*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 75829 *** DEGLI ULTIMI CASI DI ROMAGNA DI MASSIMO D’AZEGLIO Verba utilia quaesivi. _Eccl. XII._ VENEZIA COI TIPI DI LORENZO GATTEI EDIT. LIBRAJO 1848. A CESARE BALBO _Ti dono questo mio scritto, non perchè intenda che l’autorità del tuo nome abbia a farsi scudo a tutte le opinioni ch’egli esprime ma perchè so esser tu ed io concordi sulla più importante, su quella della nostra indipendenza; perchè so esser tu convinto, come io lo sono, della necessità di soffocare in Italia ogni favilla di discordia con larghe e reciproche concessioni sulle opinioni di minor conto, purchè da tutti si dia mano alla grand’opera della nostra nazionale rigenerazione; della necessità di discutere liberamente e senza mistero le cose nostre, discussione alla quale hai degnamente aperto il campo pel primo, e te ne è dovuto il vanto; perchè finalmente mi legano a te stretti vincoli di sangue e di lunga ed immacolata amicizia, e vincoli ancor più stretti, anzi i maggiori che possano stringere due cuori, quelli d’un eguale ed ardente amore di patria, e del desiderio di porre le forze e la vita per la sua liberazione._ M. A. Sui moti di Rimini del settembre scorso (1846) pochissimi, e forse que’ soli che si trovarono al fatto, hanno saputa la verità: ed in Italia, ove le corrispondenze particolari non osano, ed i pubblici fogli non vogliono dirla, non può essere altrimenti. Stando alle loro notizie, copiate dai fogli stranieri, e sparse così in tutta Europa, poche centinaia di disperati, guidati da un uomo condannato a dieci anni di galera, hanno turbata la pace pubblica, e rovesciata in Rimini l’autorità pontificia: poscia, spargendosi in piccole bande per l’Apennino, e fuggendo dinanzi alle baionette svizzere, in pochi giorni sono stati del tutto dissipati, e lasciando la città, hanno commesso disordini e ruberie, riportando taccia di perturbatori, ladri e codardi. Io stimo intempestivo e dannoso il moto di Rimini, come stimerò sempre intempestivi e dannosi siffatti moti parziali, ed aggiungerò a fronte alta, che li stimo perciò biasimevoli, non avendo diritto una ristrettissima minorità di farsi giudice se sia o no opportuno spinger la propria nazione nella gran lotta dell’indipendenza, non avendo diritto di giocar su un tiro di dadi la sostanza, la quiete, la libertà, la vita di un numero incalcolabile de’ suoi concittadini, e, quel che più importa, l’onore e le sorti future della intera nazione. Io disapprovo dunque il moto di Rimini; e questo scritto cadrà probabilmente in mano di molti che di tal disapprovazione potrebbero rendermi larga testimonianza, essendosi per tutta Italia sparsa molti mesi innanzi la voce prepararsi un moto in Romagna, ed avendo io cento volte ripetuto tenerla per cosa inconsiderata e dannosa. Ma se ho creduto e credo che i suoi autori non abbiano posto mente a quel che v’era d’impossibile, d’intempestivo, perciò d’ingiusto, nella loro impresa, ciò non vuol dire che s’abbiano a tenere per ladri e codardi, come hanno ripetuto i fogli italiani e stranieri; ed ora che sono vinti, ora che sono parte ricacciati in esilio, parte chiusi in carcere e sottoposti a giudici che non dirò prevaricatori, non avendo il diritto d’accusar chicchessia senza chiare prove, ma che dirò esposti a molte tentazioni di prevaricare, non piaccia a Dio che in tutta Italia non sia chi alzi la voce per la verità, per dirla imparzialmente ai vinti, come ai vincitori. Il nasconderla o tacerla, sarebbe oggimai vano, puerile e forse peggio. I casi di Romagna, per quanto di poco momento, sono pur sempre un episodio della questione dell’indipendenza italiana, questione che tanto più fervidamente viene agitata nel segreto de’ cuori e de’ colloqui, quanto più severamente le è vietato palesarsi in liberi discorsi ed in libere dimostrazioni: questione che ogni giorno più si estende, accendendosi anche in quella parte del popolo italiano, che, mal osservata, sembra inerte e senza pensier di sè stessa: questione che deve necessariamente agitare ogni nazione cui sia stata rapita la celeste eredità, lasciatale dal padre comune di tutti gli uomini, l’indipendenza: questione, finalmente, che può paragonarsi ad una gran mina scavata sotto l’intera Penisola, alla quale non s’ha diritto dar fuoco senza il consenso e l’approvazione dei più, tanto meno poi per desiderii o patimenti parziali; ma questione generale, necessaria, giusta, e che tutti giustamente e virtuosamente abbiam diritto di trattare. Ora, nascondere la verità su questa questione sarebbe vano, come dicemmo, e puerile. Tutti i governi, tutte le polizie italiane sanno, quanto lo sappiam tutti, che essa si discute, si agita, è in tutti i cuori, su tutte le lingue, e nessuno certamente riuscirebbe a dar loro ad intendere che non ci si pensa. Lo stesso s’ha da dire della polizia dell’Austria e de’ suoi uomini di Stato, i quali debbono bensì pel loro ufficio adoprarsi a danno anche dell’Italia, onde mantener validi i legami che uniscono le varie parti dell’Impero tendenti a dissolversi, e sono perciò politicamente da tenersi come nemici; ma che comprendono essi stessi non esser possibile che la cosa stia altrimenti, ed hanno poi, ne siam certi, mente troppo elevata (co’ nemici s’ha a spinger la giustizia sino allo scrupolo) per osar condannare la tendenza dello spirito italiano, e non rendergli anzi quell’omaggio che vorrebbero fosse reso a loro, se si trovassero nelle nostre circostanze. Se sarebbe puerile il creder di nascondere le nostre tendenze, le nostre speranze; il volerle poi tacere, il non osar parlarne moderatamente, e saviamente sì, ma liberamente ed a viso aperto, sarebbe peggio, sarebbe oramai viltà. Ma i governi? le polizie? le Commissioni? mi si potrà rispondere. Prima di tutto non vedo che a chi ha osato stampare liberamente le sue opinioni sulle sorti presenti e future d’Italia (e gl’invidierei questo vanto se gli fossi freddo amico), pubblicandole col suo nome in fronte, sia stato torto un capello. Cesare Balbo è testimonio vivente che io affermo la verità, e Niccolini ed altri vivono liberi e tranquilli. L’epoca de’ tiranni è molto lontana da noi. Il duca Valentino, Bernabò Visconti, Pierluigi Farnese non sarebbero più possibili. Chi volesse rinnovarli cadrebbe percosso dalla possente mano di quella che è oramai la vera dominatrice del mondo, de’ principi come de’ popoli, l’opinione. Il dir tirannici i governi attuali d’Italia è fanciullaggine alfieriana, come è fanciullaggine di poeta cesareo chiamar ladro chiunque si muove per desiderio d’indipendenza. I principi italiani, dovendo camminare tra due impossibili, o almeno tra due estremi difficilissimi, e guidati quasi esclusivamente dall’istinto della conservazione, non sono ne’ loro atti pubblici quali si potrebbero desiderare; ma nel loro privato sono generalmente uomini di temperato costume ed illuminati, ed al più potranno tagliar la via degl’impieghi a chi scrivesse anche con moderazione e verità cose che a loro non fosser grate, o non paressero opportune: ma certamente non lo faranno nè imprigionare, nè impiccare; ed i libri, comunque poi siano, non chiameranno sicuramente nelle parti d’Italia non soggette all’Austria, le baionette tedesche. Poi se tutto ciò non bastasse o non fosse vero, concediamo pure vi sia pericolo a parlar liberamente, pubblicamente e moderatamente degli affari nostri in casa nostra. Dirò allora che questo pericolo si deve incontrare dall’uomo virtuoso e d’onore pel proprio paese, come incontrerebbe quello della mitraglia quando la necessità o l’utile della patria lo domandasse. Dirò che il pericolo che s’incontra per la giustizia non deve trattenere dall’adempierla. Dirò che il coraggio civile non è inferiore al valor militare, a quello delle congiure e delle sommosse, ed è talora più opportuno, più applicabile a tutte le circostanze, meno incolpabile dalla malevoglienza: che, quantunque tanto più utile quanto maggiore è il numero di coloro che lo mostrano, può tuttavia mostrarsi anche isolatamente ed individualmente, ed il difetto del numero è allora compensato dall’esempio: allora, se non altro, si giuoca la posta d’un solo, non quella di tutti o di molti, senza aver avuto missione o consenso per arrischiarla. Dirò, finalmente, che, se una nazione non si cura della sua indipendenza, non deve muover nè rivoluzioni nè lamenti: se se ne cura, la desidera e la cerca, deve saperla meritare: e si merita non con iscosse parziali, intempestive, inconsiderate, che possono assomigliarsi all’atto rabbioso d’una fiera che s’ostini a insanguinarsi il muso battendolo invano contro i ferri della sua gabbia, più che alla generosa temerità di esseri ragionevoli che si mettano ponderatamente ad impresa pericolosa sì, ma non senza speranza di buona riuscita. Si merita col mostrare che quella prepotente forza che ha potuto materialmente sottomettere la nazione, non ne ha sottomesso la volontà, chè in ciò soltanto consisterebbe la vera degradazione. Si merita col mostrar virilmente, utilmente e tenacemente questa volontà sempre ed in tutti i modi possibili. Si merita col saper a tempo patire e sopportare con operosa rassegnazione, ed a tempo osare con opportunità e con giudizio. Si merita col pertinace studio d’ogni individuo per dotar sè stesso della maggior forza morale possibile. Si merita, finalmente, colla virtù degli opportuni, de’ lunghi, de’ grandi sacrifizii. E noi Italiani possiamo forse alzar la fronte, metterci la mano al petto, e dire a Dio ed agli uomini: Ce la siam meritata? Prima di prendere a dimostrare le mie proposizioni, cioè essere il moto di Rimini stato intempestivo, dannoso, e perciò biasimevole, sento il bisogno di dichiarare che mi è costato assai aggiungere quest’ultimo aggettivo, e non mi ci sono indotto se non dopo stretto esame e lunga ponderazione. L’alzar la voce per dir parole di biasimo ad uomini miei concittadini, che credo bensì indotti in errore, ma contro i quali son ben lontano dal muover le turpi accuse de’ fogli officiali, e che anzi hanno il merito incontrastabile d’aver praticata la difficil virtù del sacrificio, ed esposta la vita e quanto l’uomo ha di più caro per ciò ch’essi stimavano giovevole alla patria, il contristarli ora che la loro condizione, già assai dolorosa, s’è fatto peggiore, ora che soffrono, ora che vivono del duro pane de’ vinti e degli sbanditi, mi costa un vero sforzo, essendo nella natura mia sentirmi sempre più inclinato a favorire il vinto, che il vincitore, e stimando non esservi al mondo atto più vile ed abbietto di quello di lanciare il sasso a chi fugge. Ma sento nella mia coscienza non commettere, con questo scritto, atto che somigli a cotale viltà. Sento che mi muove soltanto il desiderio di dire ciò che credo utile alla causa comune; di dire il vero con tutta la moderata ed imparziale libertà di cui è capace l’animo mio. Sento di non essere ora, come la Dio grazia non sono stato mai, adulatore a persona, nè ai governi, ai quali non domando oro, onori od impieghi, nè ai miei concittadini, dei quali, Dio lo sa, desidero, sopra ogni cosa al mondo, la benevolenza e la stima, ma purchè non mi costi, non dirò una menzogna, un’adulazione, ma neppure una reticenza, trattandosi d’opinioni. Risoluto ad esporle, perchè credo utile alla patria, non il mio povero ingegno, ma il fatto di tener vivo un’aperta e moderata discussione; perchè stimo sia per me debito d’onore mettermi francamente per quella via, pericolosa o no, nella quale conforto ad entrare, parlerò senza riguardo di persone: ho però voluto dir prima che sacrifico questi riguardi alla verità ed all’utile della causa italiana, ma li sacrifico col rammarico che si prova quando il dovere v’impone rimproverare o contristare persona che si stimi e che s’ami. Ora, ritornando al mio assunto, dico che l’opportunità è la massima delle condizioni in tutte le cose umane; nelle cose di stato poi è tutto. Per decidere dell’opportunità d’un atto convien prima aver concepito chiaramente lo scopo al quale si tende, gli ostacoli che gli si oppongono, i mezzi onde superarli. Lo scopo degl’Italiani in tutti i loro moti dal 1820 in qua, se ne togliamo i fatti del 21, è stato il sottrarsi ad abusi e patimenti locali, e ciò isolatamente, senza molto pensiero de’ loro vicini parimenti Italiani; e se in alcuni di codesti moti traspariva il desiderio di riordinar meglio l’intera nazione, di spingere a scopo comune le forze comuni, questo desiderio s’è sempre mostrato, per dir così, in seconda fila, e si è poi fatto tacere del tutto appena si è temuto potesse far pericolare l’impresa, che più premeva, tutta u vantaggio locale. E gl’Italiani hanno avuto quello che meritavano pel loro egoismo e per la miseria dei loro disegni. Lo scopo dell’ultimo moto, come degli antecedenti, tutto parziale e, per dir così, provinciale, come sia stato ottenuto, lo possiamo vedere: e le cose sono andate come dovevano necessariamente andare, ed anzi come si è meritato che andassero. Ed il consigliare gl’Italiani a mettere in prima fila la causa della nazione. In seconda quella delle singole parti di essa, non è soltanto consigliare a disegni più generosi de’ passati; è indicare un calcolo di puro interesse, è indicare la sola via che possa, presto o tardi, condurci ad ottenere prima il bene di tutti, poi, per necessaria conseguenza, il bene d’ognuno. E perchè è la sola utile, la sola buona? Perchè è la via della giustizia, d’una giustizia talmente ammessa, talmente incontrastata, talmente consentanea all’opinione di tutto il mondo, che, seguendola, si può incontrar forse sventure e patimenti, ma non vergogna nè avvilimento maggiore. Anzi i patimenti e le sventure sofferte per la giustizia, per la difesa d’un santo diritto, ottengono l’omaggio ed il rispetto dell’opinione universale, ritemprano il carattere delle nazioni, e le rendono capaci e meritevoli di sorti migliori. Questa via è la migliore, perchè riunisce la maggior forza col riunire il maggior numero di volontà. Si potrà, di fatti, esser di diversa opinione in Italia sul miglior modo di riordinare i singoli stati e sulle forme del reggimento (e questa diversità emerge naturalmente dalla disuguaglianza de’ gradi del soffrire), ma da Trapani a Susa s’interroghi ogni Italiano se è utile all’Italia liberarsi dal dominio e dall’influenza straniera, e nessuno, vivaddio, risponderà se non affermativamente, nessuno ricuserà porre l’ingegno o la mano a questo fine. Persino i nostri principi, se altrimenti dicessero, mentirebbero alla loro coscienza, all’onore della loro dignità: tra le straniere nazioni i popoli indipendenti mentirebbero al loro principio, i popoli servi alle loro speranze, ai loro desiderii più cari. Nel secolo in cui la schiavitù dell’individuo è oggetto d’abominio universale, in cui le nazioni più potenti e civili tanto s’adoprano per cancellarne dal mondo la macchia, nel secolo in cui si crede ingiusto che l’uomo tenga incatenata la volontà, l’azione d’un altr’uomo, le diriga al proprio utile, profitti della sua fatica, senza lasciargli altro che la vita ed il più ristretto necessario per sostenerla, chi potrà affermare che sia giusto da nazione a nazione quello che è tenuto ingiusto da individuo ad individuo? Chi potrà negare all’Italia sola quella nazionalità alla quale tendono tutte le razze, tutte le lingue che vivono sparse sulla superficie del globo? Per non essere entrati francamente e generosamente in questa via, gl’Italiani sono stati e sono tuttavia, più che compatiti, derisi. E considerando attentamente le condizioni attuali d’Italia e d’Europa, si conosce se era possibile che in questo momento una mossa d’armi ottenesse vittoria. Mentre non le idee generose e d’onor nazionale, non le idee di giustizia, ma lo studio del miglior impiego de’ capitali, decidono in tutto il mondo della pace e della guerra, mentre il re Luigi Filippo si mostra mantenitore ad ogni costo in Europa di quella pace che crede utile alla Francia, si vorrà credere che per tenerezza dell’Italia rinunci al suo sistema, metta in forse le questioni per lui più vitali, vietando all’Austria di scagliar sull’Italia duecentomila soldati e duecento pezzi di cannone? E gli agitatori di Rimini, di tutto lo stato, di tutta l’Italia, che cos’hanno da opporle? Contro venti pezzi in batteria, non dico più, voglion esser palle e non chiacchiere. E se la Francia non arresta gli eserciti dell’Austria, li arresterà la Russia? Sua rivale, lo concedo, per la dominazione delle razze slave dell’Europa orientale, ma prima, e più di tutto, nemica per principio e per gelosia della mal compressa Polonia, d’ogni moto nazionale, di ogni idea di liberazione ottenuto col mezzo di moti popolari. Gli arresterà la Prussia, anch’essa, è vero, rivale dell’Austria nell’influenza sulla nazionalità germanica, ma anch’essa gelosa del suo brano dì Polonia, ed avversa perciò a favorire quel principio che, ammesso, dovrebbe turbargliene il possesso? Gli arresterà l’Inghilterra, antica alleata dell’Austria, e giunta a quell’apice di potenza e ricchezza, dal quale per una gran guerra europea potrebbe soltanto discendere? Chi adunque impedirà all’Austria di soffocare in Italia la prima favilla d’un incendio che minaccia null’altro che la sua esistenza? Se poi i fautori del moto di Rimini dicessero, come hanno detto in altri casi consimili: _Se non ci avessero lasciati soli, se gli altri Italiani tutti in massa si fosser levati?_ Rispondo: che per chi si mette a cose di stato, la qualità più necessaria è avere il senso pratico, veder il mondo, gli uomini come sono realmente, e non come forse dovrebbero essere; nè può dopo la mala riuscita scusare il suo errore col dire: _e se avessero fatto.... ed avrebbero dovuto far questo o quest’altro_. Chè gli accusati potrebbero rispondere: _non ci avete interrogati se volevamo o credevamo opportuno cooperare all’impresa, e non avendovelo perciò promesso, non avete diritto di farci rimproveri_. Ma, anche consultati, gl’Italiani in massa avrebbero ricusato di levarsi in armi, perchè nella massa, tanto più in Italia, esiste quel senso pratico che talvolta non si trova negl’individui: chi è guidato da questo senso sa che gli uomini dotati di educazione, e principalmente d’educazione politica, posson talvolta muoversi per patimenti, desiderii o bisogni morali, ma costoro son dappertutto il minor numero, e tanto più in Italia. Il numero maggiore privi d’educazione civile, e non avendo il primo principio della politica (ed in tale stato sono le masse tra noi), non si muove che per bisogni, desiderii, patimenti materiali, e conviene sieno grandi ed insopportabili; chè ai piccoli e sopportabili è avvezzo, usato com’è dallo stato della società a sostentarne con virile rassegnazione i pesi più gravi. Ora, tanto generosa a’ suoi figli è la natura nella terra italiana, che giammai la dappocaggine o la malignità degli uomini è bastata a disperderne o consumarne i doni del tutto. Ed una delle cagioni delle lunghe servitù d’Italia è forse, che la nostra terra ha potuto sempre saziare ad un tempo l’ingorda avidità del vincitore straniero e la fame dell’indigeno vinto. Il volgo italiano, a fronte di tante altre nazioni, ignora, si può dire, la miseria, ignora la fame: e la fame è la più potente tra le agitatrici de’ popoli. Ma, soffrisse il doppio di quel che soffre, il senso del vero e del positivo, sempre più pratico nel popolo, che ne’ signori, perchè il popolo è più strettamente e continuamente alle mani cogli ostacoli della vita, e s’avvezza a giudicarne meglio; questo senso, dico, mostrerebbe al nostro la difficoltà, dovrei dire la impossibilità di dar mano a moti simili a quello di Rimini. Egli conosce che l’accordo di levarsi in pochi è inutile; di levarsi in molti impossibile. E sarebbe strano certamente se nella patria di Machiavelli, ov’egli proclamava non eseguibile la congiura di poche diecine d’uomini, si tenesse eseguibile quella di migliaia e migliaia. E se il popolo italiano non istudia la politica, non legge gazzette, non sa d’equilibrio e d’interessi europei, sa poi tuttavia che, quand’anche riuscisse a sottrarsi al giogo del suo governo locale, non avrebbe fatto nulla, e gli toccherebbe combattere, disordinato ed inerme, contro l’Austria, disciplinata ed armata. Ma alla nostra destra, alla nostra sinistra, mi si potrà rispondere, la Spagna e la Grecia non ci mostrarono forse quello che può un popolo contro il dominio straniero? A me sembra invece che queste due nazioni abbiano mostrato appunto quello che non può il popolo, quando non è che popolo, e non ha nè esercito, nè tesoro, nè buoni ordini. Cominciam dalla Spagna. La sollevazione di Madrid del 2 di maggio 1808 fu il primo grido d’indegnazione che gettò la nazione contro la mostruosa violenza che volea usarle Napoleone. Di pari indegnazione arse l’intera Penisola, che si coprì di _guerillas_; ma se togliamo la giornata di Baylen e la sua famosa capitolazione, dovuta più all’avarizia del general Dupont, che alla perizia degli Spagnuoli, se leviamo l’assedio di Saragozza, di Girona e Tarragona, gli Spagnuoli giammai poteron far testa all’aquile di Napoleone. Ed eran pur già prima riuniti in corpo di nazione, buono o cattivo, avean pure esercito e materiale di guerra, eran soccorsi dall’oro dell’Inghilterra, dai suoi soldati, e li guidava il duca di Wellington. E se Napoleone non commetteva l’errore di aver due guerre ad un tempo, accese alle due estremità del suo impero: se la Provvidenza non mandava l’angiolo sterminatore a sorprendere il suo esercito nelle steppe della Russia, cosa sarebbe divenuta la Spagna, anche aiutata dagl’Inglesi? E dove sono gl’Inglesi, dov’è il duca di Wellington dell’Italia? E per maggior prova, quando il popolo spagnuolo non ebbe più nè l’uno nè gli altri; quando ebbe solo a dirla con una nazione grande, ordinata e non occupata altrove, come andarono le cose? Il duca d’Angoulême corse la Spagna dai Pirenei al Trocadero, come un soldato viaggia col foglio di via, e tutto fu finito. E la differenza corsa tra queste due guerre serve poi di nuova prova all’altra mia proposizione: essere la causa dell’indipendenza tanto più potente a riunire e render forte un popolo, che non la causa delle istituzioni e della libertà. Per l’indipendenza gli Spagnuoli, riuniti in una sola volontà, travagliarono per cinque anni Napoleone nel colmo della sua potenza. Per le nuove istituzioni, divisi ed inerti, si diedero, dopo un mese, a discrezione d’un duca d’Angoulême. Poichè parliamo di Spagna e di _guerillas_, risponderò anche a chi dicesse: che in Italia si avrebbero ad usare, che il paese montuoso vi sembra atto, ec., ec. Chi così la pensa, sappia che non è _guerillero_ nè capo di _guerilla_ chi vuole, e dove e quando lo vuole. La _guerilla_ in Ispagna ha combattuto co’ Romani prima, poi coi Goti e coi Mori, e, se parve spenta sotto i discendenti di Carlo V e di Filippo V, ha mostrato sotto Napoleone che nel riposo non avea perduta la mano del tutto; onde si deve riconoscere che è nella natura stessa dello Spagnuolo, e, come ora si dice, una sua _specialità_. La _guerilla_, anche in Ispagna, non si scosta mai dal proprio paese, e quando se ne scosta perde ogni forza; e si potè vedere nell’impresa tentata da don Carlos contro Madrid. La _guerilla_ vuol larghi tratti di paese spopolato e senza strade, ove non possan le truppe regolari, le artiglierie, i cavalli correr facilmente e raggiungerla, ed è sempre, per dir così, l’espressione armata dell’opinione di quello nel quale opera; e così essendo, trova pane, ricovero, aiuto, avvisi, protezione per tutto, purchè, ben inteso, stia sempre tra chi la conosce e pensa come lei. Basta questo semplice ritratto della _guerilla_, o debbo aggiungere altre parole per mostrare che in Italia è impossibile? Un capo di _guerilla_ in Italia, dopo un mese, se non fosse preso, avrebbe la scelta tra il morir di fame, o il diventar capo d’assassini. Ora veniamo alla Grecia, e poche parole basteranno, essendo tra i casi de’ due popoli grande analogia. Dall’epoca del Congresso di Vienna, il pensiero della Russia di rannodare a sè la razza greco-slava, diede animo a quanti volevano liberar la Grecia dal giogo ottomano. Scoppiò l’insurrezione, e durò la guerra sino al 1827: finì, si può dire, colla battaglia di Navarino. Questa battaglia, intendiamola bene, finì la guerra. E da chi fu combattuta? Dalle armate di Francia, Inghilterra e Russia, e non dai Greci. E chi vede tra i possibili a favor dell’Italia una battaglia di Navarino? Ho scelto quest’ultimo fatto come il più importante, come quello che tutti li spiega, di tutti è la conseguenza, e taccio degli infiniti soccorsi d’uomini, di denari, d’ingegni europei che furon profusi in aiuto della causa dei Greci, i quali (si notino queste circostanze) avevano a combattere un nemico fiacco, male ordinato e da non potersi paragonare all’Austria per nessun verso; erano più del nostro popolo usi all’armi, indurati alla fatica, pronti a mettersi ad ogni ventura, e n’hanno dato gloriosa e mirabil prova nella lunga guerra che fu (e questo è di gran peso) non solo d’indipendenza, ma insieme guerra di religione. E la storia del mondo c’insegna, che nessuna più di questa riunisce la volontà, le forze, accende il furore d’una nazione e la rende invincibile. E finalmente ambedue le nazioni suddette non posson paragonarsi all’italiano; ambedue già dapprima formavano, bene o male, corpo di nazione; ambedue soffrivano più assai della nostra; e certo non si trovano in Italia, neppur nelle Calabrie o nell’interno della Sicilia, tipi che somiglino al _guerillero_ spagnuolo ed al Palicaro od al Clefto Greco, perchè questi tipi si formano in uno stato più selvaggio, sotto giogo più duro e patimenti più atroci di quelli che abbia mai conosciuti il popolo in Italia, la quale meno calpestata o calpestata assai più, avrebbe forse potuto meglio riprender forza e riaversi. Colle dette ragioni credo aver dimostrato che il moto di Rimini è stato intempestivo ed inutile: ed è lo stesso che averlo inoltre dimostrato dannoso. Si potrebbero tuttavia aggiungere molte altre riflessioni sulla questione presa sotto quest’ultimo aspetto, e dire: Che se in Italia sono in copia nature d’uomini potenti ed ardite che non si perdono d’animo per la mala riuscita di quelle prove, ve ne sono eziandio moltissime che ne vengono abbattute, e si rassegnano poi a tener la causa italiana per ispacciata: simili a certi infermi che, dopo aver tentato molti modi di cura, si tengono per incurabili, mentre non tanto la perversità del male, quanto l’imperizia del medico è cagione che non possano riaversi. Che siffatti moti, ed il volerli degli uni e il non volerli degli altri; le accuse, le recriminazioni, i dispetti e le quistioni che partoriscono tra uomini dissenzienti sui mezzi, consenzienti per lo scopo, seminano disunioni, sospetti, inimicizie ove più importerebbe non fosse se non concordia, fiducia ed amore scambievole. Che i governi, insospettiti e tementi non si rinnovino tali disordini, e stimandoli fors’anche indizio di dio sa quali trame, quali macchinazioni generali e sotterranee, e nutrendo timori, credo io, assai più del bisogno, come sempre accade, ove si tratti di pericoli oscuri ed indefiniti; ogni dì più moltiplicano le difese, le precauzioni, le vessazioni di polizia, che pur tanto incagliano l’onesto esercizio delle facoltà mentali e materiali della nazione, il suo commercio, le transazioni, il suo generale sviluppo. Che in questi inutili ed intempestivi sforzi si sprecano i più vitali elementi del popolo italiano, si perdono gli uomini più arditi, di maggior energia e di più potenti facoltà, i quali son costretti abbandonar la patria o vivervi sotto il peso d’un oltraggioso perdono, tenuti, per dir così, in quarantena, e ridotti alla più assoluta inoperosità. Che queste miniature di rivoluzione, di grave momento nel ristretto cerchio ove succedono, e per coloro che ne sono attori, sono appena avvertite fuori d’Italia, presso le nazioni ove, per la piena libertà della parola e della stampa, si agitano apertamente le più importanti questioni politiche e sociali; ove è per conseguenza il supremo tribunale dell’opinione europea, l’officina, per dir così, d’onde viene sparsa per tutto il mondo. E Dio volesse non fossero avvertite, o fossero condannate e biasimate soltanto! ma sono derise, schernite. Servon di tèma a brevi articoli di giornale, pieni d’una compassione protettrice, di un ammonire sardonico, che ti fa dar di volta al sangue più di qualunque improperio: ed il lettore straniero sorride e passa; e l’opinione che di noi si sparge e si ferma è d’esser un popolo inetto, privo d’ogni idea, d’ogni educazione politica, incapace di disegni maturi e ponderati, incapace del lungo e pertinace lavoro, che conduce finalmente alla rigenerazione; incapace egualmente di soffrire e di combattere, e perciò degno della sua presente fortuna. E saremo dunque tanto caduti, che la miseria, le lagrime, il sangue italiano abbiano persino a dar materia di riso? E non vorremo trovar modo una volta, che le nostre sventure déstino, come quelle della Polonia e dell’Irlanda, nostre sorelle (poste in condizioni, se non pari alle nostre, analoghe almeno alla nostra in molti punti), lo sdegno che i generosi provano contro chi opprime, l’antica ed onorevole pietà, che è conforto, speranza, e non oltraggio agli oppressi? E l’Irlanda, la Polonia perchè l’ottengono? Perchè soffrono più di noi, e più degnamente, più operosamente di noi. L’opinione, la simpatia, il voto della civiltà intera sta per loro, e sono pure oggidì i potenti alleati! E di noi? Di noi si ride. Collo svolgere il filo del mio ragionamento, mi si presenta sempre più evidente la verità espressa nella prima pagina; l’opportunità esser tutto nelle cose di stato: e m’appare perciò pedantesca e superflua la divisione da me adottata, che intende provare successivamente e separatamente le mie proposizioni, mentre senz’avvedermene trovo che nel dimostrare inopportuno il moto di Rimini, l’ho insieme e perciò dimostrato dannoso e biasimevole. Ciò nondimeno, poichè ho tenuta questa divisione, che non è per avventura del tutto inutile ad esporre più ordinatamente le mie idee, la manterrò sino al fine: ma al punto di volgermi alla coscienza di chi è stato cagione si versasse inutilmente il sangue italiano, al momento di chiedergliene ragione, m’accora, lo ripeto, il pensiero che questo mio scritto cadrà probabilmente in mano di quelli che scontano ora un errore di mente, non dico una colpa o un delitto, colla più amara delle umane miserie, l’esilio; che contristerà forse le pensose veglie dell’esule, di chi ha pur offerto in olocausto alla patria i tranquilli colloqui della città, del tetto nativo, le domestiche gioie, l’amor d’una madre, d’una sposa, dei figli; di chi s’è volontariamente spogliato di questi tesori, ed insiem colla vita li ha gettati nelle bilancie ove stanno in bilico le nostre sorti; di chi tende ora l’orecchio ad ogni vento che spiri dalla terra d’Italia, sperando in guiderdone di tanto sacrificio, gli porti almeno il suono d’una parola di conforto, di compianto, o forse di lode. Ed io dovrò esser quello che invece gli faccia suonar all’orecchio, e più nel cuore, parole di biasimo? Sì: lo stimo utile, lo stimo per me debito di onore, e più d’uno in Italia penserà ch’io ho ragione. Non ch’io abbia la presunzione di credermi l’interprete assoluto della verità; ma credo, e posso credere, d’aver diritto come ogn’altro di esporre il frutto delle mie riflessioni: credo utile eccitare la discussione, ed il mio più caldo desiderio sarebbe che un ingegno più elevato e sottile del mio rispondesse a questo scritto, ne additasse gli errori, indicasse migliori e più prudenti risoluzioni; io benedirei la mano che scrivesse e dimostrasse ch’io ho dato improvvidi consigli, a patto che ne suggerisse altri non avvertiti da me e più profittevoli alla causa italiana. Credo l’avvenire gravido di diverse e grandi fortune per molte tra le nazioni europee, che Iddio per gli arcani suoi fini spinge ad una meta comune più o meno lontana, e credo possano assomigliarsi alle vergini evangeliche aspettanti lo sposo. Le prudenti, che avean saputo tenersi apparecchiate, vennero intromesse al convito; le stolte rimasero escluse e derise. Onde non sia tale la nostra sorte, discutiamo le cose nostre, parliamone schiettamente, apertamente, con reciproca fiducia, senza pensieri di amor proprio, senza cura d’individui, d’opinioni, di parti. Cerchiamo la verità, diciamola senza pretendere aiutarla con esagerazioni d’odio o di amore, di calunnie o d’adulazione. Invece d’aiutarla, a codesto modo le daremmo impaccio, le torremmo vigore: chè la verità, figlia di Dio primogenita, è forte per sè stessa abbastanza, è forte quanto la sua origine celeste; e la causa della nostra indipendenza, vincitrice o vinta, sarà sempre gloriosa sotto la sua bandiera. In nome di questa verità, io dico dunque che è fatto gravissimo, anzi è il fatto il più grave di quanti possa l’uomo intraprendere, quello di spingere la propria nazione nella sanguinosa via delle sommosse; perchè è il fatto nel quale è più difficile fissar precisamente il limite tra il giusto e l’ingiusto, tra l’utile ed il dannoso; è il fatto che può condurre egualmente a quanto v’è di generoso, di grande, di virtuoso al mondo, come può trascinare ai più fatali errori: che può esser la sorgente d’immensi beni, come d’immensi mali; d’immensa gloria, come d’immensa infamia; che, finalmente, può essere la salute d’un popolo o la sua totale rovina. L’intraprenderlo di propria autorità, il porvi mano e dargli la mossa pel primo, può essere il sublime o dell’ardire o della temerità o della pazzia, ma è sempre atto tremendo per chi abbia in pregio la giustizia, la carità di patria, l’amore degli uomini, la fama propria e della propria nazione. Chi se ne fa autore, si fa arbitro al tempo stesso, come già dissi, delle volontà, dell’avere, della libertà, della vita d’un numero d’uomini, che nè egli nè alcun altro, se non Iddio, può prevedere e calcolare; e se ne fa arbitro per usare i più preziosi beni, la più gelosa proprietà de’ suoi concittadini ad eseguire i propri giudizi; se ne fa arbitro quasi sempre senza il loro consenso, senza diritto, senza essere stato a ciò eletto da loro. E se a questo fatto, invece d’esser uno, sono parecchi, ciò non muta lo stato della questione, salvo che la responsabilità l’avranno parecchi invece d’un solo. Ora quello o quelli che si fanno arbitri delle cose altrui, senza averne avuto l’incarico da chi n’era giusto e legale possessore, sarà benedetto se le migliora, ma se le peggiora sarà maledetto, e giustamente: e non vale scusarsi colle intenzioni, che possono far perdonare l’imperizia di chi è posto ad un ufficio da altri, non di chi vi si pone da sè. E per esser giusti, per non usar due pesi e due misure, quando noi popolo ci lagniamo dei principi assoluti e del modo col quale amministrano la cosa pubblica, che mai rispondiamo a quelli che per iscusarli dicono: _Hanno buone intenzioni; credono fare il bene?_ Rispondiamo: _L’intenzione non basta, e chi non sa fare, lasci fare a chi sa!_ E rispondiamo bene. Ma la verità è una sola, e se l’applichiamo ai principi, dobbiamo egualmente applicarla a chi fa ciò che essi fanno, benchè con modi e con fini diversi. E se si considera attentamente a quale delle due posizioni dia vantaggio questa diversità, troveremo che l’arbitrio de’ principi genera di rado le conseguenze calamitose che quasi sempre genera l’arbitrio de’ capi di sommosse. Ed i principi hanno inoltre una posizione data, e che non si sono scelta di loro propria elezione. Non essendo però mia intenzione d’adulare i principi, aggiungerò che stimo alla lunga il loro arbitrio di maggior danno ad un popolo: ma senza volere ora cercare chi de’ due più l’offenda ne’ suoi diritti, rimarrà sempre vera la mia proposizione, che chi guasta di proprio arbitrio gli affari altrui, non può scusarsi colla sola intenzione. E che gli autori del moto di Rimini abbiano corso il rischio di guastare gli affari di moltissimi, e forse dell’intera nazione, di ritardare indefinitamente il suo progresso, di compromettere il suo avvenire, di tirarle addosso la tremenda calamità d’un’invasione, mi pare evidente dalle ragioni addotte fin qui. Piacque a Dio nella sua bontà di mantenere il senno, e non chiudere all’evidenza gli occhi dei più. Ma se la cosa fosse andata altrimenti, se tutte le sventure da me enumerate, e che nessuno può negare possibili, si fossero versate sulla già abbastanza infelice Italia, qual terribil giudizio pesava su chi n’era stato cagione? Lasciamo stare il ludibrio, il rimprovero dell’opinione universale; ma il rimprovero della coscienza, quale di quei cuori generosi, amanti della patria e pronti (l’hanno mostrato) a dar tutto per essa, quale, dico, avrebbe potuto sostenerlo senza spezzarsi? Io ho parlato parole severe; ho parlato di rimorsi; perchè credo ufficio d’uomo che meriti un tal nome sapere a viso aperto rendere testimonianza a quelle verità che gli appaiono evidenti ed utili, dicendole non solo al potente che ti può nuocere (virtù, della quale è gran parte l’orgoglio, e perciò non difficile), ma al debole, al vinto, cui vorresti tender la mano, consolarlo, compiangerlo, invece di riprenderlo. Bensì conosco qual eloquente risposta potrebber fare alle mie parole gli uomini di Rimini, col solo esporre e mostrare al mondo le miserie che soffrivano e che soffrono le Romagne. Ed a chi ti dice: _Io soffro troppo_, come aver coraggio di rispondere: _Tu non hai sofferto abbastanza?_ Essi hanno detto appunto: noi non possiamo sopportar più oltre; e sembrerà loro duro sentirsi dire da chi sopporta assai meno: Era dover vostro il soffrire ancora; ed a me che scrivo, non è men duro il pormi in apparenza tra coloro ai quali Cristo diceva:_ Oneratis homines oneribus quae portare non possunt, vos autem ne uno digito tangitis sarcinas_: ma voglio pur seguitare come ho cominciato, e dir il vero senza rispetti nè d’altri nè di me stesso: e domando se, col non voler sopportare, hanno trovato sollievo, o non piuttosto aggravati i loro mali? Domando se stimano soffrir più che non soffre la Polonia? Lo sanno eglino che cosa soffre questa nobile e sventurata nazione? Che miserie soffre tacendo, orando, operando in tutti i modi che le son concessi, onde rigenerarsi prima alla virtù, alla giustizia, per esser poi rigenerata all’indipendenza ed alla libertà! Si specchino in que’ valorosi ed altrettanto disavventurati, che, immobili colle braccia intrecciate sul petto, vedono il loro popolo decimato dalla frusta del Cosacco, che lo caccia a frotte ne’ deserti gelati della Siberia; vedono oltraggiata la loro fede, profanate le loro chiese, sedotta la giovinezza, distrutto ogni viver civile; vedono coprirsi la loro terra di fortezze destinate a render più salde le loro catene. Eppur non si muovono, non danno mano all’armi, e non li trattiene il timor della morte (l’hanno mostrato se sien capaci di viltà), ma li trattiene il solo timore di dilatar le piaghe della patria ed accrescerne le sventure; e siccome sono stati al mondo esempio di virtù nel combattere, lo sono ora di altrettanta e maggior virtù nel soffrire. Evitando egualmente i due più funesti effetti della disperazione, il furor cieco e l’inerte rassegnazione, attendono taciti, pazienti ed operosi a rannodare il loro popolo, renderlo migliore e perciò più potente. I loro nobili, ravveduti ed ammoniti dal passato, tendon la mano al povero, al contadino, che opprimevano e sprezzavano: lo chiaman fratello, lo cercano ne’ suoi tugurii per portargli a consolazione del presente la speranza d’un miglior avvenire. Vizio e rovina di quei calpestati era l’abuso de’ liquori, coi quali dimenticavano per qualche ora ne’ sogni dell’ebbrezza le miserie della realtà: e la pigione delle taverne era una delle entrate dei nobili. Eppure v’hanno rinunciato, l’hanno chiuse, hanno ristrette le loro spese, onde il popolo non corrotto riprenda vigor morale e possa risorgere.... Questa è vera fortezza, vera carità di patria; queste son le vie che onorano, rendon venerabile anco la servitù, le ottengono il rispetto degli uomini, talvolta il loro aiuto e sempre la misericordia, la protezione di Dio. Ma se gli autori del moto di Rimini non hanno tenuto queste vie, se il furore, l’intolleranza dei loro mali li ha trascinati ad atti che sono da giudicarsi intempestivi, e perciò dannosi e biasimevoli, s’avrà dunque, senza ammettere scusa, a pronunciar contro essi un’assoluta condanna? A questo punto ringrazio Iddio, che è oramai adempiuto per me l’amaro assunto di contristare il vinto e lo sventurato, ed è venuto invece il momento di volgermi al vincitore, a chi non prova nè le angustie del carcere, nè le miserie dell’esilio, a chi è potente e gode d’ogni favore della fortuna, e sento oramai venirmi più sicura, più libera la parola. Ma, prima di esaminare i modi tenuti dalla corte di Roma co’ suoi sudditi, e particolarmente co’ suoi sudditi di Romagna; prima d’entrare seco lei in discussione circa i suoi atti, vorrei sapere se la discussione è possibile, vale a dire se partiamo da basi tenute vere egualmente da ambe le parti; e per questo io domando se v’è un solo Decalogo, un solo Vangelo, una sola morale data egualmente a tutti gli uomini per norma delle loro azioni, o se invece vi sono due edizioni de’ suddetti codici, ad uso l’una de’ principi, l’altra de’ popoli, l’una dei governanti, degli uomini di stato, dei diplomatici, l’altra della moltitudine governata. Dovendo necessariamente interpretare io la risposta, la suppongo consentanea alla dottrina professata in ogni tempo dalla corte di Roma; esservi cioè, una sola morale pe’ grandi come pe’ piccioli, pe’ forti come pe’ deboli, pe’ governanti come pei governati. Trovarci d’accordo su questo punto è pure assai, ma non è tutto. Un’altra cosa mi resta a sapere: e domando se a questa morale, a questa regola da seguirsi indistintamente da tutti i viventi, si può applicare l’assioma che ogni regola ha la sua eccezione, ovvero se le regole eterne della giustizia e dell’onestà sono le sole alle quali non abbia mai l’uomo nè ragione nè pretesto per disubbidire. Anche a questa domanda son costretto rispondere da me, interpretando la decisione della corte romana favorevole a quest’ultima opinione, che è necessaria conseguenza delle dottrine da lei insegnate. Posti d’accordo su questi due punti, e partendo essa ed io da questo dato comune, che la morale è una sola, costringe egualmente tutti gli uomini alle sue leggi, e non ammette possibile nessun caso, nessun motivo di trasgredirla, la discussione divien possibile, e una cosa sola resta ad esaminare: quali conseguenze tragga la corte romana da queste premesse, e quali conseguenze ne ricavi, non dico io, chè non conto nulla, o non conto che per un solo, ma il raziocinio, l’opinione della civiltà universale. O questa via di scoprire il vero è buona, anzi la sola buona, e non dà motivo di lagnanza a nessuna delle due parti contendenti, o bisognerà dire che la verità è una chimera, il cercarla un tempo perso. Io dico dunque per prima cosa, che dalle suddette proposizioni emerge necessariamente la conseguenza, che l’antico argomento della ragion di stato, col quale si è voluto sin qui da moltissimi giustificare i governi di quegli atti che si sarebbero condannati e tenuti ingiusti in un privato, è argomento vano ed immorale; poichè o la giustizia è legge universale, ed il mentire, il mancar di fede dovrà condannarsi tanto in uno, come in molti individui, vale a dire nello stato e negli uomini che ne regolano le risoluzioni; ovvero bisognerà almeno trovar una regola che definisca qual numero d’individui riuniti è necessario per far che l’ingiusto divenga giusto, l’immorale divenga morale. E l’addurre in favore della ragione di stato l’utile dell’universale è misero pretesto, non è ragione: o diversamente s’avrà a concedere che la giustizia ammetta casi d’eccezione, ed allora parimenti non sarebbe male dare una regola che insegnasse conoscere quali sono codesti casi. Concederò che per l’utile dell’universale siano giusti per parte dello stato certi atti che dovrebbero esser tenuti ingiusti per parte di un privato; ma la difficoltà è soltanto apparente, e per iscioglierla dobbiamo distinguere la giustizia positiva dalla giustizia relativa. È ingiusto, verbigrazia, l’uccidere, ma divien giusto ove sia in propria difesa: e questo è esempio di giustizia relativa. Invece è ingiusto il mancar di fede, e lo è in tutti i casi, in tutte le occasioni possibili: e questa è giustizia positiva. Così, scegliendo ad esempio il caso più comune, nel quale è concessa e tenuta giusta per lo stato un’apparente ingiustizia (e che per il privato sarebbe ingiustizia vera), il caso d’espropriazione forzata, consideriamo che in quest’atto sono da distinguere due casi; l’uno dell’espropriazione violenta, assoluta, senza compenso, che con una sola parola vien detta rapina, ed è caso d’ingiustizia positiva, e perciò non vien permessa nè all’individuo nè allo stato, il quale difatti, ove sia ben regolato, giammai la commette, e se toglie il suo ad un privato per utile pubblico, usa l’avere del pubblico a dargli un competente compenso. Il secondo caso, questo appunto dell’espropriazione con compenso, non è più rapina, nè caso d’ingiustizia positiva, poichè non si toglie violentemente nulla al suo giusto possessore; e se gli si toglie parte del libero esercizio della sua volontà, che potrebbe essere di serbare ad ogni modo ciò che gli viene occupato, non gli si toglie pel principio che uno debba essere sacrificato ai più, che, per quanto abbia apparenza di giustizia, sarebbe cionnondimeno principio ingiusto; ma gli si toglie perchè, essendo questo suo sacrificio necessario all’esistenza o al bene almeno di quella società alla quale appartiene, che lo protegge e lo difende nei suoi diritti, egli vien realmente compensato con questi vantaggi della perdita d’una porzione della sua libertà. E siccome questi vantaggi può darli in compenso lo stato, e non il privato, è ingiusto occupare l’altrui violentemente per utile privato, è giusto occuparlo per utile dell’universale. Con ciò mi par dimostrato che la distinzione di giustizia positiva e relativa può bensì usarsi per facilitare l’intelligenza della questione, ma che di fatto è distinzione inesatta; bastando il dire che l’ingiustizia è vietata e condannabile assolutamente, e che perciò nè la ragion di stato, nè l’utile pubblico, nè alcun altro motivo la può mai coonestare. Queste idee sono talmente elementari, che al lettore farà meraviglia ch’io abbia voluto il disagio di scriverle; e certamente pare un sogno che s’abbia a prender la questione a questo modo e da questi principii, che sembrerebbe non bisognassero di dimostrazione, e s’avessero a tenere per sottintesi. Ma come fare altrimenti a voler entrare in discussione con chi, facendosi al mondo nuncio della buona novella, la rende poi cotanto trista a coloro che gli sono più immediatamente affidati da Dio? con chi è custode e banditore del divin Codice della giustizia, dell’amore e del perdono, e commette o permette almeno l’ingiustizia, muta l’amore in odio, e non ha perdonato giammai? con chi predica l’umiltà sul trono, la carità, chiudendo l’orecchio ad ogni reclamo, l’amor del prossimo colle inique commissioni militari? Se a costoro, vivaddio, si domanda: — Credete o non credete nella giustizia? Credete o no in quello che predicate? — non se lo possono aver per male, e nessuno al mondo lo potrà trovare strano. E queste rigide parole io non le dico per odio del papato. Lo dichiaro solennemente, prima di aggiunger altro, affinchè il lettore non mi prenda in iscambio. Io venero il cristianesimo, venero il cattolicismo, e stimerei l’ultima delle sventure per l’Italia se si turbasse la sua unità religiosa, la sola che le sia rimasta. Di più; io neppur sento astio od avversione contro la corte di Roma, dalla quale non ricevetti giammai offesa veruna, e n’ho invece talvolta ricevuti favori, e perciò le mie parole, per quanto acerbe, non s’hanno a prendere come espressione dell’odio d’un nemico, ma piuttosto come effetto del dolore che si desta in noi per l’amico che s’ostini alla sua rovina. Io ho accusato d’ingiustizia il governo papale. Suppongo che egli, interrogando, dica: — Che cosa dunque debbo fare? — Io gli darò una risposta alla quale forse nè esso nè il lettore s’aspetta: gli domanderò cosa che non parrà indiscreta, gli chiederò pe’ suoi sudditi la grazia di essere un po’ più assoluto, un po’ più dispotico di quello che è: anzi d’esser governo veramente assoluto e dispotico, ch’egli crede essere, e non è. Per governo assoluto s’intende quello d’un uomo che a suo pieno arbitrio comandi ad un popolo; tanto è vero che la parola monarchia altro non significa fuorchè comando d’un solo. Ora si potrebbe affermare, che questo modo di principato, preso nel suo stretto senso, non è possibile a nessun uomo, ed è possibile a Dio soltanto: perchè Dio solo, e non altri, può esser simultaneamente presente alle azioni di tutti i viventi, e dirigerle a suo piacere. Ma lasciamo questa troppo stretta interpretazione. Io dico che neppur in un più lato senso (salvo uno solo, che dirò or ora), non è possibile all’uomo il governo assoluto. Perchè nessun uomo, sieno pur immense quanto si voglia le sue facoltà corporee e mentali, può giungere a provvedere coll’azione immediata della sua autorità a tutt’i casi che si moltiplicano all’infinito giornalmente nel reggimento di più milioni di sudditi. Vi sono però due vie d’esercitare approssimativamente, dirò così, il principato assoluto. Una illusoria pel principe stesso: l’altra reale, per quanto lo può essere nelle condizioni della nostra natura. La prima consiste nel far fare ad altri quello che non si può far da sè; cioè nell’investire altri d’una porzione della propria autorità, onde l’eserciti a sua discrezione. Ma questo è modo, non d’esercitare il principato assoluto, bensì di spogliarsene. Questo è modo usato in terra di Turchi, ed anche colà vien meno a misura che vi cresce e s’estende la civiltà: ma non vien meno però tra’ Cristiani e più particolarmente nello stato papale. Questo è modo più d’ogni altro rovinoso pe’ sudditi e pieno di pericoli pel principe, il quale non comanda, come abbiamo osservato, e non ha perciò i benefizii dell’impero, ma ne ha invece tutti gli odii e le responsabilità; ed ove gli uomini, investiti da lui del potere, ne abusino, incontra necessariamente o taccia di crudele, se non li corregge, o di stolto e poco avveduto, se, correggendoli, confessa implicitamente di non aver saputo scegliere e conoscere i suoi ministri. Perciò, o disprezzo od odio non lo può fuggire. Ciò accade ad ogni momento sotto il governo papale: e, per citare un esempio tra mille, e dir cosa recente e notissima, tutti si rammentano del fatto, accaduto or fa l’anno, d’un vescovo dello stato, che bandiva un editto per dar nuovi regolamenti in materia matrimoniale, rafforzato di gravi pene minacciate ai contravventori. Io ero in Roma. L’editto girava di tasca in tasca, di conversazione in conversazione; e non ti dico che risate se ne facesse. Convenne al governo annullarlo, chè, con tutto il buon volere di salvar la riputazione del vescovo, non v’era modo a far altrimenti, essendo la più pazza cosa del mondo: ma qual guadagno vi facesse invece la riputazione del governo, e qual guadagno faccia ne’ casi consimili, che pur troppo si ripetono di continuo, te lo puoi immaginare: odio o disprezzo; di qui non s’esce. Dunque un cotal modo d’esercitare il principato assoluto è pericoloso pel principe, ed inoltre illusorio, ed il principe che lo segue crede essere assoluto, e non è: e la sua autorità è meno ubbidita di quella del sovrano dello stato più democraticamente rappresentativo del mondo. Resta un altro modo, il migliore, il solo praticabile, il solo che (data la monarchia assoluta) possa conciliare la possibile felicità dei popoli colla sicurezza del principe, il solo non illusorio, e mediante il quale il principe può realmente dire: Io comando ai miei sudditi quanto è possibile che un uomo, e non un Dio, comandi ad altri uomini. Questo modo è semplicissimo, e consiste in ciò: che il principe, di suo proprio moto ed autorità, e per ispirazione divina se vogliamo, chè non cerco briga sulle parole, decida una volta quali siano i suoi voleri, li traduca in altrettante leggi, le promulghi, e dica ai suoi sudditi: _dal maggiore all’infimo tutti le dovete egualmente ubbidire._ Ciò fatto, fissi un’ora, un giorno, ogni settimana, ogni mese, nel quale ad ogni suo suddito sia lecito presentarsegli e dirgli: il tal vostro ministro m’ha fatto ingiuria per aver disubbidito al tal articolo della vostra legge. Provata la verità dell’accusa, punisca il ministro, e faccia giustizia all’offeso; e questo principe potrà veramente vantarsi d’esser principe assoluto, potrà dire: La mia volontà è ubbidita da’ miei sudditi sino all’estremo limite cui può giungere l’autorità di un uomo; potrà dire: Il mio principato è vera monarchia. Domando ora se tanto può dire il papa? domando se ai suoi sudditi non tornerebbe meglio che potesse dirlo? Domando ai Romagnuoli se non preferirebbero ubbidire a leggi buone o cattive, ma stabili, senza eccezione di persone, uguali per tutti, piuttosto che all’arbitrio de’ loro monsignori, legati, vice-legati, delegati o che so io? domando se non vorrebbero (essendo pur sudditi del papa) ubbidire almeno al papa, e fosse il suo principato più assoluto che non è, anzi veramente e realmente assoluto? Ho fatto professione di dire la verità senza nè reticenze, nè passioni, e mi trovo sforzato a lodar l’Austria. Il suo codice (salvo pe’ casi di stato, ove è assolutamente iniquo) è uguale per tutti, non ammette eccezioni nè di persone, nè di classi, nè di religione. Colla legge alla mano l’ultimo facchino ha ragione contro il primo de’ signori o degli stessi ministri del governo. E non dico per questo che le sue leggi sieno buone, che sieno adatte ai bisogni degl’Italiani che le ubbidiscono, ed intese al loro vero bene, e meno ancora che il suo governo sia perciò accetto o debba essere accetto nella Lombardia e nella Venezia, mentre è sempre governo straniero, e che anco nel far il bene ha in mira il pessimo de’ mali, quello d’impedirci d’esser nazione padrona di sè ed indipendente; ma dico che gli uomini si rassegnano talvolta anche a mali gravissimi, quando è pure in essi regola certa, imparziale ed uguale per tutti, e, contenti o no, vi s’accomodano. Ma non s’accomodano giammai a veder, verbigrazia, di due delinquenti, l’uno assolto, l’altro condannato per lo stesso delitto, a veder il prete immune da quel castigo che percuote il laico inesorabilmente[1]; non s’accomodano alla vita di continuo sospetto, all’incertezza di tutt’i momenti, al dubbio tormentoso ed incessante di esser o spogliati dell’avere, o carcerati, od offesi arbitrariamente in qualsiasi modo, senza aver via di richiamo, senza aver legge certa che li difenda. E lo sa bene l’Austria, e ne fa pur troppo il suo profitto: ma tra i governi italiani tutti più o meno mostran co’ fatti d’ignorarlo, e più di tutti il governo papale; e se i suoi sudditi non amano il governo straniero, e non cercano, come molti hanno detto e creduto, d’esser riuniti all’Austria, se que’ ribaldi dei Castagnuoli e del Baratelli, che s’ingegnavano propagarne il pensiero colla infame società Ferdinandea, ed hanno avuta quell’accoglienza e que’ trattamenti che meritavano, non hanno ottenuto il loro intento; se n’ha a rendere grazia all’indole generosa de’ Romagnuoli, al loro spirito nazionale e veramente italiano, pel quale voglion piuttosto soffrire ogni peggior male, che sottoporsi allo straniero, al maggior nemico della patria comune: ma dal canto suo, bisogna dirlo, il governo papale avea fatto ogni opera onde venisser ridotti a questo doloroso partito. Aver un codice (e per codice intendo non solo leggi, ma istituzioni, ordini stabili e certi) è il primo dovere d’ogni governo, qualunque sia la sua forma: è dunque il primo dovere, e dovrebb’esser la prima cura del governo papale: e se i suoi sudditi lo chiedono, chiedono il giusto, e se il governo lo nega, commette una iniquità. Ma poichè non hanno ordine o legge certa, generale, imparziale; poichè hanno pure a vivere, o, dirò meglio, ad ingegnarsi di vivere tirando innanzi alla meglio, schermendosi contro le cento autorità che sono tra loro in continuo contrasto, che si contendono l’amministrazione, e si giuocano a palla i poveri sudditi, i loro averi, i loro interessi, la loro libertà, avessero almeno questi disgraziati un modo d’alzar la voce, e farsi sentire quando son troppo assassinati; avessero una porta che s’aprisse ai loro richiami, un orecchio che li ascoltasse! Ora dirò cosa che nell’anno 1845 parrà enorme, impossibile: chi non conosce Roma la crederà una calunnia. Il capo dello stato non ha giorno d’udienza pubblica, come hanno tutti i sovrani assoluti. Ma questo è nulla. Se un suddito dello stato domanda di parlare al papa, non gli viene concesso se non promette formalmente prima, che non gli parlerà d’affari. Questo fatto non ha bisogno di comenti, e chi non lo crede è padrone di verificarlo. E se qualcuno m’opponesse, che è lecito presentar memoriali, ricorrere ai tribunali, ai governatori, ai legati, alla Segreteria di Stato, ec., ec., ringrazierei dell’avviso questo valentuomo, e ringrazierei Iddio per lui di non avergli mai mandate tribolazioni che gl’insegnassero qual fondamento si possa fare su codesti modi. Alle corte, o le mie accuse sono calunnie, e me lo provino, o è vero che chi prédica la giustizia, e n’è il primo custode, commette invece una iniquità, ed allora è ragionevole il domandargli se vi siano due vangeli, due morali od una sola; se sia persuaso, o no, di quella che predica ed insegna al mondo. È ragionevole intimargli di rinnegare l’una delle due cose, o questa morale, o le proprie opere: domandargli se crede che all’età nostra sia lecito, sia tra i possibili, stabilire o mantenere un’autorità qualunque sulla negazione flagrante e continua del proprio principio: se vi sia al mondo un uomo che abbia diritto di sragionare contro tutti; se non è troppo stolta cosa il supporre che tutti l’abbiano a sopportare in pace, e rassegnarsi agl’infiniti mali che ne sono la conseguenza. È ragionevole il dirgli: Dei moti di Romagna, delle uccisioni, degli esilii, delle lacrime di tanti infelici, n’avete a render conto a Dio, voi governo, e non i vostri calpestati sudditi. Il loro sangue vi ripioverà in capo; i loro dolori, le loro lacrime, saranno giudicate da quel tribunale dinanzi al quale non giunsero giammai nè corone, nè scettri, nè triregni, rimasti nella polvere dei sepolcri, ma ove giungono e si presentan soltanto anime nude, non protette contro la spada dell’eterna giustizia da altro scudo, se non dalla propria innocenza; le opere vostre saranno pesate con quelle bilancie incorruttibili, sulle quali la minima delle ingiurie fatte al minimo degli uomini, pesa più di tutti i troni e di tutte le corone dell’universo. Od è falso questo che insegnate sulla giustizia di Dio, e sui suoi tremendi giudizi nell’altra vita, ed allora le mie parole son pazze, e fareste male a curarle: o quel che insegnate è vero, e ne siete convinti, e credete che Iddio vi chiederà un giorno ragione dell’opere vostre, e vi dirà: _io v’avevo dato un popolo, che cosa n’avete fatto?_ ed allora ditemi voi di qual nome s’abbiano a chiamare i vostri atti! ditemi come s’abbia a trovare spiegazione dei modi che tenete: ditemelo, chè da me non lo trovo, nè l’indovino. I potenti, lo so, ridono in barba di queste che chiamano declamazioni, ed a me paiono rigorose deduzioni; so ch’essi pensano o anco dicono con ischerno: «Solito rifugio di chi non ha forza, e non può difendersi, godersi in questo mondo nel pensiero d’esser vendicato nell’altro». Ma se gli altri potenti lo dicono, non lo potete dir voi senza mentir a voi stessi ed alle vostre parole. E poi, aprite gli occhi, e vedete se la spada della giustizia eterna aspetta sempre l’uomo al varco della tomba! Vedete se sempre ha tanta pazienza! Giratevi intorno lo sguardo: vedete se l’ingiustizia, se la violenza è albero che metta profonde e salde radici! Vedete da cinquant’anni in qua di quanti principati più saldi cento volte del vostro, che credeano stare inespugnabili ed inconcussi per la grazia di Dio, ed in suo nome poter commettere a man salva l’iniquità, di quanti di questi, dico, non s’è veduta la rovina! Vedete per tutto il mondo come le antiche ingiustizie abbiano scavato la fossa sotto i piedi di chi se ne rese colpevole: vedete la Turchia pagar le vecchie ingiurie fatte alla Grecia: la Russia tremar di continuo dell’assassinata Polonia: l’Austria contare i giorni di vita che le rimangono, spaventata d’ogni paglia che si muova in Italia, in Ungheria, in Polonia o in altre provincie dell’Impero; chè con molti ha conti aperti, e conti tremendi! L’istessa Inghilterra, la felice, la potente Inghilterra, la signora dei mari e delle ricchezze del mondo, vedetela turbata ne’ suoi trionfi dallo spettro dell’affamata Irlanda, dal sospetto di una vendetta domestica, che, al primo reale pericolo, potrebbe condurla all’ultima rovina. Dio è giusto e non protegge l’iniquità, e di tutte le sue doti la sola che non sia infinita è la pazienza a sopportar l’ingiustizia. Abbiatelo a mente. Le mie parole non sono una minaccia. Quale autorità o qual potenza avrei io di minacciare? Non sono un augurio, e tanto meno un desiderio: come potrei desiderar il male d’un solo, fosse anco il più colpevole de’ miei fratelli italiani? Ma son parole di dolore e d’amore, ancor più che di sdegno, per vedere tanta parte di quell’Italia, di quella patria che amo sopra ogni cosa al mondo, messa da voi nella dolorosa alternativa, o di sopportare i mali che le fate soffrire, o di levarsi in armi e cadere in mano de’ vostri carnefici o degli stranieri. Son parole, alle quali mi sforzano la verità e la giustizia: e dopo aver detto ai Romagnuoli: «Voi non avete saputo soffrire,» se non dicessi agli uomini di Roma: «Voi foste iniqui con essi,» che nome meriterei? La mia accusa contro il governo papale di non aver dato a’ suoi sudditi un codice che li regga, le racchiude tutte. Ma le parole che mi sono uscite dalla penna son troppo gravi, perchè io non creda dover mio mostrare ancor più espressamente che non le ho dette se non a grandissima ragione; e debbo perciò entrare più addentro in questo doloroso argomento. Debbo scoprire le molte piaghe che affliggono quelle belle ed altrettanto disavventurate provincie; debbo citar fatti, e, comunque io mi ponga con ciò ad un lavoro troppo più lungo ch’io non avea disegnato intraprendere, conosco tuttavia non potermene oramai altrimenti ritrarre coll’onor mio. Proseguiamo dunque in nome della verità e di Dio, che la protegge, e farò ogni opera per esser conciso quanto è possibile. Il sistema economico dello stato e le sue finanze sono ridotte a tal punto, che nessuno in tutta Europa ne ignora gli assurdi e l’imminente rovina. E se d’una cosa si fa le meraviglie, è che questa rovina non sia già consumata, in una parola che lo stato non si sia ancora dichiarato fallito. Meraviglia ragionevole, sapendosi da ognuno che la sua amministrazione spende da una mano più dell’entrata, e chiude dall’altra le fonti della pubblica ricchezza. Il sistema proibitivo inceppa l’esportazione e l’importazione con gabelle esagerate, cui l’ignoranza dà nome di protettrici: con istolte proibizioni, colle quali, invece di favorire l’industria nazionale, si favorisce non l’industria, ma il monopolio di pochi, si limita il lavoro e la produzione, si provoca il contrabbando, fonte di corruzione e d’immoralità, ed ostile allo stesso governo, che mantiene con esso una classe d’uomini, sempre pronta ad unirsi contro chi voglia offenderla. L’effetto di questo sistema è di far pagare ai sudditi tutti i generi che consumano, più cari del loro prezzo reale, a danno loro e dello stesso erario, ed a profitto d’alcuni pochi. In una parola, d’impoverir tutti per arricchire qualcuno: e per porre il colmo all’assurdo del sistema, le gabelle sono date in appalto (mentre in ogni stato ben regolato si danno ad appalto le opere pubbliche, ma le imposizioni s’amministrano ad economia), e per conseguenza la maggiorità de’ consumatori deve inoltre impoverirsi di tutto il guadagno e della ricchezza degli appaltatori. Di tutto ciò che per altra parte potrebbe aumentar la pubblica ricchezza, il governo non vuol udire parola: in ogni cosa vede una trama, una ribellione, un pericolo, e non vede il maggiore, il più inevitabile di tutti: simile all’uomo che fuggisse, guardandosi dietro, da un insetto, e non badasse ch’egli sta per gettarsi in un precipizio. Roma ha detto: Io non credo nelle strade ferrate; e di questa profession di fede ride l’Europa intera; ma non ne ridono i sudditi pontificii. L’evidenza dei fatti aiuta il mio desiderio d’esser conciso, e però non aggiungo altro, se non che ora si dice che finalmente le strade ferrate si facciano anche colà. Un giorno o l’altro vi si faranno, lo so; ma se s’abbiano a far presto, lo voglio prima vedere. Ad ogni altro modo di miglioramento s’oppone pertinacemente il governo o con proibizioni o con incagli: non vuole istituzioni di banche tendenti ad accrescere il credito pubblico[2], non associazioni agricole, industriali. Paralizzata così ogni mossa del corpo sociale, intercetta e tolta la circolazione dei suoi più vitali umori, questo per necessità si viene ogni dì più depauperando. I possessori agricoli, aggravati da tasse incomportabili, nè trovando sbocco alle derrate, si vanno consumando, nè vien loro fatto giammai di poter ragunare avanzi, ed ammassar que’ capitali che sono il nerbo dell’agricoltura ed il solo modo onde migliorarla. Il commercio è, si può dir, nullo, e lo stato più centrale d’Italia, seduto su due mari e sulla nuova via che si va aprendo al commercio d’Oriente, dell’India e della Cina, con fiumi in parte navigabili, ricco di miniere e delle terre più fruttifere della nostra penisola, abitato da un popolo nel quale la Provvidenza ha infuso a piene mani prontezza d’ingegno, avvedutezza, energia, fortezza ed ardire, questo stato ha due porti principali, Civitavecchia ed Ancona: io li ho veduti ambedue non è molto: in ambedue, salvo qualche vapore estero che vi getta l’áncora per poche ore, non ho trovato che qualche povero trabaccolo o qualche paranzella di pescatori. Io ero in Ancona nel settembre scorso, e da una inezia, che appena meriterebbe esser avvertita, potei trarre argomento dello stato in cui trovasi colà il movimento marittimo e commerciale. Volli prender un guscio a un tanto l’ora per far un giro in mare, e veder da quale aspetto la città si mostrasse meglio onde farne un disegno. Domandai a due marinai quanto volessero, ed avvezzo alle indiscrete pretese che in Genova, Livorno, Napoli ed altri porti sono solite a cotali uomini, m’aspettavo che costoro mi domandassero almeno uno scudo l’ora. Mi domandarono _due paoli_, mezzo raccomandandosi coll’espressione dello sguardo, onde non li trovassi indiscreti. Non s’immaginavano que’ poveretti che stretta di pietà mi dêsse invece al cuore la loro domanda, che era a tariffa di forestiere, e perciò esagerata, e mi svelava i patimenti e le angustie d’un popolo intero! E se il governo vieta a’ sudditi, non dirò d’arricchire, ma di potersi aiutare, nessuno almeno li spogliasse, li opprimesse d’imposizioni; fossero almeno temperate le spese! Ma che accada invece tutto il contrario è cosa talmente nota, che sarebbe allungar inutilmente questo scritto l’impiegar parola per dimostrarla. Parlando in generale, più le derrate sono cattive a questo mondo, più s’hanno a buon mercato. Ma non è così de’ governi. Più son cattivi, e più costano. E lo sanno i sudditi pontificii, ai quali tocca pagare non solo quel prezzo, sia pur elevato quanto vogliamo, che deve pagar ogni popolo per essere governato, ma son costretti a saldare alla cieca i conti di un improvvido sistema che li rovina, son costretti mantenere un’armata d’impiegati inutili (fossero soltanto inutili!), di doganieri, finanzieri, ec. Son costretti pagar grassamente alti ministri, spesso forestieri, che occupano cariche alle quali non possono aggiungere i comuni cittadini se non entrando negli ordini sacri, abbiano o no la vocazione a questo augusto ministero. E le cariche poi alle quali possono esser nominati anche i laici, come governatori, giudici, presidenti di tribunali, ec., sono invece troppo mal retribuite, onde possan le persone civili ricavarne un onesto sostentamento alla loro famiglia. Ma di tutte le spese del governo la più dolorosa a’ popoli è quella de’ mercenari svizzeri. Non parlo della guardia svizzera dei palazzi pontificii, troppo poco numerosa per essere di peso allo stato, ma parlo dei reggimenti svizzeri, che offrono lo spettacolo doloroso, e strano veramente a’ nostri tempi, delle antiche compagnie di ventura, nè si comprende come la nobile e virtuosa nazione alla quale appartengono (se pur non sono una ragunata di genti di varie nazioni, come da molti si dice) non tolga dai suoi ordini questa usanza tanto contraria allo spirito nazionale, del quale essa ha dato in ben opposti modi così splendidi esempi, e contraria egualmente alla sua dignità. Io, che conosco il piccolo esercito pontificio, al quale per essere ottima truppa non manca se non un comando ed una direzione veramente militare, io, che conosco in esso uomini pieni di onore, di generosa ed ardita natura, ed eccellenti uffiziali, e li vedo in fila con codesti Svizzeri, preferiti a loro, e meglio trattati di loro; io, nato (mi perdoni il lettore se alla cosa pubblica ardisco frammischiare parola d’affetti privati) di tal padre che in un esercito ed in tempi ove l’ardire e l’onor militare non eran cose rare, n’era tenuto modello; io, memore de’ suoi insegnamenti e dei suoi onorati esempi, memore della viril fortezza d’una madre che godeva e si vantava d’aver tre figliuoli nell’esercito, ove tant’altre n’avrebber pianto e tremato; io, educato a tale scuola, mi sento ribollir il sangue al pensiero dell’onta che son costretti sopportare quei soldati italiani! Onta la più amara che possa versarsi su chi sente l’onore, la religione della bandiera, vedersi escluso dal guardarla e difenderla, e vederla affidata a mercenari stranieri! Io fremo del giusto sdegno di que’ soldati italiani, io mi rodo dell’onta loro. Non sa il governo papale qual tesoro d’odio (e Dio voglia non sia di vendetta) gli s’aduni contro tra i popoli e nell’esercito per questa sua maledizione dell’armi mercenarie e straniere; che sarebber assalite e certo disperse da’ Romagnuoli, se non sapessero ch’esse sono l’antiguardo dell’Austria, che scompariranno il giorno ch’essa sia tolta dal guardar loro le spalle, perciò inutili ora ed allora, inutili in un caso come nell’altro. Ma che dico inutili? esiziali ai popoli, come al governo, al quale sono non lieve occasione di rovina economica, di predilezioni e d’ingiustizie a danno delle truppe nazionali, mal pagate, lacere e rivestite de’ panni logori del mercenario straniero, assetate di vendetta contr’esso, come appare dalle frequenti risse soldatesche, nelle quali, stando ai racconti popolari, i dragoni pontificii hanno dato buona prova di sè — ed io, che li conosco, lo credo. Sono incredibili le spese che costano codeste genti, la loro insaziabilità, il loro continuo chiedere al governo, e più incredibile la dappocaggine di questo nell’accondiscendere alla loro ingordigia. Accadde pochi anni sono un fatto del quale io non ho veduto cogli occhi miei il processo (e dico questo perchè non uso affermare se non le cose che ho vedute e toccate), ma che tutto lo stato tiene per certissimo. In un reggimento nacque discordia tra il colonnello ed i suoi capitani, e la questione avea avuto origine nel riparto degli avanzi fatti sui fondi d’arruolamento, che dal governo pontificio (con ordini de’ quali Machiavelli ha fatti conoscere abbastanza gli errori, e perciò da secoli oramai condannati) vien dato quasi ad appalto: non potendo accordarsi, i capitani fecer ricorso all’autorità. Di questo accidente ne corse la voce, e ne fu portato a Roma il giudizio. È impossibile che ambe le parti avesser ragione: cionnondimeno il governo, per tenersi affezionati i suoi custodi, congedò il colonnello con una pensione, gli diede maggior grado, e rimandò con lodi i capitani alle loro compagnie. E così si spende il denaro spremuto dai sudditi. Ma andiamo innanzi, chè c’è di meglio. Non vi fosse altro male che di Svizzeri! Alla fine in gente ordinata, buona o cattiva, in reggimenti di linea, sieno pur ingordi, vadan pur cercando d’avvantaggiarsi alla meglio che possono, v’è pur sempre un limite ed una qualche ombra di regola: se non altro, è ordine di cose, che ha in sè un certo che d’aperto, di franco, di conosciuto da tutti; i fatti accadono alla luce del giorno, in faccia al pubblico, e con poco o niente mistero. Ma un altro più nefando ordine è in Romagna, un’altra tenebrosa e scellerata potenza, invisibile a tutti gli occhi, che tutti i cittadini, in ogni luogo, in ogni momento della vita si sentono al fianco vigilante ed apparecchiata a loro danno. Il lettore a questa parola ha già pronunciata la parola polizia; ma il lettore s’inganna. Io parlo di cosa più turpe, d’una nefandità più nuova, più rara, anzi sconosciuta affatto a tutte le nazioni civili; parlo di cosa della quale non oso, non voglio accusar il governo, e che pure, non si può negarlo, egli conosce, sa che esiste, e non ne lava l’infamia nei luoghi ove gli è concessa ogni potestà. È in Romagna una generazione d’uomini vile, oscura, di rotta e scellerata vita, usa all’ozio, al bagordo, alle risse da taverne, che si grida devota al papa, al suo governo, alla fede, alla religione, e con questo vanto si tiene sciolta d’ogni freno, d’ogni legge, stima lecita ogni violenza (forse la stima meritoria) purchè sia contro uomini che professino altre opinioni delle sue; lo che, come ognun vede, è lo stesso che dire contro chiunque le sia odioso o nemico. Questa mala razza, profittando del continuo terrore che è ne’ governanti, si combina in conventicole oscure, e vi prepara supposte congiure, delazioni, e, peggio, vendette ed assassinii. La città ed il borgo di Faenza son divisi da miserabile ed inveterato odio cittadinesco, avanzo probabilmente d’antico parteggiare. Ai disusati e vecchi nomi di parte son sottentrati oggidì quelli di liberali per la città, di papalini pel borgo. Popolato questo d’uomini di bestial ferocia, pronti alle risse ed al sangue, è il luogo che può dirsi principal officina di violenze, principal nido di quella scellerata genìa che, e quivi, ed a sua imitazione nell’altre città di Romagna, provoca, batte, ferisce e talvolta uccide, e sempre a man salva, coloro ch’ella dice liberali, o frammassoni, o carbonari. Infiniti casi ne son accaduti dal 31 in qua, e ne vanno accadendo alla giornata. Nel 31, nel tempo dell’occupazione austriaca, è avvenuto che, trovandosi a notte avanzata pacifici cittadini per le strade, tornando a casa da qualche veglia, s’imbattevano in frotte di que’ mascalzoni, che prima con parole li offendevano, poi con mazze li battevano o con coltelli li ferivano; e più volte sono stati repressi, sgridati e minacciati dagli stessi ufficiali austriaci, che, quantunque stranieri, quantunque nemici nostri, o ministri, se non altro, di potenza a noi nemica, pur sentivano indignazione di siffatte enormità e della scellerata connivenza del governo, non potean patire di veder trattati a quel modo uomini tranquilli e disarmati, e li accompagnavano per puro moto di umanità finchè li vedessero riparati e fuor di pericolo dietro gli usci delle loro case. In Francia, all’epoca del _Terrore_, furono uomini simili a costoro i Marsigliesi, e furon la vergogna di quell’ordine di cose, la macchia della bandiera tricolore, l’onta della causa della libertà; ma eran tempi di transizione tra estremi opposti, tempi di ebbrezza, di scatenamento universale: eppure chi oserebbe scusare le ingiustizie, le violenze d’allora? Chi a quelle memorie non sente destarsi in cuore affetto pietoso per le vittime, sdegno ed abominio contro i manigoldi? Ma nella nostra età, oggi, ora mentre scrivo, pensare che tuttociò accade o può accadere, non in paese sciolto d’ogni freno ed in piena rivoluzione, ma in paese retto in nome di Colui del quale sta scritto, che amò gli uomini sino a dar la vita per loro; in nome di quella legge che comanda di perdonar al fratello sette volte settanta, vale a dire sempre; pensare che ciò non sia favola, sogno o esagerazione di parti, ma cosa per disgrazia dell’umanità e della religione vera pur troppo e reale, è tal idea che la mente umana non la sostiene, è idea che ti farebbe dubitar della luce del sole, e ti mette in cuore vera desolazione. Simile all’uomo presso ad annegarsi, che s’afferra a qualunque, benchè debol virgulto, m’appiglio all’idea che il pontefice non sappia quello che in suo nome si commette. Che non lo sappia? È egli possibile? Ripugno ad entrare in questa questione; ma se egli lo ignora, ben lo sanno i suoi ministri, o alcuni almeno de’ suoi ministri. Le parole degne di cotali sciagurati, io mi vergogno pronunciarle, nè voglio imbrattarne la mia penna, perciò non aggiungo sillaba, e li lascio all’esecrazione degli uomini onesti di tutti i partiti e di tutte le nazioni. Usciamo di queste abominazioni: ma, pur troppo, mi tocca ad entrare in cose non meno turpi, comunque non di così sozza lordura. Parlo de’ giudizi, dell’inquisizione politica affidata a Commissioni straordinarie, non vincolate da nessun ordine legale di processura, e con illimitata autorità nelle condanne. In codesti tribunali, veri _coupe-gorge_, come dicono i Francesi, tenuti per scellerati da tutte le nazioni civili, perchè la loro stessa natura, la loro essenza medesima è certo segno dello scopo al quale son destinati di servire, cioè d’istrumenti alle vendette d’un principe, e non alla giustizia; in questi tribunali, dico, gli stessi uomini sono insieme accusatori e giudici; non v’è libertà nella difesa, e neppure nella scelta del difensore, dato dai tribunali, e preso tra le persone a lui devote; i processi oscuri, occulti, composti nell’interesse dell’accusa; i costituti ingannevoli, suggestivi e pieni d’artificio, ed impiegata la tortura morale, e si potrebbe dire anco la materiale; indefinita ed arbitraria la classificazione delle colpe, per la qual cosa vengono spesso puniti, come delitti di lesa maestà, l’opinione, il pensiero, gli affetti dell’animo sfuggiti in qualche parola, in qualche scritto imprudente, e castigati con pene che passano ogni idea di proporzione e di giustizia, anche ammessa la reità dell’accusato. A considerare la mansuetudine de’ tribunali delle nazioni civili, di Francia, Inghilterra, Belgio, ne’ casi di stato, la loro scrupolosa e direi timida premura pel reo, onde non gravarlo oltre l’onesto (e si noti che se si mostrassero più severi, n’avrebbero forse motivo, per essere in quegli ordini di principato meno oppressione pei sudditi e più vie legali onde ottener giustizia ove si tengan gravati), a vedere, verbigrazia, Luigi Napoleone rimandato sciolto dopo l’impresa di Strasburgo; dopo quella di Boulogne, chiuso soltanto in carcere, dove se fosse nato suddito del papa, non vi sarebbero stati bastanti patiboli per ammazzarlo; veder in Francia ed in Inghilterra soltanto esiliati, o rinchiusi come pazzi, uomini che aveano tentato uccidere il re o la regina, e pensare da chi sono retti codesti stati, e da chi è retto lo stato romano, pensare che a quelli si dà taccia o d’eresia, o d’irreligione, che si tengono quegli ordini per tristi e pervertitori dell’umana società, che si predican questi come gli ottimi, i santi; a veder le opere, gli effetti degli uni e degli altri, vacillerebbe l’umana ragione se Iddio per sua misericordia non avesse posto nel cuor dell’uomo la facoltà di conoscere ed amare la verità e la giustizia, e di detestare la menzogna e l’iniquità. Le turpitudini e gli assassinamenti di cotali Commissioni si rassomigliano, e sono pari in tutti i tempi ed in tutti i luoghi dove vengono adoperate; perchè le medesime cause producono per tutto e sempre i medesimi effetti, e perciò oramai di comune consenso delle persone oneste sono tenute istrumento soltanto di violenza e di vendetta. L’esperienza ha mostrato che i ribaldi i quali accettano di sedervi, o sappiano la mente di chi li ha posti a quell’ufficio o l’indovinino, cercano e voglion colpevoli, e non innocenti; sanno che ad ogni condanna salgono in grado presso il governo, mentre l’assolvere gli farebbe calare; sanno che i più saldi gradini della scala de’ premii, degli onori sono per loro i corpi delle vittime, innocenti o colpevoli, poco importa. Il mondo è pieno, grazie alla stampa, delle infamie che si commettono da costoro; i nomi de’ più famosi, quali furono in Lombardia il Salvotti ed il Zaiotti, stanno affissi ad esecrazione universale, e ad esempio de’ posteri sulla nuova via che segue l’uman genere verso un migliore stato di giustizia e di diritto, come le membra de’ malfattori si affiggevano un tempo sulle strade a terrore ed esempio delle moltitudini. Ed ancora s’hanno a vedere Commissioni speciali? E l’Italia avrà dunque il tristo vanto d’esser l’ultima ad usarle? Combattere ed infamare cotali scelleratezze sarebbe per avventura cosa vana e superflua in ogni paese civile, ma non lo è pur troppo in Italia, e giova, ad estirpazione totale di cotal peste (onde se ne vergognino, se non altro, quelli che se ne vorrebbero valere), entrar nel doloroso racconto de’ fatti di codeste Commissioni, e a questo effetto narrare i casi di Romagna sin dal 43. Io, che fo professione sopra ogni altra cosa di scrupolosa veracità; io, che per aver vittoria di ogni più turpe iniquità, non la graverei della minima delle calunnie, se dovessi ancor salvare il mondo con essa, racconterò cose che non ho vedute, e delle quali perciò non ho la certezza materiale; ma cose al tempo stesso che a ragion di critica tengo per vere, e che sono tenute per tali da tutti. Se poi, cionnonostante, m’accadesse di accusar ingiustamente o un privato o lo stesso governo, ecco ciò che dichiaro onde serva di regola a chi si tenesse gravato dalle mie parole. L’ultimo, il più umile e debole degli uomini, ove mi mostrasse ch’io l’ho accusato ingiustamente, avrà da me convenevole riparazione all’onor suo, e nel disdire le parole dette, certo involontariamente, contro di lui, lo ringrazierò d’avermi dato occasione d’adempiere ad un dovere d’equità: ma il più potente, il primo de’ viventi, ove l’avessi giustamente accusato, tenterebbe invano di farmi disdire d’una sola delle mie parole. Io spero non essere, con questa dichiarazione dell’animo mio, uscito de’ termini di quella modestia che mi si conviene, e prego il lettore vi conosca soltanto il desiderio e la volontà d’esser franco, leale e giusto coi nemici, come cogli amici. Nella state e nell’autunno del 1843, essendo la Romagna in condizioni analoghe alle presenti, le crescenti vessazioni doganali aggiuntesi a tutte le altre provocazioni del governo, diedero occasione a qualche tumulto nella provincia bolognese. Piccoli mercanti ed artefici del popolo minuto, uniti ad alcuni contrabbandieri, stretti e perseguitati più del solito dai gabellieri, si buttarono alla montagna, e vi vennero più volte alle mani colle guardie di finanza: nè questi disordini erano altro che una vana ed impotente resistenza di povera gente a chi le turbava i suoi più o meno legali guadagni. In Bologna cittadini di ogni grado compativano a que’ moti, conoscendoli frutto de’ mali ordini delle gabelle, nè agitazione veruna si destava nella città. Ma ciò non faceva pei ministri della polizia. Arte vecchia di costoro in ogni paese è il supporre ed anche suscitare dimostrazioni avverse al governo, per farvi i loro profitti; a questo effetto dipinsero ai loro rettori gli accaduti disordini quali moti politici, ed incominciarono tosto persecuzioni, visite nelle case, imprigionamenti, senza colpa effettiva o competenti indizi, e quindi fuga di molti popolani, i quali dubitando di non venir carcerati, si rifuggirono ai monti, accostandosi a quei primi: e di costoro e d’altri esuli di più antica data si venne ingrossando quella banda, che sempre più divenne argomento agli uomini di polizia onde spaventare l’imbecillità dei governanti e spingerli a radunare a furia le scellerate Commissioni speciali. Accresciuti perciò i sospetti e i terrori nell’universale, e conoscendosi alcuni arditi e generosi uomini delle prime famiglie della città, e da molto tempo tenuti d’occhio o perseguitati dal governo, in urgentissimo pericolo delle libertà o della vita, e nella necessità di scampare ad ogni modo, piuttosto che provvedere alla loro salute soltanto esiliandosi volontariamente, preferirono riunirsi a quegli sventurati loro concittadini, che la nequizia de’ governanti stava per ridurre all’ultimo estremo, soccorrerli coll’avere, colla persona e co’ consigli, e, facendosi loro guide, sottrarli alla galera od al patibolo. In Bologna intanto la Commissione condannava moltissimi a lunghe prigionie: sette od otto ammazzava. De’ modi tenuti per conoscere i colpevoli poco o nulla è noto, perchè oscuri e segreti i processi e le difese. È fama che di molte di quelle vittime non fosse certo il reato. Certissimo poi che la pena fu ad ogni modo arbitraria ed esorbitante. Il colonnello de’ carabinieri, Freddi, uomo in Romagna odiatissimo, che la voce pubblica dice fosse stato processato prima del 31, e tornato poi in grado a’ governanti col secondarne le violenze, era anche nel 43 anima e capo della Commissione di Bologna. Esso ed i suoi pari fecero in quell’occasione grossi guadagni, predicati dal governo quali mantenitori e vindici dell’ordine, delle leggi e de’ diritti sovrani, e colmati di onori e di premii. Ma questa messe era per durar poco. Veniva meno, era per cessare la loro bisogna, ed i profitti per conseguenza. La città era ormai tranquilla, e le Romagne non avean dato segno che mostrasse unione o corrispondenza cogli umori del Bolognese. La Commissione si vedeva alla vigilia d’essere disciolta. La provincia o legazione di Forlì, sottoposta al cardinal Gizi, al quale ci gode l’animo render quell’omaggio che merita la sua umanità e la nobiltà del cuore, che rifugge da ogni lordura di polizia, ne impedisce le provocazioni ed ogn’altra ribalderia, non offriva campo atto alla Commissione. I temperati modi del cardinale tenevano la legazione incolpabile e tranquilla. In Ravenna, invece, il cardinal legato Massimi, principe romano, che nell’universale avea nota di superbia e rigidità, e s’era concitato contro odio inestimabile de’ cittadini, inquietandoli con persecuzioni più aperte e continue, con vessazioni e castighi arbitrari, col mostrarsi disprezzatore de’ popoli, in Ravenna, dico, pareva alla Commissione poter più comodamente ed a man salva esercitare le sue ribalderie, ed aver aiuto e favore dal cardinale, facile ad ire e vendette implacabili ed a stupidi terrori. Commosso il popolo con atti ingiusti e violenti, e posta ad acerbe prove la sua pazienza, accadde un fatto che nessuna provocazione può certo rendere scusabile, ma che, dall’altro canto, non può recar meraviglia, l’uccisione d’uno Svizzero e d’un carabiniere[3], fatto segno per le dette violenze all’odio universale; e questi omicidii dettero modo alla Commissione d’estendere le sue operazioni anco sull’infelice Romagna. S’immaginarono corrispondenze ed analogie tra i moti del 43 in Bologna, e questo fatto accaduto del 45 in Ravenna; si sognaron trame e congiure estese a varie città delle Legazioni, moltiplicando al tempo stesso le carcerazioni a caso e senza motivo ragionevole in Rimini, in Ravenna e nelle terre della Romagnuola. La supposta opinione dell’inquisito era bastante cagione d’imprigionarlo, e ciò appare dalle infinite liberazioni che, dopo mesi e mesi e talvolta anni di carcere, accadono di persone dall’istessa Commissione riconosciute a forza innocenti. I tormenti corporali, la strettezza d’ogni agio, le carceri insalubri, le sorprese morali, i modi nefandi da essa usati per ottener confessioni o rivelazioni, sono dolorosa ed orribile istoria, della quale può aver idea chi ha letto i libri di Pellico o di Andryane: gli scellerati si rassomiglian per tutto. Si può argomentare le crudeltà e nequizie esercitate dalle Commissioni, nei segreti delle carceri e de’ tribunali, da quella usata ai prigionieri politici in pieno giorno ed al cospetto de’ popoli l’estate scorsa. Ne’ giorni e nell’ore più bruciate, sulle polverose strade della Romagna, fu veduta venir lentamente una lunga fila di carrette guardate da carabinieri e birri, sulle quali eran legati gl’inquisiti politici che la Commissione faceva passare da un carcere all’altro. Non eran costoro uomini avvezzi a cotale strazio, eran persone civili, di ogni stato, d’ogni età, agli occhi stessi del governo forse innocenti la maggior parte; e può immaginarsi con che cuore fosser veduti attraversar a quel modo le città, sudici, impolverati, arsi dal sole, legati e trattati come ladri di strada. A chi usa cotali modi credendo incuter terrore, e ciò nel popolo che ha la fortezza e lo spirito del Romagnuolo, può ben dirsi che Iddio ha tolta la mente ed ottenebrata la vista! Ma tutte le dette nefandità furono inutili ad ottenere lo scopo che si voleva dalla Commissione. Le torture, le circuizioni, le domande suggestive, le promesse d’impunità furon tentate tutte, e tutte indarno, contro poveri popolani, i quali non per virtù, chè non avevano in che mostrarla, ma per non avere nè saper che dire, tagliarono ogni via alla Commissione di continuare il processo. Disperati i giudici di poter far profitto veruno con que’ disgraziati, correvano spesso dalle carceri al cardinale (così narra chi era a quel tempo in Romagna), mostrandogli l’impossibilità di metter insieme tanto da poterne far uscire con qualche color d’onestà una condanna, ed il cardinale ad eccitarli a spendere, ad usar ogn’arte, far ogni prova per trovar modo e cagione di castigo; e finalmente, non potendosi trovare nè congiure, nè colpe politiche, si compose sopra apparenti analogie di fatti lontani co’ presenti, di incerte deposizioni di testimoni ignoti, confondendo insieme contrabbando e cose di stato, un processo, dal quale la Commissione prese motivo di condannare due alla morte, e moltissimi a venti, quindici, dieci anni di galera. Un nobile e generoso atto venne a consolare l’universale nel lutto di queste dolorose vicende, se tanta lode è dovuta all’adempimento d’uno stretto dovere. È costume delle Commissioni affidar sempre le difese de’ rei a persona di loro fiducia, ed in questi ultimi casi ne fu dato il carico ad Ulisse Pantoli, avvocato di Forlì, di nota fede al governo, che si stimava avrebbe prestato mano alle intenzioni del tribunale. Ma nell’animo onesto dell’avvocato potè più l’aperta verità e la giustizia, che lo spirito di parte o l’amor del guadagno, e si fece caldo e diligentissimo difensore di quegli sventurati, sino a distruggere del tutto con salde ed evidenti prove l’accusa. L’onorata e virtuosa temerità di quest’uomo dabbene generò contro esso nell’animo del cardinale e de’ giudici odio fierissimo, che si fe’ palese con perquisizioni, sottrazioni violente di carte provanti l’innocenza degli accusati, ed in ultimo gli fu data Ravenna per carcere finchè la sentenza tornasse ratificata da Roma. Liberato alla fine, si dice sarà sospeso dall’ufficio, che ha in patria, di supplente al giusdicente civile, e dall’esercizio della sua professione[4]. Sarà stanco oramai il lettore di sentire tante ribalderie, com’io sono stanco e nauseato di scriverle, ma un ultimo fatto mi rimane a narrare, ed egli ed io comportiamone il fastidio, chè sapere si deve ormai la verità. Uno de’ prigionieri, accusato d’aver avuta mano nell’uccisione del carabiniere, si trovava per caso in villa la notte nella quale accadde l’omicidio, e dormì in un’istessa camera con un frate francescano cercante. A prova della sua innocenza invocò a testimonio il frate, che affermò la cosa esser vera, e ne ebbe un’acerba riprensione, e, richiamato a Roma, la carcere in convento. La cosa più probabile in tutto ciò è, che quella povera gente fosse innocente; e, secondo ogni apparenza, i fatti del carabiniere e dello Svizzero furono effetti di privata vendetta; delitti senza complicità estesa, nè ramificazioni di trame, commessi da pochi già sottrattisi alla forza del governo; e che il cardinale e la Commissione abbiano iniquamente rapiti alle loro famiglie, mandati in galera, od ammazzati molti poveri popolani, e con loro qualche cittadino di più alto stato, o innocenti del tutto, o meritevoli almeno (e su ciò non v’è dubbio) di castighi cento volte men gravi, empiendo le dette famiglie e le città di squallore e di lutto, movendo per tutto spaventi, fughe e volontari esilii, spargendo semi che frutteranno pur troppo, prima o poi, messe inenarrabile di vendetta. In tal condizione erano le Legazioni, quando nella state del presente anno, tutta quella turba infelice d’esuli, fuggita di mano alla Commissione, raccoltasi entro i confini della repubblica di San Marino, che siede sull’Apennino a cavaliere della pianura e del mare, conobbe che neppur quel luogo era per lei stanza sicura. Codesta radunata di gente era composta di molti Riminesi campati dalle persecuzioni della sacra Consulta, di fuggiaschi dalla bassa Romagna, travagliata a quel tempo dalla Commissione, e stava per ingrossarsi di Dio sa quanti altri delle circostanti province, minacciate tutte dallo stesso flagello, se non che il cardinal Gizi, del quale abbiam già fatto noto l’animo virtuoso e prudente, ricusò espressamente d’ammettere siffatta abbominazione in Forlì, ove era la sede del suo governo, per la qual cosa era voce che avesse a stabilirsi invece nella città di Rimini. Gli esuli di San Marino trovavansi ogni dì a maggiori strette, scarsi di denaro e d’ogni aiuto; lo scampo in Toscana, distanti com’erano dal suo confine, si mostrava di troppa spesa e di grave difficoltà. Non cessavano al tempo stesso le istanze e le minaccie del governo pontificio alla piccola repubblica, affinchè consegnasse quelli che s’erano commessi alla sua fede, mostrandosi risoluto invaderne lo stato se persistesse nell’aver compassione di quegli sventurati, e nel rispettare i santi diritti dell’ospitalità e dell’asilo. Non trovando dunque altro modo d’uscir di quella rete, ovvero nutrendo pure speranza che da una prova coll’armi sortisse qualche effetto d’importanza, ordinarono tra loro fosse da muoversi in massa verso Rimini, ove la scarsa truppa pontificia, poco amica al governo per le narrate cagioni, non avrebbe forse voluto far testa, e gli amici, parenti e concittadini li avrebbero aiutati. Nel dare per certi i fatti che narro, non intendo rendermi egualmente mallevadore delle intenzioni e de’ disegni, e per questa seconda parte riferisco semplicemente le opinioni di coloro che, quantunque non presenti a que’ casi, giudicano senza passione, e conoscono lo stato delle faccende d’allora. Ora, per usar quest’occasione con qualche effetto che facesse palesi al mondo le condizioni delle provincie di Romagna, e le loro oneste domande, pensarono stampare un manifesto alle potenze, con animo di pubblicarlo in Rimini quando vi fossero giunti. Preso questo partito, lo mandarono ad effetto, e senza contrasto veruno, occupata la città, ed unitasi con loro la truppa pontificia, ebbero comodità di dichiarare il loro intendimento coll’indirizzo, e con proclami al popolo ed alle truppe[5]. In questo frattempo una banda di circa duecento uomini s’era già riunita sui monti di Faenza e Forlì, composta d’esiliati volontari e di fuggiaschi della Romagnuola, guidati da ricchi possidenti, disposti a porre tutto il loro avere per mantenersi e far testa, e si movevano alla volta di Rimini, mentre per la via Emilia le truppe svizzere si venivano anch’esse accostando alla detta città, che al loro avvicinarsi venne sgombrata dagl’insorti, i quali presero la via del confine toscano. A questo punto s’affaccia un quesito: come mai, uomini ai quali era prosperamente riuscita la parte di maggior difficoltà nella loro impresa, che avevano amiche e dell’istessa loro opinione le circostanti provincie, tutte egualmente impazienti del giogo e de’ mali che sopportavano, non hanno con più costanza durato nel loro proposito, non hanno propagata la favilla accesa con tanta facilità, non hanno difese le mura di Rimini e contrastatone l’ingresso alle genti del governo? Un articolo della _Presse_, scritto da chi conosce l’Italia e le sue condizioni, com’io conosco il mondo della luna, ricava da questo folto argomento di affermare, che i casi di Rimini furon tumulto eccitato da’ cervelli pazzi, per private e meschine passioni, alle quali non partecipavano in nessun modo nè i loro concittadini, nè le altre parti dello stato; e per provare il suo detto e mostrare che i sudditi pontificii sono contenti del loro governo, adduce la tranquillità delle altre province, e la loro nessuna partecipazione ai moti di Rimini. Ma il giornale la _Presse_ è in grand’errore, se pure quest’errore non gli viene in acconcio per trovare _abbonati_ negli stati italiani di gelosa censura. Sappia dunque l’Europa che la Romagna ed il rimanente dello stato papale è rimasto tranquillo spettatore del caso di Rimini, non perchè sia contento delle sue condizioni presenti, che ho dimostrato bastantemente quali siano, ma perchè è in que’ popoli virtù ed amor patrio bastante per sopportar con pazienza i mali che soffrono, piuttosto che correr rischio di chiamare sulla patria comune sventure maggiori, e tra le altre la peggior di tutte, l’invasione straniera. Sappia che i tumulti di Rimini sono stati eccitati da uomini ridotti a non aver più un palmo di terra sul quale posar piede in sicuro; da uomini che nell’andare in letto la sera avevan ragionevol sospetto d’essere svegliati la notte dai birri; da uomini tenuti in incessante dubbio della libertà e della vita, e così condotti a menar vita disperata; ed ognun sa che in cotali condizioni l’uomo si risolve a tutto, purchè possa mutarle od uscirne. Dunque, o il moto non si propagasse perchè non lo volessero gli autori medesimi, stando contenti alla dimostrazione fatta ed ai richiami pubblicati, e bastando loro ridursi a salvamento dopo aver fatte conoscere al mondo le loro oneste domande; o non si propagasse per retto giudizio e vero amor di patria degli abitanti delle circostanti provincie; ovvero, finalmente, la cosa rimanesse di comune consenso in questi limiti, è però sempre fatto certo ed incontrastabile che, non la felice condizione degli abitanti dello stato, ma la loro prudente e generosa carità di patria, ha prodotto l’effetto che tanto stranamente induce in errore il giornalista francese. E questo giornalista, che dal solo fatto della tranquillità dello stato romano al momento della sommossa di Rimini ha cavata la conseguenza che i sudditi pontificii son contenti, e che gl’Italiani non hanno pensiero della loro indipendenza, ha spiegata la cosa precisamente a rovescio; e sappia che la principal cagione della detta tranquillità, anzi la sola, è stata il non voler turbare e compromettere inopportunamente la causa generale e veramente nazionale dell’indipendenza. E se nella prima pagina di questo scritto ho esposto le ragioni che mi muovono a biasimare i casi di Rimini, ho anche ringraziato Iddio di non aver chiusi all’evidenza gli occhi dei più; e mi giova qui ripetere questo ringraziamento, ed estenderlo a tutti quelli fra gl’Italiani che sostengono virilmente le loro miserie private, per non far più dure ed insanabili quelle della patria comune. Delle operazioni degl’insorti di Rimini, durante la loro breve signoria, n’hanno dette vergognose e vili menzogne i fogli ufficiali e pagati; vergognose e vili, perchè chi è potente dovrebbe contentarsi della forza, e vergognarsi di usar la frode e la bugia. Tutti gli onesti cittadini riminesi sono testimoni che gl’insorti osservarono modestia e moderazione civile grandissima. Non una vendetta, non un insulto o un’offesa fu commessa o sofferta in quella breve libertà, a sfogo d’ire pur tanto antiche ed acerbe. Gli uomini che erano ai pubblici uffici vennero tutti rispettati e lasciati ai loro posti. È infame calunnia il dire che si sia chiesto, o voluto a forza danaro dai privati o dalla Cassa di risparmio. Dalle casse comunali e camerali furono presi tremila scudi, per usarli al sostentamento della truppa, alle corrispondenze ed agli altri bisogni del momento. Si può disputare sulla convenienza o l’onestà dell’atto d’occupare lo stato; ma è conseguenza necessaria, e comune in questo caso d’occupazione, comunque succeda, l’insignorirsi al tempo stesso de’ modi di sovvenire alle spese, che mai non posson sospendersi, qualunque sia il reggimento. Perciò si potrà condannare e tener colpevole l’atto di porsi in luogo del governo esistente, ma dar taccia di ladro a chi, dopo averlo occupato, adopera i suoi modi d’azione, è sciocchezza che non è creduta neppur da coloro che tentano usarla e farla credere a proprio profitto e ad infamia de’ loro nemici. Uscendo da Rimini non portarono con loro gl’insorti se non quel poco che avevan di proprio, e ciò è tanto vero, che que’ generosi ed infelici uomini giunsero al confine toscano laceri e bisognosi di tutto, e per umanità del granduca raccolti e soccorsi da’ suoi ministri, furon provveduti nelle loro necessità, e non caddero almeno di fame e di stento sulla strada che li conduceva alla terra d’esilio. L’atto del granduca, giudicato variamente in Italia e fuori da’ principi e da’ popoli, ha destato dispetto in Austria, dispetto misto d’invidia forse in qualche principe italiano, gratitudine ed ammirazione tra noi popolo: e pensando a que’ nostri sventurati fratelli, perseguitati e cacciati come belve per l’Apennino da’ birri e svizzeri papali; stanchi, feriti, laceri, presso a cader nelle mani di chi li avrebbe condotti al patibolo od alla catena de’ galeotti, vedendoli poi, giunti al confine toscano, respirare dalle fatiche e dai terrori della caccia sofferta, vedendoli consolati, soccorsi, avvinti con pietosa cura al loro triste viaggio, non abbiam lingua che basti a dire l’umanità del loro salvatore, non abbiam cuore che per benedirlo e ringraziarlo, non mente che per lodarne la virtù: e se ci offende il pensiero che un principe italiano abbia condotti i suoi sudditi, nati d’un istesso sangue, parlanti la sua stessa lingua, a cercar salvezza tra le braccia di principe uscito di sangue austriaco, lo sdegno che ci si desta in cuore contro quel primo, non rende punto minore il rispetto e la gratitudine che c’ispira la generosa umanità del secondo[6]. Mentre il moto di Rimini si risolveva nel modo che abbiamo narrato, i dugento della montagna di Faenza, più tenaci nel proposito di venire ad ogni modo alle mani, s’andavano accostando a’ loro consorti, ed avrebber potuto facilmente tagliar la via a due compagnie di Svizzeri, che, partite da Bologna, venivano lungo l’Emilia verso la marina, se di questa mossa avessero avuto notizia. Giunti alle Balze, luogo poco sopra Brisighella, e presovi alloggiamento in varie case, distanti gli uni dagli altri, e tra loro separati dal fiume, si posarono quivi la notte; sul far dell’alba una loro guardia avanzata di quindici o venti uomini, alloggiata in un casale isolato, venne all’improvviso assaltata da una compagnia parte di Svizzeri, parte di finanzieri e volontari. Quest’assalto non fu però tanto repentino, che non desse campo ad una sentinella di dar l’_all’erta_ a quelli del casale, che, armatisi in fretta ed usciti contro ai nemici, ne sostennero virtuosamente l’impeto, benchè di forza a lui tanto inferiori; e, favoriti dall’asprezza de’ luoghi, con molte morti e molte ferite dopo breve battaglia li ributtarono, tanto che venivano a mano a mano retrocedendo. Il fiume gonfiato per le pioggie della notte, rendeva impossibile a quelli che eran rimasti alle Balze di correre in aiuto de’ loro; parimente impossibile a questi quindici o venti far frutto veruno contro un numero d’uomini tanto maggiore, seguitando ad inseguirli in luoghi più aperti; convenne loro dunque lasciarli andare, e trovar modo di ricongiungersi al loro piccolo esercito. Venutine a capo, e tutti insieme desiderando pur sapere più certe notizie delle cose di Rimini, prima di mettersi in altro, seguitarono il loro viaggio, e giunti l’indomani in Civitella, piccol luogo discosto dallo stato toscano, intesero com’erano andate le faccende di là, e non trovando oramai modo di reggersi, nè vedendo che ragionevolmente fosse per allora altro da fare, presero anch’essi il partito di rimettersi all’umanità del granduca, e si presentarono ai suoi confini. Questa è la breve istoria degli ultimi casi di Romagna. Così per la loro mole di poco momento, se vogliamo, ma segno infallibile di condizioni gravissime nello Stato e nell’intera nazione, e perciò da considerarsi seriamente e diligentemente da tutti. Io mi son ingegnato farle in parte palesi col mio discorso, senza passioni di parte, o riguardi di persone, di condizioni o di stato, e quantunque non abbia detto tutto quanto si potrebbe dire sui modi tenuti dal governo romano, credo aver detto assai per far nota la verità a chi è capace d’intenderla e d’accettarla. Preghiamo Iddio che ne facciano il loro profitto coloro cui più importa, coloro che reggono il popolo, e tanto sicuramente vanno mettendo il capo in bocca al leone, non col conscio ardimento dell’uomo che conosce il pericolo e lo vuole affrontare, ma coll’improvvida temerità del fanciullo che l’ignora. La Romagna e l’intero stato si mostra tranquillo, e può dirsi di lui quello che fu detto della Polonia: _L’ordre règne à Varsovie_; ma non prendan lo scambio su questa tranquillità. Non l’otterrà vera nè durevole il governo del papa co’ nuovi tribunali di sacra Consulta, instituiti a cessar almeno la troppa infamia annessa al nome di Commissioni, ma in effetto simili a queste nell’opere e negli uomini che li compongono: non l’otterrà col terrore[7] delle carcerazioni, che si moltiplicano tuttora in Rimini e nelle Legazioni, quantunque i veramente partecipi agli ultimi moti sien tutti usciti dello stato: non la otterrà coi bestiali modi che usa co’ prigionieri politici, trattati come assassini e ladri, e tenuti alla catena con loro contro il costume di tutte le nazioni colte, tantochè uomini gravi, spettabili per talenti, per grado e per costume civile, compianti e desiderati, nonchè dalle loro famiglie, dalle intere città, soffron la compagnia de’ più vili ribaldi in Civitavecchia, San Leo, Forte Urbano e Civitacastellana, sostenuti a quel modo la maggior parte senza prove legali, e senza che molti di loro abbiano in lunghi anni di prigionia (dico cose che tutti sanno) veduto pur la faccia d’un esaminatore o d’un giudice; non l’otterrà col moltiplicare a propria guardia le baionette mercenarie, come si dice intenda ora di fare: ma l’otterrà colla giustizia, colla carità, col perdono ch’egli predica, e non vuol praticare; l’otterrà coll’osservare una volta la santa legge che insegna, l’otterrà collo scendere agli onesti accordi che chiede a lui l’opinione dell’universale. L’età nostra è acerba ai principi, ed aspra di ostacoli e difficoltà gravissime, ma la più fatale per loro sta nel non conoscere, e forse nel non voler conoscere, quella moltitudine che s’agita impaziente alla base de’ loro troni; nell’ignorarne i pensieri, i desiderii, le necessità, le forze, o forse nel credere di poterle sprezzare. Non v’è principato, non autorità al mondo che possa star su altra base che sull’opinione, sul consenso dell’universale. Unico legame che impedisca l’umana società di dissolversi è l’idea d’un diritto ammesso da tutti. I diritti dell’Impero nel medio evo, ed il diritto divino hanno servito di cárdini al mondo finchè il mondo ebbe fede in loro: ora questa fede è spenta, e nessun potere umano lo può oramai ridestare. All’antica fede in que’ diritti n’è succeduta una nuova: la fede nel diritto comune. I primi ad abbracciarla, come tutti i nuovi credenti, son trascorsi ad eccessi, combattuti da eccessi contrari; e questa è l’istoria dell’età nostra da circa sessant’anni in qua. Le due forze tra le quali progredisce il mondo, poste a contrasto, hanno seguita la legge dinamica per la quale due spinte in senso divergente producon la media diagonale. L’idea del diritto comune, purgata da’ contrari eccessi, è fatta universale oramai; è l’opinione di tutti, e l’opinione, l’abbiam detto, è la vera dominatrice del mondo. Non pensino i principi poter venir seco a battaglia ed averne vittoria: se gli adulatori, i cortigiani dicon loro che Luigi XVI, Carlo X in Francia, Carlo V in Ispagna, don Michele in Portogallo e tant’altri son caduti soltanto per trame di settari, per tradimenti di ribelli, per vertigini di filosofi, per passioni ingorde, sfrenate, nemiche d’ogni ordine civile, non credano a costoro. Son caduti loro e i loro diritti, percossi dall’opinione. Tutti i ribelli, i settari, i filosofi insieme non li avrebbero mossi d’un dito se avessero avuta l’opinione per loro. Si specchino nel governo più potente dell’universo, nell’Inghilterra; a tutto ed a tutti si sente atto a resistere, ma si piega riverente all’opinione. Essa volle la riforma elettorale, e le fu data. Volle l’emancipazion dei cattolici, e l’ebbe. Ora vuole che i ricchi dell’aristocrazia non possano, a loro profitto, far morire il povero di fame, e mentre scrivo, Torys e Wighs, ministri ed uomini di stato, la regina, i suoi grandi s’agitano, non han riposo nè dì, nè notte, incalzati dalla sua voce, e tremanti di tardar forse troppo ad ubbidirne i comandi. Ma questa padrona del mondo ha anch’essa un padrone al quale serve, che la muove, la dirige a’ suoi fini, e questo padrone è Dio: e Dio la scatena a sua posta contro l’iniquità; e di quali modi si serve per iscatenarla? di modi che, in verità, paiono uno scherno alla vanità dell’umana sapienza. L’Inghilterra appunto ce ne presenta ora un notabile esempio. Il saldo ed antico edifizio della sua aristocrazia, opera di secoli, orgoglio di tanti potenti ingegni, che l’Europa, guidata da Napoleone, non valse a crollare, vacilla ora forse percosso da potenza maggiore della sua? Ad ottener quello scopo al quale furono scarse le forze dell’Europa e di Napoleone, s’è forse stretto in lega l’intero mondo? Vediam forse che Iddio muova guerre, eccidii non mai sentiti, sprigioni gli elementi contro quella vecchia e sinora inconcussa ingiustizia? Nulla di tutto ciò. Egli infetta la radice di quella pianta che nutre il popolo, infetta le patate: con questo vile istrumento, forse a deridere la superba impotenza dell’uomo, egli opera quello che le forze riunite dell’universo hanno tentato e tenterebbero forse indarno. In questo fatto sono due insegnamenti importanti per ogni governo. Il primo, che Iddio si stanca alla fine di soffrire l’iniquità, e che poco gli costa l’abbatterla: e se la lezione non è nuova, sarebbe per avventura cosa nuova per gli uomini il trarne profitto. Il secondo, che il governo inglese, per quanto si senta forte, non crede esserlo tanto da potersi mantenere contro l’opinione dell’universale, nè poter fare senz’essa; ed anzi, che non per altra cagione egli è forte e potente se non perchè non se ne stacca mai, nè mai si sposta da quell’ampia e solida base; ed ov’essa si muti, anch’esso si muta, ancorchè questa mutazione offenda gli uomini che in esso hanno maggiore autorità: come accadde ne’ suddetti casi della riforma e dell’emancipazione, e sta ora per accadere nel fatto della legge delle biade. Ora quello che non può il governo dell’Inghilterra, non creda poterlo nessun altro, e meno d’ogn’altro il governo di Roma. Come principato antico, e principato ecclesiastico, egli può ancora avere forza grandissima, ove la sappia usare; ove sappia seguire l’esempio dell’aristocrazia inglese, mutarsi a tempo a seconda dell’opinione, accondiscendere alle sue oneste domande, e conoscere che conviene talvolta concedere di buon grado una parte per non essere spogliato poi violentemente del tutto. Ma egli, invece, trascurando quella forza che è la vera, trascurando quella tutta sua propria ch’egli ha come principe ecclesiastico, e perciò tenuto in riverenza dai cattolici di tutto il mondo, si vuol appoggiare alle due forze più invise all’opinione non solo d’Italia, ma di tutta la civiltà cristiana: forze che, rovinando (e ciò accadrà prima o poi), lo faranno rovinare con loro: e sono, in casa, le armi mercenarie; fuori, le armi straniere. Le mercenarie, oltre i danni già detti, recano ad un principe il massimo di tutti, quello di torgli riputazione d’esser principe amato da’ suoi sudditi: e veramente, ancorchè fosse odiato dagli uni, purchè fosse amato dagli altri, potrebbe, coll’aiuto di questi, raffrenare i primi. Ma il fatto di provvedersi d’armi mercenarie, dimostra che non ha nel suo stato in chi fidarsi: dimostra perciò ch’egli non è amato da nessuno; ed allora il suo principato non si fonda se non sulla violenza, tenuta da tutti per modo che implica illegittimità; e mancando questa violenza, è forza che rovini. Le armi straniere, vale a dire la protezione dell’Austria, lo mantengono bensì in piè materialmente e violentemente; ma, come le mercenarie, mostrano che non può far verun fondamento sui sudditi propri: di giunta poi lo rendono odioso agl’Italiani, che ogni dì più s’accendono per l’indipendenza, e vedono rinnovarsi a danno di questa l’antica colpa del papato, di chiamar in Italia gli stranieri onde valersi di loro contro gl’Italiani: e fuori d’Italia agli uomini onesti, ancorchè caldi cattolici, è brutto spettacolo veder l’Austria tener pe’ capelli la Romagna, onde possa il papa farne quel governo ch’ei vuole. E di qui avviene che in Italia e fuori d’Italia, non solo i protestanti od altri avversari di Roma, ma gli stessi cattolici più a lei devoti, e gli stessi preti, ove non sien mossi da private passioni, si spogliano d’ogni stima pel principato temporale del papa, lo predicano dannoso alla fede ed alla religione, lo vorrebbero o tolto affatto, o ristretto almeno in brevi confini: in una parola, le due forze sulle quali vuol reggersi non potranno aiutarlo alla prima occasione di qualche grave disordine nell’equilibrio d’Europa, ed ognun vede quante prossime, per non dire imminenti ve ne sieno; e se non saranno le dette forze atte a salvarlo allora, sono atte bensì, anzi le più efficaci, ora a togliergli la sola, la vera forza che in ogni tempo ed in ogni occasione sarebbe la sua più sicura difesa, quella del consenso dell’opinione universale. Conosco, e le conosce ognuno, le gravi difficoltà che, a volerla far sua, circondano il governo di Roma. Enumerarle tutte sarebbe materia d’un volume, e non lo credo necessario al mio proposito. Accenno soltanto quella che a me sembra la massima, e che di tutte le altre è l’origine. Per mutare o migliorare gli ordini d’uno stato bisogna esserne signore di fatto, non di nome: bisogna che la potestà (stia in un principe, o in una oligarchia, o in un’adunanza popolare, poco importa) abbia modo di farsi ubbidire, ed abbiam mostrato che il papa non l’ha questo modo; credendosi principe assoluto, non lo è. Egli siede al governo d’una nave che non risponde al timone, e finchè non avrà trovato modo a racconciarlo, egli giammai potrà dirigerla a buona via. Egli è posto nella necessità d’usare istrumenti che gli sfuggon di mano, e non l’ubbidiscono: ma questo vizio è meno degli uomini, che degli ordini. Gli uomini sono più o meno mossi per tutto dal loro utile privato. Però negli altri stati i ministri, nati dell’istesso popolo, e legati ad esso ed al principe in molti modi, conoscono essere il loro utile privato connesso, per dir così, con quello del pubblico, non solamente pel tempo presente, ma, avuto rispetto alle famiglie, anco pel passato colle tradizioni, e per l’avvenire colle speranze. Non è così nel principato ecclesiastico. Ogni pontificato co’ suoi ministri, e quanti hanno uffici da lui, forma, per dir così, un sistema isolato e da sè, che non ha nè precedenti, nè susseguenti (mi riservo però un’eccezione): tutti i disegni, tutti gli atti del governo son riferiti ad una misura, e questa misura è la probabile durata della vita del pontefice. Guidati da un dato così incerto, tutti coloro che sono in qualche ufficio, uomini la maggior parte esteri e non uniti allo stato che reggono da verun vincolo, pensano ad assicurarsi il maggior bene possibile, e ciò nel minore spazio di tempo possibile. Per questa cagione, se anche salisse al pontificato un uomo dotato d’alta sapienza nell’arte dello stato, e d’ugual virtù per usarla ad utile pubblico, e senza pensiero di sè stesso, se questo pontefice volesse risolutamente riformare gli abusi, che sono il profitto di tanti, e perciò vietar loro l’occasione di avvantaggiarsi, costoro non gliel consentirebbero, nè vorrebbero ubbidirlo, nè egli avrebbe modo a costringerli, come abbiam detto, e troverebbero sempre via o segreta od aperta d’eluderne le intenzioni, e il minor danno a cotal pontefice sarebbe il non poter far frutto nessuno. Dicendo che ogni pontificato forma un sistema da sè senza antecedenti nè susseguenti, mi sono riservata una eccezione: eccola. Il solo anello che concateni un pontificato con quello che gli ha a succedere, è la paura d’un avvenire che nessuno può prevedere. Ognuno de’ ministri del governo, volendo non solo mantenere l’ufficio ch’egli ha, ma salire ad uffici maggiori, deve aver rispetto non tanto a coloro che hanno autorità nel pontificato presente, ma a coloro insieme che potrebbero salire in grado nel pontificato futuro: e siccome per gli ordini dello stato i gradi sono aperti a tutti gli ecclesiastici, ed è insieme impossibile leggere nell’avvenire d’ognuno, ne nasce che l’andamento degli affari pubblici è complicato, più assai che altrove, d’infiniti rispetti a privati e per mire private; e questo unico vincolo che unisca il presente al futuro, è, come ognun vede, di danno anzichè di vantaggio allo stato. Dunque, restringendo le molte parole in poche, dico che il pontefice avrebbe grandissima difficoltà cogli ordini presenti a secondar l’opinione riformando il suo stato, perchè non ne è veramente padrone. Non è padrone, perchè non vi son leggi universali ed ubbidite, nè istituzioni salde che abbian profonde radici nel popolo; perchè invece egli regge per via di ministri che operano ad arbitrio, e quest’arbitrio che usano ora contro i sudditi, e l’usano male, per esser la maggior parte esteri che cercano fortuna, ed hanno l’occasione misurata ed incerta, l’userebbero contro il principe quando volesse correggerli a danno del loro utile privato. Ma il dire una cosa difficile, è dirla al tempo stesso possibile. Sono tali e tante le necessità ed i pericoli dello stato, ch’egli deve fare ogn’opera affinchè questo possibile si mandi ad effetto; e certo, ogn’altro stato che non fosse come questo, retto, per dir così, a vitalizio, cercherebbe riparare validamente a disordini che possono trarlo a prossima rovina. Tuttavia anche fra gli uomini di Roma sono molti, e ne conosco, che vogliono il bene: pensino che l’occasione è grave, nè può esservi dubbio oramai sull’urgenza di provvedersi contro un futuro più o meno remoto, ma infallibile apportatore di grandi sventure. Conoscere il male è sempre più facile che trovarne il rimedio. Quantunque io non mi creda atto a tanto, credo tuttavia mi sia lecito, senza dar segno di troppa presunzione, esporre meno forse le mie idee su quest’argomento, che quelle d’uomini per prudenza ed amor patrio degni di grandissima riverenza. Le principali e più importanti furono espresse in un articolo della Gazzetta Italiana del 25 ottobre scorso. Articolo anonimo, del quale tuttavia credo indovinar l’autore. Se io m’appongo, l’autorità dell’uomo accresce peso agli argomenti: s’io sbaglio, accetto sempre ciò che tengo per vero e per utile, ovunque l’incontri e da chiunque mi venga. Abbiamo veduto che gli ordini presenti dello stato papale, oltre ad esser dannosi al governo dei popoli, hanno in sè l’altro peggior danno, d’esser inetti e ripugnanti per loro natura ad ogni miglioramento. Convien dunque trovarne de’ nuovi. Per isciogliere un problema così difficile, l’ordine e la chiarezza delle idee non è mai troppa, e mi par necessario prender la questione da’ suoi principii. La sovranità del popolo, furiosamente combattuta dagli uni e difesa dagli altri a’ tempi nostri, è parola che, appena pronunciata, suscita discordia: ma si potrebbe mutarla in un’altra, che verrà certamente accettata da tutti, ed esprimerà forse più esattamente la verità: dire il consenso universale, e prenderlo in politica per la base del diritto. E chi non volesse ammetterlo come base del diritto in astratto, dovrà sempre concedere sia base del diritto pratico, sia base del fatto. Ed in prova della mia asserzione: perchè lo stesso diritto divino, e gli altri diritti in apparenza più opposti al principio della sovranità del popolo, sui quali s’è fondata pel passato l’umana potestà, hanno essi potuto sostenerla? Perchè tutti credevano in loro, ed è lo stesso che dire pel consenso universale. Ora se il papa è divenuto principe per le donazioni di Pipino, di Carlo Magno, della contessa Matilde e d’altri, perchè è stato tenuto perciò principe legittimo? Perchè l’universale consentiva nel creder legittimo questo modo d’acquistare, nel credere quelli che donavano legittimi possessori della cosa donata; e si comprende che se l’universale avesse creduto tutto all’opposto, non solamente questo acquisto, questo principato non sarebbe potuto durare, ma neppur sarebbe venuto in mente nè agli uni di concederlo, nè agli altri d’accettarlo. Ma le età sono mutate, e nella nostra, ove si crede non sia legittima la vendita dei Neri, sarebbe strano se si credesse legittima la donazione dei Bianchi. Si deve dunque riconoscere che l’idea sulla quale posava la legittimità del principato ecclesiastico, come di tant’altri, più non esiste. Le fondamenta dell’antico edifizio sono state corrose e scavate dal tempo, e l’edificio è in puntelli. Le nuove fondamenta, le sole sulle quali oramai egli possa reggersi, sono nel diritto ammesso dal consenso universale, nel diritto comune. Vediamo che a questo principio si vanno le une dopo le altre accostando tutte le nazioni civili; i principi stessi, repugnanti o no, gli si sottomettono, e la tendenza di tutti i popoli a cercare e volere istituzioni che definiscano e conservino il diritto d’ognuno, lo dimostra abbastanza. Queste idee, questi desiderii non son nuovi. Nuovo piuttosto in Occidente, e tra’ cristiani, è il principato assoluto senza contrappeso o divisione d’autorità. In tutti gli stati furon sempre corpi o legislativi o politici o municipali, i quali se talvolta non esercitavano potestà di fatto, almeno ne mantenevano il diritto; e ciò è durato più o meno per tutto, sino a Napoleone, che più d’ogni altro si sentì forte e più d’ogni altro rese illusoria, anzi nulla la loro azione. Egli più d’ogn’altro avvezzò i popoli all’ubbidienza passiva, lasciò alfine in eredità ai re ed ai popoli la fede nell’onnipotenza del principato, lasciò ai sovrani il suo scettro, ma non potè lasciar loro il suo braccio. I popoli, rimessi dallo spavento di quella tremenda, ma breve potenza, più non credono all’onnipotenza de’ principi, e riprendono quella strada sulla quale si sono bensì arrestati talvolta, ma senza deviarne giammai. Il principato ecclesiastico, come gli altri, fu già contenuto da giurisdizioni popolari o personali; e dovrei forse dire aiutato, poichè gli permettevano volgersi con meno impacci alle cose spirituali ed esercitare con maggior libertà l’alto suo ufficio. Riordinar lo stato su queste forme, usando l’esperta sapienza acquistata dalla civiltà moderna a scuola tanto lunga e sanguinosa, stabilire che «il papa regni, e non governi» è forse il solo modo di ridonar vita e vigore al suo principato sfinito e morente. Concedere con prudente distribuzione l’autorità nello stato ad uomini dello stato, che v’hanno diritto ed interesse, ed escluderne gli estranei, ai quali le sole vie della gerarchia ecclesiastica si dovrebbero aprire, è riforma tenuta inevitabile dal consenso universale, è riforma voluta dalla giustizia. Fu promessa o in parte o per l’intero, dopo i casi del 31. La promessa non fu mantenuta, ed a ciò non v’è scusa; ma da questo fatto è resa appunto più che mai potente la necessità di cancellare la macchia prima d’ingiustizia, resa più brutta poi da quella della mala fede. Queste poche linee racchiudono, lo so, gravissimi fatti: racchiudono disegni che vogliono ingegno, prudenza e fortezza grandissima in chi abbia a farsene esecutore. Vedo, mentre scrivo, il sorrider degli uni, lo scrollar del capo degli altri nel leggermi; ed io stesso, conoscendo gli ordini presenti dello stato, le invecchiate abitudini, le tradizioni di governo, mi spaventerei di tanti ostacoli se non tenessi per fermo, che l’amor del giusto e la buona fede soprattutto in chi comanda, avrebber bastante forza a superarli. In cose di stato sono da fuggirsi le troppo rapide transizioni, perchè si può bensì proclamar monarchie, costituzioni, repubbliche, ma nessun potere umano può far repentinamente un popolo monarchico, costituzionale, repubblicano, s’egli in effetto non lo è per i suoi costumi e per le sue opinioni. Tutte le ferocie del Terrorismo non valsero a far repubblicani i Francesi, che non lo erano. Non bastarono le copie di costituzioni straniere fatte venire in Italia nel 21 per render costituzionali gl’Italiani, che neppur essi allora non lo erano. Le instituzioni d’un popolo possono assomigliarsi alle armature. L’uomo vi s’avvezza dentro a poco per volta, e se fatte con diligenza alla misura e secondo la forza della persona, la proteggono e l’aiutano; se prese a caso da altri, l’impacciano e l’offendono. Ma con prudente degradazione, purchè sia condotta, come ho detto, dall’amor del giusto, da volontà ferma e da somma lealtà d’intenzioni, potrebbe il governo di Roma, purchè lo volesse, ottenere ciò che a prima vista sembra difficilissimo, per non dire impossibile. Non è mio disegno discutere nè consigliare i modi da tenersi in quest’impresa. Non credo, prima di tutto, che ne’ modi stia il maggior ostacolo; non mi credo poi esperto abbastanza a cotal discussione, nè che manchino al governo di Roma uomini d’ingegno e di prudenza sufficiente a chiarirla e condurla a buon fine. Mi contento di dire che l’edificio minaccia, ed in questi casi chi vi sta sotto ha la scelta o di venirlo racconciando con prudente consiglio, o di aspettar che il tetto gli rovini in capo. Ma anco senza mutare gli ordini presenti, anco senza por mano a riforme fondamentali, potrebbe il governo tener modi che servissero a rannodargli l’opinione, ad acquistargli favore e riputazione, a purgarlo dall’accusa d’essere nemico d’ogni progresso. Perchè, verbigrazia, vietare a’ suoi dotti il concorrere agli annuali congressi? Perchè vedere un pericolo dove l’Austria medesima non lo vede? Perchè non rinunciare ai vergognosi profitti del lotto? Lo so, per ragioni economiche. Ma non è cosa oramai troppo brutta veder il capo della religione tener la porta aperta ad un vizio cotanto dannoso e corruttore, cagione al popolo di tanti errori, mentre gliel’hanno chiusa le nazioni più civili? Ristringer le spese, ma ottener nome di conseguente ai principii d’onestà e di morale che insegna, non sarebbe, a conti fatti, maggior guadagno? Perchè opporsi o apertamente o di sottomano ad ogni prova di migliorare l’educazione, l’istruzione del popolo? Lo so; dirò anche qui, perchè in queste prove crede veder un vasto disegno di liberali per mutare lo stato. Ma, lo ripeto, crede egli correr pericoli maggiori dell’Austria? E se confessasse crederlo, non sarebbe questa la più accusatrice di tutte le confessioni? Non è forse troppo vergognoso che, mentre si fa guerra ad Aporti, al suo Manuale, alle sue scuole, si permetta dalla censura _Il libro dell’Arte_, libro de’ sogni per vincere al lotto, l’_Indovinagrillo_, ec., ec.? Bello veramente e morale insegnamento pe’ popoli! Io amo la lealtà, e, lo concedo, l’istruzione del popolo muterà lo stato alla lunga, e renderà impossibile il ritorno di tanti abusi. Ma quest’istruzione si sparge inevitabilmente per tutto. Il governo papale n’è cinto, n’è assediato, e non potrà riparare di non esserne invaso alla fine, e nessuno gliene avrà grado. E poi, se l’istruzione fa le rivoluzioni, le rende insieme meno sanguinose e sovversive. Il popolo francese, meno educato, allagò la Francia di sangue, l’ottenebrò di sacrilegi, di rapine, ammazzò il suo re, e non ebbe misura nel suo scatenarsi. L’istesso popolo, più educato, combattè gloriosamente tre giorni, vinse, non macchiò la vittoria nè d’una vendetta, nè d’una rapina, e si tenne pago a strappar la corona ad un inetto, per collocarla in capo ad un forte e prudente. Gli uomini, come i bruti, più sono stupidi, più, è vero, si piegano al giogo; ma se una volta lo scuotono, più sono stupidi, e più tremenda ed irrefrenabile è la lor vendetta. Perchè opporsi inesorabilmente alla costruzione di strade ferrate? Sempre per lo stesso motivo. Pel timore che portino meno merci, che idee. Ma un popolo impoverito, e lo sarà inevitabilmente quello che non si provveda di questi nuovi modi di circolazione, mentre li acquistano i suoi vicini, credesi forse non abbia idee pericolose a chi lo regge? Credesi forse, che la povertà, l’invidia dell’altrui ricchezza, la vergogna di sentirsi tanto da meno degli altri, non generino idee e passioni che partoriscono alla fine effetti assai più importanti d’ogni propaganda? Il commercio (lo sa ognuno, e n’abbiam dato un cenno) ha già ripresa, e sta per riprender ancor più l’antica via per la quale vennero a tanta potenza e ricchezza Pisa, Amalfi, Venezia, Genova, Firenze, per la quale l’Italia nostra divenne l’emporio dell’Europa, e la più civile tra le nazioni cristiane. Se all’epoca (non certo lontana) in cui il commercio, passando per l’istmo di Suez, si getterà di nuovo ed unicamente dal Mediterraneo nel mar Rosso e nell’Indiano, se allora, dico, l’Italia sarà attraversata in tutta la sua lunghezza da una strada ferrata, è evidente quali immensi profitti ne potrà ricavare. Agli uomini ed alle merci metterà conto, tanto più nell’inverno, tener piuttosto la via di terra, che quella di mare per trasferirsi nel settentrione d’Europa; e se il governo di Roma s’ostina a render impossibile questa strada, s’egli la vuole interrotta e perciò inutile, qual anatema universale non si tira egli addosso dall’intera Italia? Quali scherni, quale sprezzo dall’Europa intera, dalla civiltà, dall’opinione universale? Egli teme il passo degli stranieri, e gli par forse che già troppi ne vengano. Lo so, gli stranieri talvolta portano la corruzione, e ciò forse accade in Italia. Ma perchè? Perchè è povera e debole. In parecchie città, e più che altrove in Roma, moltissimi, non avendo altro modo d’aiutarsi, aspettano, è vero, lo straniero, e, per farvi su grossi guadagni, si contentano di porsi in condizioni abbiette e vergognose. Ma apransi agl’Italiani modi liberi, virtuosi, onorevoli di guadagno, e si vedrà se continueranno a rendersi vilmente servi all’oro straniero. E per prova, anco altri popoli sono visitati da stranieri; essi vanno in Francia, in Germania, per tutto; e s’ode dire forse che avviliscano o corrompano codeste nazioni? E per qual cagione non si dice e non è? Perchè a codeste nazioni sono aperte vie libere ed onorevoli di arricchire, indipendenti dal viaggiatore straniero, sul quale profittano per un di più: e sentendosi indipendenti da esso, lo trattano alla pari senza lasciarsi nè avvilire dal suo denaro, nè sottomettere dalle sue usanze e dalle sue opinioni. Ad un popolo ignorante, debole e povero, tutto si muta in veleno: gli lascino usar liberamente i doni di Dio, non gli tolgano le forze e con esse il senso della propria dignità, divenga colto, ricco e potente, e poi non temano nè forestieri, nè la loro corruzione, nè le loro influenze. Che al governo di Roma, composto ora esclusivamente d’ecclesiastici, paia grave cedere l’autorità a’ secolari, sottomettersi a riforma fondamentale, ammettendo la massima che il _papa regni e non governi_, si comprende. Per quanto sia oramai cosa evidente per tutti e per lo stesso governo, che a questa mutazione bisognerà a forza rassegnarsi o prima o poi; per quanto si possa dire che il por mano con prudenza, con volontà efficace e sincera, a condurre senza scosse codesta riforma a buon fine, sarebbe atto di giustizia e sapienza di stato, degno del rispetto e dell’ammirazione universale, tuttavia, lo ripeto, si comprende che al governo paia grave e doloroso sacrificio, essendo nella nostra natura lo spogliarci sempre malvolentieri ed a stento d’un qualunque bene. Ma in verità non si comprende per qual cagione egli ricusi promuovere le riforme affatto secondarie ora accennate, che neppur posson chiamarsi riforme, e non sono se non miglioramenti dimostrati necessari dall’esperienza, che non solo non sarebbero di pericolo al governo, ma lo difenderebbero invece dal pericolo reale, ogni dì più grave ed urgente, di venire sconvolto ed abbattuto da’ suoi sudditi, giustamente impazienti di tanti mali, appena n’abbiano modo ed occasione. Ma di cotali accecamenti sono piene le storie; n’è piena la storia d’Europa da settant’anni in qua, come è piena al tempo stesso delle rovine che ne sono stata la conseguenza. Di tutte le cose utili, la meno utile e praticamente profittevole è veramente l’esperienza; forse per arcana disposizione di Dio, che alle cose umane volle imposta condizione mutabile ed inferma. Vorrà il governo di Roma seguire i consigli racchiusi in queste poche pagine, consigli da me soltanto esposti, ma non miei, e dati invece dall’opinione di tutta Europa? Non lo so... e forse dovrei dire lo so, affinchè, separandomi dal mio lettore, non serbasse l’idea ch’io sono di troppo beata semplicità. Comunque sia, ho creduto utile all’Italia, e lo credo atto da imitarsi (mi si perdoni se v’è presunzione in queste parole), il protestare a viso aperto contro le ingiustizie che da noi si soffrono, qualunque siano e da chiunque ci vengano. Quest’idea mi conduce ora a volgermi ai sudditi pontificii, e più particolarmente ai Romagnoli, i quali, lo prevedo, mi diranno: «Voi biasimate ogni moto popolare, e lo tenete dannoso; ma se il governo non si muta a nostro riguardo, dovremo dunque sempre soffrire e tacere?». Quest’interrogazione è pur troppo dolorosa, e ragionevole al tempo stesso, e dovendo pur rispondervi, dico esservi tra il soffrire e tacere, ed il levarsi popolarmente in armi, che sono i due opposti estremi, molti gradi intermedii. De’ due opposti, il primo si è fatto oramai insoffribile; il secondo è dimostrato inutile e dannoso, non dalle mie parole, ma dall’esperienza. Resta ad esaminare quali vie rimangano aperte ed accettabili. È cosa tenuta per innegabile da tutti, che le grandi mutazioni negli stati, tendano esse ad ottenere l’indipendenza o la libertà, non mai sono succedute nè posson succedere per via di passaggio rapido e repentino: e se talvolta la mutazione appare rapida, non è in effetto, nè si trova tale quando si considerano le cause che alla lunga l’hanno preparata. Bensì, più la preparazione è stata condotta da lungi, con lentezza e prudenza, più sicuramente e repentinamente è poi riuscito il fatto che doveva esserne il compimento e l’ultima conseguenza. Così un grand’albero cade abbattuto dall’ultimo colpo di scure; ma questo colpo, per quanto valido, a che avrebbe servito se non era preceduto da altri mille? L’arte del maturare i disegni e prepararne la riuscita, l’arte di murar la casa ad un mattone per volta, principiando di dove si dee principiare, da’ fondamenti, non la conosciamo noi Italiani. Eppur senz’essa non si fa nulla, e l’abbiano provato a nostre spese. Noi sin ora abbiam tenuto modi che ci assomigliano all’uomo che, impaziente di divorar la via tirato in cocchio da molti bravi e generosi cavalli, non si dà tempo d’attaccarli a dovere, e senza badare se tutte le tirelle e le guide lavorino, e prima di averle tutte assestate con diligenza, frusta all’impazzata, e portato via così sprovveduto, non appena lanciato, precipita e rompesi il collo. Ciò ch’io dico parrà ovvio o volgare. Ma pur troppo le verità più visibili sono le meno vedute. Noi non abbiam conosciuto altro sinora che società segrete, trame e congiure, che finivano poi in una sommossa parziale, in un assalto di pochi armati. Fallita l’impresa, come dovea fallire, chi s’esilia, chi è preso, chi si nasconde, e tutto è tranquillo per qualche tempo, e poi da capo gl’istessi modi, le istesse prove, l’istessa fine. Possibile che ad una nazione di così aperto ingegno, come è la nostra, non venga in mente il pensiero che questa via non sia buona, che possa esservene altra migliore? Io ho detto, e credo nessuno vorrà negarlo, che l’opinione è oggi la vera padrona del mondo. Ho detto che pel governo papale sarebbe prudente, ottimo consiglio, anzi il solo oramai accettabile, il sapervisi sottomettere. Quello che ho detto a’ governanti, lo dico a’ governati. L’opinione in tutti i tempi è stata avversa alle imprese mal calcolate ed improvvide; ed oggi più che mai, essendo più avvezzi gli uomini a ragionar su tutto, essa biasima le nostre mal ordite ed impossibili prove, e, quel ch’è peggio, ne ride. Non riderebbe forse se anco ci vedesse usar la violenza, gettarci ad imprese affatto disperate, ma gettarvici dopo avere esauriti tutti i mezzi, aver tentate tutte le vie di migliorare le cose nostre. Di questi mezzi, di queste vie non ne abbiamo però tentata nessuna. Il coraggio delle congiure, delle sommosse, il coraggio fisico, per così dire, e manesco l’abbiamo noi Italiani, come tutti gli uomini d’immaginazione e sangue caldo. Ma ci manca, o l’abbiamo in minor grado, il coraggio morale, il coraggio civile. A questo, a raccomandarlo, a dirlo il più utile, anzi il solo, per ora almeno, veramente utile, il solo necessario, tende tutto il mio ragionamento, del quale si può in poche parole riassumere il senso, dicendo: doversi usare da noi Italiani prima il coraggio civile per ottenere da’ nostri governi miglioramenti, istituzioni e temperate libertà; poi il coraggio militare per ottenere l’indipendenza, quando ce ne vorrà Iddio concedere l’occasione. Protestare contro l’ingiustizia, contro tutte le ingiustizie apertamente, pubblicamente, in tutti i modi, in tutte le occasioni possibili, è, a parer mio, la formola che esprime la maggior necessità della nostra epoca in Italia, il mezzo più utile e di più potente azione quanto al presente. La prima, la maggior protesta, quella che non dobbiamo stancarci giammai di fare, che deve risuonar su tutte le lingue, uscir da tutte le penne, debb’essere contro l’occupazione straniera, in favore del pieno possesso del nostro suolo, della nostra nazionalità ed indipendenza. Vengono in appresso quelle dirette contro le ingiustizie e gli abusi ed i mali ordini, se non altro, de’ nostri governi. Non proteste a mano armata, come vollero farle a Rimini; chè una protesta a quel modo, a volerla far ora in Italia occorrerebbero una buona posizion militare, duecentomila uomini e duecento pezzi in batteria: fatta invece con pochi fucili, è cagione che l’Europa si burli di noi: perchè tutti sanno che le poche e deboli armi non bastano a dar l’autorità della forza, e tolgono o diminuiscono almeno quella della ragione. La maggior forza d’una protesta sta nell’essere rigorosamente giusta e rigorosamente incolpabile di violenza. A chi ridesse (e ve ne saranno molti in Italia) della sola idea d’ottener nulla dal governo pontificio o da qualunque altro governo col solo mezzo della protesta, risponderò con un esempio recente, e del quale non si potrebbe desiderare, nè immaginare il più importante ed il più atto a dimostrare quanta forza abbia in oggi una protesta favorita dall’opinione. L’imperatore di Russia, assoluto padrone d’un immenso stato, fuor di portata, per dir così, delle forze europee, alla testa d’un milione e dugentomila soldati ha mosse persecuzioni contro i cattolici, che posson dirsi un vero anacronismo, ha permesso si facesse strazio di povere ed oscure monache, o, se non l’ha permesso, lo strazio almeno s’è fatto ov’egli comanda, nè sappiamo per ora che ne sian puniti gli autori. L’Europa si commosse a questa barbarie. La stampa francese (_Journal des Débats_) s’è portata con ammirabile dignità, e può dirsi sia stata modello de’ modi che convien tenere in tali occasioni. Fuggendo l’ingiuria e la vana declamazione, riferì semplicemente i fatti, poi soggiunse: «Ignoriamo se questi fatti sieno esatti od esagerati: comunque sia, a fronte di tali accuse, neppure un imperator di Russia non può tacere; l’onore della sua dignità vuol che risponda.» Non molto tempo di poi compariva un editto imperiale in data di Palermo, se non erro, che chiariva e determinava le idee di tutti sulla quistione delle persecuzioni religiose; in modo al quale nessuna persona ragionevole può trovar a ridire. L’editto, si potrà opporre, non sarà osservato: ammettiamo pure che non lo sia o che lo sia debolmente; ma chi, di buona fede, potrebbe mai asserire che le cose dei cattolici non abbian perciò migliorato punto nell’impero? potrebbe credere assolutamente nulla l’influenza morale di questo fatto? Non sarà sempre vero che un imperator di Russia è stato citato dall’opinione al suo tribunale, e ch’egli non s’è creduto forte abbastanza per ricusare di comparire? Vorrei citare altri esempi, ma mi si metton in tanto numero sotto la penna, che non so in verità quale scegliere. Prendo quello che offre la Germania. Il suo stato politico per qual via è egli giunto al punto in cui lo vediamo? Per via di sommosse, o congiure, o società segrete? È vero, la Tugenbund, la Burschenschaft, si son date un gran da fare, ma rappresentarono, a parer mio, più che altro, la favola della mosca e del carro. Chi ha fatto più di loro, chi ha fatto tutto, son quelli che hanno formata, educata, diretta l’opinione coi loro atti di coraggio civile, co’ loro scritti: e che cos’altro erano questi scritti e questi atti, se non proteste più o meno esplicite contro ingiustizie ed abusi? Quando in una nazione tutti riconoscon giusta una cosa e la vogliono, la cosa è fatta: ed in Italia il lavoro più importante per la nostra rigenerazione si può far colle mani in tasca. Le vie aperte al coraggio civile, i modi del protestare sono infiniti, e non è mio disegno proporli ed esaminarli uno ad uno in questo scritto. Soltanto dico che quanto maggiore sarà in Italia il numero di coloro che pubblicamente e saviamente discuteranno le cose nostre, che protesteranno in qualunque modo contro le ingiustizie che ci vengano usate, tanto più rapidamente e felicemente progrediremo nella via della rigenerazione. Questa congiura, al chiaro giorno, col proprio nome scritto in fronte ad ognuno, è la sola utile, la sola degna di noi e del favore dell’opinione; ed a questo modo anch’io di gran cuore mi dichiaro congiurato al cospetto di tutti, anch’io a questo modo conforto ogni buon Italiano a congiurare. In virtù di questo modo, che non ha bisogno nè d’accordi nascosti, nè di tenebrosi ritrovi, nè di giuramenti segreti, ogn’Italiano può dar la mano all’Italia da un capo all’altro della penisola senza neppur conoscerlo, ognuno può metter le sue forze in comune per l’opera comune. Opera nota a tutti pe’ mezzi, come pel fine, e perciò leale; opera santificata dalla giustizia, protetta dall’opinione, ed accompagnata dai voti di tutte le nazioni civili e di quanti sono al mondo uomini onesti e di buona fede; opera che, condotta per le vie della verità e della virtù, ci potrà meritare la benedizione di Dio, il quale, volgendo finalmente uno sguardo anche a noi, vedrà forse che, se furon grandi le antiche colpe d’Italia, dura pur anco già da molti secoli il suo castigo. La brevità che ho stimata opportuna a questo lavoro, m’ha impedito di svolgere le importanti questioni che vi si propongono, e mi son dovuto contentar d’accennarle, confidandomi, pel di più, nella sagacità del lettore. Egli dirà di me, dopo avermi letto, ciò ch’io dicevo a me stesso prima di scrivere: non aver io, studioso non di scienze, ma d’arti, sapere e mente, che basti a trattar profittevolmente materie politiche ed economiche di tanta difficoltà. Non per questo ho voluto rinunciare a ragionarne; e Dio sa con quanto piacere sagrifico un meschino amor proprio al desiderio ed alla speranza di dar forse occasione ad uomini di più alta mente, che non è la mia, d’entrar francamente nell’arringo e correrlo con maggiori forze e miglior fortuna. In tali pensieri ho dato opera e pubblicità al presente scritto; e se per la protesta che racchiude a favore del nobile ed infelice popolo della Romagna non ho avuta missione da lui; s’io l’ho fatta senza consultarlo e di mio moto, mi conforto e credo che egli non vorrà nè rinnegar le mie parole, nè sapermene mal grado. DOCUMENTI DIMOSTRAZIONE GENERALE DELL’ENTRATE E SPESE DEGLI STATI PONTIFICII _Estratta dal rapporto del signor_ BOWRING Londra, 1838 SORGENTI PRINCIPALI D’ENTRATA N.º CAPI PARTICOLARI SCUDI 1 Imposte prediali, proprietà fondiaria, ec. 3,280,000 2 Monopolii, dogane e tasse sul consumo 4,120,000 3 Bollo e registro 550,000 4 Uffizio della posta 250,000 5 Lotterie 1,300,000 TOTALITÀ DELLE ENTRATE 9,500,000 SPESE D’AMMINISTRAZIONE N.º CAPI PARTICOLARI SCUDI 1 Imposte prediali, proprietà fondiaria, ec. 760,000 2 Monopolii, dogane e tasse sul consumo 460,000 3 Bollo e registro 90,000 4 Uffizio della Posta 150,000 5 Lotterie 760,000 TOTALITÀ DELLE SPESE DI AMMINISTR. 2,220,000 _Entrata lorda_ scudi 9,500,000 _Deduzione delle spese di amministrazione_ » 2,220,000 _Entrata netta_ scudi 7,280,000 SPESE DELLO STATO N.º CAPI PARTICOLARI SCUDI 1 Palazzi sacri, collegi sacri, congregazioni ecclesiastiche, e corpo diplomatico all’estero 500,000 2 Debito pubblico 2,680,000 3 Spese del Governo dello Stato 530,000 4 Giustizia e polizia 920,000 5 Pubblica Istruzione, Belle Arti e Commercio 110,000 6 Limosine e pubblica beneficenza 280,000 7 Lavori pubblici, polizia e illuminazione di Roma 580,000 8 Truppa di Linea e Carabinieri 1,900,000 9 Cariche militari, Sanità e Marina 290,000 10 Feste pubbliche e spese straordinarie 44,000 11 Fondo di riserva 100,000 TOTALITÀ DELLE SPESE 7,934,000 OSSERVAZIONI 1 Questa dimostrazione risulta dai documenti officiali comunicati dal Governo pontificio al signor Bowring. 2. In questa dimostrazione non figurano la spese comunali e provinciali: e quindi apparisce che il Governo spende poco o nulla nelle provincie. Ricadono adunque sulle Comuni anche le spese che toccherebbero al Governo. 3. La tenuità dell’entrata risultante dal titolo bollo e registro dimostra la scarsità delle contrattazioni. 4 In questa dimostrazione non figura la spesa della truppa estera, che si valuta ascendere a seimila uomini, e costare dieci milioni di franchi. 5. Malgrado tutto questo, fra l’entrata e l’uscita vi è un deficit annuo di scudi 654,000. GOVERNO PONTIFICIO IN NOME DI SUA SANTITÀ PAPA GREGORIO XVI FELICEMENTE REGNANTE SENTENZA _Ravenna, oggi 10 settembre 1845._ La Commissione speciale, straordinaria, mista, instituita con Notificazione della suprema Segreteria di Stato, 27 maggio 1843, ed ora in forza della Notificazione dell’eminentissimo e reverendissimo signor cardinale don Francesco Massimo, legato dì Ravenna, 29 gennaro 1845, sedente in questa città, e composta degl’illustrissimi ed eccellentissimi signori: Avvocato Antonio Colognesi, giudice del tribunale di appello per le quattro Legazioni, sostituito al signor com. cavalier avvocato Luigi Salina, presidente dello stesso tribunale. Avvocato Attilio Fontana, assessore straordinario della legazione di Bologna, sostituito al predetto signor avvocato Colognesi. Cavalier commendatore tenente colonnello Stanislao Freddi, comandante il corpo dei carabinieri pontificii nelle quattro Legazioni. Cavalier tenente colonnello Luigi Magnani, comandante la piazza dì Bologna. Cavalier tenente colonnello Camillo Viviani, comandante la piazza di Ferrara. Si è radunata nella sala delle proprie udienze nel quartiere di San Vitale nei giorni 1, 2, 3, 4, 5, 6 corrente mese, unitamente al signor avvocato Giampietro Gozzi, procuratore fiscale, ed al signor avvocato Ulisse Pantoli, difensore d’ufficio, assistendo il signor Raffaele Magnani, facente funzione di cancelliere, per discutere; e nei giorni 9 e 10 stesso mese, a norma del dispaccio della suprema Segreteria di Stato 2 agosto p.º p.º N.º 5316, per giudicare la causa in punto _di società o lega per offendere e resistere alla forza pubblica,_ contro Orioli Achille, Cappi conte Carlo, Camerani Paolo, Versari Francesco, Gaiani Carlo, Miserocchi Felice, Barafa Andrea, Gambi Eugenio, Giansanti Ciriaco, Fabbri Annibale, Randi Giuseppe, Paterlini Lodovico, Dalcini Angelo, Bertacchi Francesco, Samaritani Saverio, Della Valle Mauro, Moruzzi Eugenio, Tarifelli Leonardo, Golfarelli Emilio, Maraffi Domenico, Orioli Febo, Bertacchi Ermenegildo, De Marchi Filippo, Barbiani Giovanni, Bergozzi Giuliano, Gabici Pietro, Gabici Achille, Baroncelli Giovanni, Boschi Domenico, Gianfanti Andrea, Vassura Paolo, Miserocchi Domenico, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Rivalta Domenico, Zabberoni Pietro, Montignani Pietro, Vaccolini Giovanni, Savini Giovanni, Angelini Angelo, Fiorentini Onofrio, Landi Vincenzo, Pasini Mariano, Pambianchi Michele, Baldini Gaspare, Ortolani Giovanni, Pascoli Lucio, Pugiotti Francesco, Rava Gaetano, Gianfanti Giovanni, Della Torre Magni Marco, De Stefani Leonardo, Rambaldi Gaspare, Bezzi Giovanni, Vicari Augusto, Camporesi Giacomo, Savorelli Luigi, Mazzetti Luigi, Gambi Domenico, Gambi Antonio, Pinzi Francesco, Conti Antonio, Fava Felice, Morigi Domenico, Landoni Teodorico, Carlini Gian Antonio, Paoletti Luigi[8]: Quello spirito d’insubordinazione, che oggi pur troppo serpeggia in tante parti d’Europa, agitava eziandio da varii anni la tranquillità di queste province. Fino dall’estate 1843, quando in Bologna i liberali, coalizzati col ceto dei contrabbandieri, tentarono colà di rinnovare la sacrilega ribellione dell’anno 1831, i liberali di Ravenna avevano qui formata la stessa alleanza colla turba dei contrabbandieri per conseguire lo scopo medesimo. Già si scorgevano allora pubblicamente ammutinarsi non poche centinaia di questi sciaurati, già si apprestavano le armi, si facevano girare intorno le polizze ove raccoglier le firme di coloro che volessero prender parte all’impresa, e fu udita la voce di chi annunziò non doversi attendere il meriggio di quel giorno per dare lo scoppio. Ma l’aggredire a petto scoperto la milizia del principe non è cosa di sì facile assunto come l’ucciderne a tradimento un qualche individuo fra le tenebre della notte. Perciò tante millantazioni svanirono senza effetto, ed invece si limitarono tratto tratto a dare atroci esempi della più nera viltà. I registri criminali sono pieni, e ribollono di molte denuncie di omicidii e ferimenti gravi dei pubblici funzionari, e di persone affezionate al governo, che per ispirito di partito si verificarono in questa provincia nel breve spazio di pochi anni, delitti sempre avvolti fra il mistero, senza che se ne potessero distinguere gli esecutori, comunque ogni ragionevole congettura guidasse a concludere che fossero architettati da una fazione micidiale. L’ultimo però di questi misfatti, cioè l’omicidio del brigadiere Sparapani, cui successe l’altro del fuciliere svizzero Adolf, come dalla precedente nostra sentenza, eccitò in particolar guisa lo zelo instancabile di questo politico dicastero, e fece conoscere la necessità di svellere il male dalle sue radici, onde non si riproducessero in avvenire sì atroci delitti. Riscontrando pertanto le cagioni del disordine, seppe ravvisarlo nella esistenza di una società di tristi, parte col nome specioso di liberali, parte contrabbandieri d’instituto, ma tutti insieme collegati onde sconvolgere l’ordine pubblico, violare impunemente le sanzioni penali, opprimere la forza pubblica, che milita alla conservazione dello stato, alla esatta osservanza delle sue leggi. Se pertanto non era agevole di scuoprire gli autori degli enormi delitti finora avvenuti, non era arduo di ravvisare quegl’individui che appartenevano a tale perversa alleanza, e prevenire i sinistri effetti nelle loro cagioni. In simili pubbliche calamità non altra norma insegna la prudenza civile. O infatti la società è costretta a lasciare senza un freno valido il misfatto perfezionato, e quindi a rimanersi il bersaglio della malefica attività dei facinorosi, ovvero le conviene, alfine di evitare tanto disordine, di frenarlo con ostacoli che a lui vadano incontro nel tempo che si sviluppa, e lo arrestino per via prima che giunga alla sua meta criminosa. Ordinò pertanto l’arresto di coloro che erano più gravemente sospetti di appartenere a tale iniqua collegazione, onde purgare la città da sì perniciosa zizzania, _nam in mandatis Principum est, ut curet is qui reipublicae praeest, malis hominibus provinciam purgare. L. 3 Digestis, de officio Praesidis_. E poichè il carattere più spiegato di tale congrega era quello dell’odio e della nimistà contro la forza pubblica che mirava ad opprimere, per innalzare il vessillo del popolare dispotismo, perciò rimise al potere di questa Commissione speciale gli arrestati, onde, sottoposti a regolare processura, subissero il castigo meritato delle loro prave macchinazioni. Portato il giudizio all’odierna radunanza, il primo obbietto d’ordine recato in campo dal difensore degl’imputati, fu quello della incompetenza, come se il relativo giudizio appartenesse ai magistrati ordinari. Il consesso giudicante però non ha stimato di dover arrestarsi a simile difficoltà. Infatti la tesi proposta è la esistenza di una società di anarchici, che sogliono sovrastare al potere legittimo, dominando col proteiforme egoismo, onde far prevalere l’oggetto delle private loro passioni alla legge, all’ordine pubblico e al bene comune della società. Non può quindi giungersi a tale scopo senza prima abbattere la forza pubblica, che forma la barriera difenditrice d’ogni costituzione degli Stati. _Summa Reipublicae tuitio, de stirpe duarum rerum, armorum scilicet, atque legum veniens, vimque suam exinde muniens. L. unic. de Justinianeo Codice confirmando_. Perciò la soldatesca del governo è la legge istrumentale, la legge viva e animata che al comando del principe fa seguire l’obbedienza dei sudditi. Quindi le stesse leggi ci dicono: _armari jura gladio ultore. L. 31. C. ad Leg. Jul. de adult.,_ e la medesima giurisdizione s’indica: _gladii potestas, gladii jus. L. 70 ff. de R. juris, L. 6 ff. de officio Proconsulis, L. 6 § 8 ff. de officio Praefecti, L. 6 ff. de interdictis et relegatis_, con ciò dimostrandosi, che il potere legislativo e giudiziario attingono ogni loro efficacia dal potere esecutivo collocato nelle truppe del governo. Ora, fino dal maggio 1843 pubblicatosi l’editto istitutore di questa Commissione, seppero gl’inquisiti che qualunque delitto in odio della forza pubblica sarebbe per l’avvenire giudicato colle forme e pene in tale editto prefisse. Se adunque posteriormente nell’agosto 1843 costoro si ammutinarono per investire la forza pubblica; se, svanite le loro folli speranze, proseguirono a mantenersi collegati per coadiuvarsi a vicenda nei pravi disegni, e tenere in istato d’oppressione la milizia, non possono declinare da quel fôro speciale che il legislatore aveva già loro stabilito prima della consumazione del delitto. Nè in ciò si fa onta alla giurisdizione ordinaria della sacra Consulta pei delitti di stato a termini degli articoli 45, 555 del regolamento di processura 5 novembre 1831, a cui è posteriore la notificazione 27 maggio 1843. Essendo instituita oggi una Commissione speciale, la quale protegge in queste due provincie le armi del principe, questa dee prevalere alla giurisdizione ordinaria. L. 80 _ff. de R. juris_. E se anche la giurisdizione volesse ritenersi mista o comulativa, dee farsi luogo alla prevenzione in forza dell’articolo 68 di processura, come saggiamente osservò il signor avvocato fiscale nelle sue conclusioni. Ritenuta pertanto la competenza di questa Commissione, si è disceso a ventilare la seconda controversia, se consti, o no, in genere la esistenza della società illecita contestata agli odierni inquisiti. Moltissimi testimoni deponevano di tale alleanza di tristi per volgare notorietà. Ma il tribunale non si è arrestato a simil voce, come ne avvertiva la perspicace sanzione del diritto canonico: _Cap. Consuluit, 14 de appellationibus. — Cum multa dicuntur notoria quae non sunt, prohibere debes ne quod dubium est pro notorio videaris habere_. Trattavasi di un delitto formato da vincoli razionali, il quale non cadeva sotto ai sensi in sè medesimo, ma potea soltanto rilevarsi nei propri effetti discontinui; nel qual caso anche le deposizioni sulle notorietà devono portarsi a minuto esame, calcolando le ragioni di scienza, le fonti onde i testimoni attingono il proprio asserto, e la corrispondenza della espressione usata dai deponenti nel caratterizzare il delitto cogli elementi su cui ne avevano essi formata la idea: altrimenti correva il giudice rischio di cedere i propri suffragi al popolo, e rendere gli uomini vittima di una parola. _Farinacius, de delictis, quaest_. 21 N. 89, 93, 95, 97, 99, 102, 104, 105; _de test., quaest._ 70, _ampliatio_ 3, N. 6. Di fatti il nome di società, peregrinando per tante materie economiche, scientifiche, civili e religiose, si veste di altrettante diverse significazioni, quante sono le cose e forme alle quali si applica. _Zanchius, de societ., part._ 1, _cap_. 1, _N._ 24. — _Mantica, de tacitis et ambiguis conventionibus_, lib. 6, _N_. 1. Perciò invece della espressione, i giudici hanno preso in loro scorta la definizione. Così i pubblicisti definiscono la società: _Societas est pactum vel quasi pactum de fine quodam conjunctis viribus assequendo. V Volfius, ibique V Vatel, in notis ad jus naturae et gentium, part_. 7, c. 1, § 1. Posta la definizione, si passò ad analizzare gli elementi che la compongono, seguendo i criminalisti, i quali indicano gli estremi costituenti il Collegio illecito. Tre ne stabilivano gli antichi. Segno comune, area comune, vicendevole intelligenza, o trattato. Ma il chiarissimo Antonio Mattei, _de criminibus, lib._ 47, tit. 15, N. 1, 2, 3, ben riflette che i due primi estremi non sono necessarî. Non il primo, altrimenti si confonderebbe il segno colla cosa significata. Qualunque sia, infatti, il modo con cui i faziosi comunicano fra essi le loro perfide intelligenze, il vincolo d’iniquità è sempre lo stesso, sia poi che usino le indicazioni naturali e il linguaggio comune, sia che esista un distintivo di convenzione, o nel gesteggiare compagnevole, o nello stemma e impresa della società, o nella affissione del segnale, come a spiegata rivolta suol avvenire. Nemmeno necessario è il secondo estremo della cassa od area comune. Imperciocchè, quantunque sia vero che non può darsi società senza comunione, benchè possa esserci comunione senza società (_Leg. ut sit ff. pro socio. — Zanchius, de societ., part_. 1, _cap_. 7, _N_. 42), pure non è necessario che siavi comunanza di materia o di cosa, bastando che vi esista una massa accomunata di opere, come nel caso presente (_Grotius, de jure belli et pacis, lib._ 2, _cap_. 12, _de contractibus_, § 4), così nella società delle carovane niuno dei viaggiatori comunica all’altro il dominio delle proprie salmerie, sebbene ponga in massa la propria opera e forza onde resistere in caso alle aggressioni dei barbari. Restando dunque a provarsi il solo estremo del mutuo accordo a mal fine, questo rimaneva stabilito nelle tavole processuali da questi elementi. 1º. Dalle confessioni stragiudiziali di parecchi membri di tale collegazione, deposte da quattro testimoni uditi in processo. Se infatti questo delitto consiste nella reciproca intelligenza, e nell’animo di collimare tutti al reo fine, niuna miglior prova si potea conseguire di tale animo, se non la stessa confessione dei collegati. Nè deve obiettarsi che la confessione non può cangiare, o stabilire la natura della cosa, non supplendo questo mezzo alla deficiente prova fisica di un delitto in genere. Imperciocchè quest’obietto sarebbe appunto valutabile in un delitto di fatto permanente, ove, per esempio, la sola confessione di aver ucciso non basterebbe a provare il delitto in genere, quando della uccisione non constasse pei sensi. Ma, trattandosi appunto di un delitto razionale di fatto transeunte, perchè consistente nel reciproco accordo, la prova desunta dalla confessione stragiudiziale non può incontrar tale obietto, quando poi non è sola, ma da altri veementi indizi e argomenti corroborata. (_Carpzovius, Prax. rer. crim., par._ 1, _quaest_. 16. _N_. 1 _et sequentibus_). Tali veementi indizi si desumevano dalle varie cause di scienza che or l’uno, or l’altro dei molti testimoni esaminati in processo adduceva nel proprio giudizio sull’esistenza di tale società, e che si vengono qui in seguito annoverando quali altri mezzi costituenti la prova generica, cioè: 2.º Le numerose turbe di contrabbandieri, altri carichi delle merci in frode, altri guerniti di armi or apparenti, or nascoste, che si facevano vedere nei dintorni, entrando persino talvolta con somma impudenza, di pieno giorno, e transitando per la città sicuri di loro scarriera pel cumulo della forza maggiore. Imperciocchè al loro incontro i militi di finanza erano costretti di cedere alla forza dell’attruppamento, volgendo altrove il passo, e fingendo di non avere mirato un sì grave disordine. La provvida legge, sempre coerente a sè medesima, nell’editto 5 maggio 1822, tuttora vigente, stabilisce al contrabbando in conventicola di due, tre o più persone la pena da tre a cinque anni d’opera pubblica, ed eguale pena dai tre ai cinque anni d’opera pubblica sanziona l’art. 143 del vigente regolamento penale per la resistenza semplice alla forza, quando il delitto non è accompagnato da circostanze aggravanti, che lo rendano resistenza qualificata. E ciò sta in piena consonanza delle regole di comune diritto. Conciossiachè l’unire una forza insuperabile nell’eseguimento di un’azione vietata, onde se ne renda impossibile alla milizia del principe l’impedirlo, costituisce per sè stesso una certa violenza, ossia un timore incusso, il quale trattiene la soldatesca suo malgrado nell’impedire il contrabbando commesso in danno del pubblico erario (_Leg_. 1 _ff. quod metus causa_) ibi: _vis enim fiebat mentio propter necessitatem impositam contrariam voluntati._ Ciò che spiega il giureconsulto _Voet, ad pandectas_ 4, 2, 1. _Metui, vis inest, in quantum metus supponit et vim, quidem non absolutam, sed conditionatam, non illatam, sed ferendam. Sperelli, dec._ 5. _For. Ecclesiast., N.º_ 78 _et seq_. 3.º Gli assembramenti numerosi dei liberali e contrabbandieri che si vedevano in questa città fino al primo arrivo della Commissione per giudicare la causa degli omicidii Sparapani e Adolf, mostrando il loro disprezzo verso la forza pubblica, essendovi chi depone d’aver vedute le turbe di costoro passare vicino alcuni carabinieri, e fare ai medesimi stomachevoli oltraggi, dovendo quei soldati usare prudenza e continuare il loro cammino. 4.º Le pompe funebri celebrate coll’intervento di molti liberali in morte di persone del loro partito, e ciò con tale pubblico scandalo, che l’autorità ecclesiastica fu costretta a farne divieto con apposita circolare. Dal che si arguisce la unione di costoro e l’aderenza ai loro partigiani con fermezza durevole oltre la tomba. 5.º La fratellanza che si vedeva di continuo fra gente di simil pensare, e la loro fuga e persecuzione dei buoni. La quale duplice circostanza presenta in sè stessa la vera idea di fazione popolare. _Lipsius, Politicorum, lib. 6, cap. 3: factionem nomino paucorum aut plurium inter se coitionem, et ab aliis dissensum_. 6.º Il risentimento in comune delle pretese ingiurie, o per dir meglio, degli atti di giustizia esercitati sopra a qualche individuo della loro combriccola, o su qualche delinquente ai medesimi simigliante. Ciò pure addimostra che quei perfidi si consideravano tutti di una sola famiglia. _«Spectat enim ad nos injuria, qua in his fit qui vel potestati nostra, vel effectui subjecti sunt». L._ 1, § 3, _ff. de injur_. 7.º Gli applausi di comune accordo pubblicamente innalzati allorquando avveniva qualche omicidio per odio di parte in persona di un impiegato di polizia, o di un individuo della forza armata. Narra infatti un testimonio, che, trovandosi una sera in teatro, udì ripetere spesse volte fuor di proposito l’esclamazione _bravo, bravo_. Meravigliandosi di simile improntitudine, e chiestone d’intorno il motivo, poichè gli attori non meritavano certamente quegli encomii, fu ad esso risposto non esser rivolti gli applausi agli attori, ma a chi avea fatto il colpo di uccidere l’ispettore politico Montanari. Questo medesimo testimonio poi nella mattina successiva all’omicidio del brigadiere Sparapani, vide a passare gruppi di persone della feccia del Borgo Adriano, le quali, fra esse ridendo, esclamavano: _bravo, bravo_. Ed egli, che altro motivo non iscorgeva di simil grido, ricordando il senso del gergo, ne dedusse non molto fuor di proposito, che si applaudisse all’omicidio Sparapani. 8.º L’ordine che fra le compagnie dei contrabbandieri si scorgeva di dipendenti e di capi, locchè addimostra come fossero organizzati fra essi, costituenti perciò un collegio e un corpo sociale. _Societas est multitudo ordinata; ordo autem quid aliud est quam series inferiorum, ac superiorum? Galganetti, de jur. pub., tit._ 16, _num_. 21. 9.º L’uniformità del premio di uno scudo per ogni notte che si accordava per testa a ciascuno degli spalloni nel contrabbando, dal che si argomenta che non era distaccato un frodatore dall’altro, nel qual caso i compensi dei tirini sarebbero stati diversi secondo le varie convenzioni parziali, ma esisteva tra i contrabbandieri un sistema, un temperamento uniforme, una armonia di misure, e perciò un proponimento preso a comune, dirigendo i mezzi al fine con unione proporzionale. 10.º Finalmente, da qualche testimonio adducevansi altre ragioni di scienza, cioè la reciprocanza di aiuti fra l’uno e l’altro dei compagnoni, la esclusione di risse fra i medesimi, le frequenti gozzoviglie comuni, lo scambio reciproco delle vesti, onde non esser conosciuti nelle loro notturne sortite, i discorsi talvolta intesi origliando notte tempo, fatti da persone incognite riunite, che bisognava disfarsi, ovvero uccidere il tale ispettore di finanza, o il tal brigadiere de’ carabinieri, energico nella repressione del contrabbando, come avvenne prima dell’omicidio Sparapani; il provvedimento di danaro negl’indigenti, che parea derivato dai partigiani più facoltosi Al che deve aggiungersi l’argomento validissimo tratto dal bisogno che un contrabbandiere aveva di unirsi all’altro, onde ottenere una scambievolezza di sostegno per superare la forza di finanza. Per li quali motivi di scienza esposti dai deponenti, si deduce non essere erronea la notorietà riferita dai testimoni, nè viziata quell’idea di società che si erano essi formata, essendosi tale immagine impressa nella loro mente come un fedele ritratto delle circostanze, e alla giusta impressione dei testimoni corrispondea l’espressione da essi usata in processo. Ma qui si opponeva non essere stabilito il contratto di società fra costoro, nè per convenzione simultanea scritta, nè per annotamento nei ruoli, nè per altro segno espresso di alleanza. Per altro era facile il rispondere non essere necessario alla società un patto espresso ed esplicito, bastando eziandio l’implicito ed induttivo, ossia il consenso comune, esternato coi fatti. Tale appuntamento di consenso a mal fine espresso coi fatti, si verifica appunto nel caso concreto. Se non che presentavasi il dubbio, se nella insubordinazione, nel comune disprezzo delle truppe pontificie si verificasse veramente tra correi o complici, l’idea del vincolo e dell’impegno reciproco, senza cui non può darsi vera idea d’alleanza. Ma trattandosi di fazione popolare a mal fine, non sembrò necessaria la mutua obbligazione, ossia l’idea del vincolo e dell’impegno, bastando a ciò l’abituale unione de’ consensi a mal fine, reciprocamente riconosciuta ed approvata, come si definisce appunto la fazione: _Malorum in eamdem rem consensus, Cremani, de jur. crim., lib. 2, cap. 3, art. 1, par. 6_. Difatti il carattere dell’impegno o vincolo non può mai legalmente verificarsi in una società illecita, in cui la turpe promessa non forma nodo fra i soci. L’obbligo di permanenza e perseveranza appena si verifica nelle società lecite, di cui è scritto nella legge _Tamdiu C. pro socio: Manet autem societas eo usque donec in eodem consensu perseveraverint. At cum aliqui renunciaverint societati solvitur societas_. Basta dunque all’idea di fazione il plesso ed intreccio che nasce dalle comuni perfide intenzioni, insieme manifestate, accettate, abitualmente ritenute, conformando ad esse l’esteriore condotta; ciocchè avvenendo, si verifica il comune impegno, non già in faccia ai soci, ma in faccia alla legge, divenendo ciascuno responsabile, non solamente del fatto proprio, ma dell’operato eziandio di ciascuno degli altri cui esso aderì; come nella costituzione _Quo graviora_, contro le società illecite, rimarcava appunto la santa memoria di Leone XII, ripetendo il detto di Paolo: _Qui talia agunt digni sunt morte, et non solum qui ea faciunt, sed etiam qui consentiunt facientibus_. Ma insorger qui potea la difesa, che, in tal guisa concependo una lega, si confonderebbe la società con ogni complicità, appellandosi impropriamente più delinquenti soci nel loro delitto. Il quale ostacolo si togliea distinguendo in tre stadii il numero dei più concorrenti a un delitto, secondo gli effetti morali che ne derivano alla Repubblica. La sola qualità basta onde stabilire la complicità. Un numero superiore determinato dalle diverse leggi secondo la ferocia dei popoli e circostanza dei tempi, costituisce la conventicola, quella cioè che per soli pochi istanti e per un solo fatto speciale può formare una violenza pubblica capace nel momento di sovrastare alla legittima forza. Tale numero nelle nostre leggi è determinato negli art. 105, 106. Ma quando la società a mal fine si estende ad un numero considerevole e permanente d’individui, atto a compromettere lungo tempo la pubblica tranquillità, come nel caso presente, in cui i collegati s’indicano a centinaia, allora non trattasi di sola complicità, non di sola conventicola o violenza pubblica, ma di violata pace pubblica. _Carpzovius, part. 1, cap. 35, de crim. fraternae pacis publica n. 13. — Bohemer., ad Carpzov., ibi, observat. 3, pag. 262. — Haunoldus, jurisprudentia judiciaria, tom. 2, tract. 2, cap. 2, n. 482._ Anzi tale delitto di permanente violenza, costituito da simil collegio illecito, sale al titolo di lesa maestà, come si deduce dalla _Legge 2 ff. de Collegiis. Quisquis illicitum collegium usurpaverit ea poena tenetur qua tenentur qui armatis hominibus loca publica vel templa occupasse judicati sunt_. Che è appunto quella di lesa maestà come nella _Legge 1, § 1, ff. ad Leg. Jul. Majestatis_. Il nostro Regolamento penale colloca esso pure il delitto delle società illecite fra quelli di lesa maestà, _Lib. 2, tit. 2, art. 96_, e ben a ragione. In ogni governo è necessario che siavi un potere capace di superare e trionfare di tutti gli ostacoli. Senza questo potere non vi è governo. Quando adunque una lega d’uomini violenti forma una antiperistasi alla forza del principe, talchè i ribaldi non possano più essere soggiogati dalla voce imperiosa della legge, allora si dichiara una aperta guerra al principe, la sovranità è lesa, e i refrattari sono ribelli. Ma il difensore degl’inquisiti affacciava che lo scopo del contrabbando non presentava i caratteri di tanta gravezza. A ciò risponderassi primieramente col moto-proprio di Benedetto XIII, 17 settembre 1728, richiamato in vigore dalla circolare della Segreteria di Stato per gli affari interni 23 novembre 1833, N.º 8561, in cui i contrabbandieri in conventicola armata, costituita anche da tre sole persone, sono apertamente dichiarati ribelli. Inoltre i testimoni fiscali ci attestano che gli spalloni sono anche liberali, e uniti coi nemici del governo, tutti disposti ad insorgere, tutti pronti per resistere contro la forza. Havvi dunque la prova del fine pessimo, delittuoso. Ma, dato pure che i soci coinquisiti rimirassero al solo scopo del contrabbando, chi vorrebbe negare che anche un tale disegno, concepito da una moltitudine armata, ed abitualmente eseguito con tanta pubblicità ed audacia, non comprometta lo stato? _Impossibile enim est ut sacris tributis non illatis alioqui respublica conservetur: Justinianus, Novella 149._ Perciò i criminalisti anche più liberi riconoscono il contrabbando siccome un furto pubblico, un peculato indiretto, il quale dissecca le sorgenti del pubblico erario, induce la necessità di nuovi tributi, trasporta il carico delle imposte da un novero di cittadini a un altro, che ne sarebbe stato esente, quando i proventi della non frodata gabella fossero colati in integro nella cassa del principe, avvezza lo spirito al sotterfugio, che da un genere facilmente trapassa all’altro, insinua nei cittadini il disprezzo della legge, forma una guerra d’interessi tra l’egoismo dei privati e il paterno amministratore dei beni comuni, rende incerto il prezzo delle cose mercatabili, vacillando ognora tra quello netto da gabella, che offre di celato il contrabbandiere, e quello sopraccaricato della imposta, che richiedesi in fôro; spinge alla rovina gli onesti negozianti, fedeli contributori al loro principe, i quali non possono competere col mercadante frodatore; fomenta l’ozio della plebe, la quale in poche ore di rischio e di tenebre può lucrare quanto avrebbe dovuto acquistarsi colla paziente, ma tranquilla fatica di tutto il giorno, il quale trapassa in giuochi, gozzoviglie, ebrietà e mollezze, che spesso vanno a scolare nella sentina dei lupercali; toglie alle arti utili tante braccia di lavoratori, aumenta il costo delle mercedi di opere a pregiudizio dei committenti per lo scemato numero degli operieri, colloca il frodatore in una continua indisposizione di animo contro la forza del principe, con grave probabilità ad ogni scontro di resistenza, ferite, omicidii; espone, finalmente, la società a un sommo rischio della propria dissoluzione sopra tutti i rapporti, poichè, sottraendo le merci alla vista degli ufficiali finanzieri, vengono sottratte egualmente alla ispezione dei magistrati sanitarii, politici, religiosi: e quindi si possono introdurre vettovaglie malsane, carni insalubri, provenienze talvolta sospette di contagio epidemico, con pericolo della salute comune, del che non mancano anche nei moderni tempi recentissimi esempi. Penetrano nella città con tali clandestine introduzioni le corrispondenze, armi e gli emblemi che fomentano ognora il frenetico spirito della rivolta, e spargonsi libri ed immagini le più velenose per la morale, contrarie alle massime sacrosante della religione cattolica; disordini tutti i quali nascono ad un parto con quello del contrabbando, e che si eviterebbero in gran parte quando la violazione dei sacri termini tra stato e stato, dei confini continentali, delle mura cittadinesche, sanzionato dal comune diritto con severissime pene, cessasse una volta di sconvolgere fra noi l’ordine sociale. Per questi motivi la Commissione si è convinta intorno alla esistenza del delitto in genere. Passando ad esporre i motivi della prova specifica nel sistema dell’intima convinzione, sarà lecito di usare brevità. Basti solo accennare che i massimi aggravati apparivano quasi tutti colpiti da due o tre testimoni di confessione stragiudiziale, amminicolata da gravi indizi, come Versari, Paccapeli, detto Galani, Gambi Eugenio, Barasa, Baroncelli, Pambianchi, De Stefani, De Marchi, altri dal possesso incolpante di prova congetturale scritta, come Felice Miserocchi, altri dal possesso di prova reale, siccome Orioli Achille, altri alfine da bastevoli, svariati argomenti, congetture ed indizi, i quali, posti nella bilancia giuridica e prudenziale, persuasero i giudicanti di ritenere la loro reità o complicità, se non positiva, almeno negativa per connivenza o adesione indiretta, graduando sul maggiore o minore concorso del dolo o colpa la pena applicabile. Nè parve rigore soverchio di valutare in un delitto di stato comunque vogliasi definire obliquo, la stessa complicità negativa, come è disposto dal comune diritto: _Legge 5, Cod. ad Leg. Jul. Maj., § 6_, perchè nei grandi delitti interessanti la comune sicurezza la stessa omissione di non impedire le conosciute trame, le intelligenze e i maneggi dei riottosi, forma una colpa punibile, sebbene con mite castigo. Per gli altri inquisiti poi non colpiti da bastevoli indizi per ritenerli rei o complici, la giustizia del tribunale adottò le clausole degli art. 446, 447 del vigente regolamento di processura. Scendendo, infine, a ragionare sulla pena, ritennero i giudicanti che la coalizzazione degl’inquisiti indettati per eguale illecito proponimento, costituisse una permanente violenza, collimando il concorso dell’uno ad accrescer l’audacia dell’altro, come in materia di società illecite condolevasi l’accennato immortale pontefice Leone XII. «_Perspicue patet perniciosissimarum harum societatum vim et audaciam ex omnium qui iis nomen dedere consensione ac multitudine coalescere_». Ma questo carattere di permanente violenza potrebbe comprendere diversi titoli criminosi. «_Quoniam multa facinora sub uno violentiae nomine comprehenduntur_» _Leg. quoniam multa C. ad Leg. Jul. de vi pub._ Poichè dunque niuna prova esiste in processo che alcuno dei giudicabili siano correi o complici negli omicidii Sparapani e Adolf, ovvero negli altri ferimenti ed uccisioni di militari o funzionarii rimasti tuttora impuniti; poichè la unanime loro collegazione di fatto non presentava i caratteri della società espressa e secreta di cui nell’art. 96; poichè, infine, trattavasi di abito piuttosto che di specifici atti contestati di resistenza per applicare l’art. 143; il tribunale si limitò a contemplare il delitto come una permanente ingiuria atroce alla legittima podestà e forza del principe, commessa o assentita direttamente o indirettamente dagl’inquisiti in comune. E quindi fu misurata la pena sulla base degli art. 328, 329, 331, cogli aumenti circostanziali degli art. 107, 108 specialmente pei capi, e colla aggiunta edittale dei gradi preveduti dalla notificazione 27 maggio 1843. PER TALI MOTIVI INVOCATO IL SS. NOME DI DIO LA COMMISSIONE SUDDETTA _definitivamente sentenziando ad unanimità di voti_. Ritenuta la competenza, ha dichiarato e dichiara essere provata in genere la esistenza in Ravenna d’una collegazione faziosa di molti individui anche armati, tendente alla infrazione delle leggi, specialmente erariali, con vilipendere in odio di uffizio, e incuter timore alla forza pubblica, la quale milita per la conservazione dello stato e per l’esatta osservanza delle sue leggi. Parimente alla stessa unanimità ha dichiarato e dichiara constare in ispecie colpevoli di appartenere alla detta collegazione Versari Francesco, Paccapeli Carlo, Miserocchi Felice, Gambi Eugenio, Barasa Andrea, Pambianchi Michele, Baroncelli Giovanni, Samaritani Saverio, Randi Giuseppe, Paterlini Lodovico, De Stefani Leonardo, Dellavalle Mauro, Dulcini Angelo, De Marchi Federico, Orioli Achille, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Tarifelli Leonardo, Moruzzi Eugenio, Vaccolini Giovanni, Vicari Augusto, Cappi Carlo, Camerani Paolo, Rava Gaetano, Giansanti Ciriaco, Vassura Paolo, Miserocchi Domenico, Camporesi Giacomo, Savorelli Luigi, Angelini Angelo, Zabberoni Pietro, Savini Giovanni, Gabici Pietro, Bertacchi Francesco, Bezzi Giovanni, Della Torre Magni Marco. E perciò, visti gli art. 328, 329, 331, combinati cogli art. 107, 108 e 13 del vigente regolamento penale, e coll’art. 1. della Notificazione della Segreteria di stato 17 maggio 1843, alla stessa unanimità ha condannato e condanna Versari Francesco, Paccapeli Carlo, Miserocchi Felice e Gambi Eugenio alla galera per anni quindici; Barasa Andrea, Pambianchi Michele, Baroncelli Giovanni, Samaritani Saverio, Paterlini Lodovico e Randi Giuseppe alla galera per anni dieci; De Stefani Leonardo, Della Valle Mauro, Dulcini Angelo, De Marchi Federico alla galera per anni sette; Orioli Achille, Montanari Antonio, Montanari Vincenzo, Tarifelli Leonardo, Moruzzi Eugenio, Vaccolini Giovanni alla galera per anni cinque; Camerani Paolo, Cappi Carlo, Vicari Augusto, Rava Gaetano all’opera pubblica per anni cinque; Gianfanti Ciriaco, Vassura Paolo, Miserocchi Domenico, Camporesi Giacomo all’opera pubblica per anni tre; Savorelli Luigi, Angelini Angelo, Zabberoni Pietro, Savini Giovanni, Gabini Pietro, Bertacchi Francesco, Bezzi Giovanni, Della Torre Magni Marco all’opera pubblica per anni due. Ha poi dichiarato e dichiara, sempre ad unanimità, non constare fino ad ora abbastanza provata la colpabilità dei Gambi Antonio, Fabbri Annibale, Bertacchi Ermenegildo, Gianfanti Andrea, Landoni Teodorico, Fiorentini Onofrio, Montignani Pietro, Pasini Mariano, Conti Antonio, Boschi Domenico, Mazzetti Luigi, Maraffi Domenico, Baldini Gaspare, Barbieri Giovanni, Pascoli Lucio, Golfarelli Emidio, Gubici Achille, Rivolta Domenico, Ortolani Giovanni, Rambaldi Gaspare, Giansanti Giovanni, Landi Vincenzo; doversi però tutti i suddetti, a termini dell’art. 447 del vigente regolamento, di processura trattenere in carcere altri sei mesi decorrendi dalla pubblicazione della presente sentenza, onde assumere in tale spazio di tempo ulteriori indagini. Ha poi dichiarato e dichiara, sempre ad unanimità, non constare abbastanza la colpabilità degli altri detenuti Poletti Luigi, Carlini Giovanni Antonio, Orioli Febo, Bergozzi Giuliano, Pugiotti Francesco, Gambi Domenico, Pinza Francesco, Fava Felice e Morigi Domenico; perciò, a’ termini degli articoli 446, 675, 676 del vigente regolamento di processura suddetto ha ordinato ed ordina che vengano dimessi dal carcere provvisoriamente. Infine, sempre ad unanimità, ha dichiarato e dichiara esser tenuti in solido tutti i suddetti condannati al pagamento delle spese di processo e vitto, non che alla rifusione dei danni verso l’erario pubblico. Tutte le suddette pene temporanee dovranno cominciare a decorrere tre mesi dopo la rispettiva carcerazione dei condannati. Il signor ff. di presidente s’incarica della redazione motivata della presente sentenza. _Antonio Colognesi_ _Attilio Fontana_ _Stanislao tenente colonnello Freddi_ _Luigi Magnani, tenente colonnello_ _Camillo tenente colonnello Viviani_ _Luigi Trogli, cancelliere_ _Raffaele Magnani ff._ GOVERNO PONTIFICIO _Commissione speciale straordinaria mista sedente a Ravenna._ Vista la presente sentenza, Visto il dispaccio della Segreteria di Stato in cui si dichiara che, essendo piaciuto all’eminentissimo e reverendissimo signor cardinal Massimo, legato di questa provincia, chiamare lo sguardo clementissimo di sua Santità sulla pronunciata sentenza, la Santità sua, in contemplazione dell’officio usato da sua Eminenza, si è degnata diminuire di due terzi la pena inflitta a ciascun condannato, e di ordinare che siano dimessi fin d’ora in libertà provvisoria i ventidue inquisiti che dovevano trattenersi in carcere per altri sei mesi, SI ORDINA Che, previa la intimazione della sentenza ad ognuno dei giudicati, vengano dimessi immediatamente dal carcere tutti coloro che sono stati dichiarati non bastantemente colpevoli, e vengano i condannati tradotti ad espiare le rispettive loro pene nel senso della sovraindicata minorazione. Dalla Residenza della Commissione speciale straordinaria mista. _Gio. Pietro Gozzi Proc. Fiscale._ . . . . . . . Ogni uomo di cuor retto, ancorchè inesperto della scienza legale, può dar giudizio di questa sentenza, del modo con che cerca giustificarsi, e dei principii al quali si appoggia. M’è sembrato tuttavia opportuno mostrare quali diversi principii stimasse doversi seguire nel giudicar cause di lesa maestà, Giovanni Battista de Luca, cardinale di santa chiesa, nato a Venozza nella Basilicata, referendario delle due segnature ed auditore d’Innocenzo XI, che gli diede il cappello il 1 settembre del 1681. Autore di molte opere legali tenute in gran conto (_Teatro della giustizia e della verità. — Dottor Volgare_), ebbe il merito d’avere assunta la storia del diritto come elemento sostanziale d’interpretazione: d’aver ridotte sotto il dominio della ragione e del buon senso molte questioni che la sofisticheria legale ed il probabilismo aveano stravolte sotto vane formole e distinzioni scolastiche: d’avere scritta l’opera del _Dottor Volgare_ in italiano affinchè la giurisprudenza non fosse esclusivo monopolio de’ giuristi, ma nota al tempo stesso a’ padri di famiglia, a’ cittadini ed ai non professori. Quest’uom dabbene, che doveva certamente aver in cuore un gran senso di giustizia, così s’esprime appunto nel _Dottor Volgare_, lib. XV, cap. 5, _Dei delitti_, § 100 _Lesa maestà umana_. «Per quel che dunque appartiene all’altra specie di lesa maestà umana, questa contiene sotto di sè diverse specie, più o meno gravi; che però non è materia che in tutto riceva una stessa regola generale ed uniforme: mentre i criminalisti ne costituiscono diversi gradi o specie, delle quali si tratta ancora dagli scrittori ecclesiastici per il punto dell’immunità locale delle chiese, in occasione della eccettuazione di questo delitto che se ne fa per la bolla di Gregorio XIV, quando sia propria e del primo grado, ma non quando sia impropria e del grado inferiore. »Ed inoltre in qualsivoglia specie si può parimente dire che sia una materia incapace d’una regola certa e generale, per la diversità non solamente delle leggi, ma ancora degli stili e dei costumi dei principati e paesi. Attesochè appresso alcune nazioni il ribellarsi al proprio principe, ed il movergli la guerra, o veramente l’aderire ad un altro principe suo nemico, o servirlo in guerra, è cosa la quale frequentemente si usa, col titolo di mal contento; così facilmente si perdona, ed il delinquente si riceve in grazia, nè ciò cagiona quegli scandali e quelle infamie o male impressioni che porta in altri paesi ed appresso altre nazioni, dalle quali ciò non mai si perdona: Che però (conforme si è detto) il tutto dipende dalle leggi e dallo stile de’ paesi, e dalle circostanze particolari di ciascun caso, venendo più frequentemente queste materie regolate in gran parte da quella legge la quale volgarmente si dice _politica_, o veramente ragione di stato, onde dalle persone bene intendenti degli affari pubblici, forse con qualche ragione vengono stimati degni d’irrisione e di disprezzo quei puri legisti i quali con la solita inezia leguleica vogliono regolare queste materie con le regole generali della ragione civile comune, e con le leggi dell’impero romano, fatte quando questo risiedeva nell’Italia, o pure quando in Grecia, senza riflettere alla diversità dei tempi e dei costumi e de’ principati. Ed ancora senza fare la tanto opportuna, anzi necessaria riflessione alla storia legale, tante volle accennata nel proemio, ed altrove: — Cioè che in queste nostre parti europee occidentali queste leggi secondo la loro compilazione, la quale fu fatta in Grecia per ordine di Giustiniano, non furono conosciute, o veramente se furono conosciute, nondimeno andarono in tale disuso ed in oblivione, sotto la quale furono sepolte per lo spazio di molti secoli, nei quali, per le tante guerre e fazioni e per le mutazioni dei dominii così frequenti, quei delitti di ribellione erano trattati diversamente secondo la diversità delle nazioni e de’ dominii. Che però quando cominciò l’uso delle suddette leggi civili erano già invecchiati, non che introdotti gli stili e gli usi circa il modo di procedere in questi delitti in ciascun paese. E per conseguenza troppo chiara resta la semplicità di costoro, e particolarmente nel volere applicare le autorità degli scrittori di un paese, fondate nelle leggi e negli stili particolari di quello, agli altri paesi totalmente diversi, e ne’ quali quelle leggi o stili non vi siano; che però queste autorità servono sempre per inorpellare le passioni, o veramente l’avarizia e la tirannia, la quale si voglia esercitare. Questa specie di delitto contiene sotto di sè diverse specie subalterne, di maggiori o minori circostanze, o veramente di diversi gradi. Attesochè, uno è quella lesa maestà la quale si dice totalmente pubblica, e che riguarda lo stato della mutazione del principato. E questa si suole spiegare col termine della ribellione formale, sottraendosi dal dominio e dalla obbedienza di un principe, e dandosi sotto il dominio o veramente sotto la protezione di un altro, secondo le altre volte accennato famoso Vespero Siciliano. O veramente eleggendosi un principe proprio: — oppure mettendosi in stato di libertà e di repubblica. — E questa è la specie maggiore, e la primaria, sopra la quale merita dirsi manifesta pazzia quella de’ giuristi, nel mettervi bocca; e nel volerla regolare con le loro leguleiche proposizioni, e con le tradizioni dei dottorelli, attesochè di questi casi è regolatore l’evento della guerra e della maggiore o minore potenza, per quel che se n’è accennato anco nella materia giurisdizionale; che però pare avere la maggior parte più il politico che il legale. E lo stesso pare cammini nell’altra specie di lesa maestà parimente pubblica, per la ragione dell’offesa la quale si faccia al principato, ancorchè il delitto per parte di chi lo commette non sia pubblico, nè popolare, com’è l’antecedente, ma sia privato: cioè che qualche suddito, ribellandosi al proprio principe e negandogli l’ubbidienza, gli muova guerra e gli faccia resistenza, o veramente che aderisca o si dia al servizio di un altro principe suo nemico, oppure gli dia aiuto di denaro, o d’arme e di vittovaglie in maniera che il delitto ferisca il principato, e non la persona particolare di quel principe ovvero di quel supremo magistrato. La terza specie di lesa maestà, anche di primo grado, è quella la quale riguarda il delitto che si commetta dal suddito nella propria persona del principe sovrano, o veramente di quel suo vicario o supremo magistrato il quale in sua assenza lo rappresenti totalmente, e che vi stia in sua vece, ma che non ferisca il principato, perchè non si faccia per mutare il dominio nè la forma del governo, ma che solamente per vendetta privata o per odio pubblico si uccida quella persona. E parimente sopra questa specie di delitto cade poca disputa, che venga stimato gravissimo e degno di gravissime pene, della vita, della confiscazione dei beni, dell’infamia e di qualche gastigo anche nella posterità. Ma parimente gran parte vi hanno le leggi e gli stili particolari dei principali». . . . . . . . _Domande dei sudditi pontificii, racchiuse nel manifesto diretto ai principi e popoli d’Europa._ 1.º Ch’egli conceda piena e generale amnistia a tutti i prevenuti politici dall’anno 1821 fino a questo giorno. 2.º Ch’egli dia codici civili e criminali modellati su quelli degli altri popoli civili dell’Europa, i quali consacrino la pubblicità dei dibattimenti, l’istituzione dei giurati, l’abolizione della confisca e quella della pena di morte per le colpe di lesa maestà. 3.º Che il tribunale del santo Officio non eserciti veruna autorità sui laici, nè su questi abbiano giurisdizione i tribunali ecclesiastici. 4.º Che le cause politiche sieno quind’innanzi ricercate e punite dai tribunali ordinari, giudicanti colle regole comuni. 5.º Che i Consigli municipali siano eletti liberamente dai cittadini, ed approvati dal sovrano; che questi elegga i Consigli provinciali fra le terne presentate dai Municipali, ed elegga il supremo Consiglio di stato fra quelle che verranno avanzate dai provinciali. 6.º Che il supremo Consiglio di stato risieda in Roma, sovraintenda al debito pubblico, ed abbia voto deliberativo sui preventivi e consuntivi dello stato, e lo abbia consultivo nelle altre bisogne. 7.º Che tutti gl’impieghi e le dignità civili e militari e giudiziarie sieno pei secolari. 8.º Che l’istruzione pubblica sia tolta dalla soggezione dei vescovi e del clero, al quale sarà riservata la educazione religiosa. 9.º Che la censura preventiva della stampa sia ristretta nei termini sufficienti a prevenire le ingiurie alla divinità, alla religione cattolica, al sovrano ed alla vita privata dei cittadini. 10.º Che sia licenziata la truppa straniera. 11.º Che sia istituita una guardia cittadina, alla quale vengano affidati il mantenimento dell’ordine pubblico e la custodia delle leggi. 12.º Che, infine, il governo entri nella via di tutti quei miglioramenti sociali che sono realmente dello spirito del secolo, ad esempio di tutti i governi civili d’Europa. In data 23 marzo 1831 fu pubblicato in Roma e nelle diverse città dello stato pontificio un editto che cominciava colle parole seguenti: — Un’era novella, ec., e prometteva alle popolazioni delle Romagne molti miglioramenti di governo. Ma dopo che fu affisso non riuscì più ad alcuno di averne copia; mi è perciò impossibile porlo come avrei voluto tra i documenti, ad appoggio della mia proposizione: «Non avere il governo mantenuto le promesse del 31.» Tuttavia, quand’anche non fosser cose note, a tutti, il solo fatto di affiggere un editto ed impedire poi che se ne spargano copie, parla chiaro abbastanza. Al detto editto fu poscia sostituito l’altro in data 5 luglio 1831[9], che è attualmente in vigore. Ma tutti i governatori hanno in diverse epoche ricevute circolari derogatorie ai pochi buoni articoli che sono in esso, le quali circolari furono sette od otto. A maggior prova in favore delle proteste incolpabili di violenza, trascrivo qui la relazione d’un fatto avvenuto in Faenza tre anni sono. Mi rendo garante della sua autenticità. «Dopo che nel 1843 furono mandati a vuoto i tentativi di rivoluzione dello stato pontificio, e furono costretti ad emigrare il cavaliere Lovatelli e compagni, i volontari di Faenza cominciarono a dar segno di voler ripetere le infami aggressioni degli anni precedenti, percotendo ed impunemente ferendo ed ammazzando per le vie i pacifici cittadini. E precisamente in una sera del settembre 1843 manifestarono questa loro perversa determinazione aggirandosi per la città in copia e palesemente armati, e minacciando con gesti e parole. I cittadini, irritati di questa condotta, dalla pubblica forza tollerata, si unirono In numero forse di un migliaio circa, e si recarono Inermi sulla piazza maggiore, a protestare in faccia de’ carabinieri ivi accorsi, ed alla guardia degli Svizzeri, che non volevano, come nei passati tempi, essere impunemente percossi, feriti ed ammazzati. La forza usò prudenti parole a persuadere i più irritati a calmarsi: ed i volontari si dissiparono sentito il grosso ragunamento fattosi di cittadini sulla pubblica piazza e nelle logge di essa, protestando ad alta voce non volere più tollerare di essere bastonati nè ammazzati da sì infame canaglia di briganti: questi si dissiparono tornandosene alle loro abitazioni. Alcuni giovani a nome di tutti salirono al pubblico palazzo per fare al governatore una rappresentanza, la quale fu amorevolmente accolta (intimidito da questo forte attruppamento di cittadini). In seguito la forza perquisì i volontari che incontrava di notte tempo, vietando loro di portare armi occulte, e questi non osarono più turbare la pace del paese. Nessuno poi dei cittadini fu per questo fatto nè manco ammonito dal governo.» SULLE ATTUALI CONDIZIONI DELLA ROMAGNA DI GINO CAPPONI * * * LA QUESTIONE ITALIANA DI M. CANUTI * * * LETTERA AL ROMANO PONTEFICE DI ORAZIO BUSHNELL DOTTORE DI TEOLOGIA DI HARTFORD, STATI UNITI D’AMERICA * * * INDIRIZZO AI REVERENDI PRELATI MONSIGNOR JANNI UDITOR SANTISSIMO E RUFFINI FISCALE GENERALE SULLE ATTUALI CONDIZIONI DELLA ROMAGNA DI GINO CAPPONI La sommossa di Romagna è terminata: Iddio non voglia che le mannaie e le catene brandite ora invece d’armi da coloro che men dovrebbono usarle, non vengano tosto a suscitarne altre sommosse e più atroci vendette. E, aggiunghiamo noi, non voglia Dio che le presunzioni di coloro i quali crederono bastasse a liberare la patria alzare un grido o un fucile, si voltino in disperazione; e che, dall’opposto lato, la facile e comoda prudenza dei timidi prevalga così da persuadere l’inerzia. In Romagna la rivolta è inevitabile per la qualità e le opere del governo e per lo stato degli animi; anzi una continua rivolta, più o meno flagrante, è la necessaria condizione di quella provincia. Ma il buon successo di una rivoluzione è ivi difficile più che altrove, perchè alla infelicissima Romagna manca un fine a cui tendere, una sorte in cui sperare. Addosso a lei stanno tutte le forze dell’Austria, preste a comprimere ogni moto di cui l’Italia possa giovarsi; ed ancorchè all’Austria ciò sia vietato, ecco la Romagna ridotta ad essere palleggiata nelle ambagi dei protocolli. Ed oltreciò il governo, comunque non abbia amici, ha però un numero sufficiente di partigiani armati, i quali pasciuti a spese pubbliche e ingrassati negli odii, non ricusano menar le mani per la difesa di lui, dacchè il governo si è ridotto miseramente a non essere altro oramai che una fazione. Una rivoluzione fortunata delle Romagne è dunque assai malagevole, sinchè ella non venga promossa da cause esterne e più generali; ma lo stato delle Romagne, se fu sin qui torbido, ognidì più diverrà tumultuario e minaccioso. Le commissioni militari non pacificheranno quella provincia, dove spirano tante anime ardenti e disdegnose di soggiacere a una brutal forza; le mannaie non la quieteranno: e il governo, fatto più che mai straniero e avverso alla nazione, debilitato dalle sue proprie colpe, debilitato dalla ignoranza ognor crescente nei reggitori di quello stato, non potrà, senza erario e senza credito, nemmen provvedere ai suoi stessi partigiani, pagare gli Svizzeri e mantenersi coll’aumentare un deficit il quale diviene sempre più rovinoso di anno in anno. Nè può adoperare alcun rimedio, perchè in un corpo già guasto, gli stessi rimedi vengono a trasmutarsi in veleno. La condizione delle Romagne, anzi di tutto lo stato ecclesiastico, dovrebbe adunque tenersi come disperata; e tanto più disperata, in quanto che i rumori di quello stato necessariamente si propagano per tutta Europa e fuori; e se il fare giustizia ai sudditi viene in qualche modo a scuotere il seggio di quel principe che insieme è centro dell’unità religiosa, le coscienze se ne turbano, la cristianità si agita: cosicchè, nell’attuale ordine di cose, è come se la civil giustizia andasse contro alla religione, e i poveri sudditi fossero condannati a pagare sangue e lacrime e disordini per la quiete universale delle coscienze e l’unità della Chiesa. Il governo tale quale è non può reggere lo stato, perchè egli è ridotto dalla necessità della sua natura a temere ogni riforma, a impedire ogni miglioramento. Il governo del papa sussiste perchè tutti sentono il capo della Chiesa cattolica dover essere indipendente dalle volontà di un altro principe, e sicuro dai tumulti d’uno stato popolare. La sovranità fu data al papa perchè egli avesse indipendenza: e considerata per tal modo la sovranità di lui, si deve tenere non solamente giusta, ma necessaria (Vedi la nota a pag. 154), e nell’istoria essa apparisce come la più legittima per l’origine, e fondata più d’ogni altra sopra il consenso dei popoli. Ma quando la prima volta, più di mille anni fa, il pontefice divenne principe, e per molti secoli dipoi, la sovranità si reggeva più che altro sulla potenza d’una idea astratta e sul prestigio di un nome, ed era contenuta dalle giurisdizioni popolari o personali che da ogni lato resistevano. I principi non governavano come ora a minuto la macchina dello stato; e meno d’ogni altro gli ecclesiastici si brigavano delle faccende amministrative, che essi lasciavano trascorrere in mano dei secolari. Per tal modo il principato degli ecclesiastici era ai sudditi generalmente dolce; e potevano le due potestà andare insieme congiunte senza mostrarsi inconciliabili. Ma ora che preti e vescovi è necessario che sieno curatori dell’economia pubblica e inventori di tasse, e generalissimi delle milizie, e (ho vergogna a dirlo) capi e incitatori di sbirri; ora i vizi d’un tale reggimento si renderono intollerabili, perchè essi offendono, non che il pensiero dei più veggenti, anche l’interesse dei più infimi e il buon senso di tutti: e la dignità degli ecclesiastici si avvilisce tanto più quanto è più costretta a divertire continuamente dall’alto suo ministero. Ma se in qualche modo il principato secolare del pontefice si potesse ricondurre a ciò ch’egli era una volta, mi pare che le difficoltà, ora affatto inestricabili, si verrebbero a comporre, per quanto è dato alle umane cose. Le monarchie già sono e più che mai saranno astrette a concedere la divisione di quei poteri, i quali da soli due o tre secoli in qua furono, o parvero raccolti nella persona del principe; i governi rappresentativi si distendono rapidamente su tutta Europa. E se in alcun luogo la partecipazione dei cittadini allo stato è conveniente o necessaria, tale si è certamente, e più che altrove, nello stato della Chiesa, dove gli amministratori delle cose pubbliche, quando non sieno tratti dalla nazione, riescono ad essa affatto stranieri per le qualità del grado e dell’ufficio loro, e vengono affatto a segregarsi da lei, quasi occupatori dell’altrui suolo. Laonde al pontefice si addice bene di trarre la gerarchia ecclesiastica da tutto quanto l’orbe cattolico; ma i reggitori e i ministri del governo secolare gli conviene escano dalla nazione e sieno secolari: se no, tra la nazione e lui sarà lo scisma inconciliabile, e amendue fiacchi e travagliati. Un papa che regni senza governare, quest’è il solo mezzo atto a sciogliere il nodo, sin qui disperato. Nè si alleghi la difficoltà che avrebbe il pontefice a mantenere in quel modo l’autorità sua, imperocchè, oltre alla santità del grado, lo stesso interesse dei Romani lo aiuterebbe a mantenerla. Roma ha più bisogno del papa, che non il papa di Roma; s’egli, non dico già si rifuggisse sotto le ali d’un potentato straniero (chè per lui sarebbe un troppo discendere), ma solamente ne andasse a Orvieto o a Viterbo, dovrebbero i secolari governanti richiamarlo con le mani supplichevoli, come i Romani fecero più volte nel medio evo: il papa, col solo ritirarsi sul Monte sacro, farebbe Roma deserta. Nel pontefice, attorniato dal sacro collegio dei principi della Chiesa, starebbe l’alta sovranità tanto sicura e inviolabile, quanto a niun principe secolare mai non è dato di possederla: e se dall’amministrarsi lo stato a quel modo, si dubitasse che al papa venissero meno le rendite necessarie alla maestà del pontificato, agevol cosa riuscirebbe l’assegnargli, in modo certo e al tutto immune da spoliazione, tanta ricchezza che bastasse a mantenere anche esteriormente la dignità dell’eccelso grado. Inoltre mi pare che i potentati cattolici, i quali bene e debitamente si contrapposero all’abuso tanto eccessivo una volta dei proventi ecclesiastici, ora (ed allora più che mai) potrebbero, senza danno e senza scapito della dignità d’entrambi, assicurare al pontefice una moderata prestazione che immediatamente derivi da quegli uffici ch’egli esercita: uffici che importano la quiete delle coscienze e il buon ordine degli stati. A chi paga un console o un ambasciatore in terra di barbari per vana apparenza di decoro o per guadagno assai dubbioso, mi pare non disconvenga pagare al papa una bolla per le istituzioni dei vescovi o per altro qualsivoglia titolo: il che a’ popoli riuscirebbe assai meno gravoso di tante inutili spese ch’essi fanno in terra straniera. E se tali spese giovano ai commerci, questa puranche varrebbe a stringere la fraternità tra le nazioni cristiane. Io so bene che tali riforme non mai si fecero di buon grado e per ispontanea concessione, bensì condotte dai tempi e da forza di necessità. Ma qui necessità stringe, e i tempi le maturarono, ed ora la forza minaccia di compierle. I rivoltosi dell’altro dì non si levarono, come per l’innanzi, contro ai preti, perchè son preti, nè contro l’altare; non abbatterono gli stemmi, nè rinnegarono sudditanza al papa: ma da lui chiederono un governo da cristiani, e sulla bianca bandiera scrissero giustizia e leggi: _leggi conformi ai diritti delle nazioni civili_; tanto oggi divennero attemperati i consigli anche degli uomini più inaspriti, e il pensiero provvido e le volontà discrete. Che il papa abbia principato vuole ora ciascuno, sino a coloro che più ne soffrono: i tempi gliel diedero, nè si voglion rompere le tradizioni: e se in antico era male che il papa non fosse principe, ora disfarlo sarebbe peggio (_Vedi la nota_ a pag. 154). Ma un principato di questa fatta vuole altra qualità di ministri, d’istituzioni, di leggi; o il papa si faccia gradatamente a concederle, o al primo alitare d’un qualche vento in Europa la forza cieca gliele imporrà; e qui è da scegliere, tra il bruttare di sangue la tiara perchè poi cada nel fango, o renderla più venerabile agli occhi di tutti, con l’assolverla da ogni colpa. Questo gridan alto i Romagnuoli; questo ripetono a più bassa voce nelle altre provincie i sudditi, ch’esser vorrebbono cittadini: e la separazione dell’ecclesiastico dal civil governo, sola possibile uscita dalle presenti difficoltà, già si pronostica in Roma, non pur dai laici solamente, ma dagli ecclesiastici più assennati e migliori, e su nelle stesse anticamere del Vaticano, insino all’ultima porta là dove sta chiuso a ogni discorso il vecchio infelice. E a questo fine mi sembrano bene accomodarsi i nuovi costumi che già si veggono apparire in Roma; dove molti dignitari della Chiesa, meno ambiziosi oggimai di scienza profana, ed assai meno ravvolti che prima non fossero nelle conversazioni secolaresche, danno segno di ridursi ad un vivere più clericale. Anticipare l’evento che i tempi maturano, incombe oggi a tutti coloro che più hanno a cuore la religione e l’Italia, professando nei discorsi e negli scritti (per quanto ci è dato) quelle opinioni che stanno già nel pensiero di tutti; e una franca ed onesta voce, in qualche modo possiamo alzarla noi pure, se la timidità non cel vieta. Ma più d’ogni altro è necessario sien pronti al soccorso i principi italiani, a’ quali non giova starsi con le mani alla cintola quando la vicina cosa è in fiamme o in rovina; e tra essi ve ne ha che per le forze militari e per la condizione politica mi pare non debbano temere scherno e dispregio, se un bel giorno dichiarano non aver essi più voglia di tollerare in silenzio, che solo patrono e guardiano dell’Italia abbia ad essere lo straniero. Tempo è che i principi italiani intervengano pur essi in quelle cose che importano alla salute d’Italia. GINO CAPPONI. NOTA. I mali che affliggono da secoli la Chiesa e l’Italia procedono tutti da una sola fonte, la riunione di due incompatibili poteri nella persona del vescovo di Roma. La cura radicale di quelli può quindi trovarsi nella separazione dei poteri medesimi, nel restituire, cioè, la Chiesa nello stato in cui nacque e fiorì, e si sparse per tanta parte di mondo. Il dire che era male in antico che il papa non fosse principe, o che il principato del papa sia ora necessario, pute di eresia. Il Concilio stesso di Trento non osò dire altro, se non che sarebbe eresia il sostenere che il papa non potesse essere principe. Che la sovranità poi sia stata data al papa onde egli avesse indipendenza, è uno svarione storico troppo grosso perchè occorra di confutarlo. Che, finalmente, sia necessario che il papa non dipenda dalla volontà di un principe qualsiasi, e che per questo ogni Italiano voglia ch’egli abbia un principato indipendente, non è vero nè teologicamente, nè storicamente, nè politicamente; e novantanove sopra cento Italiani disinteressati farebbero di ciò, ove parlar potessero liberamente, ampia testimonianza. Del resto, ognuno ha a mente i versi di Dante, del Petrarca, ec., e sa quel che abbiano intorno a questi punti scritto altri sommi Italiani e stranieri, san Bernardo, Châteaubriand, ec., ec. Il fatto lagrimevole è questo, che il principato temporale del papa non può in verun modo essere riformato. (_Nota aggiunta_.) LA QUESTIONE ITALIANA DI M. CANUTI L’Europa non avrà riposo, finchè quella nazione, la quale nel Medio Evo accese la fiaccola della civiltà e della libertà, non fruisca essa pure la luce ch’ella creò. (SISMONDI, _Storia del risorgimento della libertà Italiana._) Fra le questioni delle quali maggiormente dovrebbe l’Europa liberale, e meglio ancora la Francia occuparsi, quella dell’Italia ha un posto eminente. Il governo francese, ad onta de’ suoi sforzi per conservare la pace, potrebbe improvvisamente trovarsi avvolto in una guerra, ed allora l’alleanza de’ circostanti paesi, e più d’ogni altro dell’Italia, gli addiverrebbe veramente necessaria. Da lunga pezza avrebbe la Francia dovuto favoreggiare l’emancipazione della nostra penisola. Per isventura nol fece, e par fino che attender voglia l’ora del pericolo per accingervisi. Ma dovrebbero gl’Italiani starsene sino al tocco incerto di quest’ora colle mani in mano, o non piuttosto apparecchiarsi a rigenerare da sè la loro patria? L’Italia non può rimanersi ov’ella è più lungamente: e sarebbe cosa iniqua il pretendere che il nostro bel paese, l’incivilimento del quale non è punto inferiore a quello d’altre colte nazioni, e nel quale i sentimenti di nazionalità e di indipendenza si sono di già estesi fra il popolo cotanto, giaccia tuttavia a pezzi sotto il giogo di stranieri, e scemo d’istituzioni rappresentative. I politici moti che da quasi mezzo secolo tratto tratto colà si manifestano, traggono l’origin loro da questi sentimenti di libertà e d’indipendenza. I governi però, invece di arrendersi alle politiche esigenze delle popolazioni, sprezzarono mai sempre l’opinion pubblica, ed ai desiderii di nazionalità colle persecuzioni, ai diritti colle violenze corrisposero. Eppure i sovrani d’Europa ed i principi d’Italia di promesse di libertà ai popoli, quando di loro ebber bisogno, non furono parchi. Il re Ferdinando di Sicilia, l’arciduca Carlo d’Austria, il generale Nugent, lord Bentink ebbero a promettere agli Italiani, anche avanti la caduta di Napoleone, indipendenza nazionale e costituzionali franchigie. E queste promesse furono rinnovate al tempo della Ristorazione del 1815, benchè sempre bugiardamente. Ma agl’Italiani non corre punto l’obbligo di giustificare la rivendicazione delle loro libertà per le promesse dei governi, avvegnachè le ragioni loro siano fondate sul principio della sovranità nazionale, sul diritto d’ogni popolo a governarsi da sè, e sulle condizioni morali del loro paese. Tuttavia sono desse un argomento che conforta assai i legittimi richiami delle diverse provincie dell’Italiana penisola. È noto che il granduca di Toscana, Ferdinando I, accogliendo il 7 gennaio 1815 i membri del Consiglio generale di Firenze, venuti a congratularsi con lui del suo ritorno ne’ suoi stati, ebbe loro a dichiarare «che la felicità de’ suoi sudditi costituiva il primo de’ suoi doveri; che non avea dopo la sua tornata potuto prevedere ogni cosa, nè stabilire in Toscana le istituzioni tutte, le quali erano dalla condizione intellettuale del popolo richieste; ma che non sarebbe corso molto tempo prima che il suo popolo possedesse una Costituzione ed una rappresentanza nazionale». Quest’ottimo disegno, il quale l’Austria non volle nè allora nè poi fosse recato ad effetto, era stato pure nudrito dal granduca precedente, Leopoldo I, fra le cui riforme a pro’ della Toscana primeggiava, come ben sappiamo, quella di una costituzione per ordine suo compilata dal senator Gianni. Ferdinando di Napoli prometteva dal canto suo in tutti i proclami da lui nel 1815 indirizzati ai Napoletani, leggi fondamentali, civile libertà, formali guarentigie. E perchè le sue promesse non venivano mai adempiute, gli abitanti delle Due Sicilie si levarono nel 1820 come un sol uomo, proclamando una costituzione, la quale venne poi accettata e giurata dal re e da tutta la reale famiglia. Ma, posto in non cale il prestato giuramento, essendo il re delle Due Sicilie corso a Laybac ad invocare l’assistenza dell’Austria, il popolo tradito si arrese alle baionette straniere, ma non rinunciò per questo a’ suoi diritti. Chè anzi nel punto stesso in cui l’esercito austriaco invadeva la capitale, 19 marzo 1821, il deputato Poerio facea dal parlamento approvare una dichiarazione, la quale finiva così: «Noi protestiamo contro una siffatta violazione del diritto delle genti, siamo risoluti di serbare intatti i diritti della nazione e del re, ed appellandocene alla saviezza di S. A. R. e del suo augusto genitore, rimettiamo la causa del trono e della nazionale indipendenza nelle mani di quel Dio che regge i destini dei sovrani e dei popoli». I torti inflitti a’ Siciliani dalla corte di Napoli sono ancor più gravi. Imperciocchè la Sicilia avea da secoli una costituzione, la quale, modificata nel 1812, non potea esser abolita per l’atto di unione dell’Isola a Terraferma. Ciò non ostante il parlamento siciliano non fu più d’allora in poi convocato. Quel paese però non ha mai dimenticato cotale infrazione di solenni trattati ed obblighi: e lo scontento dei Siciliani si è anche maggiormente accresciuto per questo, perchè l’Isola loro fu sempre, ed è tuttavia, bistrattata come una provincia di conquista. Il siciliano parlamento ascende ad un’epoca molto più remota, che non la signoria dei Borboni in Sicilia, e questa non sarà mai tranquilla sinchè non venga redintegrata nelle sue franchigie, o non usufrutti in compagnia delle altre provincie d’Italia le benedizioni della libertà e dell’indipendenza. Ma non potrà negarsi che quasi tutti gli stati della penisola non abbiano a vicenda tentato di spezzare il giogo del dispotismo, e vinto i loro propri governi: l’intervento austriaco soltanto valse a ripor loro addosso le catene, e ribadirvele. E ciò perchè, fidando nella giustizia della loro causa, i governi surti dalla rivoluzione sconobbero la necessità d’evocare tutte quante le forze loro in sua difesa, e perchè, invece di opporre al comune nemico le forze stesse strettamente collegate, elessero piuttosto di soccombere spicciolatamente. Noi non farem parola del regno Lombardo-Veneto. Sottoposto a straniera dominazione, esso è calpestato da un esercito troppo numeroso, perchè il suo pensiero possa con atti esterni rivelarsi. Ma le torture dello Spielberg fanno bastevolmente testimonio dell’amore dei Lombardo-Veneti alla causa nazionale, ed il martirio dei Bandiera e d’altri a Cosenza prova quanto profondi siano i loro sentimenti politici e la loro devozione all’Italia. Ci allargheremo però di più in ciò che spetta agli stati della Chiesa, perchè è quivi che si rinnovano più di frequente i politici tumulti, ad onta delle instancabili persecuzioni e dei mali che inevitabilmente ne conseguitano. Una delle cagioni di questi sconvolgimenti è comune a tutte le varie popolazioni della penisola. Imperciocchè ognuna di esse è tormentata dal bisogno d’emanciparsi e di protestare contro il trattato di Vienna, il quale gli antichi governi ristabilì, governi, le forme ed istituzioni dei quali troppo dall’opinione pubblica e dalle condizioni sociali del paese discordano. Ma le provincie sottoposte a Roma hanno ragioni affatto loro proprie per essere dell’amministrazione pontificia discontente. Stando alle più fresche notizie d’Italia, gli umori delle popolazioni dello stato papale fermenterebbero gravemente, ed il governo di esso non si reggerebbe in piè che pel terrore. Si può quindi affermare che la questione, rimasta per l’evacuazione d’Ancona indecisa, è più vivace che mai, e merita perciò d’essere esaminata posatamente. Eravamo al principio di febbraio quando le popolazioni dell’Italia centrale, cioè dei ducati di Parma e Modena, e dello stato della Chiesa tentavano d’emanciparsi. E questo movimento, il quale rispondeva a quello che avea operata la rivoluzione di luglio, avveniva senza violenza e spargimento di sangue. Non appena però erano scorsi due mesi, che un esercito austriaco, il quale avea già occupato Parma e Modena, invadea Bologna e la Romagna. I patriotti, benchè inferiori in numero, sostennero valorosamente uno scontro cogli Austriaci a Rimini; ma, abbandonate dalla Francia, lasciate a sè sole, difettando di validi mezzi di resistenza, quelle provincie ricaddero sotto la dominazione pontificia. Così la rivoluzione degli stati della Chiesa fu dall’intervento straniero compressa senza che alle doglianze delle popolazioni venisse data retta. E queste doglianze erano poi tanto ovvie e fondate in ragione, che gli stessi rappresentanti dello cinque maggiori potenze, Francia, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia, ebbero nel 31 maggio 1835 a presentare al cardinal Bernetti, pro-segretario di stato, una nota, o _memorandum_, il quale conteneva le riforme politiche ed amministrative ch’esse raccomandavano al novello papa Gregorio XVI di concedere a’ suoi sudditi. Il _memorandum_ è del tenor seguente: «Il governo pontificio deve esser posto su di una base solida, per via dei miglioramenti stati già indicati ed annunciati dalla stessa santa sede. Questi miglioramenti poi, che, a tenore dell’editto dell’eminentissimo cardinal Bernetti, fonderanno un’êra affatto nuova per i sudditi di sua Santità, si collegano con una interna garanzia, sicura da pericoli e conforme all’indole di ogni governo elettivo. »Per raggiungere codesto scopo salutare, il quale, a ragione della situazione geografica e sociale dello stato della Chiesa, interessa tutta Europa, fa duopo che l’ordinamento sistematico dello stato medesimo si appoggi a due principii vitali: 1º all’introduzione dei miglioramenti di che si tratta, non solo nelle provincie insorte, ma in quelle ancora che se ne stettero tranquille, e nella capitale medesima; 2º _all’ammissione generale dei laici agli uffici amministrativi e giudiziari_. E queste miglioranze dovrebbero comprendere il sistema giudiziario, e quello delle amministrazioni municipali e provinciali. In quanto all’ordine giudiziario l’esecuzione interna e lo sviluppo delle promesse e dei principii del _motuproprio_ dell’anno 1816 offrono mezzi più certi ed efficaci per riparare alle universali doglianze in proposito di questa parte importantissima dell’organizzazione sociale. »L’amministrazione generale delle municipalità _elette dalle popolazioni_, e lo stabilimento di municipali franchigie che ne determinino l’azione entro la sfera degl’interessi locali dei Comuni, devono costituire necessariamente le basi di ogni miglioria. L’organizzazione poi dei Consigli provinciali, come Consigli permanenti, destinati a prender parte al governo di ciascuna provincia nell’adempimento del loro ufficio, e con attribuzioni convenevoli ad una più numerosa adunanza, specialmente riguardo ai maggiori interessi della provincia, sembra attissima ad introdurre nell’amministrazione miglioramenti e semplicità, sicchè valga a sorvegliare l’amministrazione comunale, ripartire le imposte e fare al governo conoscere i veri bisogni delle provincie. »La gravissima importanza, in ogni stato bene ordinato, delle finanze, e di una amministrazione del debito pubblico atta ad aggiungere al credito finanziario del governo le più desiderate garanzie, ad accrescerne i mezzi e ad assicurarne l’indipendenza, pare che renda necessaria la creazione di uno _stabilimento centrale a Roma_, a cui, come a corte suprema, vengano commessi tutti i rami dell’amministrazione civile e militare, e lo sovrintendenza del debito pubblico, con attributi adequati allo scopo salutare ed importantissimo a cui si mira. Quanto più cotale istituzione farà prova della propria indipendenza e dell’unione del governo collo stato, tanto più corrisponderà alle benefiche intenzioni del sovrano ed alle aspettazioni del pubblico. »Ma per giungere a questo punto, bisogna eleggere d’infra i consiglieri provinciali uomini atti a costituire una _Giunta dei consiglieri di governo_, un Consiglio amministrativo generale. Tale giunta sarebbe parte d’un Consiglio di stato, i membri del quale verrebbero scelti dal sovrano d’infra gli uomini più ragguardevoli per natali, ricchezze e talenti. Senza uno o più stabilimenti centrali di questa sorta, intimamente collegati colle persone più notabili di uno stato doviziosissimo, come questo è, di elementi aristocratici e conservatori, è manifesto che la natura di un governo elettivo priverà inevitabilmente le miglioranze che faranno la gloria immortale del regnante pontefice, di quella stabilità che è tanto instantemente domandata dal popolo; stabilità la quale sarebbe tanto più ferma, quanto più i benefizii largiti dal sovrano pontefice fossero pregevoli e grandi». La corte papale non accettò questo _memorandum_. Nulladimeno il cardinal Bernetti, il quale per un suo editto d’aprile 1831 avea accertato il pubblico «delle benevole intenzioni del santo padre, per le quali un’êra novella sarebbe tosto cominciata,» s’impegnò, per così dire, verso la Francia in parecchie note, ma specialmente in quella indirizzata il 3 giugno al conte di Saint-Aulaire, di concedere miglioramenti poco dissimili da quelli indicati dal _memorandum_. La nota era concepita nei termini seguenti: «.... Il sottoscritto cardinale ha l’onore di far noto a V. S. che niente che vaglia far felici e contenti i suoi dilettissimi sudditi nel riordinamento della cosa pubblica, sfugge all’acuto sguardo del santo padre. Ognuna di queste provvisioni verrà, in quanto le risguardi, acconciamente applicata alle provincie ed alla capitale. Gli offici amministrativi e giudiziari non saranno esclusivamente conferiti ad una classe privilegiata, ed il _motuproprio_ di sua santità Pio VII riceverà un conveniente sviluppo. Nei comuni verrà introdotto un sistema che li abiliti a provvedere da sè a’ loro propri bisogni. L’amministrazione, per una legge saviamente concepita, sarà affidata all’ordine dei proprietari, senza però escluderne l’influsso convenevole delle persone più istrutte o dedite alle industrie, ma in modo che l’interesse dell’ordine più numeroso, quello dei proprietari, non rimanga vittima dell’interesse degli altri. Le provincie pure avranno Consigli e commissioni amministrative, delle quali i Consigli comunali forniranno gli elementi ed il modello. La revisione dei conti della pubblica amministrazione, l’ammortizzazione del debito pubblico, il governo delle finanze verranno organizzati in guisa, che nessun sospetto insorga contro la probità degli amministratori, il buon uso delle pubbliche entrate, e la saviezza che presederà alla determinazione delle imposte ed al metodo di riscuoterle. L’osservanza fedele e durevole delle leggi verrà garantita da convenevoli istituzioni...» Il cardinal Bernetti ebbe forse intenzione di adempiere queste promesse; ma lo spirito retrogrado della romana corte, e la sua ripugnanza ad innovazioni, non lasciarono che le riforme venissero introdotte. La corte di Vienna pure, la quale era intervenuta nel _memorandum_, s’oppose a quei miglioramenti. Ognuno sa che l’Austria da lungo tempo agogna le legazioni; e per questo le importa assaissimo di accenderle d’odio contro il governo pontificio. In questo mezzo il conte di Saint-Aulaire presentò alla corte di Roma una nota in data 1.º luglio 1831, con cui richiedeva, fra le altre cose, l’immediata evacuazione degli Austriaci, la pubblicazione di un’amnistia, e la concessione delle riforme amministrative e giudiziarie. A questa il cardinal Bernetti due dì appresso rispondeva che il santo padre non opponeasi alla partenza delle truppe imperiali; che accorderebbe una amnistia; ma che, in quanto alle riforme, egli non voleva gli venissero imposte, «perchè,» diceva egli, «il cuore del santo padre non ha duopo di stimoli, nè la volontà di lui di guarentigia». Perciò la conferenza diplomatica rimase a Roma costituita in permanenza. Noi ora vedremo in qual guisa siano state le promesse sovrane eseguite. Gli Austriaci sgombrarono bensì le legazioni verso la metà di luglio 1831, ed allo stesso tempo un’amnistia politica fu pubblicata: ma da essa vennero esclusi quaranta dei _rei principali_ e tutti gl’_indiziati_ della capitale. Gli uni languono tuttavia nell’esilio; gli altri gemettero nelle prigioni per essere di poi condannati dal tribunale politico. Le legazioni erano allora governate da pro-legati laici. La guardia civica, o nazionale, di nuovo posta in attività, vi manteneva la pubblica pace, in mancanza delle truppe papali, che s’eran sostate alle porte di Romagna. Le popolazioni aspettavano impazienti il compimento delle più sacre promesse. Quale non fu pertanto l’indignazione loro quando apparve il primo _motuproprio_, o editto del 5 luglio 1831, intorno all’ìnstituzione dei Consigli comunali e provinciali, senza alcuna delle garanzie indicate dal _memorandum_? In fatti il principio dell’elezione popolare, che è un diritto antico degl’Italiani, consacrato dai loro statuti, e riconosciuto pure dalla nota delle cinque grandi potenze, era rigettato da questo editto, pel quale la nomina dei Consigli spettava esclusivamente e direttamente al capo d’ogni provincia. In quanto all’indipendenza e libertà di discussione e voto, basterà citare gli articoli 10 e 12 del titolo I. In essi è detto: «Nessuna proposta potrà offrirsi alle deliberazioni del Consiglio, se l’atto di convocazione non fa cenno dell’oggetto da discutersi, e se la proposta medesima non fu preventivamente sottoposta all’autorità superiore. I processi verbali delle sedute saranno trasmessi al capo della provincia, dal quale dipenderà in ogni caso l’approvazione, o viceversa, degli atti del Consiglio.» In quanto alla formazione di una giunta o d’un Consiglio di stato sedente a Roma, ed alla nomina dei laici alle magistrature amministrative e giudiziarie, non se ne fece neppur parola. Da ogni canto petizioni e deputazioni furono inviate a Roma per protestare contro l’editto 5 luglio, e domandare l’esecuzione delle promesse miglioranze. Roma rispinse quelle e queste. Altri editti pubblicati in ottobre e novembre 1831 colmarono la misura del generale scontento. Questi editti contenevano regolamenti di procedura civile e criminale, i quali confermavano tutti quasi gli antichi abusi, come l’amovibilità dei giudici, l’enormità delle tasse giudiziarie, l’appellazione dalla cosa giudicata al supremo potere dello stato, la conservazione del _foro misto_, pel quale i laici vengono sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica, anche in affari civili; il segreto dei dibattimenti davanti ai tribunali criminali, la procedura sommaria nei delitti politici, la moltiplicità dei tribunali privilegiati, le commissioni speciali o politiche, il _santo ufficio!_ Le provincie non poteano aderire a siffatte disposizioni; contro ad esse il corpo degli avvocati, la guardia nazionale e tutti gli ordini del popolo protestarono altamente. Per superare questa opposizione, la corte di Roma mandò il cardinale Albani, come commissario straordinario delle quattro legazioni, con illimitata facoltà: le forze papaline verso la fine di gennaio 1832 si inoltrarono nella Romagna: a Cesena vennero esse alle mani con una porzione delle guardie nazionali. E questo diede occasione alle truppe austriache d’intervenire nuovamente, e di aiutare il cardinale Albani a stabilire un potere i primi atti del quale furono i massacri di Cesena e Forlì, lo scioglimento della guardia nazionale, la creazione di un tribunal speciale, e la condanna arbitraria di un grosso numero di cittadini. Il gabinetto francese, preseduto allora da Casimiro Perrier, giudicò doversi spedire un’armatetta ad Ancona, tanto per contrabilanciare l’autorità dell’Austria in Italia, ed assicurare l’indipendenza degli stati della Chiesa, quanto per costringere il papa, come ebbe a dire Perrier stesso nella seduta della camera del 7 marzo 1832, ad introdurre nell’amministrazione del regno miglioramenti reali, e certi, e tali «che stabilissero la sicurezza della santa sede sopra basi più salde, che quella d’una repressione periodica, ed assicurassero permanentemente la tranquillità delle popolazioni, soddisfacendo a legittimi bisogni e ragionevoli desiderii.» La popolazione d’Ancona, interpretando seriamente quest’occupazione della città loro per le truppe francesi, non potea immaginarsi che il governo papale verrebbe ristabilito prima di subire alcune riforme. E perciò fece essa, per atto solenne, presentare al delegato apostolico una rimostranza, e chiedere buone leggi, inviolabili guarentigie ed una savia distribuzione di poteri. Questa domanda era basata sulle parole proprie del re de’ Francesi, pronunciate all’aprimento delle camere, e sul _memorandum_ 21 maggio 1831. Una simile supplica venne pure dirizzata al generale Cubières perchè la raccomandasse al suo governo. In risposta a questa domanda però il santo padre fulminò una bolla di scomunica contro gli Anconitani; ed il governo papale d’allora in poi è andato sempre più a ritroso. Così tutte le nomine dei consiglieri comunali delle legazioni di Ravenna e Forlì vennero cassate, quantunque fatte secondo i principii dell’editto papale e coll’approvazione del cardinale segretario di stato; e furono ai consiglieri destituiti surrogate persone elette a dispetto delle regole dalla legge stabilite. Questi atti illegali provocaron talmente le Romagne, che, ad onta della presenza degli Austriaci, il popolo assalì la forza pubblica, i consiglieri dismessi protestarono, ed i nuovi rifiutarono l’ufficio. Il governo fece sostenere gli uni e gli altri, e per soprassello, parecchi altri cittadini, fra cui alcuni ecclesiastici, per aver eglino disapprovati siffatti arbitrii. La nomina dei consiglieri comunali e provinciali di Bologna non fu manco arbitraria: ma le rinuncie furono tanto numerose e tanto spesso ripetute, che la corte di Roma si trovò costretta di promulgare una enciclica sotto il giorno 10 aprile 1832, per la quale le attribuzioni dei consiglieri venivano ancor più limitate. Disponeva essa: 1.º che non sarebbe accettata alcuna rinuncia di consiglieri; 2.º che le adunanze dei Consigli sarebber valide e legali, qualunque fosse il numero dei consiglieri presenti; 3.º che qualora i Consigli ricusassero di votar le spese e le imposte comunali e provinciali, ciò sarebbe fatto dalla congregazione governativa. Fu pubblicato inoltre un regolamento sull’istruzione pubblica, specialmente nocivo all’università di Bologna, da secoli celebratissima: il debito pubblico fu aumentato: _prestiti forzati_ vennero imposti: fu organizzata una specie di pubblico assassinio mediante la creazione dei _centurioni_, o _volontari pontificii_, i quali perpetrarono atrocissime cose sulle persone dei liberali: fu assoldata una legione straniera, composta di cinquemila Svizzeri, gravosissima allo stato. I consigli provinciali di Bologna, di Perugia, della Romagna, benchè nominati dal governo, non indugiarono a mandare a Roma istanze di riforma, umilissime, moderatissime: ma Roma fece ad esse pure la sorda. L’andamento del governo pontificio era tanto opposto ai veri interessi delle provincie ed alle promesse fatte nel 1831, che il ministro inglese, lord Seymour, il quale era intervenuto alla conferenza di Roma, se ne partì per ordine del gabinetto britannico, indirizzando ai rappresentanti delle altre potenze la famosa nota del 7 settembre 1832, nella quale, fra le altre, occorrono le seguenti parole: «..... I rappresentanti delle cinque potenze non durarono molta pena a discoprire i vizi principali del sistema amministrativo di Roma, e ad additarne gli opportuni rimedi. In maggio 1831 presentarono essi al governo pontificio un memoriale contenente le miglioranze le quali eglino unanimemente riconobbero, e dichiararono essere _indispensabili alla tranquillità dello stato della Chiesa_. Meglio di quattordici mesi sono trascorsi dalla presentazione di questo memoriale (_memorandum_) e _nessuna delle raccomandazioni_ nel medesimo contenute è stata ancora eseguita ed accettata dal governo papale; anzi gli editti preparati, o pubblicati, nel mentre dichiarano che qualcuna di queste raccomandazioni sta per essere attuata, _differiscono essenzialmente_ dalle provvisioni nel memoriale registrate». Lord Seymour avea piucchè ragione: le riforme suggerite nel _memorandum_ 21 maggio non furono mai concesse; e noi abbiamo già avvertito che l’editto di luglio soppresse nell’istituzione dei Consigli municipali il più importante principio, quello, cioè, dell’elezione popolare. In quanto alla secolarizzazione delle magistrature, la santa sede non volle mai udir ragione. Anzi il cardinal Lambruschini, attuale segretario di stato, abolì la sola innovazione operata dal cardinal Bernetti intorno la nomina dei pro-legati, o governatori laici delle provincie: dimodochè colla notificazione 30 giugno 1836, la quale ristabilì i cardinali legati nelle quattro legazioni, fu ripristinato il governo papale nella precisa condizione in cui la rivoluzione del 1831 ebbe a trovarlo. L’esclusione dei laici non si restringe agli uffici del governo. I tribunali supremi di Roma, l’A. C., la Rota, la Segnatura, la sagra Consulta, ecc., sono composti di soli prelati. I laici sono pure esclusi dalla segretaria di stato, dalla tesoreria, dal _buon governo_, ed anche dalla direzione superiore del ministero della guerra. E finalmente gli ecclesiastici preponderano sui laici anche nella corte di revisione dei conti, istituita dall’editto 31 novembre 1831, la quale è composta di quattro prelati e quattro laici, sotto la presidenza di un cardinale, che, nel caso di un’uguale divisione di voti, determina la maggioranza col voto proprio. Ma d’altra parte, qual pro’ fa mai questa istituzione (la quale è nulladimeno una fra le meglio ordinate), standosene tutta da sè, in un paese in cui le leggi relative alla determinazione e ripartizione delle imposte sono arbitrarie ed improvide, il tesoriere o ministro di finanza senza risponsabilità, il dilapidamento dei denari pubblici inevitabile, perchè cominciando esso da chi non può essere giudicato nè punito, finisce negli ufficiali subalterni, dei quali il maggior numero è in odore di venalità e d’incapacità? La sola legislazione criminale è stata modificata in questo, ch’ora vi sono un codice penale ed un codice di procedura criminale, laddove prima della rivoluzione del 1831 non vi aveva che i diversi _bandi_ dei legati, ed una specie di procedura tradizionale. Ma quanti abusi e vizi intollerabili non racchiudonsi in questi nuovi codici! Noi ci contentiamo di notare che il codice penale ristabilisce la confisca per delitti politici, prodiga la pena di morte e quella dei lavori forzati a perpetuità, e commina la pena delle galere fino alla semplice corrispondenza politica di un individuo con un membro qualunque di una società segreta. Il codice di procedura non offre alcuna garanzia agli accusati, specialmente agli accusati di crimenlese. Gl’imputati politici non hanno nemmeno il diritto di scegliersi un difensore, e non vengono confrontati coi testimoni; la sentenza è inappellabile; il processo segreto è sommario; i dibattimenti a porte chiuse. Il codice civile, cotanto importante, non è ancora promulgato. Onde che la legislazione degli stati pontificii consiste delle antiche leggi romane, del diritto canonico, delle costituzioni apostoliche e di alcune disposizioni del _motuproprio_ di Gregorio XVI pubblicato nel 1834; disposizioni le quali modificano il diritto romano, specialmente in ciò che riguarda le successioni, dove i maschi sono smisuratamente favoreggiati a pregiudizio delle femmine. Quel _motuproprio_ contiene pure l’organizzazione giudiziaria, la quale lascia sussistere i tribunali civili supremi della capitale, da noi già mentovati, tutti composti di soli prelati, i tribunali dei vescovi, il tribunale del vicariato di Roma, e parecchie altre ecclesiastiche giurisdizioni, le quali hanno, fra gli altri privilegi, quello di giudicare i laici, anche negli affari civili. Tale era la condizione miserabile di quel paese. Pure, ad onta dei gravi disordini dell’amministrazione e degli innumerevoli mali ch’esse dovevano sopportare, le provincie sopportavano pazientemente, imaginandosi che lo stendardo tricolore che sventolava sull’Italia avrebbe, tosto o tardi, condotto la santa sede a sciogliere la data fede. Ma gli uomini, nelle cui mani era caduta la somma delle cose francesi nel 1838, invece d’imitare Thiers, il quale nel 1836 ricusò d’evacuare Ancona, sgombrarono quel posto importante senza che il papa avesse concedute le promesse riforme, o data alcuna garanzia pel futuro. Allora videro le popolazioni chiaramente che non dovevano far calcolo che sulle proprie forze, se pur volevano riconquistare le loro franchigie. Un tentativo d’insurrezione si fece in Bologna nel 1843. Le cause che l’arrestarono son notorie. Roma avrebbe dovuto aprire gli occhi alfine, e soddisfare i bisogni ed i voti onesti delle popolazioni; ma non fece niente altro, che incrudelire su chi aveva messo mano a quel moto, e incaponire sempre più a non toglierne le cagioni. Invece di alquanto sgravare i sudditi, il governo accrebbe il peso delle contribuzioni a loro imposte: invece di porre le finanze in ordine, aumentò il _deficit_ ed il debito pubblico: invece d’incoraggiare l’agricoltura, il commercio, l’industria, il progresso delle scienze e delle arti, lasciò il popolo scioperato, inceppò il corso dei buoni studi, censurò i congressi scientifici, s’oppose alla costruzione delle strade ferrate, e pose incagli all’introduzione degli utili ritrovati. Per compiere questa pittura aggiungeremo che Roma non solo conservò i tribunali politici, le giurisdizioni ecclesiastiche, l’Inquisizione, ma creò inoltre commissioni militari, le quali furono prodighe oltre misura della pena di morte contro ogni principio di giustizia e d’umanità; conciossiachè la morte inflitta da tribunali militari, dopo uno sommaria procedura, senz’alcuna delle guarentigie riconosciute dalle leggi di tutte le nazioni incivilite, non può chiamarsi atto di giustizia, ma bensì giudiziale assassinamento. Quindi è che il malcontento è universale: le persecuzioni incessanti, le prigioni piene a ribocco, e i rifuggenti a strani asili sempre più numerosi. Un tale stato di cose non può durar lungamente; se non vi si apporta qualche alleviamento e rimedio, questo turbamento si estenderà e radicherà non solo negli stati del papa, ma nel resto d’Italia ancora. Non mi tratterrò a dimostrare quanto l’onore e l’interesse della Francia siano compromessi nella presente quistione. Basta leggere i brillanti discorsi pronunciati in occasione dell’evacuazione d’Ancona dai signori Guizot e Duchâtel, attuali ministri, e dai signori Thiers, duca di Broglio, Villemain, de Vatry ed altri molti oratori eminenti delle due Camere per chiarirsene. Spero che il governo francese non vorrà abbandonare del tutto quelle misere popolazioni, i cui numerosi e giusti richiami contro l’amministrazione papale gli sono notissimi. Spero che l’attual ministro di Francia presso la corte di Roma volgerà tutta la sua influenza e diplomatica perizia a favore del paese suo nativo, onde conseguisca le necessarie riforme. Ma non conviene che gl’Italiani si nutrano di illusorie speranze. Essi debbono far valere la loro causa con prudenza politica non meno che con energia e perseveranza, aver di mira il bene della loro patria, e non il successo di un sistema o di un partito, e ricordarsi che senza concordia, e soprattutto senza unione, l’Italia non potrà giammai superare i grandi ostacoli che le attraversano le vie alla sua rigenerazione ed alla sua felicità. Parigi, settembre 1845. LETTERA del reverendo ORAZIO BUSHNELL DOTTORE DI TEOLOGIA DI HARTFORD, STATI UNITI D’AMERICA AL ROMANO PONTEFICE GREGORIO XVI. _Venerando Pontefice!_ So che queste mia lettera non verrà da voi bene accolta. Io parlerò in essa schietto e senza sospezione che l’eminente dignità vostra mi assoggetti ad una indebita ritenutezza; ma parlerò in guisa che, se talvolta sembrassi vostro avversatore, voi, nullameno, possiate riconoscermi avversatore rispettoso e liberale.... E sta bene l’aggiungere che nel fare il giro dell’Italia, il quale ho testè compito, io non adempiva ad alcun incarico dell’alleanza cristiana. Ma venni a voi semplicemente, come la comune dei viaggiatori fa, benchè non scevro di dubbio, per lo stile del vostro breve (contro l’_Alleanza medesima_ 8 _maggio_ 1844), ch’io dovessi ad un abbaglio di polizia la permissione avutane di passare. Vidi naturalmente quel che si offerse agli occhi miei: investigai, come ogni intelligente viaggiatore suol fare, e forse con una non ordinaria diligenza, e niente mi riuscì più gradito, che di rinvenire alcune cose per le quali il mio giudizio del vostro sistema potea essere alquanto raddolcito; e quando poi giunsi a scoprirvi parti eccellenti e belle veramente, ebbi a provarne un purissimo contento. Eppure ne ritorno collo spirito afflitissimo del tristo spettacolo che ho visto: la lugubre imagine del vostro stato m’insegue dappertutto: e se mi assido a scrivere questa rimostranza, il fo nella speranza delle benedizioni che sono promesse a chi visita coloro che gemon nelle carceri, e ad essi ministra... E prima di tutto deggio protestare contro al disonore che voi fate alla religione per quella specie di civil governo che voi, congiuntamente col vostro spirituale officio, sostenete. Egli è, per non dire altro, un fatto molto straordinario questo, che voi, il quale vi chiamate ministro, anzi vicario di Cristo, siate diventato appunto quel regal personaggio, quel re, il quale Cristo non volle a niun modo essere. Tale però voi siete, e di questo la responsabilità grava le vostre spalle; responsabilità la quale dee misurarsi non solo dall’estensione del poter vostro, ma, e molto più, dalla santità delle vostre pretensioni. Voi vi dichiarate capo della Chiesa di Cristo... e pure voi avete fama d’essere capo del pessimo governo di tutta Cristianità[10]. Al viaggiatore che attraversa gli stati vostri, nulla si appresenta che indichi prosperità o contentezza: niun segno di miglioramento gli rallegra la vista, che non sia smentito da segni di scadimento e ruina. Come la mesta Campagna, regione un tempo di fertilità e di vita, accerchia Roma di silenzio e desolazione, così, politicamente parlando, ogni cosa vostra che partecipi della natura della speranza, della bellezza sociale, del pubblico avanzamento, langue e disseccasi nell’aere maligno del vostro sacerdotale dispotismo. I vostri ministri, benchè tutti assoluti, non hanno alcuna determinata sfera d’azione, nè sottostanno ad alcuna responsabilità. Nei decreti loro contraddicono l’un l’altro e voi medesimo, usurpando anche le attribuzioni delle corti di giustizia per opposte vie, come queste alla loro volta violano la giurisdizione e le decisioni l’una dell’altra. L’obbedienza è perplessa e schernita, ed il torto, circondato da tante emole magistrature, le quali dovrebbero esserne i vindici, è costretto a comperarsi la sua riparazione a tal costo, che il pubblico rimedio riesce spesso peggiore e più crudele della privata ingiuria. Perchè ogni centro di potere, eccettuatine pochi, è la sede di qualche imbroglio, e bazzicanvi dattorno creature d’amendue i sessi, le quali sanno colla chiave di sporchi e criminosi segreti, o per virtù di ben noti articoli di società, aprire e chiudere a loro talento le porte del favore. L’innocenza non è protezione, perchè i vostri processi criminali sono segreti, come tutte le opere delle tenebre. Se uno ha beni non gli resta altro scampo che quello di correre arditamente l’arringo, e scapparne fuori con quel che gli può rimanere, oppure d’aprirsi sordamente la via con gl’intrighi e le subornazioni. Il dar saggio di ingegno crea, a chi non è nel sacerdozio, sospetti e pericoli: spie se ne stanno in agguato per una qualche mercede, e l’esilio non si fa lungamente attendere. Il vostro clero ambizioso e vorace ha invaso non solo le chiese ed i monasteri, ma ancora gli stadi dell’educazione, le corti di giustizia e tutte le magistrature maggiori: fino il ministro della guerra deve essere un prelato. Ogni nutritiva ed eccitante speranza è perciò tolta alla gioventù. Niuna via ad avanzamento è schiusa, eccetto quella cui si entra per la umil porta della dipendenza ecclesiastica: lo che disanima ogni magnanimo conato, e volge tutti i rivoli dell’ambizione entro lo stagno dell’ipocrisia, il più vile de’ peccati. Mai non potrò obbliare il mesto sguardo di un brillante e compito giovane quando mi disse: «Alcuna speranza, signore, non v’ha qui per noi: i preti ci hanno tolto ogni cosa». Frattanto voi avete l’esercizio dei più proficui negozi venduto, come monopolii. Il traffico di contrabbando, che a quelli tien dietro in lucro, è pur esso virtualmente venduto, essendo i dazi da cui procede tenuti alti, come ne corre voce fra le persone più gravi, per un continuo intrigo dei contrabbandieri con certuni presso del governo. Quel che ne rimane dopo che la cortigianerìa ha esausto i suoi sorrisi, e l’astuzia la sua cupidigia, va a nutrire l’onesta industria. Il lavoro manuale poi, essendo naturalmente la più indifesa delle potenze sociali, giace depresso più disperatamente ed angosciosamente d’ogni altra. E per timore che la miseria alzi il sospiro dell’impazienza, o l’infortunio sprigioni il non permesso gemito, voi stanziate nelle vostre impoverite e scorate provincie un esercito di soldati grosso abbastanza per contenere un impero in pace. Indi imponete loro un altro esercito di ecclesiastici fuori affatto di misura coi mezzi, e, vorrei sperare ancora, coi peccati di esse (a Roma si conta un ecclesiastico fra ventotto abitanti), il quale di necessità viene, come il primo, sostentato dalla borsa del popolo: e poi, quasi che la terra non fornisse ministri di concussione abbastanza, voi mettete a quartieri in quelle un terzo esercito di santi, flagello pessimo e terribilissimo; perchè santi ogni terzo giorno di lavoro scendono dal cielo a legare le mani all’industria. Forse i vostri popoli sorreggersi potrebbero, se non prosperare, al peso delle vostre terrene concussioni. Ma quando il cielo stesso vien giù a deluderli, ogni loro sforzo sarebbe insufficiente. Quale popolazione, infatti, privata di una terza parte della sua industria, quale popolazione educata alla scioperatezza e spinta a gironzar per le vie, come la vostra fa nei dì feriati, ed in questa guisa a consumare un terzo del suo tempo in un _legale far niente_, potrebbe lungamente ritenere qualche vestigio di prosperità o savia economia? In verità io non ebbi mai un’idea così magnifica della liberalità della natura, che allorquando rimirai l’innumerabile esercito di consumatori il quale voi avevate potuto condurre alla preda senza lasciarvi dietro le spalle una fame ed una mortalità universale. Per fornire questa miseranda pittura non mi è duopo d’aggiungere altro se non che voi avete aduggiato le abitazioni del vostro popolo, e resele aride di consolazione. Perchè è quivi che gli oppressi degli altri paesi ponno sempre temperare colla libertà e nell’espansione dell’amore e delle simpatie domestiche l’amaritudine delle loro afflizioni. Ma da voi i vostri confessori vanno sempre, come i vostri agenti di polizia, rovistando sintomi di scontento, ed odorando, per dir così, in ogni canto le ansie meditazioni della sventura. Spesso a Roma sentiva io vantarsi che i vostri preti formano una così mirabil polizia! Voi intromettete un confessore tra moglie e marito, e tra loro due ed i loro figliuoli; talchè, se questi biasciano un libero motto, o prorompono in un sospiro a mensa, sanno già che un invisibile orecchio gli avrà intesi; ed allora, se scansano la prigione, proveranno ciò che sia l’obliterare colle penitenze l’angoscia ch’ei cercarono d’alleggerire colle parole. Conseguentemente è loro mestieri di chiudersi in petto i pensieri loro, di non confidare l’uno nell’altro: al focolare non v’è libertà, la mensa è un circolo di spioni, e l’ultima gocciola di consolazione che il cielo concede in alleviamento dei dolori dell’oppressione, è così dissipata. Laonde avviene di necessità che il carattere del vostro popolo è tanto depresso, quanto lo sono le sue economiche circostanze: del che nessun viaggiatore sta lungamente in forse. Poichè egli osserva più di tutto la generalmente bella forma della gente, lo sguardo brillante ed intelligente, tanto ad essa comune; ma una breve ora gli basta poi per discoprire in essa una malinconica assenza di tuttociò che tira al generoso. I vostri sudditi sono appassionati, facili alle ire, servili, vendicativi, e tristamente sforniti d’industria, di ordine, di previdenza. Non dico questo di tutti, ma dei più; e ne do carico a voi, che, regnando sopra di loro in nome di una religione che promette di esaltar l’uomo ad una divina immagine, gli avete avvallati anche al di sotto della loro animale natura, ridotti ad una più profonda ignominia, che il peccato, senza di voi, non avrebbe fatto. E non si fu per qualche penosa consapevolezza di queste cose che voi v’induceste a stabilire un più generale sistema di educazione? Ero lì per ringraziarvene; ma perchè, quando volete compiere un dovere che ha qualche cosa di cristiano in sè, accoppiate ad esso un qualche segno opposto all’indole del cristianesimo? Perchè, per esempio, insegnate voi, per quel che mi fu detto, la geografia d’Italia, e proibite quella del mondo? Perchè temete voi di far conoscere al popol vostro quel mondo il quale Cristo imprese di rendere una sola confraternita nel Vero? Forse perchè non venga in esso a destarsi qualche ubbiosa veglia di libertà o di lume, conoscendo la più nobile istoria e la più felice condizione d’altri popoli? Voi avete pure una gazzetta piccina come la vostra geografia; appena grande quanto una lastra di vetro, e singolare per questo soltanto, che tuttociò che potrebbe in alcuna guisa occasionare una riflessione, ne è diligentemente escluso. Anzi la via più corta ad un Romano per sapere ciò che avvenga in Italia stessa, è quella di prendere una gazzetta inglese o francese. È dunque per siffatti modi o stromenti che voi sperate di purgare il carattere del vostro popolo ed il diffamato nome del vostro governo? Siete voi cieco a tal punto, che pensiate di poter fare uomini dei vostri sudditi, in questo secolo senza lumi, senza notizia del mondo, degl’imperi nei quali è spartito, e delle istituzioni che differenziano questi imperi medesimi? Queste censure del vostro governo potrebbero per avventura essere in alcuni particolari erronee: ma la loro giustezza in genere è manifesta al vostro popolo stesso ed a tutti i viaggiatori. Forse voi, rispondendo, addurrete la separazione del vostro civile governo dall’ecclesiastico, per cui ogni apparente menda di quello debba considerarsi da sè stessa, ed attribuirsi a cagioni istoriche distinte dalla vostra religione. Ma si troverà, al contrario, che ciascuna delle note di civile abbassamento, da me indicate, se ne scorrerete la lista, è una legittima conseguenza di cause ecclesiastiche, e niente altro. E di ciò potrei fornirvi anche una prova statistica: perchè non ha molto che ho visto provarsi da un curioso confronto di dati statistici, quantunque il documento non siami ora accessibile, che la pochezza delle esportazioni dai differenti Stati d’Italia, la mancanza di educazione, la gravezza delle imposte, il numero dei delitti e dei bastardi stava in istrettissimo rapporto coll’abbondanza degli ecclesiastici! Roma, la città spirituale, la metropoli della Chiesa di Dio, ha più ecclesiastici di ogni altra, ed è perciò pessima e vilissima sopra ogni altra italiana città! Voglia Dio concedervi qualche cristiana sensibilità perchè piagniate di un fatto tanto umiliante! Considerate un momento la posizione vostra rispetto a noi ed al mondo. Noi vi veggiamo esercitare un poter regale: voi ci dite ancora di essere il primo vescovo della Chiesa di Dio ed il rappresentante di Cristo in terra. Noi ci aspettiamo però da voi il più benigno governo del mondo, la nazione più illuminata, magnanima, libera e felice. Invece voi svergognate pubblicamente la religione di Cristo col fare che ogni bene sociale sia per essa aduggiato. Tutti i calcoli fondati sulla benignità della virtù cristiana si trovano costì erronei, e non ci resta che d’inferire, che, se Cristo veramente è rappresentato da voi, Cristo è il più fatale ostacolo al miglioramento ed alla felicità del genere umano. L’induzione è irresistibile, e, quel che è più, si fa. Protesto io perciò in nome del mondo cristiano contro i falli per i quali voi fornite al mondo un tanto funesto argomento. Io nè dico, nè credo che voi siate un tiranno, nè so che alcuno dei vostri sudditi vi giudichi tale. Ma la gran disgrazia è che la vostra ecclesiastico-civile architettura v’ha assegnato un posto che è il posto soltanto di un tiranno. Perchè voi siete dall’ufficio vostro locato nel centro di un sistema di oppressione, onde lo governiate; dimodochè, se non abbondate nell’esercizio dell’officio stesso in prove di misericordia, che equivalgano ad una rivolta contro quel sistema, voi fate il déspoto, benchè con tanta più bella maniera, quanto più sono le vostre intenzioni umane. Voi siete chiamato, nello stile ufficiale, il _papa_, cioè il padre del vostro popolo; e non dubito che questo titolo non vi riesca carissimo; e volesse il Cielo che la vostra infelice ignoranza di una così bella connessità non rendesse a voi più facile l’ingannarvi in questo, che altrimenti non avverrebbe! Ma dove sono gl’indizi di quella scambievole confidenza, di quella scioltezza di modi, di quella tenerezza di protezione corrisposta da altrettanta tenerezza di rispetto, che contradistinguono i rapporti di una vera paternità? È egli paterno l’andare in chiesa, come voi fate, per mezzo due file di soldati? È egli paterno l’assoldare, come voi fate, reggimenti mercenari, perchè non osate fidarvi del vostro popolo? Tratto tratto scoppianvi intorno rivoluzioni, e voi mandate a chiamare le truppe austriache onde vi proteggano da disfatta e da espulsione. E si sa già dal mondo intero, e da voi meglio che da tutti, che non v’ha giorno nel calendario nel quale il vostro popolo, se fosse lasciato fare, non vi caccerebbe d’Italia. In questo io non ravviso niente di paterno; ed invano cerco qualche scena di paterna benignità in cui voi accoglieste i vostri figli al seno in libertà, e riceveste le figliali loro tenerezze. Quel che ho scoperto di più somiglievole a ciò è quando voi siete visto per l’aria portato al di sopra di loro, trinciando benedizioni. Ma tosto che questa pompa è finita, voi scappite dentro i recessi del Vaticano come un oriental tiranno, con intorno sentinelle che proteggano i vostri sonni. Che se una qualche rivoluzione avesse a scoppiare prima dell’alba, voi avete sotto il guanciale la chiave di una porta di soccorso, ed una coperta galleria murata in aria, lunga mezzo miglio, per cui potreste sbiettarvela entro Castel Sant’Angelo e rifugiarvi dietro le sue artiglierie. Colà, colla miccia in mano, Vostra Paternità attenderebbe i suoi figli per carezzarli.... Londra, aprile 1846. INDIRIZZO AI REVERENDI PRELATI MONSIGNOR JANNI UDITOR SANTISSIMO E RUFFINI FISCALE GENERALE Quando voi moveste dalla capitale alla volta di queste provincie, vi precorse una voce, la quale diceva: essere voi deputati a consultare le popolazioni intorno ai loro bisogni e alle cagioni del loro malcontento. Strano ufficio in vero, e che avrebbe comprovata nel Governo nostro una maravigliosa ignoranza dello stato positivo de’ paesi a lui soggetti, ma dal quale nondimeno avremmo avuto indizio di buona volontà ne’ reggitori e speranza di lieti successi, perocchè sarebbe stata aperta con ciò la via alle legali rappresentanze, e tolta occasione al protestare violento. Ma da quella opinione fu ben altro l’effetto; ed oggi una voce popolare vi dice: semplici revisori di processi e d’atti giudiziari. Una voce popolare, abbiam detto, perocchè niun atto pubblico fa noto l’oggetto della vostra venuta tra noi, niun appello a niuna classe o corpo di cittadini die’ titolo ad alcuno di presentarvisi e far rimostranze. Siete adunque venuti a far nulla per gl’interessi generali delle popolazioni, poco o niente per qualche diritto o interesse personale che sia stato offeso, come tutto dì avviene nell’amministrazione della giustizia; e Dio pur voglia che, almeno in questa parte, a qualcuno di que’ poveri innocenti, che languono nelle galere per forza d’iniqui giudizi politici, la vostra opera valga la redenzione! Ciò sarebbe per avventura l’unico bene reale che uscir potesse da voi. Sono molti anni che continui mali umori e moti popolari, provanti gravi sofferenze in chi li opera, estrema inciviltà nel governo in cui nascono, affliggono, più o meno, tutto lo stato pontificio. Nè è a dire che que’ moti sieno l’effetto della intemperanza di pochi faziosi. Chi vive nei nostri paesi, e conosce le remote cause e le immediate provocazioni, sa che certi umori sono la espressione di una opinione universale, spinta di tanto in tanto a manifestarsi violentemente dal mal governo di quegli stessi a’ quali starebbe il sacrosanto obbligo di por mano ai rimedi civili del male. A che, con ipocrite e compre parole di giornali, illudere voi medesimi, e tentare di nascondere al mondo, con incomportabili menzogne, le piaghe vostre e de’ sudditi? Oggi che i popoli hanno coscienza di sè, ella è impossibil cosa il governarne a grado vostro i pensieri e i giudizi. L’opinione rende a ciascuno il suo avere secondo I meriti; ed oggi in Italia i popoli pontificii sono compianti pel loro patire, e difesi da pubblicazioni imparziali e documenti, che, dopo fatta la giusta parte del biasimo all’inconsideratezza dei poveri tormentati, consegnano ad eterna infamia le nequizie e gli arbitrii di reggitori spietati ed ipocriti. Quando un governo, dopo tante e così significanti lezioni, prosegue nella sua mala consuetudine, non si possono fare che due supposizioni: o che egli non comprenda affatto alcuna ragione di beni e di mali civili, e vada innanzi alla cieca, ignorando i propri doveri, non che i pericoli che gli sovrastanno, o che egli sia coscienziosamente tristo e tirannico, e, a poter perseverare nelle sue voglie malvagie, fidi o nella sua propria o nell’altrui potenza. Sia l’uno, sia l’altro errore che oggi guida la politica della vostra corte, o signori, noi crediamo opportuno l’esporvi senza velo i sentimenti, le speranze, i travagli dei popoli, e recarvi a mente quelle generali condizioni politiche alle quali è forse unicamente raccomandata la vita del governo vostro. I primi potreste ignorarli, e non è meraviglia in chi vive in una capitale non curante ed oziosa; sulle seconde potreste illudervi. Noi saremo franchi e sinceri, senza passione nelle nostre parole, perocchè, forti della ragione e della opinione, non abbiamo bisogno di esagerare. Signori! chi conosce un poco la storia, e la studia con animo libero da preoccupazioni, comprende che vi sono delle leggi providenziali che si effettuano inevitabilmente nel corso delle cose umane, nè forza di volontà individuale può nulla contr’esse. Quando in sul finire del passato secolo, una grande nazione, venuta alla coscienza di alcune idee e diritti civili, volle scuotere il giogo degli antichi privilegi feudali, le stolte reazioni dell’egoismo de’ nobili e del clero non impedirono la necessità degli eventi, ed altro non fecero che rendere più terribile e profonda la rovina del vecchio edificio. Dio ci guardi dal giustificare gli eccessi della rivoluzione francese; noi rechiamo l’esempio unicamente per dimostrare che la forza delle idee si sa fare la strada a tutti gli ostacoli. Cinquanta in sessant’anni d’esperienze dopo quella grande scossa hanno ammaestrato popoli e re; hanno generato un completo rivolgimento nella natura dei primi e nella politica de’ secondi. Il popolo, oggigiorno, non è più una massa ignorante e passiva, non è più materia maneggiabile a grado di privilegiati e di sovrani. Un medio ceto numeroso, illuminato, potente, depositario delle opinioni civili, delle arti, delle scienze, un popolo che tende per tutto a sollevarsi alle prerogative e ai diritti morali, costituiscono nella attuale società una forza che si va ogni dì più emancipando dalla obbedienza passiva, e forma della pubblica opinione un terribile sindacato al potere. La civile egualità innanzi alle leggi, il diritto politico del cittadino a far sorvegliare per mezzo ai abili rappresentanti gl’interessi comuni dell’associazione alla quale appartiene, il dovere d’ogni nazione di rivendicare sè stessa da tutto ciò che tende a dividerla, a offenderne il ben essere materiale e la moral dignità, a impedirne que’ sociali sviluppamenti a cui è chiamata dalla Provvidenza, sono idee così profondamente impresse nella ragione e coscienza dei popoli, che il non avvertirle non può dipendere che da ignoranza, e il non farne conto, o il volerle rintuzzare, che da una misera illusione ed oltracotanza dell’egoismo governativo. Però i principi e governi illuminati vanno inclinando l’animo a favorire queste necessarie condizioni di vita pei loro stati, e si può dire oramai, che, in mezzo a questo movimento della civiltà europea (a non volere parlare della Russia, che può considerarsi, pei suoi ordini politici e pe’ suoi modi barbarici, fuori d’ogni questione civile), non rimane addietro che l’Austria, nella sua decrepita vecchiezza, e qualche piccolo stato italiano, che raccomanda il filo della debole sua vita al simulacro cadente dell’Impero. Il nostro governo è nel novero di questi servitori dello straniero in Italia. Signori! le garantie civili, che assicurano il morale esercizio della libertà privata e la reciproca indipendenza de’ consociati; le franchigie politiche, che somministrano alla volontà illuminata delle nazioni i mezzi di manifestarsi e di agire; il buon ordinamento degli studii, necessari a tutti i più nobili perfezionamenti delle società, e pe’ quali la pubblica opinione acquista i mezzi di migliorarsi e di progredire; e, dietro a ciò, lo sviluppamento della liberalità commerciale, delle istituzioni animatrici, della produzione agricola e manifatturiera, la moralità e l’istruzione delle classi inferiori, e le providenze opportune a sollevarle dall’abbiezione in cui vivono, tutto questo forma, presso a poco, il programma del liberalismo. Non si tratta di sovvertire la società ma sì bene di migliorarla, non di annientare il sentimento dei doveri religiosi, morali e civili, ma di avvalorarne negli animi la dignità e guarentirne l’osservanza. Ciò non si ottiene dai popoli coll’avvilirli e renderli poveri e schiavi, sì bene col sottrarli, per quanto è possibile, alle abbiezioni delle necessità materiali, ed elevarli alla vita dello spirito, all’intelligenza de’ rapporti e doveri sociali. Ora, rispondeteci in coscienza: questi desiderii, queste speranze del liberalismo vi sembrano elle un bene o un male? Non sono anzi le condizioni essenziali della vera moralità, della vera religione? Credete voi che possa comprendere la dignità della religione di Cristo l’anima dello schiavo? Che possa innalzarsi al sentimento dei doveri religiosi l’uomo nel quale cercate di spegnere il sentimento dei doveri verso la patria, verso la propria nazione? Sì, o signori, noi lo proclamiamo altamente; se il liberalismo consiste nell’amore della nostra nazione, nella speranza della sua indipendenza, dell’associazione dei suoi interessi economici e morali, nel desiderio d’istituzioni che assicurino i progressi della intelligenza o della moralità, che aumentino coll’agiatezza la civiltà, che con larghe e ben regolate leggi economiche ci ritornino nello splendore dei nostri antichi commerci, che, offrendo al povero popolo mezzi d’istruzione, di lavoro, di risparmio, lo educhino alla moralità degli affetti domestici, e ne innalzino l’anima al concetto di una Provvidenza che si occupa delle sue miserie, se questo è liberalismo, noi lo proclamiamo in faccia a tutta l’umanità e nel cospetto di Dio, siamo liberali. Noi comprendiamo che questo nome possa parere una bestemmia a qualche appaltatore di gabelle pontificie, a qualche monsignore, che speri, col non saper far nulla, essersi acquistato merito ad una delegazione o ad un cappello cardinalizio, e non pensi che ad impinguare la propria famiglia delle ricchezze dello stato; ma per noi popolo, questo nome è cosa grande, che ci lega a tutte le più care speranze, a’ più elevati destini, ai quali la Provvidenza chiama l’umanità. Ora dimanderemo a voi che cosa fa il governo pontificio, non già in fatto di riforme politiche (chè potrebbe parere un sogno il pretendere una costituzione dal papa), ma almeno in favore di quegl’interessi economici e civili che, senza scemare menomamente il potere assoluto, assicurano anzi, col ben essere e la tranquillità dei sudditi, la esistenza medesima d’un governo? Da quali norme di ragione e di giustizia, da quali lumi è guidato nel regime dei popoli alla sua cura commessi? Signori, nell’attuale movimento degl’interessi civili ed economici delle varie nazioni, colle strette attinenze che si vanno generando fra popolo e popolo per la necessità delle comunicazioni, e pei rapporti delle industrie e dei commerci reciproci, il primo dovere di un governo che non voglia rovinare prima i suoi sudditi e poi sè stesso, si è quello di studiar bene la suscettibilità produttiva e la posizione relativa dei propri stati, onde adattarvi un conveniente ordinamento di leggi industriali e commerciali, ed assicurare per tal modo il ben essere della popolazione nelle sue classi diverse. Per lo stato pontificio v’ha in ciò, oltre ad un dovere comune di ogni governo rispetto ai governati, un dovere verso tutta la nazione. Il governo nostro sarà tenuto a render conto, non solo ai suoi sudditi, ma a tutta Italia, della sua zotica opposizione a quei miglioramenti economici che sono richiesti dal tempo. La sua contrarietà alle strade ferrate, per citare un esempio, impedendo una spedita comunicazione tra le Due Sicilie e l’Italia settentrionale, è inceppamento grande a quello sviluppo di attività commerciale a cui tendono gli altri stati italiani, e può esser causa alla nazione di perdere molte buone occasioni di risorgimento, e fonte di miserie infinite. Dicasi altrettanto della opposizione che troverebbe una lega doganale italiana presso i nostri governanti, siccome buoni servitori che sono, forse senza avvedersene nè anco, degli interessi austriaci in Italia. Ma torniamo a noi, sui quali ora ricade il maggior peso di questa cattiva economia politica; se pur di tal nome, che suppone scienza, si può chiamare una farragine di disposizioni arbitrarie, non emanate da alcun principio di vera dottrina e di pratica illuminata, protezioni assurde, proibizioni irragionevoli, rovinosi appalti finanziari, monopolii, e tutta la trista schiera delle infelici illusioni del sistema proibitivo. Tutt’i governi civili di Europa hanno conosciuti i danni di questo falso sistema, e vanno emendandosene; anche gli altri principi italiani provvedono ai casi propri con saviezza e coscienza; solo Roma vuol far male per non fare ciò che fanno gli altri; e anche in questo ella è umile discepola dello indietreggiare dell’Austria. Niun altro mezzo poi di miglioramento morale ed economico è incoraggiato, e neppur tollerato tra noi. Si sa l’avversione dei superiori per tutto ciò che puzza d’associazione; bando assoluto adunque a questa idea in qualunque sua applicazione, che è come dire bando ad ogni impresa di migliorazioni agricole o manifatturiere, bando a società di qualunque genere, sieno gravi o dilettevoli, ad accademie scientifiche o letterarie, ad istituzioni filantropiche. Tutte le nostre città, o signori, hanno sofferte ripetute ripulse a tutte le dimande fatte al governo, intorno alle qui riferite cose. Intanto una frequente gioventù, non educata a nobili emulazioni, e veggendosi attraversata ogni generosa ed utile carriera, si abbandona all’ozio, alla sensualità, allo scetticismo; il popolo, nella inoperosità e nella miseria, va perdendo quella seconda vita, che è propria di lui, e che, bene usata da accorti reggitori, potrebbe partorire generosissimi effetti; le classi medie, i possidenti, i negoziatori impoveriscono: scarsi e mal commerciabili i redditi, infiniti i pesi, e con tanta gravezza delle imposte anche indirette, e spesso arbitrarie a carico delle comuni e delle provincie, il governo non basta a sostenere le spese ordinarie, per le quali sole v’ha un notevole _deficit_, senza poi far parola delle truppe estere, che sono altra gravissima sorgente di rovina economica per lo stato, di demoralizzazione, di sozze e crudeli malattie, e di irreligione pel popolo. Se a questo aggiungasi, che quel poco che ci resta è mal guarentito, che la sicurezza del cittadino è disturbata di continuo da aggressioni e ladronecci, per non curanza delle polizie, che hanno occhi soltanto per travedere colpe politiche, anche dove non sono; se aggiungasi che non esiste un codice di leggi bene ordinate e appropriate ai nostri bisogni, che le procedure civili sono lunghe, dispendiosissime, complicate ad arte dal curialismo romano, al quale ne viene affidata la compilazione, voi, o signori, riflettendo a tutto questo con sincero cuore, dovrete convenire di due cose: l’una, che il governo ha offesi sino ad ora enormemente con la sua mala amministrazione gl’interessi dello stato, e questo è un male grande pei sudditi; l’altra, che da tutte queste cagioni debbe necessariamente generarsi nell’animo dei medesimi una immensa disistima verso i reggitori, per la loro poca intelligenza dei buoni ordini civili, e rivolgimento grande di coscienze, per la loro volontaria perseveranza negli errori; e questa seconda cosa è un grandissimo male per il governo; e presto o tardi se ne accorgerà, perchè gli affari del mondo oggidì camminano presto, e guai a chi resta addietro, e per volere star fermo, fa male agli altri. Nondimeno, o signori, se i danni si fermassero qui, i popoli curverebbero forse le spalle, e pazienterebbero. Ma vi ha di peggio assai. Vi ha la polizia con le sue vessazioni politiche, v’ha i commessi, i carabinieri, i volontari, coi loro atti arbitrari, violenti, provocanti l’ira del popolo. Non v’ha peggior cosa per un governo, che questa del permettere gli arbitrii, e levar via dagli animi, esso per primo col proprio esempio, il sentimento della legalità. Se un governo non sa rispettare la legalità, non la rispetteranno certo i suoi sudditi; sono poi un effetto di questa indulgenza del governo all’arbitrio, gli eccessi di una fazione di gente scellerata, che vive dello spionaggio, che si arricchisce di ogni falso allarme dei governanti, e però soffia nel fuoco, provoca, attizza; ne sono un effetto gli operamenti delle commissioni; e se avete sindacati con coscienza i loro processi, se vi siete informati nei nostri paesi della loro condotta, saprete meglio di noi che cosa siano. Noi possiam dirvi (unico compenso nella nostra sventura) che l’infamia delle medesime, la qual tutta ridonda a vergogna di chi le permise ed incoraggiò, è oggi pubblicamente nota per le stampe; e perchè sappiate che giudizio fanno di siffatte cose i pensatori anche i più moderati, e per non ripetere più a lungo cose note e dette da altri, noi vi rimettiamo ad un libro che tramanderà ai posteri la memoria di questi obbrobrii; un libro di un uomo generoso, il marchese Massimo d’Azeglio, conosciuto e amato da tutta Italia pei suoi meriti letterari ed artistici, e per le sue alte virtù civili. Signori! quest’uomo, al nome del quale rispondono con viva gratitudine i cuori d’un intero popolo, assunse spontaneamente la nostra difesa, come si piglia dai generosi la difesa della sventura. In quel suo libro, al quale noi tutti possiamo fare testimonianza, ei dice la verità, ma non dice tutto, perchè bisogna vivere e soffrire lungo tempo nei nostri paesi, per poterlo dire. Voi vedrete da quel libro che, se qualche centinaio di tribolati ha protestato violentemente contro la persecuzione e l’ingiustizia, ciò avvenne dopo tali provocazioni, che fanno ricadere tutta la responsabilità di quei fatti sul capo di chi ci governa. E se quei pochi si mossero per non saper soffrire, gli altri, e son tutti, sapete perchè non favorirono il movimento? Perchè non era tempo; perchè, più dalle proprie scontentezze, prendon norma dagl’interessi italiani, perchè Italia e la sua indipendenza ci sta in cuore più dei nostri particolari bisogni. Signori! una tale situazione è grave pei sudditi, gravissima pel governo. Il male ha profonde radici, nè i modi estraordinari e tirannici di repressione, le carceri, i patiboli valgono ad annichilire le idee, sibbene a concitare le passioni. Noi abbiamo detto in principio, che un grande cangiamento si è operato nella natura dei popoli, e che i re hanno imparato, la maggior parte, a rispettare in quelli la dignità d’uomini. Le esorbitanze del potere si fanno ogni dì più infrequenti, e, a parlar solo di cose italiane, i principi della Penisola, più o meno, vanno operando qualche cosa di bene. L’agricoltura, l’industria, il commercio, gli studi, le arti, l’educazione popolare, le istituzioni di pubblica beneficenza fioriscono in Toscana, nelle Due Sicilie e in Lombardia ancora, e sopra tutti in Piemonte. Visitate le città, le borgate, le campagne, e vi troverete frequenti scuole infantili, case di carità e d’industria, uomini di scienza e caritatevoli, parrochi pieni di dottrina, veri ministri del Vangelo, che istruiscono i fanciulli del loro popolo, che predicano l’amore, la fratellanza, la virtù; e da per tutto vita attiva, lavoro, moralità. Signori! nelle nostre città, nelle nostre campagne il popolo è abbandonato alla corruzione e alla miseria. Nelle nostre città si sono uditi vescovi predicare la guerra civile, la crociata contro i liberali; si sono veduti i preti mescolarsi alle misere ire di parte, eccitare la canaglia a furibonde passioni. Non v’ha terra cattolica in cui il prete veramente cristiano sia così raro, come nello stato della chiesa; sono immischiati a tutte le passioni più avare e più sozze di questo basso mondo; e il popolo ne ha mali esempi e scandali, e diviene miscredente. A tutti questi inconvenienti, voi recherete in iscusa questa parola: Le rivoluzioni!... Signori! le rivoluzioni non le fanno i popoli ben governati. Costa assai una rivoluzione, perchè un popolo vi si precipiti entro, senza gravissime cagioni; e sono queste cagioni che i governi savi cercano di torre via. I popoli pontificii hanno diritto di fare un confronto tra i procedimenti degli altri governi e quelli del proprio; e se, alla vista del progredimento delle condizioni civili dei popoli cristiani in generale, e degli stati italiani in particolare, i popoli pontificii dimandano ai loro governanti che cosa hanno fatto dalla restaurazione in poi, noi non sappiamo che risposta potranno dare. Gli studi permessi nelle università possono essere una misura delle viste scientifiche e civili del nostro governo. Tutte le scienze che servono a formare uomini di stato, o giovano allo sviluppo della vita industriale e commerciale, tutte quelle discipline che eccitano gli animi a sentimenti patrii e generose espansioni, ne sono bandite come una maledizione. Nulla di economia sociale, di diritto pubblico, di storia letteraria, civile e politica italiana, poco di letteratura italiana, e quel poco pedantescamente insegnato, poco o nulla di scienze naturali applicate alle arti, nulla, insomma, di tutto ciò che dà vita e moto all’attuale civiltà. Nondimeno da molti si studia senza il permesso dei superiori; le idee, materia sottilissima, filtrano da tutte le parti, e ciò non fa che accrescere il divorzio tra governo e sudditi. Signori! noi vogliamo concedervi (così tra parentesi) che tutto questo sia un male; che la tendenza delle nazioni ad una vasta associazione d’interessi, che queste industrie, questi commerci, queste garanzie politiche, questa libertà della stampa, questo voler sapere come si è governati, questo volere inframmettersi delle azioni dei principi, che da prima trattavano le loro bisogne con tutto il loro comodo, senza che altri vi ponesse mano, sia un male, una diavoleria. Ma che cosa ci volete fare? ella è divenuta una smania di quasi tutta Europa. Anche la Germania ha voluto la sua lega doganale, e adesso vuole le sue costituzioni. Quella instancabile Polonia risorge sempre più fiera ed eroica dalle sue rovine, e più tempo corre, più si avvalora nella fede de’ suoi santi diritti, più s’inquieta del mercato nefando che d’essa fu fatto. Nè l’Ungherese e il Boemo osservano inerti i magnanimi ardimenti, e l’Austria ha grandi conti da saldare anche a quelle nazioni. E Italia non dorme, e grida allo straniero, e sembra, ora più che mai, rallegrarsi di vicine speranze. Contro questa forza della opinione, che (lasciando la parentesi gesuitica) non è un male, perchè si conforma ai più sacrosanti diritti della umanità, contro questa forza, dico, credete voi che la volontà di pochi, a’ quali tornerebbe a conto il contrario, possa bastare? La storia ha mostrato che questa lotta dell’egoismo de’ pochi contro il diritto di tutti alla perfine va a finir male; e il meglio sarebbe di cedere e rispettare i diritti dei popoli. I governi prudenti lo fan per amore; i meno savi, presto o tardi, sono costretti a farlo per forza. Signori! vi hanno governi protestanti in Europa, e lo diciamo a vergogna de’ governi cattolici, e in particolare del nostro, il quale dovrebbe insegnare la buona via a tutti gli altri, v’hanno governi protestanti, i quali, guidati insieme dal lume della scienza e della carità, non si vergognano, nè si stancano di analizzare e studiare profondamente le miserie sociali onde sono afflitti, e penetrandone le più riposte origini, vanno adoperandosi di medicarli per quanto è da loro. Que’ governi, o signori, rispettano ne’ tumulti popolari il diritto che ha chi soffre di lamentarsi qualche volta. Che cosa fa ora, o signori, l’Inghilterra protestante verso l’infelice Irlanda? non le apparecchia catene, non carceri, non patiboli; ma le dà adito invece a poter manifestare più ordinatamente e con più legalità le proprie piaghe. Il governo inglese sa che i popoli agiscono più tranquillamente quando sono equamente costituiti. Ora a noi. Per quanto il governo si studii di mentire il vero senso de’ moti popolari dello stato, il fatto è che questi moti, e i più recenti in particolare, non significavano altro che un bisogno di riforme economiche e civili. Le dimande espresse nel manifesto pubblicato in Rimini non erano nè eccessivamente ardite, nè contrarie a quelle norme di ragion civile che molti buoni governi, anche assoluti, oggi hanno adottate; e basti l’esempio di Prussia, altro governo protestante, che fa vergogna all’apostolica Roma. Or bene; che cosa hanno fatto i nostri reggitori dal moto di Rimini in poi? Hanno vieppiù aggravata la mano sui sudditi, hanno sparso nuovi semi di malcontento, non solo nelle quattro Legazioni, ma anche nelle Marche e nell’Umbria, con arresti e persecuzioni: non hanno ascoltata alcuna delle fatte dimande, e per tutta ammenda ai mali passati e presenti, mandano voi, o signori, non a raccogliere i voti delle popolazioni, non a studiarne i bisogni, ma a spazzare la polvere degli archivi e a sfogliar processi; e intanto i gravi disordini, gli errori amministrativi d’ogni genere, gli arbitrii e le provocazioni, severe e profonde cagioni del nostro mal essere, rimangono intatti. La vostra missione adunque fu in tutto inutile e ridicola; e noi protestiamo contro la leggerezza di un governo che giuoca spensieratamente, per un male inteso interesse per una inconcepibile mania di opposizione, la quiete, la moralità, la vita de’ suoi sudditi. Signori! Noi vi vogliamo dire, infine, tutta la verità. Non crediate che qui si congiuri e si tramino ascose insidie al potere. Forse i cattivi procedimenti dei nostri rettori andranno movendo, or qua, or là, reazioni e tumulti; ma le quistioni che abbiamo col governo hanno per noi un interesse secondario, e la principale è la questione italiana. Sarebbe inutile di perder tempo ed opera nelle prime, innanzi che la seconda non si maturi. Il giorno che i nostri fratelli italiani crederanno di poter combattere lo straniero, noi li seguiteremo coll’energia di un popolo stanco e indignato; e allora, o signori, tutte le ragioni tra la corte romana e i suoi sudditi saranno in breve pareggiate. Ecco tutto. Questo giorno può essere lontano, ma potrebbe eziandio essere poco remoto. Vi sono grandi probabilità anche per questa seconda combinazione. L’Austria, quest’edificio composto di elementi che ripugnan tra loro, e tenuto insieme sin qui dalla sola forza materiale, nell’interesse di una famiglia sovrana, quest’opera mostruosa dell’ambizione, ha in sè i germi del proprio dissolvimento. D’altronde una grande mutazione si va compiendo nello spirito del popolo italiano. Egli sente il suo avvenire, si riscuote alle memorie gloriose del suo passato, si va educando ai sacrifici, ai martiri, e le vessazioni non fanno che rattemprare vieppiù gli animi, per modo che noi dobbiamo saper grado, in certa maniera, a chi ci fa male. La vita italiana d’oggidì si è dunque elevata al sentimento della nazionalità. L’Italiano non si rifugge più, per evitare il senso delle sue miserie, in uno spensierato sensualismo. Guardate la letteratura, prima espressione del sentire di un popolo. Essa oggi non è più profumata dalle lascivie mitologiche, dalle ridicolezze pastorali dell’Arcadia; ma è piena d’aneliti italiani. L’epoca letteraria presente è un preludio che annunzia le armonie della futura resurrezione. Non v’ha città, non v’ha borgo oggi in Italia, ove ogni ceto non s’interessi delle nazionali speranze, non si accenda ai discorsi o agli scritti generosi di cose patrie. Signori! credete voi che l’egoismo e le profane ambizioni di poche tonache nere, di pochi mantelli prelatizii basteranno a trattenere questo movimento providenziale di un popolo intero? Ora a fronte di questi bisogni, di questi sentimenti, che cosa si vorrebbe fare del suddito pontificio? Un individuo privato di forza e di dignità, un essere passivo che si vuole escludere da ogni cooperazione generosa al ben essere e alla gloria della sua nazione, a cui si impedisce persino l’intervenzione ai congressi scientifici italiani, in cui ogni nobile pensiero, ogni desiderio civile è punito come un delitto. Signori! vi pare egli che ciò possa essere, che ciò possa durare? che anime generose, venute nella coscienza della propria dignità, della propria libertà morale, possano patir questo? Non solamente il nostro governo attraversa ogni via di progresso materiale del quale pur si giovano gli altri sovrani per tenere a bada i popoli, contentandoli in questa più bassa sfera di bisogni; il governo pontificio distruggere vorrebbe sopra tutto ogni dignità civile nei propri sudditi. I più elevati bisogni dell’anima, quei sentimenti pei quali l’uomo si sente partecipe di qualche cosa di più grande, che non è la sua meschina individualità, pei quali patria, nazione sono idee che fanno battere il suo cuore, tutti questi sentimenti sono in diritta opposizione cogl’interessi della corte romana. La censura pontificia non ha voluto passare soventi volte l’attributo d’Italiano, nel suo senso più elevato e nazionale. Deplorabile aberrazione, e che sarà feconda di grandi sventure! Signori! il papato, ne’ bei tempi delle Comuni italiane, fece doppia opera d’indipendenza: liberò la religione dalla soggezione degl’imperatori tedeschi, aiutò le città italiane nella gloriosa fatica della loro emancipazione. Le industrie, i commerci, le arti belle, le lettere fecondarono la rinata civiltà italiana in quei tempi di libertà nazionale, e la civiltà italiana fu la fonte di tutte le civiltà europee. Ciò rese il papato popolare e nazionale nel medio evo. Da che il papato si congiurò negl’interessi dell’assolutismo, e in quelli dell’Austria, divenne odioso, antinazionale. Non solo i suol sudditi, ma tutta la nazione protesta contro quella illiberalità, e questa turpe alleanza del papa cogli stranieri; e tale protesta è terribile. Valga l’ammonizione. Dagli Stati Pontificii, 28 aprile 1846. FINE. INDIRIZZO AL SUCCESSORE DI GREGORIO XVI SCRITTO PER CURA DI UN GALANTUOMO _Diligite justitiam qui judicatis terram._ Gregorio XVI, dopo aver regnato quasi sedici anni, è morto in pochi dì, plaudenti alla sua dipartita da questo mondo forse nove decimi dell’intero suo popolo. Dissero di lui molte vituperevoli cose. Credo calunnioso quello che si riferisce alle lascivie, esagerato quanto si bucinò delle crapulosità, vero del suo egoismo fratesco, dell’animo chiuso alla compassione, degli altri vizi che costituiscono un pessimo re. Tuttavia anche egli avrà il suo apologista; sarà forse il solito francese Artaud, che ha regalato al pubblico tante menzogne su Pio VII, Leone XII e Pio VIII. Per buona sorte i posteri avranno altre storie da leggere su questi papi, che non quelle dateci dal francese scrittore; diversamente, addio verità e buona fede. Ma Gregorio è già stato giudicato da tutt’altri giudici, che non quelli del mondo, e ora sa ben egli se gli sarebbe tornato meglio il conto di essere stato un papa e re galantuomo. Questo mio scritto non ha per iscopo il discorrere della riunione e indipendenza di tutta Italia. Un cambiamento così grande potrà forse accadere, ma siccome io non credo alla distruzione dell’impero austriaco, primo ostacolo per la formazione della nostra nazionalità, così ritengo che dei papi-re ve ne saranno ancora per molto tempo. Fidando però nella soverchiante forza delle attuali circostanze politiche, posso lusingarmi che un papa nuovo o per buona volontà o per proprio interesse debba devenire a cotali miglioramenti civili, da poter dire una volta i suoi popoli che il Governo pontificio non è più finalmente il peggiore regime di quanti ve ne siano al mondo, non esclusi neppure i governi della Turchia e della Russia, se non in modo assoluto per questi ultimi, avuto riguardo almeno al grado progressivo del nostro incivilimento. Papa Gregorio XVI, salito in trono in momenti da far tremare qualunque coraggioso, si dispose a fare qualche miglioramento politico in favore de’ sudditi, e prometteva con molte amorevoli parole un’_era novella_, per isviare forse quella tremenda tempesta che minacciava così appresso il governo pretesco. Era riserbato ai soliti Tedeschi di rassecurarlo, e colla forza fisica far tacere i popoli, e frenarli nelle loro disposizioni. Fu allora che Gregorio dimenticò di aver promesso l’_era_, e se pure pose mano a dare un qualche ordinamento a certe instituzioni, ciò fece perchè da straniera forza vi fu costretto. E così, se ordinò la compilazione di un codice criminale, mentre tutt’ora erano in vigore gl’infami bandi generali, o qualche istruzione circolare pei giudizi criminali, a questo si venne non tanto col saggio fine di abolire gli abusi e l’arbitrio, ma per compilar su all’impazzata quel titolo sui delitti di fellonia, che è una mostruosità pe’ tempi nostri, un vero anacronismo. Dopo che e colla forza straniera e col carcere e coll’esilio di molti il governo papale si vide al sicuro d’ogni pericolo, e quando gli autorevoli stranieri cessarono d’insistere per qualche miglioramento, Gregorio XVI non si occupò più di alcuna utile ordinanza, derogò con secrete e pubbliche circolari a molte di quelle che erano state fatte, ed avendo già dichiarata nulla ed irrita una capitolazione che avea a nome della S. S. segnata l’eminentissimo Benvenuto, si pensava ad innalzar patiboli e mannaie per disfarsi di coloro che avevano sturbata l’antica oziosità de’ preti. Se non che a tanta nequizia si oppose un potente, non so più se per amor di giustizia, o per quella malvagia ipocrisia di che ne’ primordi del suo regno abbisognava. Insomma dalla rivoluzione del 1831 il governo segnò un’epoca di efferata tirannide; l’arbitrio e l’insolenza e l’oppressione furono il carattere politico distintivo del regime pontificio; e con sì grande pervicacia si perseverò nelle iniquità, che un nuovo papa troverà tanto da migliorare, da rendere immortale il nome suo, e far contenti e tranquilli quei popoli che la fortuna gli darà da governare. Questo scritto io indirizzo al successore di Gregorio, non senza invidiargli la gloria di cui si coronerà se avrà cuore e mente di non ormare il suo antecessore, la fama del quale durerà obbrobriosa per molti secoli. Io non tratterò la materia che sto per iscrivere da profondo filosofo e politico. Questo esigerebbe una mente altissima ed un tempo assai lungo. Traccerò i principali mali del governo presente, e proporrò quei rimedi che una spassionata pratica di cose sa proporre. CAPITOLO I. E poichè mi è caduto in acconcio di nominar poco sopra il codice criminale, io voglio, senza pretendere di farne un’analisi filosofica, enumerare alcuni principali difetti, seguendo in ciò, non già la mia particolare opinione, chè non avrebbe valore alcuno, ma quella di giurisprudenti dottissimi, tanto nazionali, che stranieri. E qui, come che quello che io sto per dire non appartenga strettamente al codice stesso, bensì al regolamento di procedura criminale, è il luogo veramente da mostrare come una stranissima legge vieta che le sentenze emanate dai tribunali collegiali di prima istanza sieno sempre inappellabili, tranne quelle di pena capitale, che possono venir nuovamente discusse in un tribunale d’Appello. Notate mostruosità di legislazione! Un reo può richiamarsi da una sentenza pretoriale che gl’infligge la pena di un mese di detenzione, e deve chinar la testa e tacersi alla condanna di una galera perpetua. Si dirà che un giudice singolare potea errare, potea non applicar bene la legge, ed essere impossibile che un tribunale collegiale, composto di quattro individui, possa esser tratto in errore da danneggiar la vita del reo. Senza opporre a questa obbiezione validissime ragioni di diritto, che pur ve ne sarebbero moltissime, piacemi di addurne una sola materiale e semplice, alla portata anche di un volgare, e dirò che: se nelle cause civili di diritto e di fatto, siano pur anche di una piccolissima somma, un giudizio contrario, benchè unanime, può venire appellato, riappellato, visto, rivisto, da far dibattere anche un mezzo secolo avanti tutti i tribunali dello stato una causa qualunque; vi sarebbe maggior rettitudine e giustizia di accordare l’appellabilità nelle cause criminali, le di cui sentenze affliggono il morale ed il fisico degl’individui, che in vero è un po’ più delle sostanze e di alcuni diritti privati. So che gli autori di quel regolamento hanno addotte anche altre ragioni a sostegno di questa pratica criminale; ma per mia fè, niuna di esse regge al paragone del fatto che ho accennato io, in confronto del quale tutte le cose che essi hanno dette sono di un valore minore assai, e non possono aver mai trionfo su di quello. Quindi faccio fine su quest’articolo, che io ho trattato, come tratterò gli altri che gli verranno dietro, in una maniera popolare, perchè bramo essere inteso dai più. Esaminati in cumulo ed in particolare i titoli del codice criminale, sonvene alcuni che bastevolmente corrispondono agli attuali bisogni del popolo, e reggonsi su buoni principii di diritto. Ma non v’è capo dove non sia incastonata, dirò così, quasi gioiello della tirannide, una pena improvvida, un’ingiustizia, una legge fuori dell’attualità, e sproporzionata all’epoca. Tu vedi nel primo titolo al paragrafo 7.º sanzionati i tribunali ecclesiastici, ed il privilegio ai preti ed a taluni altri di eccepire al foro sacro. Tali prerogative sono state dimostrate ingiuste. I tribunali ordinari devono servire per tutti, ed è tempo che nuove bolle e nuove costituzioni apostoliche deroghino a quelle che accordano cotali esenzioni, poichè una sola legge, una sola norma deve regolare ogni ceto, ogni condizione, ogni casta di uno stato. Nulla di più assurdo e ridicolo di quello di accordare ai preti un grado minore di pena, come se nella natura del prete fosse insita di necessità e sempre qualche qualità sgravante il grado di un delitto. Io stimo che il prete debbasi nelle punizioni considerare come qualunque altro cittadino, e se vi dovesse esser mai una diversità di grado nella pena che gli s’infligge, questa dovrebbe consistere anzi in un aumento; poichè la colpa è sempre più orrida nell’uomo del santuario, il quale si presume debba essere puro, addottrinato, civile, in istato insomma da essergli facile lo evitare un delitto e saperne prevenire le cagioni. Nel titolo della estinzione dei delitti e delle pene si accorda qua e là a caso e capricciosamente la prescrizione anche a delitti atroci; ma al paragrafo 47.º si dichiara, che questa non ha mai luogo nei delitti contemplati al lib. 2.º, tit. 1.º e 2.º — Basta aver fior di senno per indovinare a che cosa si riferiscano cotali numeri. Gregorio XVI, non meno efferato di quell’altro Gregorio XII che sempre sclamava col Profeta: _maledictus homo qui prohibet gladium tuum a sanguine_, avrebbe più facilmente rinunziato al papato, che sacrificare il piacere della crudeltà contro di coloro che osarono o con parole o con fatti mostrarsi nemici del governo de’ preti. Senza che io parli degli altri inconvenienti compresi in tutti i titoli del libro 1.º, ciò che hanno fatto e possono meglio fare i criminalisti scrittori, passo al libro 2.º del codice che si riferisce ai delitti in ispecie ed alla loro punizione, e mi occuperò quasi esclusivamente del titolo 2.º, quello precisamente che ha dato luogo alla formazione di questo _modello corpo_ di leggi criminali. «L’attentato alla vita del sovrano, ancorchè non segua l’effetto, è punito colla morte di esemplarità,» così il § 83.º Io voglio esser tanto generoso con quel leggidatore da menargli buona la pena di morte per chi attenta alla vita del sovrano. Ma, per amor del cielo, che non la prodigalizzi poi tanto, perchè io non gli verrò già fuori colle teoriche del Beccaria, che potriano aver del rancido ed esser sospette, gli potrò inculcare di leggere un recente scrittore cattolicissimo, più cattolico per avventura dei preti stessi di Roma, il quale asserisce, senz’andar troppo per il sottile, «che la pena capitale è certo equa e legittima quando è assolutamente necessaria alla salute della Repubblica; ma aggiunge accordarsi oggi tutti i giudiziosi nel reputarla dannosa, non che superflua, rispetto ai delitti che si attengono alle politiche opinioni.» E se sapeste poi quante innumerevoli e difficili condizioni si richiedono perchè possa quella pena dichiararsi assolutamente necessaria, voi vi smarrireste nelle ricerche, e trovereste che mai, o quasi mai, si verificherebbe cotale necessità. Tuttavia, perchè l’attentare alla vita del sovrano è un fatto, più che una opinione politica, io a malincuore sì, ma convengo esser giusta la pena capitale, sempre però che il delitto sia provato più che matematicamente e giudicato da un tribunale ordinario per escludere quella ribaldaglia di Commissioni, di cui il nome deve essere sempre aborrito e spregiato da ogni buon cattolico ed onesto cittadino. Infatti, come soggiunge il nominato: «Tutti oggi convengono che, quando la pena del capo è richiesta, essa non può esser giustamente inflitta fuori di quegli ordini giudiziali che assicurano all’innocenza la maggior guarentigia possibile, e rimuovono dalla coscienza pubblica il gravissimo scandalo che nascerebbe quando l’effusione del sangue non fosse appieno giustificata nell’opinione universale. Altrimenti la morte data anche all’uomo più facinoroso del mondo non è un atto di giustizia, ma un assassinio: perchè assassino si chiama l’uccisore di un uomo la cui reità non è chiarita e certificata giuridicamente mediante il concorso di quelle moltiplici cautele, che non sono mai troppe quando il piato riguarda la vita e la morte dei cittadini.» «E perciò que’ tribunali straordinari subitanei, fatti o per dir meglio abborracciati a furore, e composti di giudici ignoranti, inesperti, parziali, venderecci, prezzolati, avvezzi a menar le mani, a far sangue, e abili a trattar la sciabola anzichè la bilancia della giustizia; quei processi occulti e senza regola; quei costituti subdoli e insufficienti; quei modi sommarii e precipitosi, che si costumano fra i barbari orientali, sono reputati iniqui ed infami dai popoli cristiani e civili.» Mi esimo di parlare più a lungo delle Commissioni militari o miste, dopo questo fedelissimo quadro del Gioberti, e perchè spero che i miei lettori conoscano anche il libriccino dell’italianissimo Azeglio, in cui di codeste infamissime Commissioni si parla come ogni galantuomo ed Italiano deve discorrerne. «E la società ha anche ragione ad esigere, prima che la legge si valga del funesto diritto di sangue, che si abbia l’occhio all’età, all’educazione, all’indole, alla professione, alla vita preterita del delinquente, agli aggiunti del delitto, ed a tutte le circostanze che possono scemare la gravezza, e render per qualche verso chi l’ha commesso degno di scusa e di compatimento.» Che è quanto dire co’ principii della vera scuola criminale, che le pene inflitte a quei delitti, che un governo savio non seppe prevenire, sono pene ingiuste, la cui infamia sta in quelli che le danno, non in coloro che le ricevono, e si risolvono esse stesse in altrettanti delitti di violazione privata e pubblica, ed ingiustizie enormissime. Ora lascio io giudicare ai più indifferenti: se il governo papale sa prevenire con un onesto regime il desiderio di ribellione ne’ suoi popoli, o se invece non sarebbe giustificata una rivoluzione ogni giorno. «Sono puniti con la morte di esemplarità coloro che promuovono o sostengono la sedizione o insurrezione, ec.» § 84.º Regolamento, ec. Vi sono nelle umane società certi momenti, certi estremi in cui un popolo ha tutto il diritto a ribellarsi ad un sovrano, o a cambiare stato, o a dimandar quei miglioramenti che sieno proporzionati al grado del proprio incivilimento. Io non debbo sviluppare codeste dottrine, ed entrare in certe disquisizioni. Trattarono questo argomento scrittori più che ortodossi, e quando queste teorie giovavano all’interesse della santa Sede, essa medesima le lodava e sanzionava. Oggi è utile alla teocrazia di Roma di esercitare con sicurezza la tirannide, e condanna nel capo gli autori diretti o indiretti di qualunque ammutinamento. Ma il _jus sanguinis_ nel caso nostro _non est in jure_, e la maggior parte delle cose dette nell’articolo superiore appoggiano anche troppo la mia opinione, perchè io debba ripetere quelle massime, ed aggiungerne altre a convalidar l’argomento. «Il condannato pei delitti contemplati nei due articoli precedenti perde ogni diritto alla porzione disponibile del suo patrimonio, ec.» § 85.º Eccoci alla confisca dei beni. A quella pena che fa soffrire all’innocente l’ammenda del reo, e che pone nell’innocente stesso la disperata necessità di commetter delitti. Checchè abbiano detto alcuni accigliati criminalisti sulla convenienza della confisca, nè io, nè alcun uomo che abbia in cuore un po’ di rettitudine potrà patire che per la pretesa cattiveria di un padre debbano i figli trovarsi nella miseria, e scontare essi la pena di un delitto che non commisero e che non avrebbero potuto evitare. Se i legislatori presero norma dall’Esodo, dove trovano scritto che Dio punisce le colpe de’ padri ne’ figli, talora fino alla terza e quarta generazione, oh ben s’illusero essi!! Le cose di Dio sono imperscrutabili ad occhio umano; forse le parole del santo libro sono dirette a dipingere con enfasi orientale l’orrore della colpa, e quel giudice che volesse prender norma dai giudizi divini per giudicare gli uomini, addimostra una tracotanza che oltraggia la natura e la divinità. E poi, nella nuova legge di Gesù Cristo, quando la mercè della santa redenzione gli umani furono tolti dalla captività di satanno, non si umanizzò tutto quaggiù, non fu bandito il rigor delle pene, non s’inculcò dalla legge evangelica la carità, la moderazione, la mitezza de’ giudici?.... E da ultimo occorre che i legislatori alla perfine si uniformino alle sentenze della moderna filosofia, le quali stabiliscono che le pene per un sol delitto, in un solo individuo, non possono, non debbono esser multiplici ma sempre _uniche_ e proporzionate alla qualità, al grado della colpa. Il § 86.º inclina ad esser più umanitario, e diminuisce di due ed anche di tre gradi la pena a coloro che furono sedotti a cospirare, ec. La seduzione vera importa, il più delle volte, estrema accortezza nel seduttore, e somma esperienza nel sedotto. Però in questo caso era più consentanea alla giustizia una pena correzionale ed una ammonizione ad esser più cauto, di quello che limitarsi alla diminuzione della pena. «Quelli che nella sedizione o spontaneamente o all’ordine del magistrato o all’intimazione della forza si sono ritirati, e depongono le armi restano esenti da pena, _ad eccezione de’ capi, o complici principali_.» Qui la resipiscenza viene calcolata per alcuni, rimane inutile per gli altri. Quando la legge è autorizzata a far calcolo e dare un valore al pentimento di un delitto incominciato, non deve aver luogo distinzione di sorta; tutti debbono esser compresi nella santa legge del perdono, e più quelli che, per esser capi o complici principali di un fatto contro il governo, dovettero naturalmente fare uno sforzo maggiore per persuadere a loro stessi d’intralasciare un’impresa che era già radicata ne’ loro cuori, e piena di speranze e di probabilità. Quindi si deve supporre in loro più ingenuità nel pentimento e più costanza nel perseverare nel bene. «I §§ 88.º e 89.º puniscono con la pena di morte l’attentato (quand’anche non ne segua l’effetto) alla vita de’ cardinali, o ai capi magistrati in odio di ufficio, ec.» Eccovi prodigalità inaudita di decapitazione, e infame abuso di forza e di potere governativo. Poi nei seguenti articoli non si discorre altro che di ammazzare, di galere perpetue, di galere a vent’anni, a quindici, a dieci, a cinque, a tre, e si è adoperata un’arte diabolica, insidiosa a cercar trame da per tutto, a sognar società in ogni riunione, a punire un atto, un pensiero, uno scherzo inconsiderato, una parola incauta, un sorriso innocente. E persone illustri, civili, scienziate, educate ad una vita comoda, agiata, si condannano a portar ferri, ai lavori pubblici, accanto al ladro, all’assassino, al parricida, fra uomini malvagi, rozzi, ineducati, abbietti; nel lezzo delle galere pontificie, umide, malsane, ove si dà un vitto insalubre, nauseante, scarso, che farebbe ribrezzo agli stessi animali. E queste sentenze si danno, invocato prima il santissimo nome di Dio, a nome di Sua Santità, successore di san Pietro, vicario di Gesù Cristo in terra, che dovrebbe figurare nel mondo come simbolo di pace, di carità, di umiltà. Io ho raccattato su in un periodo tutto l’infame titolo dei delitti di lesa-maestà, perchè mi mancò il cuore, e fui nauseato dal farne un’accurata analisi, che avrebbe condotto ad una noiosa lungaggine ed indispettito troppo il lettore. Ognuno può di per sè stesso gittare un’occhiata su quel codice _Modello_, promesso con tanta pomposità di parole, e la morte mi colga in mal punto, se la lettura di esso non produce in un cuore un poco delicato quel fremito e quella indignazione che ognuno suol provare alla vista di una forza prepotente, che altro diritto non ha per nuocervi, all’infuori della forza materiale che prepondera. Dal titolo 3.º al titolo 9.º inclusive sono raffazzonate molte leggi fra buone, cattive e pessime, che abbisognano di una radicale riforma. Starà al nuovo papa il commetterne lo studio a persone probe ed intelligenti, che non mancano sicuramente nello stato pontificio. Nè bisogna col consueto egoismo ritenere che il privilegio della scienza sia rinchiuso nella sola città di Roma. Certo nella capitale non mancano persone oneste e dotte, il cui consiglio può riputarsi gravissimo in materie sì fatte. Ma nelle provincie sonvi sapienti modesti, che intendono molto bene le cose pel verso loro, ed è ormai tempo che quando si tratta di ben pubblico vengano chiamati i consiglieri più idonei, senza tanto riguardo ai pretesi privilegi de’ giuristi della regina Roma. Ma tornerò su questo argomento a suo luogo, e farò vedere in un apposito titolo dove arrivi la sfrontata tracotanza del governo nel conferimento degli impieghi. Ora mi preme di dare un’occhiata al titolo 10.º del codice _Modello_ sui delitti contro i buoni costumi e contro l’onestà. L’indecente abuso di lasciar libera alle donne la scelta del tribunale ove discutere una causa di stupro ed ingravidamento ha portato che bagasce d’ogni genere (approfittando dell’ignoranza de’ preti e della loro condiscendenza nel favorire il puttanesimo), appena si avvedono di portare in seno un illegittimo frutto de’ loro diversi amori, corrono avanti ai tribunali ecclesiastici ad incolpare di uno stupro il più delle volte violento, quello fra’ tanti che torni meglio al conto de’ loro cattivi desiderii, di un buon dotamento cioè, o di un probabile matrimonio. Basta che una svergognata sgualdrinella, accusando qualunque per autore del di lei spulcellamento, possa giungere a provare che quel male avventurato praticasse nella di lei casa, ed amoreggiasse con seco, perchè i tribunali ecclesiastici, senz’altro cercare, lo condannino a tre anni di opera pubblica, o a dotare, o sposare la zambracca svergognata. Qui, come avverte saviamente Filangeri, un delitto commesso in due viene punito nel maschio, premiato nella femmina. Quanto è necessaria però una radicale riforma su questa legge proteggitrice della bricconeria di cotali bertucce! I tribunali ecclesiastici se devono bandirsi, come dicemmo in principio, per ogni sorta di quistioni civili e criminali, molto più sono da abolirsi in questo caso, in cui la cognizione scandalosa di certe disoneste materie appena è tollerabile dai laici, i quali pure dovrebbero trattarle con la maggior verecondia. Quindi i §§ 168.º, 169.º del codice _Modello_ devono cancellarsi, sostituendone uno più mite assai per punire coloro che saranno senza dubbio chiariti stupratori violenti, e quando la semplicità e specchiata condotta della stuprata sarà apertamente manifesta, non già dai documenti parrocchiali, soliti ad essere menzogneri in ciò, ma da ripetute ed esatte informazioni e deposizioni, dalle quali risultino la irreprensibile condotta, la seduzione e la violenza. Senza questa riforma i piati di tal genere saranno frequentissimi innanzi ai tribunali, e diventerebbe troppo svergognata la protezione che la legge accorderebbe a coloro che, giusta il dir del Piazzoni, _multoties sibi dotem lucrantur et repetito mercatu porcum suum vendunt_. Conchiudo che lo stupro debbasi punire quando vi è aggiunta una provata violenza, e che negli altri casi non ha luogo alcuna inflizione di pene, e solamente una correzionale per guarentigia del buon costume, comune però ad ambedue i complici maschio e femmina insieme. Gli altri paragrafi componenti il titolo di cui ci occupiamo, sono tutti o quasi tutti meritevoli di riforme, o modificazioni proporzionate allo stato attuale de’ costumi e delle presenti cognizioni. «Se i vindici della giustizia, allorchè hanno a trattare di un infanticidio, quella scrupolosa diligenza che adoprano nello scrutinare le prove del fatto, l’adoprassero insieme nell’indagare e comprendere tutte le cause morali che possono avere influito sull’animo dell’imputata, prima o nell’atto ch’essa divenne colpevole, e queste ponessero in giusta bilancia cogli effetti, io son certo che un buon terzo fra le infanticide diventerebbero presso loro più oggetti di commiserazione che di pena; un’altra terza parte potrebbe essere con più rettitudine inviata ad un ospizio di dementi, che sul patibolo; nell’ultime finalmente assai poche troverebbero che fossero state guidate al delitto per assoluta immanità. Imperocchè non le più cupe immagini di Dante, non i più tetri pensieri di un Byron basterebbero a dipingere l’orribile strazio d’una infelice giovanetta che, resa vittima d’un fuggevole delitto, sia in sul punto di doverne emettere dalle viscere proprie l’illegittimo frutto, di trovare il mezzo di nasconderlo per sempre alla vista degli uomini. Spaventose idee a infamia perpetua, di miseria, di carcere, di carnefice, di morte; una religione che la condanna come colpevole ad eterno supplizio, uno stato che minaccia ad ogni istante con dolori atrocissimi la vita, una folla di teneri sentimenti materni, che quanto più dolci al cuore, altrettanto avversi ed abborriti insorgono alla ragione, che li teme e con violenza li soffoca, una solitudine orribile, una privazione assoluta di soccorsi, uno sfinimento mortale di forze: questi sono i primi e veri testimoni del delitto, che i giudici dovrebbero consultare, e riflettere poscia per sè medesimi se così strane e diverse torture di corpo e di mente siano piucchè bastevoli a togliere ogni discernimento e giudizio, e qual valore dinanzi alla legge debba darsi ad una colpa che il più delle volte è commessa nello smarrimento dei sensi e dell’intelletto.» Io non ho potuto resistere al desiderio di trascrivere letteralmente questo commovente quadro del professore Pucinotti, il quale senza altri argomenti mi deve bastare per dichiarare soverchiamente rigorosa la pena che al capo 276.º § 7.º, la legge infligge a quelle madri che, spinte da una terribile riunione di circostanze, si determinarono a commettere un atroce delitto qual è l’infanticidio. Il cielo non voglia che alcuno avesse a credere che io volessi scusare un eccesso così mostruoso nell’umana società. Ma siccome è certo che le spinte a cotal delinquenza furono e debbono essere sempre formidabili, la legge dovrebbe esser più umana nella maggior parte de’ casi, e solo conservarsi severissima in quelle circostanze in cui potesse manifestissimamente provarsi, che non ebbe luogo il concorso di tante imperiose impulsioni morali, che non fu insomma irresistibile la tendenza a delinquere. Vero è che la legge in parte considerò le cose anzidette, e volle che non vi andasse la pena del capo per quella madre che commise l’infanticidio onde occultare per sentimento di onore un parto illegittimo: ma la reclusione perpetua è, a parer mio, troppo soverchia, e a sentimento di dottissimi filosofi dovrebbe essere un poco diminuita. Non so poi perchè nel titolo 21.º, al capo 308.º, la legge ordini che nell’esposizione di un infante, la pena si aumenti di due gradi, quando l’esposizione fosse fatta dai genitori. Ciò starà bene allorchè l’esposizione fu fatta da genitori legittimi, per certe ragioni, che, qualunque esse siano, non sono mai attenuanti il delitto. Ma se intende parlare di esposizione di figliuoli illegittimi, questo, io penso, è stimolo a far commettere più facilmente l’infanticidio, il qual delitto essendo di facile occultazione e di prove difficili, una madre sarà meglio tentata ad uccidere il figlio sulla speranza di totale impunità, di quello che ad esporlo col timore di una pena lunghissima. Ed oltre a ciò sono di opinione che la madre che espone il figlio lo faccia colla speranza che le venga rinvenuto e raccolto ed assicurato; con che avendo essa voluto evitare un delitto maggiore, merita in vece una pena minore, non già che venga aggravata di due gradi, siccome poco filosoficamente si è fatto nel codice _Modello_. Nel titolo 23.º, dove si parla delle ferite, è a considerare che il codice adotti una riforma basata sui principii esposti dal professore Pucinotti, che è stato il primo a render filosofico un trattato il quale fino ai nostri giorni fu troppo grettamente considerato. I governi sani non debbono esser ritrosi ad accettare i miglioramenti che presentano progressivamente le scienze; ma il nostro, non v’è chi possa negarlo, è sempre l’ultimo a risentire l’influenza del progresso, ed il più delle volte s’induce al meglio non tanto per il desiderio del buono, quanto perchè ve lo costringe la necessità. In questo medesimo titolo, al capo 217.º, vuol punire le ferite tendenti a suicidio colla detenzione sotto sorveglianza da uno a tre anni. Dio perdoni questo goffo svarione legale a quell’inesperto che lo consigliò. Egli non previde che tanta punizione esacerberà sempre più l’anima di quello sciaurato che tende ad uccidersi; che se anche non riuscirà a eludere la sorveglianza per effettuare ciò che va meditando, darà piena esecuzione al proprio proponimento appena avrà subìta la ingiusta pena. Gl’individui che tentano di uccidersi, tutti i criminalisti ne convengono, meritano, più che pene, compassione. Occorre apprestar loro medicine morali, che tranquillizzino il loro spirito turbato, e farli sorvegliare; e qualora in qualche caso dovesse aver luogo una punizione, questa deve limitarsi a misure correzionali di polizia, e nulla più. Mi credo autorizzato a risparmiarmi qualunque osservazione sul titolo 25.º dei furti, perchè tutti gl’intelligenti convengono nella necessità di costruirne un nuovo, atto a punir con più giusta proporzione un genere di delitti tanto nocivi all’umana società. Si è accordato soverchio favore a’ ladri, e si è detto loro apertamente che quando abbiano a rubar mille scudi, meglio è che ne rubino diecimila, ventimila, poichè la pena o è quella medesima, o vi è tanta poca differenza da compensar molto bene un furto grandioso, tale che possa costituirsi in ricchezza, allorchè saranno dopo dieci o quindici anni usciti dai luoghi di condanna. Nei furti qualificati poi la condiscendenza che accorda la legge è anche più indulgente, poichè la pena massima di quindici o venti anni inflitta a chi ruba cinquecento, non viene aumentata quand’anche il ladro rubasse scudi diecimila. Pongasi il caso di un domestico che goda la piena confidenza di ricchissimo padrone: lo deruba di un’enorme somma. Viene condannato a quindici o venti anni. Egli sarà entrato giovanissimo nella galera, ne verrà fuori fatto adulto, e potrà godersi le ricchezze derubate o in luogo straniero, o adoperando nel luogo stesso del delitto poche cautele che bastino a farlo comparir tale da non essere in caso o di restituire o di rifare il danno. Condannino pure di trivialità queste osservazioni, ma io avrò sempre parlato di fatti probabilissimi, suscettibili ad essere intesi ed apprezzati da tutti. Queste poche cose ho io creduto di dire intorno al codice criminale vigente nello stato pontificio. Dissi da principio che avrei fatto osservare solamente i mali maggiori che in esso si contengono, e ben mi sono io strettamente attenuto alle promesse. Chi avesse e volontà e mente di fare opera pietosa ai sudditi pontificii, dovrebbe con ogni impegno studiarne parte a parte ogni articolo, ed accennare quelle riforme e modificazioni che una sana teorica di diritto criminale sa proporre. Il successore di Gregorio XVI, chiunque egli sarà per essere, non vorrà certo isfuggire a que’ miglioramenti che menti illuminate e scevre da pregiudizii gli proporranno. Se egli sarà geloso della propria gloria, e se considererà che una incancellabile infamia cadde sulla memoria dell’antecessore, vedrà che sarà più vantaggioso per sè, essere amato piuttosto che odiato dal proprio popolo. CAPITOLO II. Ora io dovrei, e lungamente, parlare di quella imbrogliatissima collezione di norme e regole nei giudizii criminali che viene intitolata con le pompose parole di _Regolamento organico, e di procedura criminale_. Ma se io ciò facessi m’intricherei in un laberinto da cui non potrei riuscire. Ivi sono raccolte disposizioni contraddittorie, ordinanze incertissime, principii immorali, tranelli alla innocenza ed ogni sorta di nequizie, errori di diritto, di equità, di giustizia. Vi sarebbero, è vero, qua e là sparsi buoni ornamenti, vi figurano monitorii a non abusare, ad attenersi a certe norme, che in effetto sarebbero secondo le leggi del giusto; ma non vi sono minacce, non pene pei trasgressori, tanto che nella più parte de’ casi gli officiali ed i magistrati ed i ministri possono fare come fanno a posta loro, a capriccio, senza che per questo vengano o interdetti o puniti. Non posso però esimermi dall’accennare i precipui inconvenienti che con la semplice lettura di quel libro si fanno manifesti agli occhi anche di un volgare. Tali sono, a modo di esempio: Il divieto della pubblicità dei giudizii, che è contro la sicurezza de’ prevenuti. La validità delle deposizioni anche dei parenti in primo grado ne’ delitti di lesa maestà: infame abuso de’ soli governi tirannici e contrari alle leggi del Vangelo. Il riunire nei giudici singolari il carico di costruire il processo nelle cause di loro competenza, ed il diritto di emanar sentenze nelle cause stesse. Essi diventano giudici e parte, ed il giudicio pel reo sarà sempre contrario, perchè nessun governatore, o assessore, o giusdicente vorrà condannar mai una propria produzione con un giudizio contrario allo scopo che si prefisse mentre costruiva il processo stesso. L’inutilità dell’appello in certe cause minori di minima pena. Prefigge la legge un termine di dieci giorni per la revisione di una causa pretoriale. Se al prevenuto fu inflitta la pena di quindici giorni, tra per il tempo che accorda la legge al tribunal superiore per riveder la causa, e per i giorni che si consumano negl’intìmi, nelle dichiaratorie ed altre formalità, la pena è scontata per intero: per cui si rende inutile qualunque diritto di appellabilità. E se il giudizio fu ingiusto, un innocente avrà dovuto subire una pena per l’imprevidenza della legge. Il non essere obbligatorio ai giudici di conformarsi al parere giurato dei periti, quando questo ha luogo nelle cause maggiori, o minori. Qui il pontefice legislatore sembra che voglia far partecipi i giudici della infallibilità che a lui solo accorda Gesù Cristo, o almeno li crede enciclopedici. A che serve, dirò io, il voto delle persone dell’arte, se, dopo che è stato invocato per un giudizio, i giudici non vi si debbano attenere? L’esser sufficiente ai giudici il convincimento morale per sentenziare della vita, o della libertà de’ rei. Questo paragrafo è stato sempre cagione di risa ai sapienti. L’accordare l’impunità pei soli delitti di lesa maestà. Infame abuso anche questo, proprio dei soli governi tirannici. E non finirei mai se volessi seguitare ad enumerare i mali maggiori di codesto regolamento; ond’è che io faccio fine, inculcando fervorosamente anche adesso al dotti italiani di pubblicare quelle norme utili e saggie che mirano al migliore andamento della procedura criminale. CAPITOLO III. L’ordine delle materie mi condurrebbe adesso a dover dire qualche cosa sul codice civile dei sudditi pontificii. Ma per grazia della santa Sede apostolica noi manchiamo di un codice parziale. Il lettore non mi faccia il broncio, perchè la bisogna va proprio così, ed io non ispaccio menzogne. Per noi sta ancora il vecchio corpo delle leggi giustinianee, vestito qualche volta alla bergamasca con bolle e costituzioni apostoliche, talchè è un ridere proprio da matti vedere il digesto sì fattamente imbavagliato. V’è però un regolamento di procedura, dove hanno cacciato qualche cosa di positivo sui testamenti, un saggio brevissimo, dirò così, di legislazione. Le incoerenze che sono dentro questo regolamento, le formalità inutili, le lungaggini dannose, le oscurità di certe disposizioni, le massime erronee, le esorbitanti tasse e governative e curialesche, formano un tutto così variato che miglior musaico credo non sia mai stato lavorato dai nostri buoni antichi. Da tutto ciò emerge che i giudizii sono eterni, mille possono essere gli appelli secondo la maggiore o minor scaltrezza dei curiali, le spese infinite, e quando la causa è terminata il vincitore non ha guadagnato niente, il perdente rimane senza nulla, ed il patrimonio combattuto parte se lo piglia il Governo, parte i causidici. Perciò si dà luogo a contratti nascosti, fittizii, immorali, cagione essi stessi di nuove liti e di miserie. Io questa volta non mi rivolgerò agli scienziati italiani, perchè propongano essi un codice al governo pontificio. Sentii sempre lodare da tutti il corpo di leggi fatto riunire da Napoleone sotto il suo assoluto impero. Tranne alcune cose, che forse non converrebbe accettare al governo nostro, io stimo che quel codice sia utilissimo e adattato per noi. Il nuovo papa potrebbe ingiungere ad alcuni dotti di esaminarlo, ed apporvi quelle poche riforme che sono necessarie, e quindi adottarlo. Il bene, da qualunque parte ne venga, non iscapita mai della sua natura. E poi quel codice non è già opera di Napoleone. I primi dotti d’Europa ne furono i compilatori: egli non ebbe altro merito che di saperli cercare e scegliere. CAPITOLO IV. BOLLO E REGISTRO. La primaria istituzione del bollo e registro ebbe per iscopo la sicurezza e la data certa de’ contratti. Ma il governo pontificio ne ha fatto un ramo disonestissimo di finanza. Non vi è regola certa e norma alcuna sulle imposizioni delle tasse, e dipende dal capriccio e dalla ignoranza dei popoli il tassare un atto più o meno, secondo che è a grado loro, talmente che si vede talora in un officio tassar dieci per una registrazione, mentre per l’atto medesimo vi domandano venti in un altro luogo. Le tasse sono sempre enormissime e sproporzionate, talchè è un lamento universale de’ popoli contro questo balzello del registro, il quale porta per necessaria conseguenza che i contratti sieno pochi, o mal fatti, e nascostamente fatti a danno della buona fede e della morale pubblica. Vi è obbligo a registrare certi atti che non abbisognerebbero di tale formalità, ed il governo fa una speculazione sui giuochi pubblici, sulle morti, sugli spettacoli, e poco manca che non faccia registrare e bollare l’atto di nascita di ogni individuo, la pompa solenne del santo battesimo. Conchiudo che la gravezza di queste tasse è un latrocinio, la pretensione del governo far bollare e registrare certi atti è una ingiustizia. Ond’è che su questo ramo ci vuole una radicale riforma, diretta a mantenere lo scopo vero di questa istituzione, senza soverchio peso del popolo. CAPITOLO V. GIUOCHI PUBBLICI. Il giuoco del lotto è una imposizione volontaria, ma mostruosa invenzione dei governi poco civili, che favorisce ogni sorta d’immoralità e di superstizione. È estremamente dannoso alle famiglie, specialmente povere, poichè colla seducente promessa di far diventar ricche con pochissimo le persone che giuocano, questi dissipano quel poco di denaro che traggono dal proprio mestiere, e soffrono e fanno soffrire i disagi della fame, del freddo, della nudità alla innocente prole di cui sono padri. Il vivente Giovenale toscano, filosofissimo poeta, ha scritta una frizzantissima poesia su questo tema, da disgradare qualunque prolisso trattato morale che si potesse stampare su questo proposito. Io, che non pretendo affatto di essere autore di cose nuove e rare, la riporto per intero, a comodo di quei pochi che non la conoscessero, e mi risparmio così altre parole su questo capitolo. Eccola: Don Luca, uom rotto, Ma onesto pievano, Ha un odio col lotto, Non troppo cristiano, E cose da cani Dicendo a chi giuoca, Trastulla coll’oca I suoi popolani. Don Luca, davvero, È un buon galantuomo, Migliore del clero Che bazzica in duomo; Ma è troppo esaltato, E crede che tocchi Al prete aprir gli occhi Al volgo gabbato. In oggi educare O almeno far vista È moda: il collare Diventa utopista; E ognuno si scapa A far de’ lunari. Guastando gli affari Del trono e del papa. Il giuoco in complesso È un vizio bestiale, Ma il lotto in sè stesso Ha un che di morale; Ci avvezza indovini E d’ottimo cuore, E a fare il signore Con pochi quattrini. Moltiplica i lumi, Diverte la fame, Pulisce i costumi Del basso bestiame: E in fatto lo stato, Non troppo corrivo, Se fosse nocivo L’avrebbe vietato. Lasciate, balordi, Che il lotto si spanda, Che Roma gli accordi La sua propaganda. Si gridi per via — Fedeli, un bel terno!! — Si aiuti il governo Nell’opera pia. Di Grecia, di Roma I regi sapienti Usavan la soma Secondo le genti, E a norma del vizio Il morso e lo sprone. Che brave persone! Che re di giudizio! Con aspri precetti Licurgo severo Corresse i difetti Del Greco leggero; E Numa con arte Di santa impostura, La buccia un po’ dura Del popol di Marte. Nel cuor di coniglio Di tisici servi È savio consiglio Deprimere i nervi, All’uomo corrotto Che nulla più crede È manna la fede Del giuoco del lotto. Tal fede impugnare Non è galateo; Ci lasci giuocare, Signor Galileo! Studiar l’infinito? Che gusto imbecille! Se fo le Sibille Non sono inquisito. Sì. Un giuoco sì bello Compensa il Vangelo, E mette in duello L’inferno col cielo: E un’anima pia, Se il diavolo è astratto, Implora l’estratto Coll’Ave Maria. Per dote sperata Da pigra quintina La serva piccata Fa vento in cucina; Degli ambi sognati L’idea saporita Sostenta la vita Di cento affamati. Presente alla gogna, Dicevo con pena: Per questa vergogna Il popol si frena. Nel braccio mi dà La donna vicina, E dice: «Berlina Che numero fa?» Se passa la bara Del morto, ogni cosa Domandano a gara. — Che gente pietosa! Eh! un popol di scettici Non piange disgrazie, Ma giuoca le crazie Sui colpi apopletici. Evviva la legge Che il lotto mantiene! Il capo del gregge Ci vuole un gran bene: I mali, i bisogni Degli asini vede, E al fieno provvede Col libro dei sogni. Che il sogno è un mistero Ne abbiamo le prove, Ma, a detta d’Omero, Deriva da Giove? E Giove è il guardiano, E i vivi ed i morti Per cento rapporti Si tengon per mano. Chi trovasi al verde Lo ascriva a suo danno: Lo stato ci perde, E tutti lo sanno! Lo stesso don Luca In fondo è convinto Che a volte ci ha vinto Persino il Granduca. Contento del mio, Nè punto nè poco, Per grazia di Dio, Mi curo del giuoco: Ma certo se un giorno Mi cresce la spesa, Galoppo all’impresa, E strappo uno storno. La concessione generosissima del governo per le Tombole è arrivata tant’alto, che i villaggi regolati da un povero sindaco hanno anch’essi la loro Tombola di cinquanta o cento napoleoni. Poco importa se i concorrenti giuocatori lascino perir di fame la sera la povera famigliuola, o vadano alla strada il dì innanzi per tentar la fortuna; basta che il governo bazzichi il terzo o il quarto di tutto quello che si è introitato; per il rimanente caschi il mondo che non vi è nulla a ridire. Le riffe private e pubbliche sono così frequenti e numerose, che è proprio una vergogna tollerarle ulteriormente. Il governo ha fatto sembiante di proibirne la esecuzione. Ma sapete perchè? per la viltà di rubare anche in quelle un quinto almeno di diritto di registro, la cui tassa sana l’immoralità di codesto abuso. Checchè si voglia dire in contrario, la Francia, con tutto che venga tiranneggiata dall’attuale re costituzionale, è la prima nazione civile di Europa. E la Francia ha già da qualche tempo abolito il giuoco del lotto. Ogni nazione deve imitare ciò che vi è di buono nelle altre. E così si fanno progressi; diversamente, in luogo di andare avanti presto, faremo il passo della testuggine, o meglio quello retrogrado del gambero. CAPITOLO VI. DELLE DOGANE. Le dogane sono istituite in tutti i governi. Lo Stato deve aver le sue rendite, colle quali poter soddisfare ai gravi impegni ed obblighi cui soggiace. È un lamentarsi ingiustamente per questo genere di pagamenti, ai quali fa duopo che i sudditi si sottopongano volonterosamente. Ma per render meno onerosa questa imposizione, occorre che il governo adotti un sistema di umanità il più possibilmente generoso. Le vessazioni che continuamente vengono fatte e dai ministri doganali e dalle guardie di finanza, rendono troppo odioso ai popoli questo ramo, ed il rancore degl’individui si scarica sempre a danno del Governo. Le tasse debbono esser più proporzionali, la piccolissima industria nazionale più favorita, il sistema di proibizione abolito, annullato il monopolio dei pochi, che è sempre a danno di molti. È necessaria la istituzione di un regolamento doganale, che il pubblico deve conoscere per norma propria. Gli editti, le circolari, che servono attualmente di codice agli uffiziali delle dogane, sono una raccolta di massime contradittorie, incerte, ingiuste, sempre oscure e misteriose. Frequentemente avviene che la tesoreria o modifichi o deroghi certe leggi che sono a notizia di molti, e non accade mai, o quasi mai, che e la modificazione e la deroga si facciano note al pubblico; ond’è che un buon numero di persone viene preso a questa insidia che il Governo tende, e quindi si estorcono multe sanguinose, si fabbricano processi e criminali e civili, e si tradisce la buona fede dell’onesto commerciante e del buon cittadino. Il modo di procedere verso i contravventori alla legge ed i contrabbandieri è tirannico, vessatorio, degno della sacra Inquisizione. Se qualcuno che si trova ingiustamente gravato osasse muover lite contro la Camera, il giudizio è sempre contrario se (come il più delle volte accade) emana dal tribunale della Camera stessa. Ove poi per mirabile o fortuito caso il giudizio fosse favorevole, le immense spese a cui l’attore soggiacque non gli sono rifatte mai, perchè è massima che il Governo, sebbene abbia il torto, non debbe compensare i danni di quello che dovette spendere molta somma a farsi render ragione. Solito abuso di potere ed infame amministrazione di giustizia. Viene confuso il contrabbandiere di professione, che ruba moltissimo all’erario, col privato cittadino che froda una piccola tassa sopra un genere di valor minimo che serve ad uso proprio. Nè mi si opponga che esiste pure una circolare recente di un tesoriere espulso, colla quale si faceva intendere ai ministri e alle guardie doganali che non si avessero ad irritare i privati con vessazioni per frodi di piccol valore; perchè io vi so dire che tanto i ministri, come le guardie sono veramente una masnada di ribaldi, che minacciano, battono, uccidono per bagattelle da nulla, per certe bazzecole il cui dazio frodato non reca il minimo danno all’erario. Anzi cotestoro pigliano di mira più particolarmente i piccoli contrabbandi, perchè quasi sempre complici delle grandi contravvenzioni; con questo fanno un lucro grandissimo, con gli altri non percepirebbero nulla. È proprio doloroso il trovarsi, come è accaduto a me, ne’ confini specialmente di Toscana e di Napoli, a vedere un’orda di sfrenati soldati italiani, correr dietro a certi sciaurati contrabbandieri, italiani anch’essi, batterli specialmente, ed anche ucciderli per toglier loro un fardelletto, che poi si trovava contenere una dozzina di scodelle di terra, o una mezza libbra di generi coloniali, o qualche otre contenente poche libbre di olio fetidissimo. Io fremo d’indignazione quando sopra gli uffici doganali miro le insegne di santa Chiesa, e penso che da quei luoghi escono ordini disumani, ministri avari, ladri, uccisori de’ propri fratelli, persone che mancano di pietà, di religione, di modestia, di civiltà. Io sempre ricordo a quella vista i sublimi concetti di quel nostro Allighieri, il quale parlando appunto di queste sante insegne, di cui il governo de’ preti sì abusa, esclama, pieno di fuoco, in bocca di san Pietro: Non fu nostra intenzion c’a destra mano De’ nostri successor parte sedesse, Parte dall’altra, del popol cristiano: Nè che le chiavi che mi fur concesse Divenisser segnacolo in vessillo, Che contro i battezzati combattesse. Nè ch’io fossi in figura di sigillo A privilegi venduti e mendaci, Ond’io soventi arrosso e disfavillo. Accade frequentissimamente che misere famigliuole di campagna, prive di un obolo, arrischino di raccogliere qualche libbra di acqua salata nelle tante sorgenti che sono sparse in certi luoghi delle province, e se ne servano per farne un amarissimo e disgustoso cibo, facendovi cuocere o pochi vegetabili, o un poco di farina gialla. Non è a dire a quanti barbari trattamenti vengono sottoposti questi disgraziati. Poca cosa sarebbero le battiture, le ferite che riportano dagli scherani del papa, o da quelli del duca appaltatore. Quegli infelici vengono molte volte uccisi sul luogo del contrabbando, ed i rei non solo non vengono puniti, ma talora furono decorati con croci, o nastri da cavalieri, e regalati con danaro. Io non dico menzogne; i fatti che racconto sono autentici, noti a tutti, vanno per le bocche di tutti, e tolgono ogni volta al Governo mille buoni partigiani, che in avanti avrebbero data la vita a sostegno della santa Sede. E, per far ritorno alle dogane pontificie, conchiudo che istituiti, ordinamenti giusti e chiari, abolito il sistema proibitivo, diminuite certe tasse di generi che a noi mancano, aumentatene alcune altre per cose di minor conto e di lusso, emanate leggi severe contro i ministri vessatori e violenti, regolata la procedura civile e criminale che ha luogo a carico de’ contravventori, può questo ramo rifiorire onorevolmente, ed esser meno gravoso, ed anche accetto ai sudditi pontificii. Sono qua e là per lo stato impiegati pieni di capacità, atti a proporre riforme; e deve il sovrano eccitarli a presentare analoghi regolamenti, da farsi poi ad altri considerare prima che vengano adottati. — CAPITOLO VII. Questo capo io avevo riservato per parlare degli uffici del censo, catasti, ipoteche, archivi. Simili instituzioni essendo basate sopra savi principii che il Governo nostro ha già da qualche tempo adottati, io mi esimo dal farne parola. Pochi miglioramenti saranno necessari nella parte pratica, per dire che in questo ramo vi è perfezione. Il Governo non deve però tralasciarli, e dimandi ed accetti ed adotti quelle riforme che saranno necessarie. Anche in codesti uffici abbiamo impiegati abilissimi, ottimi, per dare utili e saggi consigli. CAPITOLO VIII. POLIZIA. Non è da far maraviglia se, avendo noi veduto la mostruosità d’un codice criminale, la mancanza di un codice civile, la insussistenza di regolamenti doganali, ora diciamo che la Polizia non abbia neppur essa un codice che serva di direzione agli ufficiali reggitori, e sia di guarentigia alla sicurezza privata e pubblica de’ cittadini. Qui è dove l’arbitrio e l’insolenza e l’oppressione del Governo spiccano mirabilmente. La Polizia è il nucleo della tirannide pontificia. In ogni capoluogo di provincia, in ogni città, in ogni terra, in ogni villaggio sono impiegati politici, nelle persone de’ legati co’ loro direttori, in quelle dei delegati co’ loro segretari, ne’ governatori, nei priori comunali, ne’ sindaci. La forza di Polizia, ne’ luoghi ove esiste, dipende immediatamente da costoro, colla differenza che ognuno de’ capi è in relazione diretta coll’immediato superiore. Più è sublime il grado di quello che rappresenta nei luoghi la persona del sovrano, più è grande la indipendenza di lui, maggiori gli arbitrii, più ristretta la libertà individuale, meno garantita la sicurezza personale. Un capo di Polizia, appunto perchè non vi è un codice, può far tutto. Egli s’immischia in affari civili, criminali, religiosi, economici, politici, privati, pubblici. Qualunque misura può adottare in via politica, qualunque violenza può commettere, senza che niuno possa richiamarlo, rimproverarlo, perchè è sempre in grado di poter in apparenza giustificare un’imprudenza, una imprevidenza, un arbitrio, una soperchieria. Un dicastero di Polizia è più infame del tribunale del santo Officio. Sia pure assurdo, contrario alla giustizia, immane il procedere di quest’ultimo, sarà sempre vero che egli ha un sistema, una norma nel procedere, una regola da seguire. La Polizia carcera un individuo, lo bandisce da un paese, lo sorveglia, gli nega un foglio di passo, lo ristringe dentro un territorio, lo diffida da esercitar diritti civili; gli nega di portar armi lecite, si oppone alla di lui istruzione, lo priva d’impieghi onorevoli, di cariche conferitegli da un Consiglio, lo costringe a non uscir di dotte, a non farsi attore in teatro, lo annienta, lo distrugge. La Polizia v’intercetta lettere agli uffici postali, le legge, le ritiene, o ha la sfrontatezza di consegnarle dissigillate. A qualunque ora può entrarvi in casa, cercarvi nella persona, nelle cose, s’impossessa di oggetti, di scritti, di libri, di armi, di denaro. La Polizia a capriccio fa chiudere officine, caffè, bagordi, ridotti, impedisce giuochi leciti ed illeciti; si oppone quando lo voglia ad ogni onesto ricreamento de cittadini, vietando musiche, cantori, balli, riunioni decorose e lecite. La Polizia impone ad arbitrio tasse sui caffè, locande, bettole, trattorie. Instituisce multe a capriccio fuori di leggi note, all’insaputa del Governo superiore e della Suprema di Stato. La Polizia fa pagare i permessi di permanenza a periodi arbitrari, con tasse diverse per ogni paese, per ogni individuo, secondo la matta volontà di un legato o delegato. La Polizia vi fa pagare i visti sui passaporti, impone tasse, multe dove crede, sempre fuori di nota legge, a piacer suo, a posta propria. Io non so dir di più. La Polizia, che in uno Stato ben regolato è un officio necessario, quando sia diretto da un codice imparziale, conosciuto da tutti, nel nostro è luogo tenebroso, misterioso, composto da persone odiate, da capi inetti e timidi, da commissari atroci ed iniqui, da ispettori fanatici e ribaldi, da spie vili e calunniose, da ribaldaglia scellerata, tolta dal lezzo delle città, dalle carceri, dalle galere. E quantunque poco religiosamente, ben a ragione un autore vivente dice «che se Dio lo avesse chiamato ne’ dì della creazione, egli lo avrebbe consigliato a formar col limo più vile, impastato col veleno della vipera e del rospo, i commissari di Polizia, perchè non avessero avuto il diritto di dire di esser formati ad immagine e similitudine sua». A me, che debbo trattar sempre le cose sui principii generali ed indeterminati, non rimane altro ad aggiungere in questo spaventevole titolo. Un codice di polizia è lavoro altamente scabroso per la facilità in cui si può incorrere a stabilire ordinanze arbitrarie, che offendono la libertà dei cittadini. Ciò nondimeno non ne è impossibile la compilazione. Un poco di bene vi è a ricavare dalle costituzioni dei regni civili, un po’ se ne può trarre dai codici del cessato Impero, molto posson fare i dotti politici dello Stato. Comunque sia, questo libro è di necessità pel nostro Governo. Esso deve stare fra i primi ordinamenti civili che il nuovo papa sarà per darci, perchè non vi può esser miglioramento dove si fasciasse sussistere una Polizia qual è la presente, che, come dianzi dicemmo, è nucleo di tirannide formidabile. Dunque ai capi di Polizia, mi si opporrà, non sarà dato mai deviare alcun poco da questo codice particolare, il quale non potrà poi contenere tutti i fatti parziali possibili ad accadere in un luogo, in una città popolosa, faccendiera? Essi, quando il loro libro non consideri qualche evenimento particolare, devono farla da autorità conciliatrici, sentir sempre le parti che fra di loro contendono, e negli altri casi adoperare misure prudenziali, in cui l’arbitrio, se deve aver luogo, non offenda l’individuo, od arrechi il minimo dispiacere possibile. Lo stesso vagabondaggio, tanto trascurato dalle Polizie moderne, ha diritto a pretendere che l’arbitrio operi nel minimo grado sugl’individui che lo compongono, e quelle misure che la Polizia dovesse pigliare contro di costoro avrebbero ad essere sempre piene d’umanità, tendenti solamente a prevenire i delitti e ad assicurare la tranquillità pubblica. E chi fosse così generoso da pubblicar presto i fondamenti elementari di un tal libro, ben meriterebbe della patria. CAPITOLO IX. CARCERI. Quando si dice da noi che un individuo rimane sostenuto sulle prigioni, tosto subentra un’idea di un patire grandissimo, e si grida alla tirannide, all’abuso. Già altrove notammo che le prigioni ed i luoghi di condanna nello Stato pontificio sono luoghi orridi, malsani, oscuri, obbrobriosi all’umanità. Ora è da avvertire che in codeste sucide carceri sono sempre confusi il reo coll’innocente; un primo delinquente col delinquente abituato; l’uomo educato con quello della plebe; il reo di grave delitto col reo di lieve colpa. Senza poter pretendere che il Governo adotti un sistema penitenziario, quale lo vogliono le colte nazioni d’oggi, mi par giustizia che i sudditi possan chiedere una riforma notabile su questo proposito; che le carceri debbano essere salubri; che vi sian da per tutto case di correzione per gli eccessi d’insubordinazione; che debban esser distinti i rei dagli accusati, quelli che già furono condannati da quelli che nol sono. La carcere pei meri accusati debbe essere un luogo di reclusione comodissimo, lauto il trattamento, molta la libertà, con la cautela di sorveglianza per non informare il processo, ed altre condiscendenze. Poichè se dalle risultanze del processo avesse poi a dichiararsi la innocenza di un inquisito, con qual giustizia si sarà potuto aggravare sopra la persona di questi un soverchio rigore; e così anche pei condannati? Minore indulgenza sarà d’uopo per essi, ma locali sani, vitto salubre, abbondante, nettezza nel vestiario, nelle persone, nelle cose. E quello che non ho notato nel capitolo sul regolamento organico e di procedura, noterò adesso, cioè la necessità d’una maggiore speditezza nei giudizi, colla istituzione dei tribunali criminali esclusivi, poichè ogni giorno di carcere che subisce un accusato, il quale poi fosse dichiarato innocente, è un’ingiustizia che grida vendetta avanti il cospetto di Dio. Io credo che non possa esservi cosa più orribile ad un uomo di vedersi rinchiuso, e malamente trattato, fra persone delittuose, colla coscienza della propria innocenza. E perchè il legislatore non ha da immaginare quadri così luttuosi e di abbominazione? forse sono poco frequenti i casi d’individui che furono rinchiusi per mesi ed anni o per arbitrio delle polizie, o per negligenza di processanti, o per incuria di tribunali, che poi non furono rinvenuti rei, anzi furono dichiarati innocenti. E in questo articolo, sebbene dovesse avere un posto particolare, mi piace aggiungere che i delinquenti i quali subirono una condanna, nell’uscir che fanno dalle prigioni non arrivano mai a godere dei diritti civili, o per mancanza del Governo o per il pregiudizio della società. È quindi ben necessario che il sovrano istituisca lui, o favorisca la istituzione de’ patronati, la quale è diretta a far proteggere gl’individui che uscirono dal carcere, a sorvegliarli paternamente, a sovvenirli, a procurar loro occupazioni, impieghi, a prevenire insomma, che, stretti da necessità e scontenti della mala accoglienza che ricevono, ritornino a commettere delitti e a diventare malvagi e pericolosi cittadini. Credo che la carceri del santo Ufficio siano attualmente le ordinarie prigioni dei vescovi o quelle governative. Da che non usan più gli auto-da-fè, io non presto fede alle fandonie che si raccontano rispetto ai carcerati per delitti religiosi. Comunque, è obbligo del Governo, finchè non abbia abolito interamente il santo Ufficio (ciò che deve far presto) d’impossessarsi di quei prigioni, sostenerli nelle carceri ordinarie, e punirli proporzionatamente secondo i loro delitti, essendo giusto che in materie religiose debba esser tolleranza da parte del Governo, ma rispetto sommo dal lato dei sudditi. CAPITOLO X. RELIGIONE. Il presente capitolo discende molto bene dagli ultimi periodi del precedente. Dissi dell’obbligo che hanno i cittadini a rispettare la sacrosanta religione degli avi nostri, e della tolleranza che il Governo aver deve per le opinioni religiose. Io non so come non si debba esser perfetto cristiano da colui che intese pel verso suo la santa legge del Vangelo. Io ti adoro, religion santissima di Gesù Cristo, credo alla santità della tua legge, imploro di morire nel seno della santa Chiesa, di essere sepolto tra’ miei padri, di profittare delle preci de’ fedeli, dei suffragi dei santi ministri, di godere la celeste gloria del paradiso; questa è la profession della mia fede. Con tutto ciò, siccome le volontà degli uomini sono libere per concessione divina, e perchè alcuni ciecamente discredono dalle massime della Chiesa, questi non si devono costringere col ferro e col fuoco a credere in Gesù Cristo: si tengano però obbligati a rispettare in tutto e per tutto le pratiche nostre religiose, le opinioni, il dogma, la dottrina cattolica. I contravventori si debbono punire dai tribunali ordinari con pene proporzionate risultanti da un filosofico titolo di codice che il nuovo papa ci darà. — Questo capitolo sulla religione importerebbe esso solo un grande volume, ove si volesse discorrere di tutti gl’inconvenienti che sono nella disciplina e nelle pratiche ecclesiastiche. Io accennerò per sommi capi quelle cose che mi sembrano più degne di rilievo, e sulle quali possono adottarsi provvidenze utilissime. I vescovadi non son ben distribuiti nel nostro stato. Un immenso tratto di paese, e per ordinario quello che avrebbe più bisogno d’un pastore, ne è privo. In altri luoghi sono frequenti poco men che le parrocchie. Le rendite di alcuni vescovadi sono scandalosamente strabocchevoli, quelle di alcuni altri sono per la parsimonia indecenti: qui il rimedio è facile. Si erigano nuove chiese episcopali dove il bisogno lo esiga, ed alle chiese straricche si tolga la rendita per quelle. Sia, se non un perfetto pareggio in tutti i vescovati, almeno un poco di equilibrio che modifichi il fasto di alcuni vescovi, incoraggisca l’animo di altri. Il popolo ignora i fondamenti di nostra santa religione. Causa n’è specialmente ne’ piccoli luoghi la vergognosa inerzia dei parrochi, che non ispiegano il catechismo e che non danno istruzioni individuali ai teneri ragazzi. I signori vescovi sorveglino con rigore la condotta di questi pastori, fra i quali io conosco invece certi lupi che consumano molto lautamente il gregge a loro affidato. Vi sia una dottrina di facilissima intelligenza, sia adottata universalmente in tutte le diocesi, nè si permetta ai vescovi di aggiungervi, o togliere, o modificare le massime che vi sono dichiarate, perchè, sebbene io creda che lo scopo di queste riformazioni sia sempre santissimo, pure ingenera grande confusione nelle menti grossolane del volgo, che impara poi di mala voglia, o non comprende d’aver creduto santamente in passato, e sente rimorsi per un errore che non ha commesso: come non ha guari accadde in una vasta diocesi, nella quale uno zelante vescovo volle cambiare le parole degli atti di fede, di speranza e carità, ed i diocesani volgari si spaventarono orrendamente temendo di esser dannati, perchè prima non seppero bene, poi per la difficoltà ad imparare il vero. L’ammissione al clericato ed al presbiterato si fa senza troppo considerarvi sopra dai vescovi. Il clero dello stato pontificio è il più ignorante di tutto il clero cattolico, salve poche eccezioni. Basta avere studiato gramatica latina, e saper quattro pagine di un libro qualunque di morale per diventar prete e canonico e confessore. E con quanto danno della religione, ognuno che abbia fior di senno sel può da sè medesimo considerare. Però al sacro ordine del presbiterato non si dovrebbero promuovere che quelli i quali, avendo prima dato saggio di una savissima condotta, fecero poi i loro studi in perfetta regola, e si sottoporranno a rigorosissimo esame delle scienze filosofiche, morali, dommatiche, teologiche. E con questo rimane anche provveduto in appresso ad una buona scelta di parrochi di campagna, dove si vedono talora certi ignoranti, i quali insegnano in buona fede eresie e massime erronee al ceto de’ contadini, che in vero avrebbe bisogno di una istruzione religiosa purissima, per essere nelle campagne stesse la demoralizzazione pervenuta al massimo grado. La collazione de’ benefizi sia un po’ più equamente distribuita, nè si tolleri l’abuso di veder pochi straricchi di rendite per molti benefizi, ed altri averne un solo miserabile, capace appena di campar la vita di un individuo. Le confraternite, arciconfraternite di Roma e provincie sono un semenzaio di ribaldi, che fomenta le dissensioni cittadine, son cagione di un mal inteso fanatismo religioso, origine di scandali obbrobriosi. Queste vengano abolite; si lascino sussistere le sole antichissime del santissimo Sacramento e della buona morte, e le rendite delle compagnie servano allo stato per isdebitarsi in parte con gli usurai ai quali si vendè il morto papa. Sonovi anche certi ordini religiosi che hanno rendite immense. Se non temessi di osar troppo, direi che si abolissero per isdebitar lo stato colle ricchezze di costoro. Ma i Gesuiti, oh i Gesuiti, sì, è necessità che sian soppressi, distrutti fin dalle radici, disperdutane la memoria. Pio VII col restituirli, sperò, il santo pontefice, che si fossero corretti de’ loro vizi, che avessero ripigliati i santi principii co’ quali istituì il loro fondatore. Adoperar parole contro di costoro dopo quel che ne scrissero autori gravissimi ed ortodossi mi sembra affatto inutile. Chiunque sarà per essere il nuovo papa ei non potrà stare felice in trono se non imita quel Ganganelli di sacra memoria, che, prima di risolversi alla loro abolizione con quel suo celebre breve _Dominus ac Redemptor_, li studiò profondamente, li conobbe indegni di rimanere, trovò essere necessità la loro distruzione. E poichè siamo a parlar de’ frati, io debbo ricordare che vi è grande abuso nell’accettazione di nuovi confratelli, e somma imprudenza nel farli professare in età troppo verde. Io non dubito di asserire che se un pontefice promulgasse una legge nella quale autorizzasse i frati di tutti gli ordini a restituirsi al secolo, i conventi rimarrebbero quasi vuoti. Tanto sono essi pentiti di trovarsi adulti colà dove adolescenti giurarono di morire. Niuno faccia il voto solenne se non a trent’anni. Quest’è l’epoca della vita in cui l’uomo difficilmente s’inganna nella scelta del suo stato. _Nemo militans Deo implicet se negotiis saecularibus_. Con questo insegnamento, che è pur chiarissimo, è insopportabile l’abuso di alcuni preti d’immischiarsi non solo in affari politici, economici, ma di abbassarsi perfino alcuni di essi in affari di commercio, in monopolii, in negozi di cambio, e via discorrendo. Ve ne ha taluno che, lasciato da parte l’ufficio divino e la santa messa, padroneggia nelle campagne, servendo, in qualità di fattore o ministro, un qualche grande, a cui presta poi anche il servizio di cappellano confessore, Dio sa con quanta riprovevole indulgenza! Questo è costume frequentissimo, specialmente nelle provincie dell’Umbria e della Marca. Il nuovo papa ammonisca severamente i vescovi contro un abuso ch’è nocivo alla santa religione. Le funzioni religiose non si eseguiscono sempre con quel decoro che esige la casa di Dio. Tranne alcune chiese cattedrali, dove il cerimoniale è con qualche esattezza osservato, negli altri luoghi, pochi preti, con paramenti indecenti, senza niuna esattezza e regolarità, si fanno lecito di praticare le più auguste funzioni della Chiesa con iscandalo degli spettatori, ai quali la funzione stessa diventa argomento di scherno e di motteggi scherzosi. È però necessario che ogni chiesa matrice, anche de’ piccoli luoghi, sia fornita di tutto il bisognevole, e di un numero bastevole di ministri per la esecuzione delle pubbliche funzioni, e ne venga impedita la pratica per prevenire la derisione de’ troppo satirici secolari. Tutto ciò sia sottoposto alla severa sorveglianza de’ vescovi. E per chiudere questo articolo, nel quale infinite cose si potrebbero dire, ove se ne dovesse fare un trattato, dirò che interessa alla santa religione nostra: che i ministri del culto sien esemplari in tutto, pii, dotti, devoti, da poter servir d’esempio e modello a tutti gli ordini civili dello stato. Che certe pratiche minute di devozione, certe riunioni superstiziose sono sempre a danno di una soda e ragionevole credenza. Che la tolleranza di alcuni pregiudizii, il favore che si accorda a certi miracoli, a certi santuari, l’opinione che si vuol mantenere su certi prodigi non verificati, son cose tutte di particolare speculazione di alcuni, e di superstizione per altri e di raffreddamento religioso per tutti. Per ciò, un nuovo pontefice, se deve esser cauto nella remozione di tanti abusi, non deve però trascurare di sradicarli a tempi opportuni, sotto favorevoli condizioni. Il ritornare la religione cattolica alla primitiva semplicità è desiderio onesto che il papa deve favorire. Senza di questo il protestantismo potrebbe arrivare ad aver un vantaggio sopra di noi, e con danno della verità, della pace del mondo. CAPITOLO XI. ISTRUZIONE. Se Leone XII non avesse fatto altro nel suo regno che la bolla _Quod divina sapientia_, esso meriterebbe per questo solo di essere appellato papa di santa memoria. Infatti prima che da lui si promulgasse il regolamento sugli studi, la istruzione era sotto un’epoca di mortificante deterioramento, irregolare il corso delle scuole, massimi gli abusi, infiniti i privilegi a certi comuni, a certi luoghi, ed anche ad alcuni privati, di conferir lauree in ogni ramo di scienza. Egli soppresse codesti inutili diritti, ristabilì alcune antiche università, richiamò gli antichi licei, istituì accademie, ordinò norme e leggi anche sulle scuole private. Ma ogni radicale riforma è difficile che sul momento riesca perfetta, ond’è che egli lasciò ai vescovi la presidenza in tutto il ramo dell’istruzione, e qui il buon pontefice errò, fors’anche per colpa de’ tempi. La piccola istruzione fu anche troppo negligentata, ed i metodi proposti non sono dell’attualità. Il nuovo papa vedrà di per sè quanto sia assurdo far immischiare i vescovi nella pubblica istruzione. La loro missione dev’essere tutta religiosa, e l’educazione scientifica de’ giovani ha bisogno di tutt’altri direttori che non sono i vescovi. E così dicasi de’ metodi ne’ primi studi. Quando le cose vecchie non son buone in confronto delle nuove, queste debbono preferirsi. Le scuole di mutuo insegnamento sono da preferirsi pe’ giovanetti, ed i sistemi frateschi sono da abolire nelle scuole di filosofia. Non c’illudiamo. L’influenza del buono sarà sempre preponderante, ed i falsi metodi se non si aboliscono, vanno a cader da loro; colla differenza che se i giovani studieranno su buoni e retti principii, saranno dotti e savi cittadini, se saranno istruiti falsamente, la tendenza del secolo gli farà correggere da loro stessi, ma di non tutte le massime erronee si spoglieranno, nè saranno i migliori cittadini e i più buoni cattolici. Le università abbisognano di cattedre di che mancano; tali sono una scuola di letteratura, di economia pubblica, di diritto delle genti, di diritto naturale, ecc. Si vuol più cautela nell’accordar permissioni per istruire la gioventù. Quanto è lodevole l’insegnamento dei padri Barnabiti e Scolopi, altrettanto sono nocivi i principii di alcune scuole pubbliche e private, sieno del sesso maschile o femminile, e troppo si è larghi da per tutto nel concedere autorizzazione a questo fine. Un’apposita congregazione provinciale deve sorvegliare il ramo dell’istruzione, ed ogni paese deve avere sue deputazioni che dipendano da quella. — La congregazion degli studi in Roma sia anch’essa composta di dotti ed onesti secolari, ed abbia il supremo potere su tutte le scuole dello stato. Con questo mezzo si perfezionerà il sublime progetto del buon Leone XII, ed il nuovo papa si avrà il merito di esser nomato il riformatore degli studi. Mi riman solo una cosa da avvertire su questo argomento, e poi do termine. In tutte le università si adopera un’indulgenza troppo nociva nell’accordar le lauree. Moltissimi dottori sono ignoranti. Per porre una remora all’abuso de’ collegi esaminatori, gli esami sien pubblici, e le dissertazioni per lauree sieno scritte su tema dato improvvisamente, e corra l’obbligo all’università di pubblicarle in istampa a proprie spese. Questo è l’unico modo per evitare che i professori e gli esaminatori abusino, ed è cagione ancora che i giovani studino con profitto per ben proprio e per utilità della patria. CAPITOLO XII. TRUPPE. Lo stato nostro, di sua natura pacifico, diventerebbe tranquillissimo e sicuro quando siano accordati ai sudditi quei miglioramenti che vengon dimandati dall’attuale incivilimento. È per questo che la santa sede può abbisognare di poche truppe, che si posson comporre seguitando ad attenersi al sistema di accettare i volontari che si presentano, adoperando maggior cautela nel ricevimento, ed escludendo quelli che mancano di documenti che comprovino una buona condotta. Io penserei che si potessero anche ricevere individui che furono già inquisiti, o la condotta dei quali è sospetta ai magistrati politici là dove essi sono domiciliati. Ma di cotal razza di soldati si dovrebbe fare un battaglione a parte, regolato da disciplina militare più severa, e sorvegliato con maggiore attenzione. Così da cattivi soggetti si potrà trarre buon profitto, si riformerebbero i loro costumi, e col tempo si restituirebbero alla società cittadini purgati, degni di considerazione. E se il papa dovesse combattere contro i nemici della santa sede, di quali truppe si servirebbe egli all’occorrenza? Il ciel volesse che il papato diventasse militare per Italia nostra! Ma qualunque potesse essere il bisogno ne’ papi di aver truppe, io vedo che lo stato potrebbe, all’occorrenza, aver buoni soldati, se, adottando una specie di coscrizione municipale, col titolo di truppe urbane facesse in ogni luogo iscriver ne’ ruoli secondo le leggi di coscrizione coloro che vi debbono stare, ed obbligasse gli arruolati ad esercitarsi nelle manovre militari, dirette da pratici istruttori, che non mancano in alcun comune. Così il governo potrebbe calcolare all’occorrenza su truppa regolare ed abituata all’esercizio dell’armi, facendo che i coscritti si prestassero ad ogni chiamata dello stato, che li armerebbe regolarmente alla opportunità. Io credo che la più parte de’ lanzi che l’imperatore manda a soccorrere il papa, quando i sudditi gli si ribellano, siano corpi di riserva che i capi delle municipalità fan chiamare, forse a suon di campane, allorchè il governo ne abbisogna. Da tutto ciò ne emerge che le truppe straniere devono esser subito congedate, e tolto così una profonda cagione di rancore ai popoli, che a malincuore sopportan la presenza di codesti mascalzoni, vergogna e disonore della patria libera da cui vengono. Appena si crederebbe da chi non è statista che un buffo regno come il nostro, di poco più di due milioni d’individui, abbia due diversi corpi di truppe politiche per la sicurezza dell’interno. E molto meno si crederebbe che sianvi paesi sforniti affatto di soldati di polizia, per lo che il reggimento civile in questi luoghi non ha sostegno di sorta, ed è libero a tutti di fare almeno quel che si vuole senza dipendenza dell’autorità. Lascio degl’inconvenienti che accadono fra i diversi corpi politici, i quali fra di loro non si ricambiano stima, anzi si aborrono cordialmente. Lascio dei privilegi che si accordano ad un corpo di questi, all’altro si negano. Ma prudenza di governo è quella di lasciare certe terre e castelli popolatissimi senza l’ombra di una guardia e in balia di loro stessi i popolani di que’ luoghi? Anche qui mirabilmente spicca l’egoismo di Roma. Colà sono migliaia di soldati di ogni arma solamente per pompa, per inutile lusso, per far corte al papa, ai cardinali, ai prelati, ai capi dello stato-maggiore. Perchè non si debbono egualmente distribuire le truppe per lo stato e lasciarne solo un maggior numero nella capitale per decoro e servizio delle corte? Perchè il governo non se ne serve a far scortar le diligenze, e garantire con una buona mano di dragoni il danaro che i privati inviano ne’ luoghi con quel mezzo mal sicuro? È poca ingiustizia dello stato il far pagare a due per cento il trasporto dei danari, e poi non garantirli in caso di assassinio? In luogo di due finanzieri, perchè la polizia di Roma non fa scortare da otto dragoni le diligenze ed i corrieri? Indicati gl’inconvenienti in questo titolo, ne emergono facili le riforme. Il nuovo papa le adotti se brama sentirsi nominare papa e re galantuomo. CAPITOLO XIII. APPALTI. Non v’è economista che non gridi la croce contro gli appalti. Tutto il lucro che rimane all’imprenditore è a danno dello stato e dei sudditi. Poi le angherie dei privati contro il pubblico, alienano gli animi dal cuor del sovrano. Sono infiniti i mali insomma che da questo falso sistema provengono. Io piglierò ad esempio l’amministrazione de’ tabacchi. Un recente signore ne è l’appaltatore. Arricchitosi non si sa come, esercitando i suoi una servilissima arte, poi divenuto ricco banchiere e duca, dando ad usura ai papi il suo oro mal’acquistato, facendo mostra di generosità co’ primi piaggiatori di Roma, prodigando a tempo utile qualche elemosina al popolazzo, allogando di tempo in tempo lucrose opere ad artisti, profondendo danaro scaltramente in società brillantissime, oscurando il lustro dei veri principi romani, arrivò costui a padroneggiare lo stato e rendersi devoti i capi di tutti i dicasteri, ad estorquere concessioni e privilegi dalla corte, e farla, in fine, con pochi altri vili satelliti, da vero tiranno, e soperchiatore in tutti i dominii della santa sede. I di lui agenti hanno demoralizzato tutti i buoni e schietti abitanti che sono lungo il lido del mare dal Tronto a Comacchio e sull’altro del Mediterraneo. Ha istituito una polizia composta di sgherri armati, i quali abusano della protezione che loro accorda il governo. Ha posto la diffidenza nelle famiglie, il sospetto fra gli amici e parenti, ha favoreggiato lo spionaggio, ha comprato i tradimenti, ha tradito la buona fede dei sudditi, ha tolto all’amore del governo mille cuori devotissimi. Ha corrotto magistrati, ha sedotto soldati, ha sacrificato molti individui, ha immiserite comode famiglie, ha deteriorato il commercio di mare, l’industria pubblica e privata. Che più? Ha turbato colle sue perquisizioni la sacra pace dei religiosi, delle vergini di Gesù Cristo, le ceneri de’ defunti. Dio mantenga il di lui tremendo giudizio sopra di costui, e non gli accordi mai quella prole che agogna!! Gli appaltatori degli altri rami sono anch’essi più o meno dannosi allo stato, sia dal lato economico, sia dal lato morale. Ma la perversità è massima nell’amministrazione de’ tabacchi, ed è argomento di gravissimi scandali, da che l’imbecillità di un papa egoista ne die’ la privativa all’appaltatore presente. Io ho sentito parlare di progetti su questo argomento che mi sembrano molto utili allo stato. Ignoro se siano facilmente eseguibili, ma se il governo ne farà argomento di disquisizione con persone atte a dar consigli, mi par probabile di poterli effettuare. Intendo parlare della libertà di commercio sui tabacchi e sui sali. Poniamo che il governo abbia un milione netto di rendita sui sali e tabacchi. Istituisca una tassa provinciale proporzionata, che renda allo stato quello che introita coll’appalto, ed i sudditi saranno ben contenti di fare un pagamento di poco rilievo a rate, e scegliere e comprare dai più esatti industriosi sia il sale, sia il tabacco, che sarà sempre abbondante nello stato, ed a prezzo tenuissimo. Se si ha a dir la verità, i tabacchi dello stato pontificio sono per avventura migliori di tutti quelli degli stati italiani. Ma i prezzi loro enormissimi, ed i tabacchi che costerebbero lieve somma, sono di pessima qualità, insopportabili, da non poterne far uso. Quando la fabbricazione de’ tabacchi era libera, v’era fra i commercianti una gara utilissima, venivano occupati sperimentati artisti nazionali, e in questo maleaugurato bisogno del popolo si provvedeva con soddisfazione dell’odorato, e con moderatissimo incomodo delle borse. Lo stesso dicasi del sale. Ogni industriante aveva un interesse a fabbricarne dell’ottimo, e non si vide altro che in quell’epoca portata a perfezione l’operazione di questo genere necessario, o introdotto nello stato il miglior sale che trovasi in natura in altri luoghi più fortunati. Non vi fu caso mai che alle popolazioni mancasse un genere o l’altro. Ma a garantire i consumatori da un’evenienza appena possibile mille modi avrebbe il governo, tra’ quali l’istituzione a proprie spese di spacci normali in ogni comunità. Io mi sono diffuso a parlare a lungo di questo appalto, poichè è quello che è più degli altri tirannicamente amministrato, e mal si sopporta dai popoli che alle oppressioni del governo si aggiunga quella d’un esoso privato, che con sue ladronerie si compera ormai i dominii della santa sede. L’altro dazio gravosissimo al popoli è quello del macinato. Io stimo che il governo potrebbe, con proprio vantaggio e più tranquillità dei sudditi, adottare un progetto simile al precedente, e toglier via dalle provincie tanta ribaldaglia di appaltatori, che fanno malcontente le popolazioni a danno sempre della sicurezza del pontificato. Le forniture sono un _fac simile_ degli appalti. Colla differenza che la trufferia dei fornitori si fa più direttamente a danno dell’erario, e ne risentono alcune classi di persone che hanno diritto ad esigere più riguardi e più compassione dal governo. Tali sono le truppe, malmenate tanto dai fornitori generali di Roma, ed i poveri carcerati, specialmente delle provincie, dove il trattamento ed il vestiario viene subappaltato due o tre volte; tanto che l’ultimo fornitore rade fino alla pelle lo sciagurato prigioniero, per far anch’esso un lucroso guadagno. Io non so se fosse possibile al governo di amministrar queste cose a proprio conto: è però vero che un tale ramo esige una prontissima riforma, che migliori la condizione di queste classi, e specialmente dell’ultima, la quale ha diritto ad ogni nostro riguardo ed alle nostre premure. Ma qualcuno potrebbe opporre che coll’abolizione di certi appalti un numero grandissimo d’impiegati rimarrebbe sprovvisto improvvisamente senza aver altre risorse. Per ciò che riguarda gl’impiegati camerali essi hanno diritto ad essere mantenuti in soldo e si porranno in riposo, o si faranno occupare in altri impieghi. Quanto agl’incaricati dell’attuale appaltatore de’ tabacchi essi siano congedati con qualche gratificazione, e tornino alle loro antiche professioni, o si procurino qualche occupazione, e facciano insomma quello che prima dell’appalto ducale facevano. La carriera stessa militare può servire a moltissimi di onesta professione ed onorata. Tutte le altre privative e privilegi ed esenzioni sono, più o meno, un abuso del governo per procacciare un piccolo lucro a sè stesso, e che arricchiscono qualche privato con danno di tutti gli altri sudditi. Merita però anche questa parte una seria disquisizione le di cui risultanze tendano a far vantaggio ai più, allo stato medesimo, che suona lo stesso. Nè s’intenda con ciò che le invenzioni o i perfezionamenti nei rami industriali non debbano premiarsi ed incoraggirsi co’ dovuti onori e privilegi. Quando il vero merito o una scoperta utile alla nazione implora dal Governo protezione e soccorso, si deve essere generosi nel concedere, perchè la ricompensa alle cose utili è stimolo a sempre progressivi miglioramenti. CAPITOLO XIV. MANIFATTURE, INDUSTRIA AGRICOLA, ECC. Manifatture nazionali, industria agricola, società d’incoraggimento, case di soccorso, istituti di beneficenza, case di sanità, ricoveri, bagni pubblici, scuole di arti, scuole di nautica, sale d’asilo, spedali di maternità, ec., sono tutte parole, per noi pontificii, che abbiamo lette nei giornali italiani e stranieri, o sentite ricordare da qualche viaggiatore nazionale che abbia veduta e percorsa la sua patria. Non mi si opponga che Roma è ricca di opere pie e di stabilimenti utili, e che in qualche paese dello stato già sono istituite casse di risparmio, ed altre e savie istituzioni: poichè io risponderò che codeste eccezioni sono di maggior cordoglio per chi desidera miglioramenti, i quali ove non spandano la benefica influenza da pertutto, servono invece di rancore e d’invidia contro gli abitanti della capitale, i quali sembrano accampar diritto a privilegi che non sono conceduti agli abitanti delle provincie. E poi se vi volesse fare un esame di codesti istituti che sono in Roma, e che si riducono alla perfine a qualche ospedale od altri pochissimi stabilimenti di utile pubblico, si vedrebbe che alla direzione di alcuni son sempre preti o pavonazzi, o rossi o neri, che ne sciupano le rendite, se ne profittano, e non sanno porre un’ombra di ordine nell’interno di esse; e direttori di altri sono sfaccendati artisti, capi di fabbriche ignoranti, o inerti di loro natura, o tendenti solamente al proprio lucro, o godenti una inopportuna protezione di qualche impiegato autorevole di governo, o mancanti affatto, benchè meritevoli, della necessaria protezione del sovrano. A sviluppare questo capitolo con qualche analitico esame sarebbevi voluta una memoria che avrebbe essa sola occupate molte pagine. Mi è bastato accennare i sommi capi per ricordare al successor di Gregorio, che non per colpa nostra noi non risentiamo ancora la influenza del progresso, ma per ignoranza e per mala volontà di chi ha retto e governato finora. E chiuderò col dire che le istituzioni umanitarie accennate nel primo periodo del presente capitolo, ove trovassero appoggio nel governo e mano forte nella classe dei ricchi, oltre alle tante utilità di che sarebbero feraci, preverrebbero che il pauperismo, proprio compassionevole, del nostro stato sarebbe grandemente diminuito, e il vagabondaggio e gl’individui oziosi di cui noi abbondiamo, sarebbero ridotti al minimo numero, con molta soddisfazione de’ sudditi tutti e specialmente di certe città dove la poveraglia di necessità e di professione è di grave noia alla tranquillità dei cittadini, e di niuna sicurezza individuale. CAPITOLO XV. AMMINISTRAZIONI COMUNALI. Chi si ferma a guardare nella corteccia le istituzioni dei Consigli comunali, riman sorpreso, come nel governo dei preti possa esservi un ordinamento tanto democratico. In fatti ogni municipio ha copioso numero di comizii, tratto da tutte le classi degl’individui che compongono una comunità. Ma il governo nell’istituire gli ordini municipali gittò nella bocca degli affamati terra, e non pane. Lascio della sorveglianza e supremazia tirannica e capricciosa che viene accordata ad ogni capo di provincia, su’ negozi della comunità. Lascio della esosa dipendenza che si esige dalle magistrature nell’obbligare a comunicare in antecedenza ai delegati e governatori le proposte di cui deve farsi discussione. Ma i comizii vincano pure a pieni suffragi un partito che venne posto a squittinio secreto; quella risoluzione dev’esser sempre approvata dai delegati, i quali a posta loro, a pieno capriccio, per vedute parzialissime e private, molte volte negano la sanzione dell’atto il quale rimane sul colpo nullo ed invalido, come se non avesse avuto luogo alcuna discussione. E non sono mica rare le prepotenti negative de’ delegati ad approvare certi atti consigliari. Queste accadono di continuo, e specialmente contro le piccole comuni, che sono più assai tirannicamente trattate di tutte le altre. Così l’apparente democrazia de’ Consigli diventa autocrazia, ed i delegati tutti dello stato sono i czar delle provincie. Or lascio che altri immagini gli arbitrii de’ legati, la influenza de’ quali presso il governo è molto maggiore. Trovo giusto che una supremazia de’ capi delle provincie sorvegli al buon ordine delle cose municipali; che gli atti consigliari non si debbano sanzionare se le formalità volute dalla legge si trascurarono nella celebrazione degli atti medesimi; ma le risoluzioni che a maggioranza dei voti prendono i rappresentanti del popolo, sieno rispettate, e non dipendano dalla ignoranza o malizia de’ capi delle provincie, i quali nella maggior parte non essendo statisti, niun interesse hanno per le cose nostre, e consumano il tempo nel capo-luogo tra le adulazioni de’ patrizi, nelle crapule, nelle lascivie e nell’ozio più riprovevole. Lasciano essi la cura degli affari più gravi nelle mani de’ loro secretari generali, moltissimi fra’ quali sono diretti dall’amor del lucro, dalla forza degl’impegni, dalla passione della vendetta. Ecco il beato regime di che si godono le più belle provincie d’Italia. Ecco i bravi governanti che i papi mandano a felicitare i popoli. Abatini discoli o porporati astuti stranieri, sempre ignoranti, scolaruzzi senza studio, vanarelli, pazzarelli, gonfi degli onori che loro vengono resi dai nobiluzzi delle città, senz’amor del pubblico bene, pensanti solamente a vivere, anzi a vegetare. E l’ubbriaco Tedesco sa e conosce meglio di noi cotali obbrobri, e manda suoi lanzi a reprimere le nostre rivoluzioni!!! Ma Dio non paga il sabato. E la vendetta ch’egli fa contro gli oppressori di un popolo quanto è più lontana, tanto è più gagliarda. Sel sappia lo stupido Ferdinando; Iddio non paga il sabato! E chiudo questo capitolo imprecando cordialmente ogni vendetta contro al Tedesco, pregando il cielo che faccia parer buone e sante queste mie parole al successore del Bellunese, già da incorruttibil giustizia giudicato. CAPITOLO XVI. IMPIEGATI. Il conferimento degl’impieghi è di quasi esclusiva attribuzione della segreteria di stato. La nomina è sempre tutta a nome del sovrano, ma poche volte ei se ne briga davvero, tranne il caso in cui voglia provedere qualche suo ben affetto, o raccomandato da persona autorevole. Nei primi anni del pontificato di Gregorio il di lui aiutante di camera vendeva a prezzi fissi i posti e le cariche anche più onorevoli e sublimi. Talchè si videro fra i giudici, governatori, cancellieri, proposti, e via discorrendo, persone che occupavano posti vilissimi, o avevano servito nelle truppe, o erano cherici, o non avevano fatto alcuno studio, o erano istruiti in rami diversi affatto da quelli dell’impiego che andavano ad esercitare. Lo stesso sistema è adottato dalla segreteria di stato, eccetto rarissime cose. L’impegno di cardinali, di nobili romani, de’ ministri, degli stessi servitori di qualche personaggio, basta ad ottenere un biglietto di nomina. Talora «Spiccano ciò che voglion da palazzo »Chi porta bella moglie e bel ragazzo,» perchè i segretari di stato, i sostituti, i primari impiegati sono anch’essi composti di polpa ed ossa come tutti gli uomini, e si danno buon tempo, ed amano le loro lasciviole, e si piegano volentieri alle lacrime di qualche bella signora o di qualche scaltra zombracca. Questo sistema fa che gli onesti impiegati, i quali abborrono ogni sorta d’intrigo, rimangono molti anni ne’ loro posti senza ottenere avanzamenti, ed i faccendieri, che possono spendere od estorquere una commendatizia, o procurarsi una protezione, hanno avanzamenti lucrosi ed onorevoli senza merito, senza giustizia, senza onestà. Ed ecco perchè nei tribunali, ne’ dicasteri, in tutti gli uffici si trovano sempre impiegati facili ad esser sedotti, incapaci a rettamente eseguire le loro attribuzioni, mancanti di pratica, di teoria, e quindi attivissimi a male amministrare la giustizia, a commettere errori dannosi per le cose del pubblico e per gli affari de’ privati, ora per ignoranza, ora per cattiveria. Gl’impieghi si conferiscono a preferenza ai Romani, o almeno in molto più favorevole proporzione per essi, poichè fra di loro tutti sono figli o nipoti di preti, di prelati, o addetti alle case de’ cardinali, o stretti in amicizia co’ ministri stranieri e con i loro domestici. Costoro, quando vengono a coprire le cariche in provincia, sono orgogliosi, insolenti, maneschi, ingiusti, tanto che sono odiati da tutti, e cagionano male umore contro il Governo. Quanto è necessaria un’attiva e radicale riforma su questo delicatissimo ramo! Abbia pure lo stato ottime leggi, savissimi ordinamenti, istituzioni onorevoli; se gl’impiegati non sono probi ed intelligenti, il malcontento durerà sempre, si darà ognora luogo all’arbitrio, e i sudditi lamenteranno, non avranno amore e rispetto al sovrano, desidereranno cambiamenti politici, e faranno congiure e tenteranno ribellioni. Un miglioramento in ciò debbe esser prontissimo e radicalissimo. Senza di esso ogni altra buona ordinanza sarà inutile, poichè sono i cattivi esecutori delle cose quelli che rendono vani i buoni ed utili miglioramenti. Perchè gl’impieghi non si dovrebbero conferire dietro rigorosissimo esame relativo? Perchè non esigere dai richiedenti la prova certa di una immaculata condotta? Perchè a circostanze pari l’anzianità non viene calcolata? Perchè gli assegni non si proporzionano, e non si aumentano certe vilissime paghe d’impieghi delicati, e non si toglie così un argomento potente alla prevaricazione? Perchè non si danno compensi alle fatiche straordinarie, alle operazioni utili dello stato? Perchè non si esige dai capi d’ufficio un’attiva sorveglianza e mensuali ingenui rapporti? Perchè non si stabiliscono da per tutto ispettori provinciali probissimi, ch’esaminino con pieno rigore la condotta degl’impiegati, e perchè non sono gl’ispettori stessi sottoposti a rigoroso rendimento di conto delle loro operazioni? I sorvegliatori attuali sono tutti pressochè uguali a quell’uditor santissimo che presentemente va facendo un viaggio di piacere per lo stato col titolo di visitatore. Ha dato una occhiata a certi locali, a certi uffici, ed ha trovato, il buon uomo, che tutto andava in piena regola e perfettamente, anche dove le cose andavano in malissima regola e in pieno disordine. Io non so a che scopo avvisasse il viaggio di costui. Certo è ch’egli non fece nulla, e si è procacciata l’indignazione de’ popoli e la derisione degl’impiegati. Concludiamo. I preti stiano nel santuario. Non s’impaccino negl’impieghi dello stato, perchè è giusto che i primi posti ch’essi occupano si cedano ai laici. E più presto il papa giunge a ciò, e più sicuro sarà in trono, e contenti saranno i suoi sudditi. Questo è osso un po’ duro da rodere per loro. Ma è di giustizia un cotal cambiamento. È nel desiderio dei più, e basti. CAPITOLO XVII. STAMPA. La libertà della stampa, quando essa abbia un limite e si opponga alla pubblicazione di cose irreligiose e disoneste, è affare utilissimo e necessarissimo ad ogni governo ben regolato. Quando a ciascuno fosse fatto lecito di censurare la condotta degl’impiegati, quando si potesse dire liberamente a carico dei signori ministri, quando si potesse levar la voce contro gli errori che commette il Governo, quando fosse tollerato parlare della cattiva amministrazione pubblica, quando fosse permesso pronunciare il proprio sentimento su certi metodi di studio; io vi so ben dire che i signori impiegati opererebbero con miglior giustizia, il Governo rifletterebbe di più sulle determinazioni che prendesse, l’erario non sarebbe l’ufficio legale di latrocinii, gl’instruttori adotterebbero i metodi riconosciuti migliori, e così ogni cosa prenderebbe il suo posto conveniente, ed i popoli avrebbero meno ragione di lamentarsi, ed il regno de’ preti diverrebbe a tutti accetto e gradito. E chi scrive sia responsabile di quello che asserisce, quando le cose stampate offendono direttamente le persone ed abbiano apparenza di calunnia. Così la censura sacra, la censura politica non si opporranno più al progresso delle scienze, perchè quelle menti torbide d’inquisitori, commissari, trovano da evitar sempre qualunque libro scientifico, e gli scrittori, o indispettiti od iscoraggiati, dimettono il santo pensiero di scriver per la bassa ed alta istruzione, ed al popolo non si distribuisce il pane dello sapienza, si eterna la di lui ignoranza e rozzezza. Il santo Padre nuovo non tema, no, di accordare la libertà della stampa; egli deve valutare i vantaggi ch’essa arreca, e deve considerare ch’è mezzo atto a favorire il contento dei popoli, ch’è quanto dire che assicura le saldissime ed eterne basi al trono pontificale. CAPITOLO XVIII. SALUTE PUBBLICA. Dà argomento di somma civiltà quel paese che s’interessa molto della salute de’ popoli. Ma se si ha a dire il vero la igiene pubblica è assai nel nostro stato trascurata. Ond’è che il nuovo sovrano deve mantenere in vigore le poche buone leggi che vi sono in questo proposito, riformare quelle che meritano correzione, istituirne delle nuove, atte a guarentire la salute della nazione. Qui non v’è bisogno d’interessare i medici italiani perchè scrivano per norma del Governo. Vi sono opere classiche che ne trattano estesissimamente, fra le quali quella del piemontese Lorenzo Martini[11] e di Gian Pietro Frank, che possiamo riputare come nostro connazionale. Io mi contenterò di accennare la necessità in che siamo di avere alcune cose essenzialissime per la tutela della sanità del popolo. E giustizia vuole che a questa si dia subito prontissima mano ed aiuto, perchè è troppo grave colpa del Governo il non riparare a certi danni frequentissimi nell’umana società. Ne’ luoghi di marina, dove la prima industria è la pesca, accadono spesso morti per annegamento, nella mancanza in che si è degli argomenti opportuni a risuscitare, dirò così, i poveri affogati. La società filantropica di Londra, di cui è capo il re, ha salvato in pochi anni la vita a moltissimi asfittici, che nello stato nostro vengono seppelliti per morti. Fino a che il sovrano non oppone a cotali disgrazie tutti quei mezzi che la scienza gli ha proposti, egli si fa reo della morte di ciascheduno, e ne dovrà render conto a Dio, il quale, quando gli affida le nazioni, impone di ben guardare la vita de’ propri sudditi. E così parlo della mancanza di un porto o un canale da Ancona fino al confine del Tronto, per cui le barche da pesca nelle burrasche frequenti dell’Adriatico non avendo altro rifugio che il lontanissimo porto di Brindisi, in ogni caso di tempesta si perdono molti legni col proprio equipaggio, e ciò per colpa del Governo, che in così lungo tratto di mare non ha eretto mai un asilo di sicurezza per que’ disgraziati. È inconveniente grandissimo la facilità, anzi il favore e lo stimolo che dai parrochi si adopera per la celebrazione dei matrimoni, senza guardare affatto la salute fisica degl’individui che si maritano, e se abbiano mezzi economici a campare una famiglia. Ecco perchè da noi si vedono schiere di tisici, di scrofolosi, di apopletici, di sifilitici. Così la nazione perde della propria robustezza, e in pochi anni si riduce lo stato ad uno ospedale d’incurabili. La Polizia abbia sue leggi atte ad impedire matrimoni malsani, e badi che ne’ contraenti non manchino affatto i mezzi della sussistenza. Quest’ultima providenza vale anche a prevenire la funesta propagazione de’ ladroncelli, poichè in cotali coniugii i padri esigono che la prole si procuri da sè stessa quel mantenimento che si ottiene poi nei furti di campagna e nelle piccole ruberie delle strade. È grandissima l’inerzia del governo a non riparare ai primi impaludamenti di alcuni territorii, che poi col tempo non si tolgono più, o almeno importeranno grandissime spese. Quasi ogni provincia dello stato è soggetta a queste disgrazie, e la cattiva sanità o la morte degli abitanti di questi luoghi sono pure mali di cui la colpa essendo del sovrano, egli ne renderà conto a Dio, se dal canto suo non adopererà quei mezzi che la scienza idraulica propone. L’ignorante e superstizioso abuso di suonar le campane nei momenti delle rivoluzioni atmosferiche, costa la vita a non pochi fanatici, ed il regnante si fa reo avanti Dio della morte di costoro, perchè non ne impedisce con legge la pratica. In molti piccoli municipii si seppelliscono ancora i defunti nelle chiese. E ciò importa che nelle calde stagioni si sviluppi sempre qualche mortale epidemia, che uccide non pochi cittadini. Il capo dello stato è l’uccisore di costoro, perchè non seppe rendere universale la legge de’ cimiteri rurali. In molte comunità, sia per colpa dell’autorità civile, sia per la negligenza degl’impiegati sanitari, i commestibili che si vendono al pubblico sono molte volte mal sani, e ne va di sotto la salute e la vita di molti. Il principe risponderà a Dio di codesti danni, perchè non fece rispettare le leggi, che pure su ciò provvidi papi emanarono. Gli ospedali mancano in molti paesi dello stato, e non pochi individui periscono per mancanza di soccorsi. Anche la morte di costoro peserà sulla bilancia del supremo giudizio a danno dei reggitori del trono. Gl’incendii, la mancanza de’ ponti, le strade pericolose, gli edifici cadenti, e mille altre cagioni di danno pubblico e privato, obbligano per giustizia il sovrano a spander per lo stato i corpi de’ pompieri, a ordinar la fabbricazione de’ ponti, ad accomodar le strade e a far demolire gli edifici pericolosi, ed altro. Tutte queste cose ove vengano trascurate, il giudizio di Dio sarà grave contro colui che impera, perchè avrebbe dovuto reggere qual padre i popoli che gli furono affidati. Ed ho accennato le cose essenzialissime, che richieggono pronto provvedimento, perchè se avessi voluto enumerare tutti i mali relativi alla sicurezza e sanità de’ popoli, io avrei dovuto fare un lungo trattato, inutili d’altronde, perchè, come dissi di sopra, noi non ne manchiamo, e può il Governo perfezionare la igiene dello stato se vorrà prendere regola da quei libri utilissimi. CAPITOLO ULTIMO. Io mi era proposto di trattare ancora diversi altri argomenti utilissimi in questo libricciuolo. Ma la necessità mi ha indotto a por termine al mio lavoro, perchè giunse nelle provincie la notizia della rapidissima elezione del nuovo pontefice. Il nuovo unto del Signore, il supremo re della terra sarebbe, secondo la novella percorsa, l’eminentissimo cardinale Mastai di Sinigaglia, vescovo della città d’Imola. Io m’ho visto una commozione di animi così straordinaria per la costui esaltazione, che rare volte i popoli s’addimostrano sì lieti per cagioni di pubblica e comune fortuna. E posso credere che la esultanza dei sudditi sia pienamente giustificata, poichè il novello sovrano è ricco di rare virtù, di sapienza, di umanità, di carità evangelica. È in me fede grandissima ch’egli accolga le parole espresse nel presente indirizzo con quella gentilezza di cuore con cui ricevette ognora ed esaudì le preghiere di tanti sciaurati al suo sacro impero nella diocesi d’Imola sottoposti. E la bontà di cui è riccamente adorno mi fa sperare ancora, che se il desiderio in me del pubblico bene mi ha portato talora ad adoprare parole aspre e rigorose contro il reggimento politico del cessato sovrano, egli vorrà usarmi quella indulgenza che può meritare uno il quale, amico com’è della Sede apostolica, vuole e brama che i sudditi di tanto sovrano non abbian lamenti a fare, e si chiamin lieti e contenti di esser figli e vassalli del regno della Chiesa. E potrei quasi far sacramento, che fra non molto tempo le popolazioni vedranno praticati i più saggi ordinamenti di cui si gloriano le nazioni civili. Le sciagurate famiglie de’ prigioni politici riabbraccieranno nelle loro case i loro più cari. I popoli avranno un codice criminale e civile, la cui mercè la vita e le sostanze degli uomini saranno rese tranquille e sicure. Le procedure criminali correranno più spedite, saranno cristianamente trattati gl’inquisiti, ed abolite interamente le infami giunte e commissioni militari e civili. Le imposizioni non saranno più gravose ai sudditi, e cesseranno le angarie e i soprusi dei regolamenti doganali e daziari. La Polizia avrà sue leggi certe, e non si darà più luogo all’arbitrio. L’istruzione favoreggiata e facile, e libero a tutti di dissetarsi al calice della scienza. Provveduto all’educazione fisica e morale degli infanti, assicurato un asilo o sussidio alla impotente vecchiezza. Cacciate le truppe straniere, e congedati i corpi de’ malvagi volontari pontificii. Protetta la industria nazionale, e vietati i tirannici appalti. Resa più splendida la cattolica religione nostra col rimuoverne gli abusi, e col creare pii e saggi ministri. Soppresso l’ordine de’ Gesuiti, peste mortale del mondo cattolico. Istituite ordinanze onorevoli per la retta amministrazione delle cose municipali e provinciali. Occupate negli impieghi le persone più meritevoli, e rese le debite ricompense al merito. Accordate le più interessanti cariche dello stato a laici dotti e probissimi. Concesso ad ognuno lo stampar liberamente, ne’ limiti della religione e della onestà. Guarentita la pubblica sanità e sicurezza coll’adottamento di savie leggi igieniche. E questa sarà propriamente per noi l’_era novella_ promessa per la paura d’un papa, osservata per la magnanimità di un altro. Ma quanti ostacoli non troverà egli il nuovo gerarca per la esecuzione di così utili ordinamenti! Sono alcuni fra’ porporati che, vedendo in ogni innovamento una pericolosa concessione, e desiosi di vedere oppressi i sudditi o per inopportuna paura o per malignità di cuore, consiglieranno insistenti di lasciare le cose nello stato in cui sono, ispireranno dei dubbi sulla ingenuità di coloro che dimanderanno le riforme, in ogni movimento innocente sogneranno una ribellione, e si faranno essi stessi nascosti autori di fatti sospetti, di scritti incendiari, di emblemi rivoluzionari. La satanica arte di costoro potrebbe trionfare della perspicacia del sovrano. Il nuovo principe non creda alla buona apparenza delle loro parole. Essi, come dice sant’Agostino, sono al di fuori scialbati candidissimamente, ma hanno l’anima nera come tizzo di carbone. Quando i popoli pontificii si vedranno posti al rango che si addice all’attuale loro civiltà smetteranno ogni idea di cambiamento politico, troveranno dolce il comando della monarchia pontificale, non avranno ad invidiare i vicini reggimenti civili di stati italiani; faranno voti per la conservazione della santa Sede, e prepareranno cogli scritti e colle parole una gloriosa immortalità a Pio IX, che soddisfece ai prepotenti bisogni de’ tempi. E però il perdono ch’egli darà agl’inquisiti di stato sia santo ed ingenuo, come quello che darebbe Gesù Cristo se avesse da tornare sulla terra. Se l’amnistia non viene accompagnata dalla reintegrazione ne’ diritti civili, se quegli che vien perdonato non è sicuro dalla calunnia di nemici, dalla indiscreta sorveglianza di commissari di polizia; se gli vien restituita una libertà con limiti angustiosissimi; se non viene saggiamente provveduto alla di lui sussistenza, ove ne abbisogni; se gli verranno fatte insidie morali, e valutato a delitto il pensiero o una parola, questa amnistia diventerebbe un laccio, un tranello empissimo, più orribile e penoso della stessa condanna a cui l’inquisito politico soggiacque. E so ben io che la santa virtù del nuovo regnante abborrisce da cotali vili ed insidiosi concetti. Ma nella corte s’introducono sempre alcuni astuti che ordiscono segrete mene contro l’umanità, e questi sono nemici dell’uomo, sono nemici del Governo, ma si dichiarano da loro stessi e filantropici e devoti al vicario di Gesù Cristo. Da questi truculenti si guardi il successore di san Pietro, e ponga freno alla loro prepotente influenza, col distrugger tosto ogni sorta di arbitrio alla Polizia, nucleo fin ora di tirannide non solo, ma primario elemento di schiavitù, massima cagione del mal contento de’ popoli, e potente nemico del governo pontificio. Ma qui gl’infiniti amici del Governo, i pretesi sostenitori del trono e del pontificato seguiteranno a gridare e dire come la esperienza addimostri la inefficacia della clemenza, e che i malcontenti, anche dopo il perdono, si mostrarono coi fatti nemici violentissimi del Governo. Io risponderò dicendo, che la massima parte di coloro i quali furono nuovamente rilegati in carcere fu ristretta per semplice sospetto della irrequieta Polizia; e che i loro incarti, fabbricati da perversi e sanguinari processanti, non diedero risultanze positive, o si trattò solamente di semplici parole, o fatti isolati di niun valore. E nell’altra parte se vi furono individui i quali ritornarono ad inveschiarsi profondamente in affari politici rilevanti, questi sono di quella classe di cui poco sopra io parlavo, posta in uno stato di violenza terribile, vale a dire, trascurata non solo dal Governo e dalla società, e priva di mezzi di sussistenza, ma provocata gravissimamente dalla insolente Polizia o per inopportune sorveglianze o perchè privata dell’interna libertà, e non reintegrata mai ne’ diritti sociali, al godimento de’ quali ognuno di loro intendeva. Ed ecco perchè io raccomandava che il perdono fosse generoso, amplissimo, ingenuo, generale. E così pongo fine a questo qualunque siasi lavoro che intrapresi al solo scopo di esser utile ai miei compatriotti. In esso non adoperai studio di sorta a farne un libretto elegante e filosofico: volli attenermi ad un linguaggio di comune intelligenza, e presi nota solamente di quelle cose più rilevanti che mi parevano degne di ricordo e necessarie di miglioramento. Quindi non frasi, non regolare ordine di materie, non concetti nuovi e profondi. Il miglior pregio del libro, sono la verità e la santità del fine. Se una sola delle mie idee non esistesse già nella mente del sovrano, che deve intender certo a cambiamenti solidissimi, e fosse tolta in considerazione io mi chiamerò fortunato di aver avuto una parte benchè impercettibile nello stabilimento del bene universale. RELAZIONE DEL FATTO AVVENUTO IN CESENA LA SERA DEL 14 LUGLIO 1846. Molte cose sono state ragionate da varii, sui cattivi ordini che aggravano il nostro stato, e che ne fanno, per così dire, una anormalità, in mezzo al progresso civile de’ tempi nostri. Ma per comprendere i mali effetti di quelli, e trarne argomento a spiegare il profondo malcontento che regna in queste provincie (malcontento che non si acqueterà mai, ove il nuovo sommo pontefice non dia mano con ardimento e risoluzione a riforme radicali, vincendo la subdola opposizione e la mala fede con che molti suoi iniqui ministri gli possono attraversare ogni buona intenzione), a comprendere, dicemmo, pienamente i mali effetti di quegli ordini, più d’ogni ragionamento, giova sovente il rappresentare l’azione concreta nella realtà de’ fatti. Certi episodi della vita sociale de’ nostri infelicissimi paesi bastan soli a rivelare que’ mille patimenti, que’ mille dolori morali e que’ profondi fremiti di sdegno disperato che dee provare un popolo generoso nel vedersi (oltre all’altre sue grandi sventure) senza delitto macellato impunemente da una mano vilissima di sgherri stranieri, a’ quali un massacro, che rinnovasse la memoria de’ Vespri siciliani, sarebbe poca pena alla sola colpa di starci qui insolenti e briachi in sul viso. Ma veniamo al fatto, che giustificherà appieno l’ira delle nostre parole. — Al qual fatto, perchè sia inteso bene da chi non conosce le piaghe de’ nostri paesi, ci fa d’uopo premettere un breve commento. Egli è da sapere adunque che il difetto d’operosità industriale e commerciale, le cattive leggi economiche, la mancanza assoluta di educazione popolare, la poca agiatezza e i pochi risparmi delle classi elevate, e la conseguente difficoltà per le classi operaie di trovar lavoro, e, non ultima cagione di miserie e di corruzioni, le truppe estere, che precludono la carriera militare ai figliuoli del nostro popolo, tutte queste e molte altre cagioni, che lungo sarebbe l’enumerare, vanno ogni giorno più arruolando alla turba de’ delinquenti molti popolani corrotti dalla indigenza, dalla ineducazione e dalla abitudine de’ vizi. Tutta questa gente, nelle nostre città, si va organizzando in associazioni giurate al delitto, e muove una aperta guerra alle proprietà e alla sicurezza personale del cittadino. Ciò è conosciuto dalle Polizie. E però chi facesse una statistica de’ furti e delle aggressioni impunite che avvengono in queste provincie, troverebbe di che far maraviglia a un uomo de’ secoli barbari. Ma la cosa va più innanzi in molti paesi; le Polizie si contentano, non solo che vi si rubi alla piena luce del giorno, ma che vi s’inquieti il pacifico cittadino con insolenze e minacce, e pare insomma che s’intenda a provocare e sfrenar la canaglia contro le classi medie ed elevate, la cui inclinazione all’ordine e alle riforme civili, chiamata dalle nostre Polizie istesse liberalismo, arrovella tutti questi nostri impiegati, gente la più parte ignorante e immorale, e che però ha solo nel durar de’ disordini qualche speranza di potersi mantenere in grado. La cosa è giunta a tale in alcune città, che in Faenza, per esempio, or son pochi dì, fu fatta una istanza, sottoscritta da centinaia di cittadini, non che da sacerdoti, parrochi di campagna, ecc., e inviata al pontefice per ottenere permesso di armarsi a difesa dei propri averi, e far quello che non sanno fare (così esprimevasi quello scritto) tante truppe nazionali e forestiere. Ma se queste ultime non sanno o non curano frenare i ladri e gli assassini, coi quali hanno perfetta affinità, sanno molto bene farla da carnefici sugli onesti e tranquilli cittadini. — Ora udite l’avvenuto. — Nella sera dei 13 corrente fu, in Cesena, ferito d’un’archibugiata un Eutimio Stefani, per sopranome Timino, il quale unito ad un tal Mamolino, di recente dimesso dal carcere, erasi fatto capo di un’orda di masnadieri, che da lungo tempo, percorrendo le vie a mano armata e provocando i buoni cittadini, infestavano questa città, stimolati non si sa bene da chi, certo tollerati dalla Polizia. Il male essendo divenuto insopportabile, ed avendo costoro nella mattina del 14 minacciata aspra vendetta del loro capo, la sera di detto giorno molti giovani, costretti dalla necessità della comune difesa, eransi ragunati nella piazza di San Francesco, con animo di punire quella mala gente, e veder modo di fiaccarne per sempre la baldanza. Di tale assembramento fu dato preventivo avviso al governatore, il qual disse sapere ove i ladri si riunivano e dove avean riposte le armi, e che avrebbe in breve trovata via di farli arrestare e perquisire. Fu di tutto parimenti avvertito il comandante di piazza capitano De-Bons. All’una ora di notte partiva dalla piazza maggiore un carro di polvere, scortato da un forte distaccamento di Svizzeri, e dirigevasi verso San Francesco. Alla testa di costoro erano l’ufficiale generale, e Vesi, agente di Polizia. Il militare convoglio trapassò la piazza, ove stava assembrata quella gioventù, senza incontrare alcuna minaccia, alcun insulto, e si fermò innanzi alla porta della caserma Carabinieri, nella quale era stato il giorno, ed ove aveva ordinato il capitano De-Bons fosse ricondotto. Non si sa per qual motivo la porta della caserma fosse chiusa, nè s’intende perchè l’ufficiale generale, non provocato da alcuna offesa, senza curare quelle preventive cautele che sono un dovere sacrosanto anche quando è assolutamente necessario il far impeto sul popolo, con inaudita improntitudine, fatta voltare la fronte ai soldati, comandò due scariche di plotone contro gli assembrati, la maggior parte de’ quali erano seduti sulle macerie ivi esistenti, bevendo e conversando pacificamente. Appena eseguito l’assassinio, fuggirono i vili appiattandosi dietro il carico della polvere. Molti furono i giovani feriti, cinque caddero semivivi sul luogo, due dei quali già morti. Tanto è vero poi che quella gioventù non avea pensiero ostile alla forza, che, sebbene così brutalmente trattata, e in numero tanto maggiore da vendicare a larga misura sui fuggiaschi assalitori il sangue de’ loro fratelli iniquamente versato, pure sgombrò la piazza. Niuno Svizzero fu ferito, e tutti i cittadini lo furono alle spalle: lo attestano concordi i chirurghi, lo provano le sezioni ai cadaveri. Quella notte fu terribile alla città pei gravi danni che potevano generarsi alla medesima da una popolare reazione. Fu necessaria tutta la prudenza, il sangue freddo, e diremo l’eroica rassegnazione di alcuni giovani per impedire che molti i quali erano corsi ad armarsi non assalissero i vili assassini de’ loro amici, dando il segno di un generale massacro. Quanto non lascia sperar bene di sè così fatta gioventù, capace di frenarsi per l’amore dell’ordine e per la speranza di trovar ragione sulla giustizia del novello monarca! Oggi è cosa per mille indizi a tutti manifesta, che quell’eccidio derivò da tradimento, e ciò non fa specie; ma quello che più fa meraviglia tra noi, gli è che gli Svizzeri abbiano osato, in faccia alla coscienza di tutto un paese, tentar la menzogna fingendo, ne’ loro rapporti, che gli assembrati volessero impadronirsi della polvere, e che da ciò fossero costretti a far fuoco. Un pretesto era certamente necessario per veder di schermirsi pure in alcun modo da tanta infamia; ma l’addotto da loro era troppo assurdo, perchè non venisse subito smentito: molto più che anche la forza nazionale, aggiunta all’estera, a scorta del convoglio, altamente ripete: il contegno dei cittadini essere stato tale da non dar luogo a pretesti — Ora siamo in istato d’assedio. Gli Svizzeri, benchè duplicati di numero, conscii come sono della lor iniquità, tengonsi sempre sotto le armi, e sono segregati da ogni consorzio. L’ufficiale generale, che comandò il fuoco, per tutta punizione è stato traslocato a Forlì. — La nostra magistratura sta redigendo un ricorso contro la forza e la Polizia, il quale documento verrà spedito a Roma. Tutti i cittadini di ogni colore, di ogni stato sono pieni d’indignazione, di orrore, di odio contro la brutalità de’ nemici. Taccio le lagrime disperate delle madri, delle famiglie, dei parenti, che si videro rapiti i loro cari in così orribil modo. Uno spettatore dell’assassinio dell’altra sera gridava col pianto dell’ira negli occhi: «Ogni straniero è per noi Italiani sempre nemico, ma niuno straniero è così barbaro, così feroce, così bestiale come lo Svizzero.» E dicea pur troppo la verità: ma questi sozzi e infami rifiuti dell’Elvezia tremino di quel pianto e di quel grido, e riflettano che già troppi sono i motivi che li rendono esosi al nostro popolo, ai quali aggiungendosi queste incomportabili provocazioni, la lunga pazienza non tarderà a convertirsi in furore. Quanto a noi facciam voto che, ad evitare ogni ulteriore scandalo ed altre più gravi sventure, il pontefice provvegga sollecitamente al pericolo con risoluto consiglio, liberando lo stato da questa dolorosissima piaga delle armi mercenarie, che sono il più grande insulto e il peggior danno che un Governo far possa ai suoi sudditi. Cesena, 16 luglio 1846. FINE. INDICE A Cesare Balbo Pag. 5 Degli ultimi casi di Romagna 7 Documenti 107 Sulle attuali condizioni della Romagna di Gino Capponi 147 La questione italiana di M. Canuti 157 Lettera del reverendo Orazio Bushnell al romano pontefice Gregorio XVI 181 Indirizzo ai reverendi prelati monsignor Janni e Ruffini 195 Indirizzo al successore di Gregorio XVI 217 Relazione del fatto avvenuto in Cesena la sera del 14 luglio 1846 297 NOTE: [1] Nello stato papale il prete delinquente è punito con un grado di pena minore, che non il secolare. Mentre dovrebbe essere appunto l’opposto, e punirsi più rigorosamente l’ecclesiastico, il quale pel suo stato è tenuto dar buon esempio, che si suppone persona più istruita e frenata da più alto grado di moralità. [2] Salva la Banca romana. [3] Carlo Adolphe, Antonio Sparapani. [4] A far conoscere sempre più le iniquità delle Commissioni, non è inutile narrare alcuni particolari sul fatto dell’avvocato Pantoli, e di questo processo. Non trovando la Commissione altri che volesse incaricarsi della difesa, avea scelto quest’onest’uomo, che per la sua nota devozione al governo potea ragionevolmente supporsi si sarebbe fatto docile istrumento del tribunale nell’ufficio al quale si destinava. Il colonnello Freddi andò in persona a Forlì per vincer le sue ripugnanze e condurlo a Ravenna, come accadde appunto. Accortosi il Pantoli nel corso del processo con quanta iniquità fosse condotto, si pose in opposizione aperta cogli atti della Commissione: diede eccezione d’incompetenza all’avvocato Attilio Fontana, assessore straordinario, per causa d’aver preso parte al processo, e non poter perciò esserne giudice: ad appoggiare la detta eccezione produsse un attestato di don Trenta, parroco di San Vitale, deponente aver proposta l’impunità a Domenico Boschi come via di salute, e ciò per ordine del giudice Fontana. Entrò la polizia, ed intimò all’onesto curato di dar copia dell’attestato. Ricusando questi coll’addurre che ciò non potea fare senz’ordine del suo superiore ecclesiastico, fu per ordine del cardinale legato rinchiuso in una stanza, nè potè uscirne senz’avere scritto il chiesto attestato. — Di questo Fontana si narra (non posso affermarlo come certo) che per trovar materia al processo si facesse condurre la notte manettato nelle carceri in forma di uomo arrestato e perseguitato dalla Commissione, affinchè i prigionieri nel primo moto di pietà più facilmente gli s’aprissero, e potesse cavar loro di bocca qualche confessione. L’incompetenza dell’assessore Fontana non fu ammessa dalla segreteria di Stato, come neppure l’altra eccezione d’incompetenza che il Pantoli promosse contro l’intero tribunale per difetto di giurisdizione, inquantochè esso era stato incaricato di conoscere dei delitti commessi contro la forza pubblica, non già dei delitti meramente politici. [5] Ignoro se l’idea di dare alla mossa di Rimini il carattere di protesta sia nata prima o dopo l’impresa. Quanto a me ho parlato di questi fatti come se tal idea non fosse stata giammai espressa, sembrandomi progetto da esser piuttosto deriso presso i popoli più esperti delle possibilità e convenienze politiche, e perciò progetto fuori d’ogni discussione quello di voler protestare con poche armi, mentre la stampa dei paesi liberi d’Europa avrebbe potuto prestar l’opera sua a render pubblica ed incolpabile una ragionevole e dignitosa protesta de’ sudditi pontificii: e certamente in Romagna, ove sono tanti uomini arditi, e sprezzanti il pericolo della carcere ed i dolori dell’esilio, si sarebbe trovato più d’uno contento di firmarla a nome di tutti, se non fosse sembrata cosa dignitosa il lasciarla anonima. Aggiungerò più innanzi, nel parlare de’ modi di protestare in Italia, altre ragioni a questo proposito. [6] Io avea scritte queste linee due mesi prima della consegna del signor P. Renzi, per la quale sono sforzato aggiunger questa nota. Il signor P. Renzi era uno de’ principali del moto di Rimini; ed accolto dalla Toscana, si era cogli altri ridotto in Marsiglia. Dopo poco tempo tornò, senza però farsi nuovamente reo verso il governo pontificio. Fu arrestato immediatamente, e denunziato il suo arresto al Nunzio. Questi lo chiese in virtù del malaugurato trattato di estradizione per cause politiche. Intanto la diplomazia s’agitava, gridando contro il governo toscano per quella ch’essa chiamava connivenza co’ ribelli. Il granduca manteneva la sua buona volontà ed il desiderio di salvare quell’infelice. I consultori legali del governo opinavano non essere l’estradizione di questo caso imposta dal trattato, e formale invece nel governo il debito di salvare il Renzi, per virtù della promessa fatta all’atto ch’esso cogli altri s’erano arresi alle truppe toscane. Ma il ministero insistè, e dopo contrasto durato infelicemente più d’un mese, e che per la sua stessa durata dava animo a sperar bene, il Renzi fu consegnato al papa. È doloroso che gli uomini testè entrati nel ministero toscano sieno giudicati dall’opinione pubblica (essa assolve il granduca, o non l’accusa se non di debolezza e d’essersi lasciato troppo dominare dall’influenza del suoi ministri e della diplomazia) pei sostenitori più ostinati di questa ingiusta, inopportuna ed impolitica risoluzione. Il ministero ha tolto a sè medesimo l’appoggio dell’opinione con quest’atto, che sembra possa considerarsi come suo programma politico, e che il pubblico ha accolto con dolore, biasimo e sospetto; quasi presagio d’un nuovo sistema, che toglierebbe al governo toscano la maggiore, per non dir la sola sua forza, quella d’esser tenuto dolce ed umano. Avendo lodato il primo atto del granduca, la veracità della quale fo professione, mi sforza a biasimare il secondo. Non è fuor di proposito l’osservar qui che l’Austria non ha restituiti al papa i rifugiati a Fiume. Espongo l’osservazione, e ne lascio i comenti al lettore. [7] Per aver idea della stima che si fa in Romagna della prigione, è da sapersi che se domandate colà ad un giovane: — Siete mai stato in carcere? — vi risponde quasi con rammarico: — Non posso ancora dire d’esser uomo. — [8] In tutti, sessantasette inquisiti, dei quali cinque possidenti, cinque negozianti, cinque esercenti arti liberali, cinquantadue artigiani e mestieranti diversi; e venticinque di loro ammogliati e con prole. [9] Per mostrar l’inefficacia di quest’editto basti notare le seguenti disposizioni: _Titolo II, Art._ 2. La nomina de’ consiglieri fu affidata per la prima volta ai delegati. _Art._ 10. Fu vietato che potesse porsi in deliberazione qualunque proposizione se prima l’oggetto della medesima non fosse stato manifestato all’autorità governativa. _Art._ 12. Fu stabilito che il processo verbale dovesse essere approvato dal delegato. _Titolo III, Art._ 9. Gli atti de’ Consigli provinciali furon sottoposti all’esame ed all’approvazione del preside e della congregazione governativa. Fu vietato che i Consigli provinciali potessero occuparsi di atti diversi dai meri amministrativi, e fu data al delegati facoltà di discioglierli ad arbitrio. [10] Vedete quel che ne scrivono, fra tanti altri, lord Brougham nella sua filosofica politica, Hanke nella Storia del papi dei secoli XVI e XVII, e Rosselli in Roma verso la metà del secolo XIX, edizione di Parigi. (_Nota aggiunta_) [11] Vedasi la sua POLIZIA MEDICA, Capolago, 1834, volume unico in 8.º, con tavole in rame. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine volume. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 75829 ***