit cum Romanis quasi pater cum filiis. Anastas., in Vigilio. — E Procopio ne lo loda, III, 20, verso la fine: μέγα τὲ κλέος ἐπὶ σωφροσύνῃ ἔκ τούτου τοῦ ἔργου Τωτίλας ἔσχε.
417. ὑπὲρ ἀνδρῶν ἐπταικότων τὲ καὶ δεδυστυχηκότων παραιτούμενος. Procop., III, 21.
418. Procop., III, 22. — Non può mettersi in dubbio che la parte delle mura, che si stende fra porta Prenestina e porta Pinciana, non sia stata allora demolita. In quel tratto le mura sono oggidì le più deboli, e vi si vedono restaurazioni operate nell’età di mezzo.
419. Il savio Muratori, Annal., ad ann. 546, dice: laonde gli passò così barbara voglia, se pure mai l’ebbe.
420. Procop., III, 22.
421. Il Continuatore di Marc. Com., ad ann. 547, dice: ac evertit muros, domus aliquantas igni comburens, ac omnes Romanorum res in praedam accepit. — Procop., IV, 22: ἐπεὶ ἐμπρήσας αὐτῆς πολλὰ ἔτυχεν, ἄλλως τε καὶ ὑπὲρ Τίβεριν ποταμόν. — IV, 33: ἐτύγχανε δὲ Τωτίλας πολλὰς μὲν ἐμπρησάμενος τῆς πόλεως οἰκοδομίας.
422. Leonardo Aretino (morto nell’anno 1444) scrisse bellamente una storia della guerra gotica sulle orme di Procopio, intitolata: De bello Italico adv. Gothos, lib. IV, che trovasi in appendice al Zosimo dell’edizione di Basilea. Quel passo degno di nota leggesi verso la fine del libro III, p. 333. — Le favole intorno alla rovina di Roma, e particolarmente sulla distruzione degli obelischi operata da Totila, sono narrate da due scrittori che trattarono degli obelischi della Città, dal Mercati (Degli obelischi di Roma, 1589) e dal Bandini (De Obelisco Caes. Aug., 1750) che giura sulla fede del primo. Ecco un esempio del loro senno critico: Giornande (De regni success., Murat., Script., I, p. 242) dice: omniumque urbium munimenta (baluardi) destruens, ed il Mercati legge monumenta (monumenti!). Tuttavia ancor più degno di biasimo è il Bandini, il quale scriveva nel tempo in cui un discendente dei Goti, il Winckelmann, dava ai Romani insegnamenti sull’arte dell’antichità, ed illustrava la storia dei loro monumenti.
423. S. Gregor., Dialog. II, c. 15: Roma a gentibus non exterminabitur, sed tempestatibus, coruscis, turbinibus ac terrae motu fatigata, marcescet in semetipsa. Questa profezia, dice il Pontefice, si compiè alla lettera; e questo detto mentre da un lato discolpa i Barbari dall’accusa, è prova del decadimento di Roma nel quale noi la vedremo più tardi precipitare ogni dì più.
424. Vuolsi che Algido fosse situato ov’è oggidì il castello dell’Aglio, le cui rovine coronano la sommità di un monte in vicinanza di Rocca Priora. Ma l’Algido di Procopio doveva essere posto altrove, imperocchè come mai i Goti accampati sopra un monte della terra d’Albano avrebbero potuto operare contro Porto? Il Nibby propone che sia da leggere Alsium ch’è l’odierno Palo. Vedasi la sua Analisi della Carta ec., I, p. 129.
425. Jornand. (De regni success., Murat., Script., I, p. 242) dice energicamente: Cunctos Senatores nudatos, demolita Roma(!), Campaniae terra transmutat.
426. Il Continuatore di Marcell. Com., dice: Post quam devastationem XL aut amplius dies Roma fuit ita desolata, ut nemo ibi hominum, nisi bestiae morarentur. — Procop., III, 22: ἔν Ῥώμῃ ἅνθρωπον οὐδένα ἐάσας, ἀλλ’ ἔρημον ἀυτὴν τὸ παράπαν ἀπολιπών.
427. Per desiderio ardente di tornarsene alla città nativa, τῆς τὲ ὲν Ῥώμῃ οἰκήσεως ἐπιθυμίᾳ dice Procopio, III, 24: ed è passione, anzi malattia antica degli uomini.
428. A queste macchine dette τρίβολοι il Gibbon dà a torto descrizione di trabocchetti: meglio il Muratori le spiega per cavalli di Frisia. Il Ducange nel suo Glossar., reputa che tribulus sia lo stesso che trabuchetum, macchina che scaglia sassi, locchè qui non può accogliersi. Egli non cita il passo che si riferisce al punto di storia di cui trattiamo, ma egli conosce la macchina da una descrizione di Vegetius, 3, c. 24.
429. Procop., III, 37.
430. Procopio (III, 24), per vero dire, parla soltanto dei ponti del Tevere, e dice, che il solo ponte Milvio non sia stato distrutto, perchè era vicino alla Città. Tuttavia possiamo persuaderci di leggieri che fossero i ponti sull’Anio quelli che Totila distrusse, poichè questo fiume interrompe la via che mena a Tivoli. Egli tagliò ponte Salaro, ponte Nomentano, ed anche ponte Mammolo, ma naturalmente non già ponte Lucano che stava al di sotto di Tivoli.
431. Alberto Cassio, il quale con somma diligenza compilò una storia degli acquedotti di Roma, accoglie questa opinione. Vedi il suo Corso delle acque antiche, Roma 1756, T. I, n. 28, p. 260. Infatti un’iscrizione mutilata, di cui leggesi una parte che dice: Belisarius. Adquisivit. Anno. D..., fu rinvenuta sopra un’arcata dell’acquedotto presso il lago Sabbatino nelle vicinanze di Vicarello. Appresso mi sarà data occasione di confortare quest’opinione colla testimonianza ricavata da un passo del Liber Pontif., Vita Honor., che il Cassio sembra non aver avuto sott’occhio.
432. Anastas., in Vigilio: in qua scripsit victorias suas. E qui è da prendersi nel significato del greco γράφειν, non già in quello più comune di scribere. — Alcune iscrizioni sepolcrali del tempo di Belisario che trovansi in Roma, sono preziose per la Storia. Il Muratori nel Nov. Thes. Vet. Inscr., p. 1852, n. 12, ne dà quella di uno Spatharius domini Patricii Belisar.; ed io mi feci mostrare dai monaci di san Pancrazio in Via Aurelia i frammenti dell’iscrizione funeraria di un tintore che il Marini riporta nelle annotazioni ai suoi Pap. Dipl., p. 251, n. 28.
433. καὶ πανταχόθι τῆς πόλεως σῖτον ἐντὸς τοῦ περιβόλου σπείρας: passo preziosissimo che vale a dipingerci le condizioni di Roma a quel tempo. Procop., III, 36.
434. La ricordanza del luogo ov’era situato questo campo deve essersi conservata a lungo. Io credo di trovarne vestigio in un registro di amministrazione ecclesiastica in cui vien fatto cenno di una massa situata juxta campum Barbaricum ex corpore patrimon. Appiae. (Collect. Deusdedit che trovasi nella Breve Istor. del dom. Temp. del Borgia a pag. 12, nei documenti).
435. Procop., IV, 21.
436. Non v’ha alcun dubbio che il foro boario ne avesse nome; infatti Ovidio (Fastor., 6, v. 478) dice: area quae posito de bove nomen habet. E vedansi Tacit., Annal., 12, c. 24; Plin., II, 34, ai quali richiamò la mia attenzione il Nardini, Roma Ant., II, p. 257. — Dagli undici epigrammi di Ausonio sulla vacca di Mirone traggo i due versi:
Quid me, taure, paras, specie deceptus, inire?
Non sum ego Minoae machina Pasiphae.
L’Antologia greca contiene trentasei epigrammi. — Il Winckelmann (Gesch. der Kunst des Altert., IV, vol. 9, c. 2, nota 372) è indotto dal passo succitato di Procopio ad accogliere l’opinione che la vacca di Mirone fosse allora in Roma: il Fea, che tradusse l’opera, si associa all’opinione di lui.
437. Cassiodoro (Var., lib. X, 30) ne prende argomento a parlare con loquacità infantile intorno alla natura degli elefanti.
438. Procop., Histor. Arcana, c. 8: ἐπὶ τῆς εἶς τὸ καπετώλιον φερούσης ἀνόδου ἔν δεξιᾷ ἔκ τῆς ἀγορᾶς ἐνταῦθα ἱόντι. Dalla descrizione di Stazio (Silv., I, v. 66) la statua equestre si sarebbe eretta tra la basilica Giulia e la Emilia; avrebbe avuto a tergo il tempio di Vespasiano e della Concordia, e di fronte il Lacus Curtius. È certo dunque che si alzava nel luogo ove stava più tardi la colonna di Foca. — Il Nibby opina che al tempo in cui fu compilata la Notitia, alla statua equestre di Domiziano si desse nome di Caballus Constantini (Vedi Roma Ant., p. 138). Difficilmente essa sarebbe sfuggita allo sguardo di Procopio se avesse ancora esistito.
439. Ho già citato il passo di Procopio, IV, 22.
440. Νεώσοικος significa Navale. Io ho già dichiarato ove fossero probabilmente situati i Navalia, ma la espressione di Procopio ἔν μέσῃ τῇ πόλει involge in gravi difficoltà.
441. Procopio vide nell’isola di Corcira la nave di marmo in cui Ulisse navigò ad Itaca, ma vi lesse l’iscrizione che diceva essere essa un dono votivo offerto a Giove Casio. In Eubea egli vide la nave offerta in dono votivo da Agamennone e ne reca la iscrizione mutilata (De bello Goth., IV, 22). In Roma stessa egli avrà veduti parecchi di quei vascelli votivi in marmo: ed oggidì uno ancora ne rimane, sul monte Celio, innanzi alla chiesa di santa Maria in Navicella. Esso è però la copia di uno antico, eseguita ai tempi di Leone X.
442. Procop., IV, 33: τειχίσματι βραχεῖ ὀλίγην τινὰ τῆς πόλεως μοῖραν ἀμφὶ τὸν Ἀδριανοῦ περιβαλὼν τάφον καὶ αὐτὸ τῷ προτέρῳ τείχει ἐνάψας φρουρίου κετεστήσατο σχῆμα.
443. πολλοὶ τῶν ἀπὸ τῆς ξυγκλήτου βουλῆς dice chiaramente Procopio (IV, 34).
444. Procopio (ibid.) parla di trecento giovinetti delle città d’Italia: τῶν ἔκ πόλεως ἑκάστης δοκίμων Ῥωμαίων τοὺς παῖδας ἀγείρας. Questo passo venne franteso dal Curtius (De Senatu Rom., p. 142), il quale reputa che quei giovinetti condotti in ostaggio fossero figli di Senatori romani. All’istesso errore fu indotto Ruggiero Williams, nel suo eccellente scritto intitolato: Roma dal secolo V al secolo VIII, edito nella Gazzetta delle Scienze istoriche dello Schmidt, II, dispensa 2, pag. 141. Del pari egli erra allorchè narra che Totila abbia formalmente soppresso il Senato, indi l’abbia riposto in autorità: non ve n’ha il menomo cenno in Procopio. Totila condusse in cattività i Senatori, e più tardi ne richiamò alcuni nella Città.
445. Anche nei tempi successivi avrò sempre riguardo alla storia del Senato. Dopo di aver consultati tutti gli scrittori di storia che io mi conosca, intorno a questa curiosa ricerca, trovai che quell’opinione è pienamente accolta e confermata da Carlo Hegel nella profonda sua opera intitolata: Storia della costituzione delle città italiane, Vol. I, V. — E per dirla in breve, il Senato romano si estinse colla distruzione del regno dei Goti: Deinde paullatim Romanus defecit Senatus, et post Romanorum libertas cum triumpho sublata est. A Basilii namque tempore Consulatum agentis usque ad Narsetem Patricium provinciales Romani usque ad nihilum redacti sunt. Così Agnello, biografo dei Vescovi di Ravenna, T. II, Vita s. Petri Senior., c. 3.
446. L’antica colonia romana di Nepi o Nepet (Νὲπα in Procopio) è un piccolo luogo posto presso a Civita Castellana. Più tardi ci avverrà di trovarla seggio di Duces. William Gell (The Topography of Rome and its Vicinity) vuole riconoscervi alcuni avanzi di una fortezza gota; e ciò richiede un occhio acuto assai. — Pietra Pertusa è situata sulla Via Flaminia a dieci miglia di distanza da Roma. Dopochè i Longobardi l’ebbero distrutta, ne rimase il nome ad un casale. Vedi il Westphal, p. 135. — Intorno ai nomi ed alle posizioni si consulti il Cluver, Ital. ant., II, p. 529.
447. Αὐτὸς δὲ Ῥώμην διακοσμῶν αὐτοῦ ἔμεινε. Procop., IV, 34.
448. Qui Procopio pone fine alla sua inestimabile storia della guerra gotica, dopo di avere con pochi cenni detto che i Greci (ai quali egli dà sempre nome di Ῥωμαῖοι) s’erano impadroniti di Cuma e di tutte le altre fortezze. Aligerno con somma bravura difese per un intiero anno Cuma e la grotta della Sibilla.
449. Jornand., De reb. Get., c. 5: Unde et pene omnibus barbaris Gothi sapientiores semper extiterunt, Graecisque pene consimiles. È prezzo dell’opera che si legga la celebre lettera di Sisebuto re dei Visigoti ad Adelvaldo re de’ Longobardi in cui quegli celebra l’eroica indole degli uomini germanici: Genus inclitum, inclita forma, ingenita virtus, naturalis prudentia, elegantia morum. Trovasi nel Troya, Cod. Dipl. Long., I, p. 571, tratta dal Florez, España Sagrada, VII, 321-328.
450. Si legga la Historia Arcana, c. 6 e seg., nella quale Procopio pone alla berlina Giustiniano, dipingendolo uomo malvagio, doppio, ingannatore, avaro, sanguinario, tracciandone l’imagine sul modello del ritratto di Domiziano. Procopio vi fa seguire (c. 9) la descrizione infamante di Teodora, la quale potrebbe sembrare esagerata anche al libertino più sperimentato. Si consultino le annotazioni erudite dell’Alemannus a quei passi.
451. Muratori, Annal. d’Italia, ad ann. 555. Si veda anche il sano giudizio che ne reca il La Farina nella sua Storia d’Italia, I, p. 61 e seg.
452. Flaminio Vacca vi narrava con fedele semplicità ciò ch’egli aveva veduto trarre dagli escavi eseguiti al tempo suo. Egli raccoglieva le sue pregevoli osservazioni intorno a parecchi monumenti antichi per incarico di Anastasio Simonetti antiquario di Perugia. Quelle memorie furono edite dal Fea nella Miscellan., Tom. I, e dal Nibby in appendice alla Roma Antica del Nardini, sotto il titolo: Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi della città di Roma, scritte da Flaminio Vacca nell’anno 1594.
453. Intorno ai forami dei monumenti di Roma scrissero parecchi Archeologi. Il Suares, vescovo di Vaisson, nell’anno 1651, dedicava a queste ricerche un suo scritto intitolato: Diatriba de foraminibus lapidum in priscis aedificiis, nel quale egli pone sette ipotesi senza decidere quale meriti maggior fede. Egli propone: 1.º che i Barbari nel loro furore, non potendo demolire da capo a fondo i monumenti, vi recassero il guasto: 2.º che i monumenti ricevessero danneggiamento dalle case costruitevi sopra, oppure: 3.º dai serragli fatti nei rivolgimenti: 4.º dall’avidità di strapparne gli arpioni di metallo: 5.º dagli escavi fatti a ricercarvi tesori: 6.º dall’uso dei loro materiali adoperati alla costruzione di fortezze: 7.º dalla erezione di botteghe sovrapposte al Colosseo. — Si veda inoltre l’eccellente opera del Marangoni, Delle Memorie sacre e profane dell’Anfiteatro romano, Roma 1747, p. 47 e seg. — Il Fea, Sulle rovine di Roma antica, p. 276, 277, parla con senno dell’impossibilità che i forami fossero tutti fatti dai Barbari. Il Vacca con ingenuità dice: tutti bucati all’usanza de’ Goti, per rubarne le spranghe ecc. Io credo che forami per la maggior parte avessero origine dallo strappamento degli arpioni nei tempi di penuria di metallo.
454. Flaminio Vacca, n. 17.
455. Flaminio Vacca, n. 81.
456. Flaminio Vacca, n. 103. Non è determinato quale fosse quest’arco: forse sarà stato quello di Settimio Severo.
457. Agathias, ch’è lo scipito e prolisso continuatore di Procopio, dà una compiuta descrizione di questa battaglia: Historiar., II, c. 4 e seg. (ed. Bonn.). Si legga anche Paul. Diacon., De gest. Longob., II, c. 2. — Reca stupore che la Cronica di Mario Aventic. disgiunga di sette anni i tempi di Bucelino da quelli di Leutari.
458. Sigon., De Occid. Imp., p. 553.
459. Agathias, II, c. 13: ἔς Κάμψας τὸ φρούριον. Il Muratori accoglie opinione che fosse il castello di Compsa, ch’è l’odierno Consa, antico borgo del territorio Arpinate di cui si può cercare notizia nel Cluver, Ital. ant., IV, p. 1204. — Colla presa di Compsa, cessa Agatia di fare parola intorno ai Goti. Da parecchi scrittori si pare che Narsete non cacciasse d’Italia gli ultimi Goti, ma ch’eglino continuassero a dimorare presso le sponde del Po. Si fa ancor cenno di un goto Guidino, il quale, coll’ajuto dei Franchi, si sollevava in Verona ed in Brescia contro Narsete. Si consultino Paul. Diac., II, 2, Theophan., Chronogr., p. 201, Menander, Excerpta, p. 133, (quest’ultimo parla però soltanto di Franchi). — Il Muratori s’industria a dimostrare che questa sollevazione avvenisse nell’anno 563.
460. Sigon., De occid. Imp., p. 556.
461. Procop., Hist. Arcana, c. 18.
462. Pragmatica Sanctio Justiniani Imper., nel Corpus Juris civ. di Gotofredo, T. II, Parigi 1628, fra le Novellae Constit. nell’Appendice, p. 684 e seg. La Sanzione Prammatica fu emanata nell’anno vigesimottavo di regno di Giustiniano, agli idi di Agosto, e fu indiritta ad Antioco, prefetto d’Italia.
463. Quae beatissimo Papae vel amplissimo senatui nostro pietas in praesenti contradidit.
464. La Pragm. Sanctio al § 12, dispone espressamente in riguardo ai giudici della provincia: Ab episcopis et primatibus uniuscujusque regionis idoneos eligendos. Di questi argomenti importanti tratta con somma chiarezza Carlo Hegel, pag. 126.
465. Il passo di Iohann. Lydus, de Magistr., III, c. 55, che dice: τῇ δὲ Ῥώμῃ τὰ Ῥώμης ἀπέσωσεν mi sembra un giuoco di frase.
466. Viros etiam gloriosissimos ac magnificos Senatores ad nostrum accedere comitatum volentes etc. (Sanct. Pragm., c. 27).
467. Vel foro aut portui Romano. — Che qui per foro non si abbia a intendere che il mercato del pane e delle grasce, sembrami che si deva ricavare dalla sua connessione con portus.
468. Anastas., in Vigilio, ed il continuatore di Marcell. Com., dicono che la morte del Papa avvenisse nell’anno 554. Il Pagi a miglior ragione la pone all’anno 555.
469. Multitudo religiosorum et sapientium nobilium. Anastas., in Pelagio.
470. La lettera di Adriano si legge tra gli Atti del secondo Concilio di Nicea nel Labbé, Tom. VIII, p. 1591. Il Pontefice vi novera le chiese di Roma che erano principalmente adorne di musaici, e, dopo di aver tenuto discorso del san Silvestro, del san Marco, della basilica di Giulio, del san Lorenzo in Damaso, della santa Maria (Maggiore) e del san Paolo, dice della basilica dei santi Apostoli: Mirae magnitudinis ecclesiam apostolorum a solo aedificantes historias diversam tam in musivo quam in variis coloribus cum sacris pingentes imaginibus.
471. Si fa seguace di questa opinione anche Andrea Fulvio, Ant. Rom., V, là ove parla delle chiese cristiane. Il Volaterrano, protonotario e vicario della basilica dei santi Apostoli, descrisse la chiesa nell’anno 1454, ed il Martinelli (Roma ex ethn. sacra, p. 64 e seg.), ne trasse lo scritto dal Cod. Vat., 5560. Il Volaterrano vide la chiesa antica e lesse sull’abside i versi seguenti:
Pelagius coepit, complevit Papa Ioannes
Unum opus amborum par micat et meritum.
472. Il Volaterrano nel Martinelli.
473. Il Galletti (Del Primicerio ec., n. LXI, p. 323, nel Fea, Sulle rovine di Roma, p. 355, nota D) dà il documento tratto dall’Archivio di santa Maria in Via Lata dell’anno 1162. A quello io mi riporto.
474. Trovasene la copia stampata perfettamente nel Marini, Papir. Diplom., N. I. — Le appellazioni topografiche appartengono indubbiamente al tempo dei Mirabilia e dell’Ordo Romanus Benedicti.
475. Pragm. Sanctio, c. 25.
476. Imperante D. N. Piissimo ac Triumphali semper Justiniano P. P. Augusto Ann. XXXVIIII. Narses Vir gloriosissimus ex praepositus Sacri palatii ex cons. atque patricius post victoriam Gothicam ipsis eorum regibus celeritate mirabili conflictu publico superatis atque prostratis libertate urbis Romae ac totius Italiae restituta pontem viae Salariae usque ad aquam a nefandissimo Totila tyranno destructum purgato fluminis alveo in meliorem statum quam quondam fuerat renovavit.
477. Gruter, p 161. Vedi che rimanga delle opere dei mortali! Questi unici monumenti di Narsete più non sono: caddero nell’Anio quando i Napoletani, nella loro ritirata da Roma nell’anno 1798, distrussero il ponte. — Il padre Eschinardi (Dell’Agro romano, p. 324) accoglie opinione che Narsete riedificasse anche il ponte Nomentano sull’Anio. La Cronica di Mario Avent. narra che Narsete restaurasse Mediolanum, ed aggiunge vel reliquas civitates, quas Gothi destruxerant, laudabiliter reparatas etc.
478. Paul. Diacon., III, c. 12, e la Histor. Miscell., XVII, p. 112, dicono che il tesoro fosse trovato a Costantinopoli. Ambedue attinsero quella leggenda da Gregorio di Tours, V, 20.
479. Paul. Diacon., II, c. 5.
480. La fonte donde trae il suo racconto Paolo Diacono è Anastas., in Joh.: Tunc Romani invidia ducti suggesserunt Justino Augusto et Sophiae Augustae, dicentes: Quia expedierat Romanis, Gothis potius servire quam Graecis, ubi eunuchus nobis fortiter imperat, et servire male nos subjicit.
481. Ciò si pare dagli scritti di Agnellus, Lib. Pontif. (seu vitae Pontif. ravennatium. Ediz. di Modena, 1708), Tom. II, Vita s. Agnelli, p. 127: Tertio vero anno Justini minoris Imperatoris, Narsis Patricius de Ravenna evocitatus, egressus est cum divitiis omnibus Italiae, et fuit Rector XVI annis etc. E Mario Aventicense denota quest’epoca: ann. 2 cons. Justini Jun. August. Indict. I, che corrisponde all’ann. I, post Cons.
482. Narra il Sismondi che aranci di Salerno (multimoda pomorum genera) fossero mandati 500 anni più tardi dai primi avventurieri Normandi ai loro fratelli di Normandia, per far loro conoscere la beatitudine d’eliso della terra che era ferace di quelle frutta.
483. Era una parte dei cimitero di Pretestato nella Via Appia. Vedi la Roma sotterranea, III, c. 17, p. 190. Nei cimiteri delle chiese di Roma, presso alle basiliche s’alzavano anche abitazioni pei cherici.
484. Anastas., in Johanne, e Paul. Diacon., II, c. 11.
485. Agnellus, Vita s. Petri Senioris, II, p. 178; Italiae in palatio quievit: è il palazzo dei Cesari in Roma. — Horatius Blancus nell’annotazione al lib. II, c. 11 di Paolo Diacono vuole che sia da leggere Costantinopoli a vece di Italia.
486. Anastasio dice che Narsete morisse nell’anno in cui usciva di vita Giovanni, che, secondo i computi del Pagi e del Muratori, sarebbe il 573. Questa notizia non si associa a quello che fu per noi fin qui detto. L’opinione del Baronio che Narsete morisse in Costantinopoli, ha origine per ciò che egli scambiò l’Eunuco con un altro Narsete di cui cantò un cattivo Poeta Corippo (De laudibus Justini, II), come dimostra il Pagi. Anche il Cedreno ne fu indotto a confusione. Si può consultare Benedict. Bacchini, Dissert. II, ad cap. III vitae s. Agnelli, che trovasi nell’Agnellus Ravenn., II, p. 146.
487. Gli argomenti del Baronio sono combattuti dal Pagi e dal Muratori. Quest’ultimo è il più assennato. Il tradimento di Narsete è affermato chiaramente dal Sigonio, De Regno Ital., I, p. 6. La celebre Cronica anteriore all’Editto di re Rotari (c. 7), lo dice a chiare note (Edicta Reg. Longobard., ed. Baudi a Vesme, Torino, 1855), e quel fatto è narrato similmente in Herm. Contract., Chron., ad ann. 567, in Adonis, Chron., ad ann. 564. — Il Saint Marc, I, p. 157 e seg., rifiuta quella narrazione dicendola una leggenda, e vi si associa lo Zanetti, Del regno dei Longobardi, I, c. 12 e seg. Lo Schlosser, Stor. univers., I, 81, è incerto.
488. Giannone, III, c. 5.
489. Panciroli, Comm. in Notit. Imper. Occid., p. 116. — Paolo Diac., II, c. 14 e seg., enumera dieciotto province e ne assegna i confini: Venetia, Liguria, le due Rezie, Alpes Cottiae, Tuscia, Campania, Lucania o Bruttia. Come nona provincia descrive quella dell’Apennino che egli separa dalle Alpi Cozie. Indi novera Aemilia, Flaminia, Picenum, Valeria e Nursia, Samnium. La decimaquinta provincia compone di Apulia, Calabria e Salentum; decimasesta è Sicilia; decimasettima Corsica; decimottava Sardinia.
490. Il Savigny nella sua Storia del diritto Romano nel medio evo, I, c. 6, p. 339, prende argomento da questa separazione a dimostrare che «gli ordinamenti interni d’Italia continuano invariati anche al dì d’oggi».
491. Il Giannone con poca profondità di giudizio segue in quest’opinione ciò che dice superficialmente il Blondo, Historiar. Dec. I, c. 8, p. 102.
492. Cesare Balbo, Stor. d’Italia, I, c. 3, p. 18.
493. A dimostrarlo giova s. Gregor., Epist. 27, lib. XII, Ind. 7, dove è discorso di Venanzio nipote di Opilio patrizio, il quale, non possedendo titoli, voleva comperare per trenta libbre d’oro le chartae exconsolatus, e instava affinchè il Pontefice lo raccomandasse alla corte di Bisanzio.
494. Menander, Excerpt., p. 126: διὸ δὴ καὶ ἔκ τῆς συγγκλήτου βουλῆς τῆς πρεσβυτέρας Ῥώμης — πεμφθέντων τινῶν.
495. Blond., Histor. ab inclinat. Rom., Doc. I, lib. 8, p. 102: sed a Duce Graeculo homine, quem Exarchus ex Ravenna mittebat, res Romana per multa tempora administrata est. E si vedano le confutazioni opposte dal saggio Giovanni Barretta, Tabula chronogr. Medii aevi: Ducatus Rom., n. 105.
496. Liber Diurnus Rom. Pont., ed. Joh. Garner nella Nova Collectio dell’Hoffmann, T. II. — Il compilatore di quel formulario, di cui si servirono i Pontefici fino al sec. nono, è sconosciuto. Il tempo in cui fu composto cade tra l’anno 685 ed il 752. Tra i formulari delle lettere indiritte all’Imperatore, all’Imperatrice, al Patrizio, all’Esarca, al Console, al Re, ai Patriarchi, non havvene alcuno per il Duce di Roma. Ciò fu già notato da Ruggiero Williams.
497. Io feci studio diligente delle Biografie dei Papi di quei tempi, ed esaminando parola per parola trovai, che il primo passo in cui si parli del Duce è nella Vita Constantini, n. 176: Petrus quidam pro ducato Romanae urbis. In tutto il sec. VII è taciuto affatto del Senato e del titolo di Senatore.
498. Anast., in Conone: quod et demandavit suis judicibus, quos Romae ordinavit et direxit ad disponendam civitatem. Il Williams è biasimato da C. Hegel (I, pag. 226), perchè non tenne conto di questo passo, onde fu indotto a dire: che l’Esarca probabilmente non avrà reputato prezzo dell’opera di mandare un officiale a Roma, città che era divenuta di tanto lieve importanza.
499. Alcune delle correzioni qui raccolte per tutti e tre i Volumi, furono proposte dal chiarissimo Autore, che attese alla revisione di questi registri. (N. del T.)
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 553 sono state riportate nel testo.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.